La pistolera è attesa dal verme
di Salvatore Conte (2025)
Marc doveva farla fuori.
Il Capo si era stancato di lei. Aveva fatto la cresta sugli incassi per l'ennesima volta. E l'ultima.
Quando Marc Robson chiamò Layla Dakmak e le disse che voleva parlarle, la donna si informò. Aveva degli amici nella stanza dei bottoni, amici che non avevano resistito all'impatto delle sue tette da puttana.
Marc sarebbe venuto per ucciderla.
Era venuto il momento della resa dei conti con il suo Capo, e lei sarebbe stata al gioco.
La stanza dei bottoni doveva trasferirsi da lei e coincidere con la sua stanza da letto: in questo modo sarebbe divenuta la stanza dei bottoncini...
Sorrise a quel concetto...
Era più esperta e decisa di un tempo.
Non si sarebbe fatta togliere di mezzo...
Marc fu puntuale.
Layla lo fece accomodare - l'incontro era a casa sua - e si stappò una lattina di birra ghiacciata - senza usare bicchieri - passandone un'altra all'ospite.
La Dakmak era sempre una gran puttana: scoppiava di ciccia da tutte le parti, e per non nasconderla troppo, il suo prestigioso camicione bianco a collo alto era sbottonato fino allo stomaco.
Lavorava in un grande dipartimento ed era lì che spacciava la merce, in società con una guardia giurata.
Oltre a spacciare, aveva eliminato diversi rivali, a richiesta del Capo.
La poltrona del soggiorno, sotto la sua imponente figura, sembrava un trono.
«Di che mi devi parlare?».
«Cose importanti, da parte del Capo».
«Inizia pure…».
«Okay, ma dammi il tempo di ammirare il panorama…», dopo uno sguardo fortemente allusivo, Marc si accese una sigaretta e cominciò a camminare verso l’ampia finestra del soggiorno, dando le spalle alla donna.
La Dakmak, intanto, pensò che non fosse necessario ascoltare le stronzate che Marc stava per spararle.
Lui era di spalle e lei poteva saldargli il conto senza inutili sceneggiate.
La sua Beretta calibro 9 era a portata di mano tra i cuscini della poltrona.
Quando Marc tornò a voltarsi verso la donna, vide la prolunga della canna puntata contro di lui.
«Che significa, stronza?!».
«Significa che so tutto, idiota».
«Chi è che ti passa le informazioni? Quel coglione di Johnny?».
«Johnny sarà pure un coglione, ma mi è fedele. Tu, no. Tu sei ancora fedele al Capo. E il Capo è vecchio, ormai. È tempo che le donne si facciano avanti…».
«Senti, senti… donne come te, per esempio?
Che aspetti, allora, fottutissima stronza? Premi quel grilletto…».
«Hai ragione, Marc. Mi hai stancato…».
La Dakmak protese il braccio in direzione dell’uomo e fece fuoco senza esitazioni.
STUMPF
Marc, però, rimase in piedi. Niente sangue, nessuna reazione.
STUMPF
STUMPF
La Dakmak sparò ancora, visibilmente irritata.
Quando la donna cominciò a capire, Marc aveva già estratto la pistola.
E dopo averla fissata negli occhi, le piazzò un colpo nella pancia!
STUMPF
Layla sobbalzò all’indietro, schiacciandosi contro lo schienale della poltrona.
«Aspetta...!».
Per una come lei ci voleva altro.
STUMPF
La seconda pallottola la raggiunse allo stomaco.
L’espressione della Dakmak cambiò radicalmente: gli occhi schizzarono fuori dalle orbite, la bocca si spalancò a cercare aria.
Era fatta. Marc l’aveva fottuta.
Tuttavia, l'imponente donnone - animato da una vena di follia - voleva sfidarlo ancora.
Lo fissò, umettandosi il labbro, facendogli credere di avere ancora il controllo.
STUMPF
Marc infierì con un altro colpo allo stomaco.
Stavolta Layla fu colta dal panico.
Un grosso fiotto di sangue le salì in gola, facendole mancare il respiro; strabuzzò allarmata i grandi occhi marroni, e alla fine, piegandosi in avanti, riuscì a sputarlo fuori.
Marc sorrise divertito.
Poteva bastare, per il momento.
Abbassò la pistola e si avvicinò alla donna.
«Sei fatta, Layla...».
«Chi è stato… a fottermi…?», farfugliando con la lingua fra i denti.
«Non dubiterai di Johnny, vero? No… lui è un tuo schiavo. È stato Ric… dovresti scegliere meglio i tuoi amanti… o almeno controllare che non mettano mano alla tua Beretta… ma temo che non avrai abbastanza tempo per imparare.
Non hai più controllato l’arma da quando Ric l’ha caricata con proiettili fasulli… e lo so perché c’è una spia che vede tutto… anche oggi che volevi fottermi, ti sei limitata a innestare il silenziatore.
Decisamente troppo poco.
Io, invece, non lascio nulla al caso. Hai fatto una stronzata, e io ti ho fottuto, Layla».
«Mettiti con me… Marc… insieme… non ci fermerà nessuno…».
«Non sei stanca di dire stronzate? Ti ho fatto il servizio, il mio piombo non scherza…».
La Dakmak lo sapeva bene.
«Bastardo… hai mai scopato… una come me…?».
«Dovresti sapere che sono un professionista: le donne rallentano i riflessi, e per me i riflessi sono tutto.
Ma soprattutto sei diventata un cesso, fai schifo».
Per tutta risposta, la Dakmak prese a palparsi il seno.
Anche se grassa, il suo prestigio e la sua voglia di vivere la rendevano ancora sensuale.
Marc cominciò a pensare che non c’era fretta di saldarle il conto…
Senza volerlo, però, la donna si afflosciò contro lo schienale della poltrona. Gli occhi imbambolati roteavano alla ricerca di qualcosa su cui fermarsi. La bocca era spalancata in modo inquietante.
«Te l’ho detto che il mio piombo non scherza, no?
Ehi, Layla… mi senti? Mi è piaciuto come incassi, sai?
Proprio una gran troia, anche mentre crepi…
Ma ora che c’è? Ti va storta? Pensavo lo reggessi meglio il piombo...».
Layla avrebbe voluto reagire, ma i buchi la stavano
divorando.
«Ti va di giocare ancora un po'...?».
Marc spostò la Dakmak sul divano: imbambolata, la donna si
afflosciò su un fianco,
cadendo a bocca aperta sulla seduta. L’uomo le fu addosso e cominciò a tastarle
il seno…
Il calcolato Marc stava scoprendo le delizie di Layla.
Lei doveva starci per forza. Era Robson che conduceva il gioco.
Se riusciva a farlo godere, forse l’avrebbe portata
da un dottore…
Marc si andava rapidamente eccitando contro il morbido corpo della Dakmak, la
quale cercava a ogni costo di non mollare, tenendo in vita l’illusione di
trovare una via di scampo, anche in una situazione disperata come quella.
Il killer esplose di piacere, rilassandosi contro il divano per
assaporare appieno il gusto di essere stato l’ultimo a divertirsi con una tale stronza.
«È ora che io vada, Layla.
Addio…».
Senza aggiungere altro, Marc si alzò e lasciò il soggiorno. Poco dopo il portone
si richiuse sonoramente.
La Dakmak era rimasta sola: con tre
pallottole in corpo, ma incredula di essere ancora viva…
Marc Robson, quella schifosa nullità, era andato via. La sua idea aveva funzionato. Ora
doveva pensare a salvarsi…
Si lasciò scivolare sul parquet, sforzandosi di ricordare dove avesse lasciato il cellulare.
Quel maledetto
cellulare…
Doveva trovarlo, doveva chiamare qualcuno.
Sì, era di là. All'ingresso. Era lì che
l'aveva lasciato. Doveva arrivarci. Layla sembrava crederci. Col
sangue alla bocca, la donna protese in avanti il braccio destro
per coprire, strisciando, il terreno che la separava dal cellulare.
Un brutto imprevisto, però, le sbarrò la strada sul più bello.
La pistola di Marc Robson era di nuovo puntata contro di lei...
L'ombra della delusione oscurò il volto di Layla.
Poi, prima
dell'irreparabile, la mano destra si protese disperata in aria, staccandosi
dal pavimento: «No! Aspetta...!».
Marc si godeva la scena con un sorriso sardonico sulla faccia da aguzzino. Non
aveva mai pensato di lasciarle scampo. Non era mai uscito dall'abitazione.
La lasciò
implorare...
«Non voglio morire... Marc... no!».
Un lampo crudele guizzò negli occhi
del sicario…
STUMPF
Robson fece fuoco per la quarta volta.
Il corpo della Dakmak sobbalzò ancora. La pallottola la raggiunse al petto,
attraversando il polmone.
La testa della donna ricadde pesante sul parquet.
Marc Robson la guardò soddisfatto: conto saldato e lavoro finito.
«Ti ho fottuto, Layla», sussurrò il killer; quindi si allontanò con tutta calma.
Il suo amico Jim, al
Daily Telegraph, avrebbe titolato così: “Avvenente impiegata di nota
multinazionale, freddata
tra le mura domestiche con quattro colpi di pistola”.
Layla
non lo sentì nemmeno entrare.
Johnny la rivoltò supina.
Lei lo fissò incredula con lo sguardo annebbiato.
Poco dopo si udì l’ossessivo ululare di un’ambulanza.
Le mollò un lungo bacio, che era anche una grossa bolla d'ossigeno, lasciando
sul parquet una mazzetta per lo staff medico. Lui ci teneva tanto a entrare
nella stanza dei bottoncini.
L'ambulanza ripartì a sirene spiegate.
Layla Dakmak tentava l'ultima corsa.
di Salvatore Conte (2023)
Francia,
1789.
Nella città bretone di Saint-Malo si diffondeva il virus della Rivoluzione.
Una parte della popolazione era da sempre gelosa della propria autonomia,
rivendicata e ottenuta sin dal secolo XIII, con il diritto di nomina dei
magistrati municipali.
Ma l’altra parte, quella delusa e frustrata, era ansiosa di novità, qualunque
genere di novità.
E aveva individuato l’incarnazione più che concreta dei principi rivoluzionari:
Lilianne la Grande.
Una procace, lardellosa
cameriera tra i 40 e i 50, dedita ormai più all'alcol
e alla prostituzione che non al proprio lavoro, frequentatrice di canaglie,
e truffatrice ella stessa, avvezza a vivere di espedienti, ma con smanie di grandezza e la
capacità di
esercitare sugli adepti della setta rivoluzionaria un fascino sinistro e
ambiguo, quasi ipnotico; una praticona con le mani in pasta quasi ovunque;
vestiva spesso una tunichetta bianca molto succinta, che metteva in evidenza le
forme grasse e arrotondate: spalle, braccia, zinne, cosce e culo, tutto era in
ordine e in bella mostra; e sopra a tutto si stampavano il sorriso accogliente e
la faccia simpatica e goliardica, lontani dalla sua vera natura di donna infida
e manipolatrice.
Massiccia, imponente, prorompente, spesso ubriaca con i capelli castani arruffati sulla
fronte, ma ferocemente decisa a emergere, si aggirava per le strade di Saint-Malo con
la tunichetta bianca gonfiata dal pesante seno: Liberté, Égalité, Décolleté.
Sottovalutata dall’establishment cittadino, Lilianne sfruttava la sua
apparente innocuità organizzando una rete sempre più vasta di aspiranti
rivoluzionari.
Smodatamente ambiziosa, aveva deciso che il primo passo che avrebbe mosso per scalare i gradini
del potere, e arrivare fino a Parigi, sarebbe stato quello di imporsi nella
propria città e di
cambiarle il nome e l’orientamento sessuale. Da Sindaca a Deputata Nazionale,
l’ascesa sarebbe stata rapida.
Dodici dei suoi giurati fedelissimi le appuntarono, in gran segreto, i gradi
di Marescialla in Capo dell’Esercito Popolare Rivoluzionario di Sainte-Lilianne,
nuovo nome della città a partire dal 1789, o comunque da quell'anno, qualora
anche il calendario fosse stato rivoluzionato.
Il piano prevedeva l’assalto, in punta di forcone, alla piccola guarnigione
della città. Contando sull’effetto-sorpresa, si sarebbe razziata l’armeria dei
realisti; dopodiché, tutti uniti, si sarebbe marciato fino al Municipio, con
Lilianne la Grande in testa.
Ma la resistenza della piccola guarnigione cittadina fu superiore a quanto previsto:
si combatteva corpo a corpo, baionette contro forconi.
Lilianne la Grande cercava di non esporsi troppo, ma il marasma era tale da non
consentire margini di sicurezza assoluti.
Il destino era in agguato, spesso si avvantaggia della confusione.
Lilianne la Grande cercò di nascondersi in uno stanzino, dove però si era già rifugiato
un soldato della
guarnigione. Era giovane, spaventato.
«Non vo…», ma quello non la fece nemmeno parlare: la paura lo aveva reso folle.
Il soldatino affondò la baionetta nella pancia della rivoluzionaria, proprio
attraverso la coccarda tricolore, quasi fosse stata presa a bersaglio, almeno a
livello inconscio, visto che il ragazzo era inebetito dal panico.
«Uuuhh…!», l’urlo strozzato di Lilianne la Grande, gli occhi sbarrati, la paura che la sferzò come un vento gelido.
Per un attimo i loro occhi si incrociarono: lui l'aveva
riconosciuta, lei vedeva Parigi allontanarsi.
Subito dopo il lealista estrasse la baionetta dal ventre molle della donna e
cercò disperatamente di trovare scampo, ma venne soverchiato dagli uomini di
Lilianne la Grande e trucidato sul posto.
«Non è niente… avanti…», si affrettò a dire Lilianne la Grande, sapendo di mentire a sé
stessa e agli altri.
La feroce battaglia volse infine all’epilogo: i forconi avevano vinto e si erano
trasformati in baionette.
La massa applaudiva ai lati delle strade, mentre le squadracce rivoluzionarie
marciavano verso il Municipio.
Lilianne la Grande era trasportata in barella, aggiungendo alla tragedia di
Francia un elemento scenico di
grande efficacia drammatica. Le mani rattrappite che uncinavano l'aria, la blusa
insanguinata, la coccarda ormai ridotta a un monocolore rosso: sembrava essersi
immolata sull'Altare della Rivoluzione. E in fondo lo era stata.
Il partito degli incerti cominciava a propendere per il nuovo che avanzava.
Quello degli opportunisti prendeva atto che il vento della storia stava
cambiando.
Il Municipio era deserto, i consiglieri in carica assenti, nessuno oppose
resistenza.
Era il trionfo di Lilianne la Grande, guastato da una brutta ferita, che però ne
esaltava, oltre i suoi stessi meriti, l’eroismo rivoluzionario.
Incoronata Sindaco della rivoluzionata città di Sainte-Lilianne, Lilianne la Grande
troneggiava imbambolata, lo sguardo annebbiato, sul seggio più alto del consiglio cittadino,
con ambo le mani pressate sullo stomaco.
Un’immagine autenticamente rivoluzionaria, che incarnava in pieno l'epica
violenza di quei giorni.
Per riuscire a farla stare seduta, l'avevano imbottita di
alcol, il suo amato alcol.
Ma la prima riunione della giunta rivoluzionaria venne presto interrotta dalla
ferale notizia di un imminente contrattacco delle forze lealiste.
Uno squadrone di cavalleria era giunto inaspettato a Saint-Malo.
La folla tornò nelle proprie case.
Gli incerti recuperarono i loro dubbi.
Gli opportunisti aggiornarono le previsioni del tempo.
Il Municipio era sotto assedio.
I realisti cominciarono a penetrare al suo interno.
Lilianne la Grande non aveva vie di fuga. Era fragile, non poteva muoversi, non poteva
fuggire, veniva abbandonata dai suoi stessi uomini.
Fu costretta ad attendere il destino al proprio posto, quello di Sindaco.
Benché fosse già agonizzante, fu deciso di fucilarla, per non correre rischi e rendere la punizione esemplare.
E venne fucilata su quello stesso seggio.
L'altalena del potere le era risultata fatale.
Un attimo prima della fine - con sei carabine puntate contro - ebbe un sussulto e gridò: «NO!», con tutte le forze rimaste, guardando disperata negli occhi i suoi carnefici.
Chissà... forse sperava che quell'urlo potesse disturbare la
concentrazione di qualcuno dei fucilieri.
Fu falciata, infatti, dalle pallottole, ma non da tutte: un paio si persero nel
Municipio, una la raggiunse alla spalla, un'altra le pizzicò il fianco, un po' decentrate rispetto al bersaglio grosso;
un paio d'altre le
distrussero le budella e lo stomaco, entrando attraverso la coccarda tricolore
(usata a mo' di bersaglio); ma il cuore era di sicuro illeso.
Niente "Viva la Rivoluzione": un urlo ben poco eroico, dunque, ma la realtà è quasi sempre altro rispetto alla retorica delle cose, specie quella di una puttana di questo genere.
Rimase sospesa a schiena dritta per un attimo che sembrò infinito…
Approfittò di quell'attimo per guardare ancora negli occhi i giovani fucilieri.
Uno sguardo strano. Non di odio. Ma quasi di perdono. E
perfino di ringraziamento.
Poi - dopo un estenuante rantolo - si afflosciò su sé stessa, piegando la testa sul petto.
Il comandante del plotone d’esecuzione si avvicinò e le sollevò il capo, afferrandolo per i
capelli: gli occhi della rivoluzionaria erano schizzati fuori dalle orbite,
impossibile incrociarne lo sguardo.
L’ufficiale lasciò la presa e la testa tornò inerte al suo
posto, piegata sul petto.
Il colpo di grazia non serviva a nulla.
L’annuncio che la popolana rivoluzionaria, detta Lilianne la Grande, era stata giustiziata,
fu dato, però, con troppa fretta.
Gli animi erano accesi e l’intempestiva notizia scatenò l’ira dei cittadini, che
insorsero in massa, sobillati dai rivoluzionari superstiti.
Probabilmente ci si aspettava che l'esecuzione di Lilianne la
Grande,
colpita a morte in battaglia, venisse sospesa e la rivoluzionaria lasciata
morire della sua ferita.
Il Municipio fu circondato dalla folla e con il solo vantaggio del numero gli
insorti tornarono fulmineamente a occupare la sala del consiglio, abbandonata
dai realisti in ritirata.
L’attenzione fu subito rivolta al massiccio corpo di Lilianne la Grande, rimasta di sasso sul
seggio del Sindaco.
«Eccola…!
L’hanno fucilata sul posto…», constatò il primo rivoluzionario che le giunse vicino.
«Però hanno omesso di spararle il colpo di grazia. La testa è asciutta», osservò
il secondo. «Forse hanno commesso un errore, proviamo a chiamare un dottore…».
«Ma… è stata fucilata... è morta...».
«Sei forse un disfattista, compagno cittadino?
Dobbiamo provare… forse non è ancora morta».
Il dottore fu chiamato.
Intanto, però, all’interno del Municipio, veniva allestita la camera ardente: tutti i cittadini di Sainte-Milene avrebbero potuto vedere per
l’ultima volta il loro primo Sindaco.
«Il dottore dovrebbe muoversi, dannazione… ma dov’è finito?».
«Forse ha avuto paura, un medico non sa mai da che parte stare…».
«Eccolo… finalmente…
Dottore… non l’abbiamo ancora toccata…».
Il medico le ficcò due dita in gola, brutalmente.
Dal corpo di Lilianne la Grande eruttò un grumo di sangue.
Subito la curiosità dilagò per la sala: era stato uno spasmo involontario, uno
spasmo estremo, o uno spasmo e basta?
L'atmosfera si fece pesante.
Fu la volta dei sali.
La lingua della donna scattò come una molla sotto il palato.
Gli occhi al cielo, alla ricerca di un raggio di luce; le mani rattrappite a morte, a grattare l'aria come fosse una parete di roccia.
Era viva. Sebbene più morta che viva. Non completamente morta.
L’esame del medico fu pesante: «A parte la ferita d'arma bianca, che le sarebbe
comunque fatale, due pallottole sono mortali: vedete qui che interessano fegato
e stomaco; le altre, invece, non sono immediatamente letali».
Più che una diagnosi, un'autopsia.
«Insomma, hanno sparato storto», concluse il rivoluzionario; non tutti, ma una buona parte.
«Storto... in che senso?», il medico non aveva capito.
«Egregio dottore, il servilismo militare ha una sua graduazione, come tutto del resto.
Anche la vista dicono abbia una
sua graduazione; in ogni caso, non tutti ci vedono bene;
non tutti sparano bene; non tutti hanno voglia di sparare a
sangue freddo».
Poi si rivolse
al compagno: «Sentito? Soltanto due pallottole mortali…».
«E ti sembrano poche?».
«Per una come lei, sì…
Si può ancora fare qualcosa, lo sento».
Ma il medico non era dello stesso avviso: cure compassionevoli e mezzora di vita
al massimo.
«Non c’è più niente da fare, sono spiacente», la sua sentenza finale.
Lilianne la Grande, però, tornata a respirare, stava assorbendo lo shock: gli occhi erano
tornati nelle orbite e - nonostante tutto - guardavano eccitati il mondo.
Certamente non pensava di risvegliarsi viva e poteva inoltre sentirsi soddisfatta di aver impressionato più della metà del plotone di esecuzione, inducendo diversi fucili a sbagliare la mira.
Insomma, da un punto di vista democratico, aveva vinto. Aveva ipnotizzato anche gli elettori più estremi, era il Sindaco di tutti.
In fondo non aveva ancora ceduto l’ultimo respiro: quei
giovani, estremi elettori le avevano concesso una piccola possibilità, un
difficile mandato, e lei - per quanto piccola o difficile - l'avrebbe afferrata
oppure portato a termine. A tutti i costi.
Intanto la gente di Sainte-Milene sfilava, con alterni umori, ai piedi della
rivoluzionaria morente, rimasta aggrappata al seggio del Sindaco: chi la
incoraggiava, chi rimaneva intimorito nel vederla in fin di vita; Lilianne la
Grande era una maschera di cera su cui aleggiava un'ombra
oscura: si
teneva in vita grazie a una forza quasi sovrumana e forse allo smodato
compiacimento di godere del proprio trionfo, benché effimero.
Sembrava indemoniata, era feroce e faceva quasi paura.
A tratti si sforzava di sorridere, appalesando euforia per essere rimasta in
gioco a sfidare la sorte, dopo una baionetta davvero ben piazzata e un plotone d’esecuzione.
«Mesmer! C’è Mesmer qui a Saint-Ma… qui a Sainte-Milene…!», l’annuncio improvviso,
dall'ingresso della sala.
«Che significa?».
«È appena sbarcato dalle Americhe… una pattuglia popolare lo sta portando qui».
Franz Anton Mesmer, un po’ come tutti, non immaginava che la situazione
precipitasse tanto in fretta.
Per lui, però, cambiava poco: osservava gli eventi mondani da migliaia di
chilometri di
distanza, le illusioni della massa non lo riguardavano. Per lui si trattava soltanto
di una visita urgente.
Il miglior medico al mondo contro la peggior paziente al mondo.
«Ora ho bisogno del massimo silenzio, cittadine e cittadini: schiamazzi
improvvisi possono danneggiare l’inferma».
Si piegò su Lilianne la Grande, il pendolo che oscillava, i suoi occhi dietro al pendolo.
«Anima della Rivoluzione... rientra... rimani... riposa...
Tu stai bene qui, Lilianne la Grande. Con noi. Con me. Tu non partirai.
Se parti, il freddo ti ucciderà per sempre. Tu stai bene qui,
fa caldo fra di noi, fa caldo qui con me.
Tu stai bene qui, Lilianne la Grande. Tu non partirai.
Tu stai bene qui, Lilianne la Grande. Tu non partirai.
Tu stai bene qui, Lilianne la Grande. Tu non partirai, Anima della Rivoluzione».
Si rivolse infine ai suoi uomini: «Evitate i rumori, non deve
risvegliarsi».
«Ma… ce la farà…?».
«Non ho detto che ce la farà. Ma possiamo guadagnare
un po’ di tempo, intanto.
Rendere la caduta un po’ più lenta e attutire il colpo».
Franz Anton Mesmer si trattenne a Sainte-Milene per altri tre giorni.
A Parigi lo attendevano alcuni appuntamenti importanti, ma - ormai mesmerizzato
- decise di rinviarli e di riprendere il mare per tornare a casa attraverso la via più lunga.
Sebbene non si occupasse di masse, le masse avrebbe potuto occuparsi di lui.
Per la sua caduta c’era ancora tempo.
Tutti volevano sapere che ne era stato di Lilianne la Grande.
Il suo corpo, però, non venne più ritrovato.
La Rivoluzione, soffocata dal piombo e dalle baionette, era stata svenduta e
Mesmer aveva comprato sottocosto, al prezzo di un'esperienza ormai senza
speranze.
La Rivoluzione andava ricucita ed esportata, trasferita sul Lago di Costanza.
Ma non era per tutti.
L'IMPALATA
di Salvatore Conte (2024)
L’agonia può durare ore, anche giorni, se non vengono compromessi gli organi
vitali. E chi è bravo a impalare, riesce a evitarlo, così da garantire al
pubblico estenuanti e spettacolari agonie, concedendo alla vittima il tempo di
suscitare compassione.
Una come Frexa avrebbe forse ottenuto - dopo un paio di giorni - di essere
deposta; tolta da quella scomoda posizione; ma con grande e meticolosa
attenzione, perché sviscerare il palo - giunti a quel punto - avrebbe
accelerato la morte della donna.
Il primo passo sarebbe stato quello di metterla in posizione orizzontale, con
tutto il palo ancora conficcato dentro.
Quindi bisognava sviscerarlo unghia dopo unghia, anzi capello dopo capello, dandole
il tempo di assestarsi, per evitare che le emorragie interne dilagassero e la
uccidessero sul colpo.
Il suo destino era segnato, ma procedere con queste cautele poteva farle
guadagnare qualche ora.
Giunti alla fine, non si butta via niente.
Proprio come adesso, nella camera della vigile attesa di Avandas, dove Frexa, la cortigiana impalata, lotta per guadagnare altro tempo, mal rassegnata a cedere.
È rimasta invischiata in una congiura di palazzo; e colpita nel modo peggiore; ma secondo precisi rituali.
Prima impalata in pubblico, poi deposta a furor di popolo, sviscerata e assistita, mentre singhiozza e impreca, aspettando la morte.
Impalata con un'asta appuntita di legno, da sotto a sopra, con il bastone fatto fuoriuscire dalla spalla destra.
Chi rimane fedele alla vittima, o comunque chi se ne fa impietosire, ha il diritto di assisterla con acqua e cibo, senza però toccarla.
Molti i messaggi di solidarietà lasciati ai suoi piedi e letti, anzi gridati, a ripetizione:
Non lasciarti andare, Frexa!
Noi crediamo in te!
Tenta fino all'ultimo!
I magistrati controllano che
l'antico rituale sia rispettato.
L'asta è stata infilata con grande maestria, secondo precisi calcoli anatomici.
L'operazione, se eseguita correttamente, consente all'impalato di sopravvivere
per ore, se non addirittura per giorni.
La vittima viene tenuta ferma, strettamente immobilizzata, all'atto dell'impalamento: per il suo stesso bene... se così può dirsi.
Lo shock è comunque enorme e di per sé letale: solo chi è dotato di un'estrema
forza di volontà e di profonda durezza può riuscire a sopportarlo.
Frexa è tra questi pochi.
Vuole giocarsi le sue ultime possibilità, non accetta di morire.
Nessun altra donna a Dooza Thom oserebbe tanto.
Ma
lei è speciale, una potenza, quasi indistruttibile.
Dopo due lunghissimi giorni di agonia, aveva ormai
impietosito mezza Avandas.
I più devoti le passavano da bere porgendole un boccale alle labbra.
Se l'impalato riesce a resistere, e ottiene numerosi atti di devozione, allora
viene sviscerato.
Il palo è stato introdotto con grande perizia: il cuore della potente cortigiana è illeso e il polmone è stato appena sfiorato.
Frexa è ancora in grado di lottare.
Potrebbe lasciarsi andare, ma lei preferisce lottare.
Conosce la possanza e avvenenza del suo corpo, e vuole sfruttarle.
Vuole suscitare compassione e ottenere le
migliori cure.
Secondo gli usi, è stata portata a consumare la sua agonia in un luogo a ciò
preposto.
Ma per vederla cedere, bisogna pagare caro.
L'oro finisce nelle casse della città.
Può reggere ancora diverse ore, cuore e polmoni funzionano, lo spettacolo sarà
lungo e costoso, per chi non potrà farne a meno.
Nessuno tra i congiurati pensa che la cosa possa diventare un fastidio.
Anche se sa lottare, Frexa è fottuta.
La cortigiana impalata non è più un problema.
Vederla morire con tanta difficoltà ha riacceso per lei una forte devozione, ma
il nuovo regime ha preso il potere e non teme resistenze.
Frexa è stata trasportata nella camera della vigile attesa, dove i condannati per impalamento attendono la fine, una volta che gli è stato sviscerato il palo.
Le cronache della città annotano tutti i casi.
La camera è molto grande; in effetti è un teatro con tribune a
semicerchio.
Sulla scena c’è il morituro da impalamento, disteso su un letto.
Al capezzale della famosa cortigiana sono giunti maghi, curatori e
streghe.
Ne sono ammessi sei per volta, tre per ciascun lato del giaciglio.
Gli altri attendono a bordo scena.
Prendono il posto di chi è congedato, secondo un cenno del morituro.
I sei cercano di farle guadagnare un po' di tempo. E di non farsi scartare. Ne
va del loro prestigio.
Le condizioni di Frexa si vanno via-via aggravando.
La fine è pericolosamente vicina.
Nel suo sguardo potente si è fatta strada la paura.
Anche lei deve cedere.
Tutti sono ormai pronti.
Dilaga la notizia per la città.
Frexa non riesce più a gestire la situazione.
Arriva altra gente. Si cerca di capire quanto davvero manchi, o se - addirittura
- sia già cadavere.
L'idea comincia a serpeggiare, perché vengono avvistati diversi negromanti.
Il morituro può chiedere di vivere oltre la morte.
E Frexa, si dice, ne abbia tre intorno a lei.
L'ansia di notizie aggiornate e di previsioni attendibili diventa sempre più febbrile da parte dei
tanti che non possono permettersi di accedere alla camera della vigile attesa.
Deve uscire un portavoce dei devoti per comunicare alla folla che l'aristocratica
Frexa è viva ed è impegnata a
lottare.
Al momento dell'aggravamento fatale, verrà sventolato un drappo bianco.
Uno nero, al momento della fine.
Gli altri impalati, intanto, sono tutti morti.
Vengono deposti a terra già cadaveri.
Frexa è l’unica a strisciare ancora per Zothique con un lembo di pelle
addosso.
C’è chi dice che vivrà nella sua stessa tomba, cibandosi dei vermi che
si illuderanno di spolparla.
L’attesa si fa spasmodica, logorante.
Gli spettatori si fanno portare il cibo sulle tribune, perché la situazione
potrebbe precipitare da un momento all'altro.
Si rassegnano ad assentarsi solo per i bisogni indifferibili.
Ma c'è perfino chi non rinuncia per nulla al
mondo.
In mezzo a tutto questo, su Dooza Thom muove un terzo incomodo: l’ambizione di Ustaim,
che mira a riunificare sotto di sé l'intera regione nord-orientale di Zothique.
Approfittando del cambio di regime, i mercenari di Aramoam attaccano sia per
terra che per mare.
Erano pronti a intervenire e lo stanno facendo.
Nonostante l’emergenza, però, l’attenzione della città rimane catalizzata sulla
sorte di Frexa.
La morte assedia la cortigiana, il nemico la
città.
Però quando i mercenari di Ustaim cominciano a penetrare in
città, gridando alla vittoria senza incontrare resistenza, e trovano folla solo
nei pressi della camera della vigile attesa, allora capiscono che l'impalata non
è una donna qualunque, che una così ce l’ha solo Dooza Thom.
di Salvatore Conte (2024)
«Forza…
dobbiamo muoverci… intanto ci avviciniamo...
Mettiti qualcosa addosso, Cristo...!».
«Ma dove… lo sai che sto male… non ce la faccio…», si preme l'addome.
«Andiamo… non fare la stupida… se rimani qui, ti ritroverai con qualcosa di peggio nella pancia!».
«Peggio di quello che ho?».
«Esattamente».
«Che vuoi dire…».
«Che stanno per venire qui, perché hanno deciso di saldarci il conto.
Dobbiamo sgommare, e subito!».
Bravo, Sal: il termine è appropriato.
«Non dimenticare la pistola: venderemo cara la pelle».
«Ho capito...
ho capito... la mia, però, non
vale molto...».
«Hai ancora un paio di settimane, non buttarle via...».
«Così poco...? Ma che dici, cocco?
Io voglio salvarmi...».
«Si è allargato, lo sai...».
«Però con la radio ci sono i primi risultati… in alcuni punti l'ho fermato... posso guadagnare tempo…».
«D'accordo, rifarai la radio... tenteremo il tutto per tutto... ma adesso muoviti, Betty!».
Con la complicità di Sal Conte, un mafioso italo-americano, Betty Coleman si è sbarazzata del suo pidocchioso lavoro di fioraia; la cosa, però, non le ha portato molta fortuna, perché un tumore galoppante all'intestino, con gravi metastasi al fegato, l'ha messa in ginocchio.
Tuttavia, neppure il cancro le ha tolto il vizio di godersi la vita.
Ha deciso di lottare fino all'ultimo, con la bava alla bocca, e tanti soldi in tasca.
Il pensiero di morire la tormenta, ma lo addolcisce con quello del denaro sporco di Sal; e con questo è sicura di poter trovare una via di scampo, anche se le rimane poco da vivere.
«Hai preso i pannolini?».
«Certo...».
Quando ha saputo di non averne per molto, si è messa completamente nelle mani del malavitoso Sal, che però, per cercare di aiutarla, l'ha messa ancora più nei guai, andando a truffare dei pezzi da novanta.
Insomma, la potente Betty Coleman si è vista diagnosticare un tumore aggressivo al colon, giunto rapidamente allo stadio 4.
C'è poco da fare in questi casi.
La 48enne è andata nel panico. Non ci sta a crepare. È ancora bona e vuole invecchiare.
Betty Coleman, quasi crudele nella sua determinazione, sta tirando avanti più a lungo del previsto, aggrappandosi a qualunque mezzo, con la faccia gonfia a causa dei farmaci che la rende ancora più troia e la camicia sempre sbottonata.
Adesso, però, la resa dei conti è vicina.
Non ha fatto altro che entrare e uscire dall'ospedale, per il prelievo dell'ascite, il liquido tumorale prodotto dalle budella marce, e per continue ecografie, eseguite nella speranza che il tumore desse qualche segno di rallentamento, dopo le sessioni urgenti di radioterapia, dal modesto risultato finale.
La donna vive nell'incubo di una metastasi al pancreas, che metterebbe fine ai giochi; in ogni caso, la situazione volge al peggio: talvolta espelle all'improvviso, talaltra va incontro a dolorosi blocchi intestinali; l'apparato digerente non funziona più.
La Coleman è arrivata alla stretta finale. Guadagnare tempo le rimane sempre più difficile.
Per cercare di entrare dentro Area 51, dove si dice esistano terapie efficaci contro il cancro, Sal Conte ha riciclato 6.000.000 di dollari, restituendone solo una piccola parte.
E con certa gente, gli sgarri si pagano cari.
Ma sono le ultime cartucce e vuole spararsele tutte, anche a costo di rimanere uccisa imbottita di piombo.
Sal procede lungo la vecchia Route 66.
Betty ha già i suoi problemi.
Il mafioso le vuole evitare un’indigestione di piombo.
Hanno con sé un bel po' di soldi. Potrebbero nascondersi e aspettare che la situazione precipiti senza pressioni esterne.
Non si sa con precisione quando avverrà.
Ma potrebbe essere presto. La 48enne ha retto il gioco anche troppo.
Basterebbero un'emorragia fulminante, o un blocco intestinale, per affossarla.
«Possibile che non bastino sei milioni di dollari per entrare ad Area 51?».
«Forse basteranno, stanno decidendo. Non sono i soldi il problema principale».
«Ah no? E cosa, allora?».
«Ci sono molte richieste, Betty.
Ma loro lo sanno che sei un pezzo da collezione. Pertanto non ti lasceranno crepare. Perché le cose belle sono poche e vanno collezionate, cioè conservate».
Io intanto... io non mi sento bene, Sal... trova un posto e fermati», la voce è pressante.
«Qui intorno non c’è niente.
Siamo a Two Guns, una pompa-fantasma».
«Che cosa?».
«È una vecchia pompa della benzina,
da tempo in disuso».
«Va bene, fermati lì...».
«Si può sapere che hai?».
«Sto male… te l’ho detto… cosa pretendi…».
«Dimmi che hai».
«Mi fa male la pancia… ho bisogno di andare... dammi la pillola…».
Betty si è bloccata. E il farmaco non riesce a stapparla.
La cosa è dannatamente seria.
Il tumore l’ha invasa, ma il malato non si rassegna mai, spera sempre di avere altro tempo. Ormai, però, basta poco per aggravare un quadro critico come il suo.
«Ti faccio una siringa, Betty».
«No... aspetta... qualcosa si muove...».
La conferma presenta il suo lato sgradevole, ma è meglio così.
La Coleman l'ha sfangata.
I due si sistemano all'interno della vecchia stazione di servizio.
E cala la notte.
La Coleman ha avuto paura: un campanello d’allarme ha squillato forte dentro la sua testa. Le rimane poco, ma vuole vivere.
«Ascolta, Sal… sei tu che gestisci gli affari... loro vogliono te... non me... nessuno mi toccherebbe...», c'è un lampo di lucida follia negli occhi diabolici della 48enne sbottonata.
Sal non ha nemmeno il tempo di pensare al peggio, che già vede la canna della pistola puntata contro di lui.
Betty ha deciso di fregarlo.
Si fa consegnare il revolver e lo infila nella borsetta.
«Addio, bello.
Non ti ammazzo… ma non cercare di seguirmi...», dice, ironicamente, la donna.
POW
Uno sparo che non fa rumore, in un posto come quello.
Non lo ammazza, ma gli fa saltare un ginocchio.
Prende la valigetta con
i soldi e se ne va.
BANG
BANG
I colpi esplodono improvvisi nell'oscurità del deserto.
La Coleman è raggiunta dal piombo (!), ha due buchi in pancia adesso (!!), barcolla ma rimane in piedi, e mantiene la presa
sulla valigetta.
La voglia di vivere è tale che la spinge ad andare avanti, anche se l'hanno
toccata, eccome.
POW
POW
Spara due colpi alla cieca, solo per prendere tempo. Non vede nessuno, infatti.
Ma qualcuno c'è, perché le hanno sparato addosso.
Si infila dentro la macchina e parte a razzo, bruciando le gomme.
BANG
BANG
Ancora spari, un’esplosione di vetri, ma niente buchi stavolta.
Due luci nel buio la inseguono. Le sono alle costole.
Deve affrontarli, non può sperare di fuggire. Non sente le gambe e non riesce a
guidare, procedendo a strappi.
Paralizzata dal terrore di lasciarci la pelle, sbanda e finisce contro una
staccionata diroccata. Forse al buio non l'hanno riconosciuta, da vicino non
oseranno finirla.
Lo sportello di guida si apre e lei si accascia di schiena fuori dall'abitacolo,
le gambe ancora dentro.
La valigetta è finita sul terreno e si è anche aperta.
«Ne aveva di birra in corpo questa puttana!», esclama uno dei killer.
«Beh, adesso l'ha finita...», risponde l'altro.
Lo dicono un paio di grossi buchi sulla camicetta sbottonata e gli
occhi vitrei della donna.
Il recupero crediti dell'Organizzazione è piuttosto efficiente.
Betty giace supina a terra.
Sul volto, un'espressione esterrefatta: quella di una gran puttana rimasta fottuta.
«Mi sembra ci sia tutto, dollaro più, dollaro meno...».
«Bene. Andiamo a sistemare il socio, adesso».
«Sempre che non sia già morto, amico. Ti ricordi lo sparo?
La puttana deve averlo fatto fuori».
POW
POW
Un colpo per ciascuno.
La
Coleman ha sparato con due pistole...
La borsetta non l'hanno
controllata.
I sicari cadono.
Non hanno la stessa capacità di assorbimento.
Dare le spalle a una signora è decisamente sconveniente.
Specie se si tratta di
una grossa puttana arrabbiata.
Ma si muovono ancora. Troppo.
POW
POW
Adesso non si muovono più. Nemmeno un po’.
È contenta e al tempo stesso disperata.
Non sa più cosa fare, non ha la forza per fare niente.
L'unica cosa certa è che non vuole crepare.
Intravede qualcuno.
Improvvisamente le
torna un po' di spirito.
«Sei già qui...? Non ti fa male…?».
Con fare rassegnato, senza presentare recriminazioni, Sal la rimette dentro l'auto e si pone alla guida.
Per loro fortuna la gamba sinistra non serve a molto sulla Route 66.
«Hai preso... i soldi...?», con l'acqua alla gola si preoccupa dei soldi. «Ti ho giocato... un brutto scherzo… lo so… ma non voglio crepare…
No... non voglio morire...».
Sal non risponde.
Solo quando Betty gli frana addosso, accosta l'auto e la riaccomoda contro il
sedile, con fare galante, asciugandole il collo sudaticcio con un fazzoletto.
Ha due grossi buchi nella pancia, oltre a tutto il resto.
Sal deve ammettere che la sua gran puttana è rimasta uccisa nello scontro a fuoco con i
sicari.
«Non va tutto male… mi sento libera…».
Sembra incredibile, ma in effetti dai buchi cola un muco marrone.
La Coleman non si rassegna,
si aggrappa a tutto.
«So... a cosa stai pensando... che sono fottuta... ma io... non voglio crepare... ho
lottato tanto… in questi mesi... non mi sono... mai... arresa...».
«Malgrado tutto, mi hai salvato, Betty».
«Sì... li ho fatti fuori... quei bastardi...
Attento... ce ne sono altri...».
Spuntano due luci.
Un'autovettura li fronteggia contromano. È seguita
da un altro veicolo, a luci spente, nero, quasi irriconoscibile nella notte.
Sal non reagisce, sarebbe inutile.
Appoggia la sua mano su quelle di Betty, strette intorno all'addome.
Un colpo d'abbaglianti richiama la sua attenzione.
«Stai qui e niente cazzate, okay?
Vediamo chi sono», Sal scende dall'auto.
«È
tutto okay, amico.
Richiesta accettata», gli dice l'uomo a destra, dal finestrino.
Poco dopo vede caricare la Coleman sulla Black Ambulance e ci sale lui stesso.
«Le cose risultano peggiorate rispetto a quanto dichiarato nella richiesta.
La richiedente, oltre al tumore in stato terminale, è affetta da indigestione di piombo, mentre l'accompagnatore si presenta con il ginocchio spappolato.
Tutto questo comporta un sovrapprezzo di... diciamo 2.000.000 di dollari.
D'altra parte la richiedente è un indiscutibile pezzo da collezione», conclude the Man in Black.
di Salvatore Conte (2025)
«La
Porta di Roma, uno dei posti più belli al mondo, che inebriò Enea e lo
spinse a proseguire».
«Ma che cazzo dici?».
«Stai attenta, Anna, sorella di Didone: guardati dagli Eneadi!».
«Tutte queste storie per una pisciata?
La prossima volta andiamo al bar».
Ma il discorso prosegue in macchina.
«Mai in nessun luogo l'idea di grandezza e sacralità ebbe una realizzazione così eloquente».
«Stiamo lavorando, Johnny».
«Gli Dei atavici esprimono il loro disegno sotto i nostri occhi».
«Ti ho detto di piantarla...».
«Solo chi è cieco non vede».
«Puoi fare una pausa, Cristo?! Giusto per incassare i fottuti testoni che ci devono».
Anna Frezzante, detta "la Sbottonata" per i più eloquenti motivi, scende dall'auto con il camicione rosa slacciato fino allo stomaco, stretto intorno alla vita da una robusta cinta nera, utile a mascherare i rotoli di ciccia che le scoppiano fuori dalla panza.
La Sbottonata cerca di rimanere sulla breccia, ma è in pieno declino.
Con le sue camicie allentate esprime tutta la frustrazione per l'età che avanza e la cellulite fuori controllo.
Però con tutto questo - anziché passare di moda - si è fatta ancora più bona.
Non annoia mai e la camicia sbottonata è sempre perfetta su di lei.
Nel quartiere la conoscono e rispettano tutti.
Alla Magliana, Anna è ancora qualcuno.
«Ohhh... dritta nello stomaco...».
Durante un diverbio, degenerato in un regolamento di conti, all'interno di una villa sotto sequestro, Anna Frezzante si è presa una pallottola nello stomaco...
Forse l'hanno beccata lì proprio per farle dispetto, perché qualche anno prima non osava sbottonarsi tanto.
Però sta seduta sulla poltroncina impolverata come nulla fosse, in attesa che gli altri finiscano di discutere.
È una bestia. E anche loro lo sanno.
Anna sta aspettando l'occasione giusta per portarsi da un dottore e farsi dare un'occhiata al buco.
Per la legge della Mala non si deve pensare a sé stessi in certe occasioni... vengono prima gli interessi della Banda; lei, però, si sente superiore alle regole.
Le regole non valgono per una come lei.
Siccome la discussione sulla rappresaglia da imbastire prosegue a oltranza (anche se, magari, parlano pure di lei, dove portarla e a chi metterla in mano), la Sbottonata pensa bene di guadagnarsi una via di scampo.
Farà una cosa molto semplice: salirà in macchina e raggiungerà l'ospedale; in barba alle regole.
«E Anna? Dove cazzo è finita?».
L'assenza di una bestia del genere non passa a lungo inosservata.
Non al Negro, almeno.
Mentre gli altri continuano, compreso Johnny, lui si sfila e va a controllare.
Conosce la Sbottonata sin da quando è rientrata da New York, dove aveva lavorato per i Gambino.
Vuole salvarsi.
Ma se uno della Banda ha paura e ricorre all'ospedale, allora non merita rispetto.
E la pizzica, infatti, mentre si avvicina ingobbita all'auto.
«ANNA!
TU CONOSCI LE REGOLE!», le ringhia contro.
«NO! NON VOGLIO MORIRE!», urla, spaventata, rivolta verso il Negro, opponendogli la mano insanguinata che si è staccata dallo stomaco.
La villa è isolata, oltre che sotto sequestro quale patrimonio illecito di organizzazione mafiosa.
E comunque nessuno chiamerebbe la polizia, a meno che non sia nuovo della zona. E la polizia, in ogni caso, non prenderebbe sul serio la chiamata.
Due colpi secchi, due revolverate in pancia.
La bocca che si spalanca, il corpo massiccio che sussulta, le gambe che si fanno molli.
Frana su sé stessa, striscia d'impulso per un paio di metri, scarica la disperazione e si blocca di sasso.
Adesso il Negro sa che la Sbottonata non sarà messa in mano a nessuno. Il problema non si pone più.
E torna dai compagni.
«Che cazzo è successo? Dov'è Anna?».
Il silenzio del Negro è eloquente.
Johnny e Cassandra vanno a vedere.
Cassandra Jelen è la slava della Banda.
Degli spari non devono preoccuparsi.
Qui la polizia non entra.
«112, parli pure».
«Ascolti... ho portato fuori il cane e ho sentito degli spari da una villa qui vicino, credo sia quella sotto sequestro per certi fatti...».
«Mi dà l'indirizzo di dove si trovava in quel momento?
Bene, stiamo controllando, rimanga in linea.
Esercitazioni di polizia, signora; normale attività d'istituto, su terreno confiscato e quindi di proprietà pubblica; la preghiamo di non allarmarsi».
«Ah... meno male. Però che paura!».
«Grazie per aver chiamato e non si preoccupi».
Le coperture sono tali che nessuno verrebbe mai a ficcare il naso qui dentro.
Una festa privata con scoppio di petardi, esercitazioni, le riprese di un film:
tutto, fuorché un briciolo di verità.
Ma dei buchi che hanno fatto, sì. Di quelli devono preoccuparsi.
«Ma dico, sei scemo? Anna non è una qualunque», si lamenta Cassandra.
«Dai, portiamola dentro», Johnny va sul pratico. «Ce la fai?».
«Certo...».
La carcassa di Anna Frezzante pesa parecchio.
I due la mettono su un divano.
«Cerca dell'ovatta o degli asciugamani».
La Jelen, bona e sbottonata come Anna, ma senza il suo prestigio, tampona i buchi della collega.
«Dannata stupida: guarda come ti sei combinata...».
«Fanculo... troia...», vuole dirglielo subito, così è sicura di fare in tempo.
«Johnny, stalle accanto: crepare la rende nervosa.
Io avviso il capo che è finita».
Il capo non lo intercetta nessuno.
Le coperture sono tali che nessuno trascriverebbe mai l'intera comunicazione.
Buchi, guasti, disfunzioni: la buccia senza la polpa e il succo. Come la sintesi raccoglie l'essenziale, la trascrizione omissiva raccoglie il superfluo.
E il boss ne approfitta per dissertare sull'acqua marcia del Tevere con la sua platea silenziosa; non disdegnando di offrire in pasto qualche pesciolino e suggerire l'eliminazione di concorrenti troppo ambiziosi.
Qui i buchi sono tre e la polpa pesa quasi un
quintale.
«Forse mezzora, un'ora al massimo; ma potrebbe accadere a momenti; è sfondata.
Accanto a lei è rimasto Johnny...».
«Sarò lì tra poco».
Il capo è una persona gentile. E poi quando si parla della Sbottonata scattano tutti
in piedi.
La trova sul divano, con gli occhi vitrei puntati contro il soffitto, la bocca spalancata che cerca di trovare aria, e il braccio destro a penzoloni che sfiora il pavimento.
«Accidenti...», sussurra, prima di avvicinarsi.
Si siede accanto a lei e sposta da una parte gli asciugamani impiastrati di sangue che Johnny le ha premuto sulla pancia e lo stomaco.
Il capo osserva attento i buchi, Cassandra ha omesso di raccontargli i particolari, il Negro pure.
«I bastardi che l'hanno ammazzata sono due...
Ma come è potuto accadere? Nessuno l'ha mai toccata. Nemmeno a New York...
Non ci sono più regole...».
Finita l'ispezione, Johnny rimette gli asciugamani a tamponare i buchi e ci preme sopra le mani. Anna non si è ancora arresa.
«Acqua… acqua...», lo intravede appena, mentre punta il soffitto.
Le bestie hanno sete mentre muoiono.
Il capo ha riunito gli uomini e sta mettendo a punto un piano per lanciare una dura rappresaglia. Nel mentre, chiede notizie di Anna.
«È morta?».
La notizia, però, non arriva.
Deve pensarci lui, come sempre.
«Anna... stai combattendo da un’ora e mezza...
La partita non è ancora finita?».
«Eh…?», non ha capito bene, è intontita, frastornata. «No... no... io... me la gioco…»,
afferra in extremis il concetto.
E per dimostrarglielo - con le dita tremanti e sanguinolente - si allarga i lembi della camicia sbottonata... e geme languida...
È l'unico modo per guadagnare tempo.
E intanto gli sussurra qualcosa, mentre lui la palpeggia.
L'aspettativa di vita del Negro si riduce drasticamente.
«Perché l'ha fatto?».
«Ho sbagliato... io... mi stavo... allontanando... ahh...
Ma lui... non doveva... spararmi... in corpo... ohh...
Potevo salvarmi... adesso... io... ho paura... uhh...
Ma io... io... lo faccio... per mio padre... ohh... gli prenderebbe... un colpo... se... se...», ha paura a dirlo, «se io... rimanessi uccisa... ohh-ohhh...».
La Sbottonata giustifica così la sua vigliaccheria.
«Attenta all'ultimo bottone, Anna.
Potrebbe staccarsi da un momento all'altro...», l'ironia macabra del capo la gela.
Ma intanto l'ha fatto fesso: le sue zinne l'hanno salvata per l'ennesima volta.
Per chi fosse più intontito della stessa Anna, si tratta dell'ultimo bottone che la tiene penosamente allacciata alla vita.
Gustato l'ultimo show della Sbottonata, il
boss si tira in disparte.
Il Negro farà da incursore nella rappresaglia,
visto che è tanto coraggioso; il fuoco amico potrebbe scambiarlo per l'assassino
di Anna.
«Di lei che ne facciamo? Solito fosso?
Ehi, capo! La
bella sbottonata nel fosso... pancia all'aria nella marrana... a caccia di un
bacio dal principe azzurro...», il Trilussa della Banda colpisce ancora.
«Non fare l'idiota.
È la fine di Anna Frezzante, la fine di una grande donna.
Merita il Tevere.
Altra mezzora di cottura e poi è pronta».
«D'accordo, capo.
Organizzo il movimento».
La Sbottonata, ormai incosciente, viene caricata in auto e affidata con precise istruzioni a due scagnozzi.
I due incaricati, con il corpo
della Sbottonata, salgono su un piccolo motoscafo e si dirigono a valle.
Per i personaggi della Banda c'è una sepoltura speciale.
In mezzo al Tevere.
Renatino è stato un caso a parte; per i suoi servizi, adesso riposa accanto a Francesco.
Sul molo intravedono la bestia di Cacciavite, l'imbalsamatore della Banda.
Li sta aspettando di fronte all'Isola, con il cofano aperto: sta regolando i carburatori del suo GT 2000 anni '70; è una sua fissazione.
Lo traghettano e si avviano alla necropoli in mezzo al Tevere.
Il
corpo della Sbottonata viene trasportato su una carrozzella per disabili: occhiali
scuri e cappello da signora completano il look; un asciugamano da spiaggia a coprire i
buchi.
Ma anche così raccoglie troppi sguardi.
Er Puzzola le asciuga il labbro che cola sangue; la faccia cadaverica rimane quella.
Gli inservienti chiudono al pubblico una parte della necropoli: lavori urgenti di consolidamento delle strutture.
«Ahi! Ma chi cazzo...?».
Er Trippa si gira intorno, ma non c'è nessuno, a parte la Sbottonata e il Puzzola che guida la carrozzella; Cacciavite è più avanti.
Ha appena rimediato un calcio.
Attimi di perplessità.
Poi anche il braccio ha uno spasmo.
«Ora la calmo io...», Cacciavite sta preparando una siringa: servirà a solidificarle il sangue. «Tanto bisognava farlo».
«Buttala».
«Johnny!? Che cazzo ci fai qui?», la voce è der Trippa.
«Conoscete la storia
di Orfeo?».
«Ehi, un momento... metti giù la pistola», interviene er Puzzola.
«Adesso ve la racconto io: voi tre lasciate il cadavere dov'è e ve ne tornate alla base.
Alla sepoltura ci penso io».
«Vaffanculo, stronzo!», er Trippa s'incazza.
«Sì, stronzo!», er Puzzola lo segue.
POW
POW
POW
Gli spari fioccano sull'Isola dei Morti.
Er Puzzola frana sulla Sbottonata, Cacciavite se la svigna, Johnny crolla sulle ginocchia.
Er Trippa ha vinto il piatto.
«Hai fatto lo stronzo, Johnny!
E ora sei fottuto...
Ma non riposerai con questa troia.
Finirai in un fosso.
Addio...».
POW
POW
«Mi ha sempre... fatto... incazzare... chi... mi chiama... troia... ohh...».
Anna ha avuto un sussulto, risvegliata dai colpi.
Con la rivoltella der Puzzola, finita tra le sue mani, ha dato il fatto suo ar Trippa.
Johnny è stato colpito all'addome: un solo colpo e sembra già moribondo, a dispetto della Sbottonata, che si tiene in corpo tre confetti e tira ancora avanti.
Sono bloccati a breve distanza l'uno dall'altra: lei non è in grado di muovere la carrozzella, lui fatica a rimanere sulle ginocchia.
«E meno male che ho capito dove stavi andando...».
Altro colpo di scena: entra Cassandra.
Si avvicina alla Sbottonata.
«Veniamoci incontro, Anna.
Siamo donne importanti, noi due».
La Frezzante cede il revolver.
La Jelen le sfila gli occhiali scuri e le allenta la camicetta come piace a lei.
«Cassandra...
voglio Johnny... sulle ginocchia... ohh...»,
Anna non rinuncia a fare la stronza, neanche in fin di vita.
La Sbottonata ansima pesante, tra singhiozzi e rantoli.
La slava spinge la carrozzina verso Johnny, che morirà in estasi, e si abbassa per ascoltarla.
«Cassandra... io... ho paura... ahh... papà... papà... non lo accetterebbe... mai... uhh... se io... io... se... ahh...».
«Se tu rimanessi uccisa... ho capito; ma stai calma... una come te non l'ammazza nessuno.
Tu sei una bestia, Anna».
La Sbottonata va avanti con la forza della disperazione, alimentando il fragile ciclo della perfetta agonia:
- paura di morire -
- adrenalina -
- voglia di vivere -
- sfinimento -
- paura di morire -
- adrenalina -
- voglia di vivere -
- sfinimento -
«Per te ci vuole un bacio dal dottor Morton, Anna; quello che rianima anche i cadaveri; sarà lui il tuo principe azzurro; altro che Cacciavite, o questo Orfeo da strapazzo con il buco...
Avanti, Johnny... tirati su.
O rimarrai qui per sempre.
Ma senza Anna. Lei viene con me».
La slava sa come rimetterlo in moto, prima di farsi largo tra gli inservienti che tranquillizzano i visitatori: solo la scena di un film, scusate il disagio e la chiusura anticipata per disinfestazione straordinaria.
Tutto scorre lungo le sponde del Tevere, favole e miti inclusi.
LA PISTOLERA È ATTESA DAL VERME
di Salvatore Conte (2025)
La
famosa pistolera se la tira parecchio.
D’altronde, con i suoi argomenti, c’è poco da scherzare.
Bella e con tanta carne nei punti giusti.
Molto femminile, di sicuro, ma altrettanto
virile: la pistola con cui uccide è
il suo cazzo. E ce l'ha bello duro.
La scena,
poi, è da manuale.
C’è lo Sceriffo di Tucson, Alan Wood; c’è Pedro Sanchez, 15.000 dollari di
taglia; e c’è lei, Chana Munoz, 4.000 dollari al cambio, abile nei saloon a
soddisfare i vivi quanto a rifornire i cimiteri di nuovi ospiti.
Non che sia meno cattiva
di Pedro, ma si sa che le taglie femminili sono
più piccole.
I comprimari sono stati liquidati.
È il momento dei protagonisti.
La tensione è al culmine.
Le pistole stanno per cantare.
Il
verme per mangiare.
BANG
BANG
La colt rimasta muta è quella di Chana!
Dopo averne seccati tanti, stavolta è proprio lei, la gran puttana, a incassare
un bel confetto nello stomaco!
I
fantasmi del passato aleggiano su di lei come avvoltoi.
Impegnata a seccare lo Sceriffo, ha sottovalutato il rivale messicano, come quest’ultimo
la stella di latta, che l'ha stroncato con una pallottola ben piazzata.
Benché piantata forte sugli stivali, l’impatto del colpo la fa ruotare su sé
stessa: lo Sceriffo non può godersi la bella faccia incredula, ma può
immaginarla...
Il sangue le sale in gola, la testa le gira:
la Munoz
perde la presa sulla colt, il cazzo si ammoscia e
la puttana crolla sulle ginocchia!
Si guarda intorno con lo sguardo allucinato - a mascella sbilenca
- e stramazza in avanti!
La situazione si fa imbarazzante!
D'improvviso si sente il verme addosso...
Colta dal panico, prende a strisciare ventre a terra senza uno scopo apparente.
Ha paura, vuole tenersi impegnata.
È rabbiosa, sa che il colpo l'ha uccisa, ma non vuole lasciarsi andare. Ha una
fama da difendere.
Riesce a macinare qualche metro, prima di fermarsi.
Spalanca la bocca, ha il fiato corto.
Stavolta è rimasta fottuta.
«Sceriffo…», lo vede, lo chiama, prova a rimanere in gioco.
Mentre aspetta una risposta, si porta anche la seconda mano sotto il corpo, a
tamponare il buco.
Prende tempo.
«Ehi, Sceriffo!».
Qualcun altro lo chiama: sulla scena sono spuntati tre uomini di Sanchez.
«Ci siamo anche noi...».
Quasi offesi di non essere
ancora cadaveri, sono giunti in ritardo alla resa dei conti.
«Mai visti 3.000 dollari sbattermi contro».
«Hai finito di fare il gradasso, Sceriffo.
Noi valiamo molto di più».
«Lo vediamo subito…».
La scena madre ha uno strascico.
Anzi due.
Chana ritorna strisciando verso la pistola.
È in ansia per sé stessa, vuole salvarsi anche stavolta, ha il cazzo duro per una vecchia puttana
che ci prova fino all'ultimo.
L'eccitazione di poter trovare una via di scampo, la voglia di uccidere,
sono più forti del semplice istinto di sopravvivenza.
Uccidere la farà sentire viva: sazierà il verme con la carne delle sue
vittime...
Con occhi allucinati - mentre i quattro rimasti in piedi si fronteggiano minacciosi - raggiunge la colt e la impugna...
La
mitica Chana non fa troppi calcoli, non ha molto da perdere.
BANG
BANG
BANG
BANG
Stavolta, per farsi bella con lo Sceriffo, ha puntato contro un messicano, ma
quello - prima di crepare - è riuscito a vendicarsi!
Wood lo mette a tacere, ma è troppo tardi: la Munoz è stata colpita di nuovo!
L’impatto la fa rovesciare pancia all’aria...
Gli occhi sbarrati dalla delusione. E dal terrore...
Ora deve aggrapparsi allo Sceriffo...
«Il tuo aiuto non serviva.
Non valevano molto».
Alan Wood torreggia sulla pistolera.
«Gli ho… bucato… la carcassa…».
«E lui la tua…», replica cinico lo Sceriffo.
Mentre la Munoz raschia la polvere con le unghie, Wood carica le taglie e fa i
conti.
Il carretto è quasi stipato.
Manca solo lei.
Senza tanti riguardi, Wood afferra la Munoz
per gli stivali e la trascina sul terreno. Le braccia si allungano parallele
dietro la testa, gli occhi al cielo, la bocca aperta, due buchi in corpo...
Giunto al carro, l’ammucchia sopra agli altri, monta a cassetta e parte.
Per un po’ non succede niente.
«A...l...a...n…».
Wood si volta appena, ha già capito.
«Qui… puzza… di... ca...da...ve...re…».
Chana Munoz, bava alla bocca e due grossi buchi nella carcassa,
non si sente ancora parte della categoria.
La bella messicana se la vuole stirare fino
all’ultimo; senza farsi illusioni.
Troppo esperta per non capire che c’ha lasciato la pelle; ma da qui a mollare, ce ne passa.
Lo Sceriffo ferma il carretto, la tira fuori dal mucchio e la mette seduta a
cassetta.
«Tamponami… i buchi… sii gentile…», e intanto gonfia il petto, pompando le
tette.
Wood si scioglie il fazzoletto, lo strappa in due parti e gliele piazza sui
buchi.
«Premi forte...», le porta sopra le mani.
La marcia può riprendere.
«Io… fottuta…», mormora dopo un po’.
Lui non interferisce, sa che deve sfogarsi, prima di crepare.
«Due botte così... sono... tanta roba... per una signora...».
«Due botte così sono tanta roba per chiunque».
«Tu ci scherzi sopra... ma quando crepo... anche tu... ci rimani male...».
«Ti conviene risparmiare il fiato, se vuoi vivere un altro po'...».
«Io so... che... uno sceriffo... non incassa... le taglie...».
«No, se li prende all'interno della propria giurisdizione.
Tuttavia qui mi trovo fuori dalla mia giurisdizione...».
«Prenderai... anche... i miei 4.000...?
Come donna... io... io... valgo... molto di più...».
«E va bene... vediamo di trattarti un po' da conto».
Wood ferma
il carro e le offre della tequila.
La Munoz si fa sbrodolare, con esperto mestiere, un po’ di liquore sul petto, che si
infila inesorabile nell'ampio scollo della camicetta, minando le sicurezze dello
Sceriffo.
«Io e te… in un altro momento…».
«Non ti arrendi mai, vero, Chana?».
Scuote leggermente il capo.
«Ho paura... Alan...».
Gli cade addosso.
Il verme sta per mangiarsi la pistolera!
Wood cerca di fare qualcosa, prima che sia troppo tardi.
«Chana... non dirmi che hai mollato...».
La messicana sta morendo sulla sua spalla.
«Chana!», cerca di scuoterla.
Alza gli occhi su di lui, gli sguardi quasi si
toccano, Wood si sente addosso i suoi ultimi, faticosi respiri.
«Ti porto da un dottore.
No, da uno stregone.
Ne conosco uno... che fa miracoli.
Vive qua intorno. Faremo presto», l'abbranca - per non perdersela - e sprona i
cavalli.
Il carro si è messo a correre nella prateria desolata.
THUD
THUD
Wood si è perso un paio di taglie.
A causa dei sussulti, i seni pesanti di Chana ballonzolano impazziti, senza freni, nella loro ultima corsa!
«Forza, ragazza, vai bene così! Anche i morti là dietro si stanno agitando...».
Non arriva nessuna reazione.
Gli occhi della pistolera sono fissi nel vuoto!
Sul volto un’espressione gelata.
Sulla bocca un languido rigurgito di sangue!
Chana Munoz è rimasta uccisa!
Ma una parte di lei sussulta ancora.
Wood non si ferma.
Anche se ormai balla con il morto.
BANG
BANG
Si annuncia con la colt ed entra a tutta velocità nel pueblo abbandonato.
«Diablo!
Sceriffo avere fretta!»
«Ce l'ha lei», indica al brujo la pistolera.
Le sta buttando in gola altra tequila.
Come la pianta che sembra definitivamente secca, ma che rialza le foglie dopo un po' d'acqua, Chana reagisce sbattendo le palpebre.
«Usa tutti gli intrugli che hai. Ma fai presto! Non ce la fa più!».
«Tu mai chiedere cose facili, ma questa superare tutte!
Poi curare anche passeggeri dietro carro?», chiede polemicamente lo stregone, mentre corre a prendere qualcosa.
«No, quelli vanno bene così!», è anche un negromante, perciò meglio non fargli capire male.
Intanto Wood indica i cadaveri ai pochi peones che abitano il pueblo: «Ce ne sono un paio che sono caduti lungo la pista. Potete andare a riprenderli, prima che gli avvoltoi li rendano irriconoscibili: ve li lascio, ci rifarete tutto il pueblo.
Anzi ve li lascio tutti.
Al diavolo i fottuti 4.000... al diavolo tutto...», mormora fra sé l'uomo, stringendosi addosso Chana.
Lo Sceriffo Wood ha molto di più da incassare.
«E se vedo qualcosa che striscia, gli sparo».
di Salvatore Conte (2025)
SCREEKKK...
«Venga... l'aiuto...
Ma cosa le è successo?
Le metto addosso la mia giacca...
La porto subito all'ospedale, non si preoccupi».
«No... Waterloo... Avenue...
Ma fai presto...».
«Come vuole, signora, spero che lei sappia cosa stia facendo».
«20...».
«20, cosa?
Il civico, il numero civico, certo, mi scusi.
Sa... non capita tutti i giorni di... beh...
Se ci ferma qualcuno, dirò che una Signora mi ha chiesto di accompagnarla al numero 20 di Waterloo Avenue.
Va bene?».
«Non ho molto tempo...».
«Sì, certo, naturalmente. Mi do una mossa».
«Hai sentito? Hanno sparato in corpo a Chana!».
«Ma che mi dici?».
Tre!».
Non può essere... com'è potuto accadere?».
«Te
lo dico io... stava facendo il bagno in piscina, nella vasca
termale, a casa sua...
Ci sono volute tre raffiche belle pesanti per mandarla giù».
«Per forza: Chana è un bisonte!
Se non l'hanno centrata al cuore, deve aver lottato...».
«Cerca di avere pazienza e ascolta.
Dopo la prima raffica nello stomaco, la Signora si è piegata a metà, le tette hanno toccato le ginocchia che stavano sott'acqua...
Ma poi si è raddrizzata e ne ha prese altre due.
Quindi l'hanno avvolta, nuda com'era, in un telo di plastica, caricata nel cofano e trasportata alla villa del boss.
Dicono che fosse ancora viva, quando è arrivata al cospetto del capo».
«Incredibile...».
«Era un bisonte, l'hai detto tu stesso.
Il boss ha diffuso un comunicato ufficiale: con l'aiuto del medico "illegale" (la battuta non è mia), ha contato diciotto pallottole in corpo, di cui cinque nell'utero, due nel fegato e tre nello stomaco.
Eppure, la Signora voleva ancora salvarsi».
«E le altre?».
«Sparse qui e là: bracci, avambracci, cosce...».
«Avrebbe potuto gambizzarla, allora...».
«Troppo poco».
«Quanto c'ha messo a crepare?».
Stava ancora lottando.
Ma il boss le ha sparato in corpo altri due colpi!
Poi l'hanno avvolta di nuovo nel telo e mollata in una discarica abusiva.
Presto ritroveranno il corpo».
«Chana fottuta! Da non crederci...
S'è fatta ammazzare...
Quasi non riesco a concepire che sia rimasta uccisa, aveva sempre mille trucchi...
Però a volte non c'è nulla da fare, neanche per un bestione come quello... mai vista una così: troppe pallottole, suppongo...
Certo è un colpo, non me l'aspettavo...».
«Nemmeno io, se è per questo.
Te la ricordi che vacca bestiale alle feste del boss?».
«Me la ricordo, eccome; sembrava invincibile.
Ero costretto a chiudermi in bagno e a tirarmi una sega, quando la vedevo.
Ecco perché non capisco».
«È facile fare una mossa sbagliata, ricordiamocelo anche noi...».
Il corpo di Chana non si trova».
«Ma come è possibile?».
«La discarica è abusiva, ma abbastanza frequentata.
Ovvio che non si tratta di brave persone, ma almeno una telefonata anonima l'avrebbero fatta».
«E quindi?».
«Forse un qualche necrofilo si è preso il corpo».
«Chiamalo pazzo...!
Comunque se non c'è il corpo, non c'è il delitto: perché il capo dovrebbe prendersela?».
«Al boss non frega niente delle indagini, lui è coperto.
Ma voleva dare un avvertimento.
Bella vacca ritrovata in discarica con una ventina di pallottole addosso: vuoi mettere?
Adesso invece gli amici penseranno che abbia semplicemente cambiato aria.
Perciò vuole ritrovare il corpo.
E ha sguinzagliato i suoi uomini, compreso me e te».
«Da dove partiamo?».
«Dalla discarica».
«Questo è sangue...
Parte dai margini della discarica e arriva fino alla strada principale.
Tutto ciò è molto strano».
«Il maniaco l'ha trascinata, prima di caricarla in auto».
«Ci sono due cose che non tornano: Chana è stata abbandonata con l'involucro di plastica ancora addosso ed è strano che il maniaco non se ne sia servito a sua volta; ma soprattutto è strano che abbia corso il rischio di farsi notare: la strada qui sopra è piuttosto trafficata».
«Che cosa ne deduci?».
«Che qualcosa puzza.
Sembra come...
Lo so, è difficile da credere.
È come se Chana fosse sgusciata via dal telo di plastica... e avesse strisciato fino alla strada, per fermare un'auto di passaggio: la scia di sangue, in questa maniera, avrebbe un senso».
«Vuoi dire che poteva essere viva con venti pallottole in corpo? E dopo essere stata avvolta in un telo di plastica?».
«Non dimenticare che Chana non è una donna normale. È un bestione, un bisonte. E questi teli da trasporto, in genere, non vengono chiusi ermeticamente. D'altronde sappiamo che al primo viaggio è sopravvissuta.
Una vaccona come lei, se si mette in testa di non mollare, può reggere abbastanza a lungo da tentare l'impresa...».
«Già... un bisonte... ma non erano estinti? Supponiamo che - grazie alla forza della disperazione - sia arrivata fino alla strada. Poi cos'ha cercato di fare?».
«Un'auto l'ha vista e si è fermata.
Non poteva farsi portare in ospedale.
Il boss l'avrebbe terminata facilmente.
Quindi... ha chiesto di essere portata da qualcuno che lei conosce e di cui si fida».
«A me il citofono ha suonato, hai ragione...
Era il vicino che si lamentava del mio cane, però. Non una bella vacca con venti pallottole addosso...».
«Non fare l'idiota.
Due anni fa Chana ha scoperto di avere un tumore all'utero: una brutta storia.
Però, non si sa come, è sopravvissuta fino a oggi, senza mai farsi ricoverare».
«Peraltro in buona salute...».
«Andiamo a casa sua...».
«Waterloo Avenue #20: curioso, è lo stesso numero di pallottole che si è ritrovata addosso.
Ed è anche la sua Waterloo...».
«Ma qui dice che è un veterinario...».
«Ti risulta che Chana avesse animali?
Passiamo a prendere il tuo cane e andiamo».
«Un veterinario per un bisonte... è perfetto!».
«Il suo cane gode ottima salute, signore.
Raramente ho ricevuto un padrone tanto premuroso».
«Vede, dottore... noi vorremmo che anche lei godesse ottima salute per almeno altri cinque minuti...».
Il medico sgrana gli occhi.
«Adesso lei manderà via gli altri clienti, offrendo loro una visita gratuita, e poi farà quattro chiacchiere con noi. Pensi alla sua salute, adesso, dottore».
«Come volete, temo di non avere scelta».
«Bene, è stato convincente.
Adesso vorremmo sapere come mai una nostra amica, che non ha né cani né gatti, si ritrova il suo biglietto per tutta casa».
La faccia del veterinario è una conferma esplicita.
«È deceduta? Vorremmo vedere il corpo, se non le dispiace».
«Temo di non avere scelta.
Seguitemi».
«Per tutte le corna dei bisonti d'America prima di Colombo!».
«Bingo!».
Chana giace sul lettino, in mezzo a una selva di portaflebo come alberelli e apparecchiature mediche come cespugli.
Sembra abbastanza deceduta.
Ma il bisonte è vivo.
Indossa una camicia bianca del dottore, magistralmente gonfiata dalle zinne da vacca.
È sempre lei, fino all’ultimo.
«Quanto le rimane?».
«Non molto.
Anche se vorrebbe salvarsi».
«E se la portassimo in ospedale?».
«Diventerebbe la principale causa di morte».
«Il rancore per i suoi vecchi colleghi le offusca il giudizio, dottore?».
Il medico lo fissa con aria perplessa.
«Lei è stato radiato dall'albo per le sue cure sperimentali.
E così si è riciclato tra i veterinari, senza perdere il vizio...».
«Non discuto più da parecchio tempo.
Se avete un'arma, potete fare come credete.
E se pensate di allungarle la vita portandola in ospedale, fate pure...».
«Che si fa, Mike?».
«Non vorrai riportarla al capo, spero.
Chana è una bella donna, non ce ne sono tante così.
Chi è che non commette degli errori, dopotutto?».
«Ti ho chiesto se possiamo fidarci di un medico radiato dall'albo».
«Ma scusa... ha preso venti pallottole e non è ancora crepata del tutto.
Questo tizio ci sa fare, si vede. Se prendeva la mazzetta, nessuno lo avrebbe radiato».
«Giusto.
Dottore, vorremmo farle qualche domanda», indica Chana.
«D'accordo.
Ma solo pochi minuti, per favore».
«Promesso».
La libera da qualche impaccio ed è pronta.
«Che errore hai commesso?
Quanto gli hai fregato?».
{Venti...}, parla con difficoltà, ha la lingua inceppata, il medico l'ha bombardata per tenerla a galla.
«E per 20.000 dollari ti ha fatto il servizio?
Tu ne vali di più».
{Venti... milioni...}.
I due si guardano basiti.
{Possiamo... dividere...}.
«Ma allora...», la cosa lo fa morire dal ridere, «il capo ti ha sparato gli ultimi due colpi... non per ucciderti... ma per fartela pagare... è fantastico...», sembra trasognato, ha perfino dimenticato l'offerta di Chana.
La rabbia le fa sciogliere la lingua, è carica come un bisonte.
«Sto morendo... non capisci... senza quei due colpi... avrei potuto salvarmi...», chiude piangendo lacrime asciutte; le brucia da morire sentire la fine addosso, un qualcosa che le scava dentro e che non può controllare.
«Hai ragione, Chana. Scusami. E cerca di riguardarti.
Un'ultima cosa...
Torneresti indietro?».
«No... muoio senza rimpianti... ho rischiato... ho pagato...».
«Me l'immaginavo, Chana.
Avresti potuto morire sul colpo, lo sai, vero?
Il cuore, la testa, l'aorta: neanche una come te avrebbe potuto farci niente».
«Lo so... ma non è successo... e allora... c'ho provato...», con la delusione che le attanaglia la voce; adesso ha capito di aver lottato per allungare un'illusione.
«Ma lui ti avrebbe comunque sparato addosso altri due colpi: io lo trovo fantastico».
«Io... macabro... per due milioni... mi sono strozzata... mi sono giocata la pelle...», Chana ha afferrato il concetto, è una ragazza sveglia.
«A proposito di quei soldi, Chana...».
«Li ho cambiati... con settemila bitcoins... le chiavi... sono nel caveau di una banca... un direttore che mi scopo... intoccabile...».
«Hai pensato a tutto, Chana. Sei la ragazza che tutti vorrebbero sposare.
Se ripenso a quello che hai fatto...
Devi esserti spremuta tutta per trascinarti fino alla strada... avrei pagato per esserci», la stuzzica ancora.
«Dovevo... riuscirci... a tutti i costi... oppure... sarei rimasta lì... per sempre...».
«Mai temuto di non farcela?».
«Mai... avevo... ancora birra... e tanta voglia...».
«Lo rifaresti?».
«Sì... mi eccitava da morire... darlo in culo... a quello stronzo...».
«Anche adesso ti senti eccitata?».
Con la mano stringe forte il lenzuolo.
«Adesso... ho paura...», ha capito che è stato tutto inutile.
Chana cerca disperatamente di agguantare la salvezza, ma stavolta non c'arriva, le sfugge, anche se le dà la beffarda, tragica illusione di esserle arrivata vicino.
«Ho tentato... il tutto per tutto...
Sono arrivata sulla strada... e poi fino a qui...
Ma adesso… ho capito... che non posso sfuggire... al mio destino...
Ne ho per poco...
Troppi buchi...
Il dottore... non può... tenermi in vita... a lungo...
Mi sono illusa...
Ma ne ho... per poco... ho paura...».
Sono le ultime parole di Chana.
Ha giocato un po' con lei, ne valeva la pena; non la rivedrà viva, tutto tornerà al suo posto, il corpo nella discarica, maneggiato da un necrofilo.
«Togliamo il disturbo, dottore. Buon lavoro.
E naturalmente... acqua in bocca...
Ah, un'ultima cosa», lo prende sottobraccio e parla sottovoce, allungandogli un bigliettino, «quando arriverà il momento, ci chiami... passeremo a salutarla e a ritirare il corpo...
Per lei ci sarà una bella mancia, dottore».
Sulla porta lo chiama.
«Fred... ripassa... non ne ho per molto... voglio qualcuno... vicino a me...».
«Sistemo alcune cose e torno. Tu fatti trovare
viva».
«Quanto ci metti...».
«Un paio d'ore. Pensi di averle?».
{Sbrigati... Fred... mi sento strana...}, è tornata a farfugliare.
«Tornerò in meno di due ore, Chana».
E sarà per vederla affogare tra i rimpianti, per assistere alla sua fine; una fine di cui nessuno saprà niente.
La salvezza sembrava a portata di mano.
Il mistero del cadavere scomparso rimane appeso alla flebo.
di Giorgio Scerbanenco e Salvatore Conte (1967-2025)
Strisciando centimetro per centimetro, continuando a pensare
fisso: non voglio rimanere uccisa, la signora Layla Massari, impiegata
italo-libanese della
Nato, raggiunse il guardrail e vi si aggrappò con le mani striate di sangue.
Il killer le aveva svuotato addosso il caricatore di una mitraglietta.
Passò un camion carico di barbabietole e quando l’uomo al volante
vide quello scempio, bloccò i freni di colpo.
Poi, con le sue robuste braccia, avvolse la donna in una coperta e corse verso Bologna, all’ospedale di Sant’Orsola.
«Voglio arrivare prima che muoia...», sussurrò tra sé.
Qualche
minuto prima la donna aveva capito
che stava morendo, sentiva il sangue
che le usciva dalla bocca coagularsi quasi prima di
arrivare sui fili d’erba brinati di gelo, tra i quali era distesa.
Io
non voglio morire, pensò.
Stava arrivando Natale, avevano combinato di andare, lei e James, a Milano e poi sul Breuil.
Si erano conosciuti a un ricevimento del Console inglese, e lui c'era rimasto secco.
Finalmente James Bond aveva deciso di prendere moglie, voleva mettersi a posto.
Rabbrividendo più per la paura di morire che per il freddo
pungente, strisciò tra l'erba rigida di gelo, segnando del suo sangue
quella stessa erba, verso le luci delle
auto che in quella gelida notte di dicembre fiorivano sulla strada.
Strisciando centimetro per centimetro, continuando a pensare che non voleva
morire, continuando a pensare a James che a Natale l’avrebbe portata a
sciare sul Breuil, raggiunse il guardrail, vi si aggrappò con le mani striate di sangue e, pensando che non voleva morire, tentò di scavalcare il
guardrail stesso e di buttarsi oltre. Ma non ci riuscì, stava morendo e non aveva le
forze necessarie.
Una prima macchina schizzò via, in quell’ora balorda prima dell’alba invernale,
il guidatore vide distintamente le mani gocciolanti sangue, ma alle
cinque del mattino quel guidatore pensò che era
più saggio fingere di non avere visto nulla.
Dopo quasi un minuto passò un camion con rimorchio, trasportavano barbabietole da zucchero dal basso Ferrarese a Milano.
L’uomo al volante, benché annoiato dal
russare del suo compagno nella cuccetta alle sue spalle, era uomo prudente e
attento e, anche, nonostante il suo aspetto forzuto e grossolano, molto
sensibile, e appena vide quelle mani gocciolanti sangue attaccate al guardrail, illuminate dai fari del suo camion, appena capì che si trattava di un essere
umano, e per di più una donna, bloccò il camion di colpo e il suo
amico, per la brusca frenata, sbatté la testa contro la parete della cuccetta, si
svegliò e disse: «Cornuto!».
Ma lui al volante replicò allarmato: «Oh, Piero, guarda quella poveretta!».
«Quale?».
Scesero e le andarono vicino. Sembravano due attori della tv,
illuminati dai fari del camion, che guardavano lei che non voleva morire, aggrappata al guardrail con le sue ultime forze.
«Mamma mia,
mamma!», disse il camionista forzuto, guardando la
bella donna sui 50, e lo disse senza sapere di dirlo.
«È viva?», domandò l’altro camionista.
«La mano, guarda la mano», disse quello forzuto.
La mano di lei, grondante di sangue, ciondolava oltre il gelido
metallo del guardrail, mentre lei pensava, in quei disperati momenti, non voglio
rimanere uccisa, e il camionista forzuto diceva
all’altro: «Io la piglio su, tu porta dei fazzolettini».
Con le sue robuste braccia, sotto la luce dei fari, come stesse provando la scena di un film, in quell’alba di mezzo dicembre, sollevò la donna che continuava a pensare: non voglio rimanere uccisa, e che era stata, fino a poco prima, una bella donna matura, importante e sicura di sé, ma che adesso sembrava una puttana moribonda; la sollevò e la tenne in braccio, così: formosa e sanguinolenta, avvolta nella sua pelliccia scura; e piena di buchi sulla maglietta rossa.
«Oh, poveretta...».
Arrivò il suo amico con diversi pacchetti di fazzolettini e si affrettò a
tamponarle i buchi.
«Svelto, svelto, in cabina».
Un attimo dopo la mettevano in cuccetta.
«Chiudi tutti i buchi e coprila bene con la coperta.
La
portiamo a Bologna».
Il grosso autotrasporto schizzò via sullo stradone vuoto, con il forzuto che
guidava e l'amico esile che la consolava e le premeva i fazzolettini di carta
contro la ciccia pingue e sanguinolenta.
«Respira?».
«Sì, respira!».
E così ogni dieci secondi.
Il
forzuto che guidava continuò a spingere sull’acceleratore, Bologna era a meno di
venti chilometri.
«Fra un minuto è morta, vorrei arrivare prima che morisse», ma
sapeva di dire una sciocchezza, perché non si possono fare venti chilometri in
un minuto, a meno di non essere al volante di una Giulia; però lui tentava.
«Respira?».
«Non lo so, aspetta», rispose l’altro; e avvicinò la bocca alla bocca di lei, e sentì il caldo del respiro.
«Sì, respira!».
«Respira?».
«Ma sì, te l’ho detto, respira!»,
e le mise una mano sul petto, sotto la coperta e sotto la pelliccia,
per sentire anche il battito del cuore, e il cuore batteva, e mai avrebbe pensato di
toccare una donna tanto importante, formosa e avvenente; e di toccarle le zinne,
tra un buco e l'altro. «Respira, le batte il cuore, ed è bona
come il pane!».
Quello che guidava schiacciò ancora di più l’acceleratore, l’enorme
camion con rimorchio, una vera balena della strada, sembrava una grossa Giulia
spezzata in due.
«Eccolo lì!».
I due autisti, tenendola bene avvolta nella coperta, la
presero in braccio, trasportandola fuori dal camion, e suonando il campanello,
bestemmiando, urlando, e bestemmiando, fecero accorrere l’infermiere di turno, che disse subito
che non c’era posto e che dovevano andare al Traumatologico di via Boldrini.
E
allora il camionista forzuto che si teneva sulle braccia quel pezzo di femmina che forse era viva e
forse no, gli disse di aprire il cancello, se no lo sfondava con il camion, e
aggiunse: «Questa donna sta morendo, apri, brutto figlio di troia, se no ti mastico».
Due dottori si buttarono giù dalla brandina sulla quale dormivano e scesero
nella sala di pronto soccorso e osservarono la donna per qualche decina di secondi, cercando di rendersi conto
cosa avessero davanti.
Si trattava di un essere umano di sesso femminile, ma doveva essere stata colpita da una lunga scarica di mitra, perché era tutta sforacchiata, lungo tutto l'addome, e anche più in alto, e più in basso...
Inoltre sarebbe dovuta essere morta, una ventina di proiettili le avevano attraversato il corpo e gli organi vitali: invece non era morta, il polso batteva, sentì il medico anziano.
«Plasma», disse, ma la suora lo aveva già pensato da sé e stava
chiamando al telefono l’infermiera dell’emoteca.
«Non ce la facciamo», disse il medico più giovane, scuotendo la testa.
La suora, intanto, rimuoveva i fazzolettini di carta fradici di sangue,
sostituendoli via-via con tamponi professionali.
«Bisogna levarle i proiettili che ha dentro, guarda questo», il medico anziano
indicò, vicino all’ombelico, un proiettile penetrato solo di poco, frenato
dall’elasticità della pelle grassa addominale, o forse rimbalzato contro una
pallottola già sparata in quel punto.
«Fosse solo questo», disse il medico più giovane, «guarda... dritto nella
vescica... sta urinando da qui...».
«Suora, chiami l’anestesista e faccia preparare la sala operatoria».
«Sì, dottore, ma faccia chiamare anche la polizia», aggiunse la suora.
I medici,
specialmente se giovani, come uno di quei due, erano dei poeti che dimenticavano
le cose pratiche: con una donna impallinata come quella, ci voleva la questura!
Per quanto riguarda la sala operatoria, riuscirono a estrarle soltanto sei pallottole; l’anestesista, che regolava la valvola dell’ossigeno e
assisteva, a un certo punto disse: «Non riesco a capire come faccia a essere viva».
Circondata da un cespuglio di piantane portaflebo e portaplasma, venne messa sul lettino sotto la
tenda a ossigeno.
E allora, al soffio vivificatore dell’ossigeno, la donna cominciò
ad agitare le labbra, ma non ne veniva alcun suono, non vi era forza biologica
perché lei potesse produrre dei suoni con la voce, però pensava e sentiva,
riconfortata dal plasma sentiva benissimo di essere viva e continuava a pensare:
non voglio rimanere uccisa, voglio andare a sciare con James.
Il medico anziano disse: «Durerà mezzora, facciamoci fare un caffè».
«Per me solo qualche minuto, guarda», il medico più giovane indicò l’ago del pneumometro:
oscillava piano, stancamente.
«Dottore... c'è la polizia, e ci sono anche quei due camionisti...», disse la
suora.
Alle otto, poi, quando qualche cosa che rassomigliasse alla luce schiarì la finestra
della stanza dove la donna assassinata giaceva nell’involucro della tenda a ossigeno, senza sapere
se fosse giorno o notte, sentendo soltanto la mano di James che le strizzava le
zinne, alle otto, ecco, arrivò il fotografo del servizio di controspionaggio,
e anche se la suora gli diceva: «Ma la lasci stare, poverina», fece un intero
rullo a colpi di flash, e a ogni lampo di flash lei sussultava debolmente, come fossero
lampi di mitraglia.
E dopo le fotografie, la suora guardò l’ago del pneumometro e vide che stava
fermandosi. È andata, pensò, poverina.
Bologna è piena di Caffè, i bolognesi si trattano bene e quel Caffè era uno dei più nobili della città.
I due, nell’angolo più buio, parlavano a voce così bassa
che era come se non parlassero.
«Hanno ritrovato Layla».
«In che obitorio sta?».
«Al Sant’Orsola».
«Brutta fine... ma se l'è cercata... voleva sempre più soldi per quei documenti...».
«Sta in Rianimazione; è morta, ma è ancora viva».
«Viva?».
«Viva».
«Non è possibile.
Gli abbiamo svuotato addosso il caricatore; formato doppio.
Sono venti colpi, lo sai».
«Io so che è viva e che tu sei un cretino».
«Non ci credo. Non può essere viva».
«È vero, ha ingoiato un mucchio di piombo, ma è viva.
Stanza 11 dell'ospedale Sant’Orsola, reparto di Rianimazione.
E adesso ti spiego che cosa può succedere.
Forse lei non può parlare, e allora non ha ancora detto i nostri
nomi, e tutta la storia. Questa è
l’ipotesi più ottimistica, mi capisci, deficiente?».
«Ti correggo: l'ipotesi più ottimistica è che ci resti secca a minuti».
«Quella non ha intenzione di crepare, altrimenti l'avrebbe già fatto.
D'altra parte è evidente che finora non ha parlato, se no saremmo già al chiuso; però è questione di ore, ma alla fine parlerà, e allora saltiamo noi e tutto il giro.
Vai subito al Sant’Orsola e finisci il lavoro: non deve parlare.
Se parla, sei morto;
non solo tu, anch’io, e molti altri».
L’altro ascoltava a capo basso, e poi scosse il capo, sempre tenendolo
abbassato.
«Ancora viva». Scosse nuovamente il capo. «Impossibile. Venti colpi 7,65
uccidono anche un elefante».
«Eppure è viva, e appena apre bocca, noi siamo finiti». Si alzò. E sempre
a voce bassissima, disse: «Stanza 11, Rianimazione del Sant’Orsola; questa volta non
sbagliare. Devi farla finita, e subito; ci saranno un paio di poliziotti vicino al
letto, che aspettano riprenda conoscenza.
Vai prima che parli».
Il sicario non aveva mai sentito
dire che si potesse sopravvivere con venti pallottole in corpo;
d'accordo, le raffiche tendono a sfarfallare, due o tre colpi potevano essersi
persi, ma il grosso, ovvero una quindicina di pallottole calibro 7,65, ce
l'aveva addosso: in pancia, nell'utero, nelle ovaie, nello stomaco, nel fegato...
boia di un mondo ladro!
In ogni caso, se anche era viva, fra pochi minuti non lo sarebbe stata, a lui non piaceva
sbagliare due volte.
Entrò
fumando di rabbia, perché pur piccolo era molto rabbioso, nell’autorimessa
vicino all’albergo dove alloggiava; poi disse al giovanotto, mettendogli in mano un paio di biglietti da
mille: «Hai una tuta da prestarmi?».
Il ragazzo lo guardò come uno che non aveva
capito niente.
«Voglio una tuta», disse il piccolo, «e una borsa degli attrezzi, e queste sono
altre ventimila lire. Cerca di capire».
Le ventimila gli fecero capire tutto.
Tornò quasi subito, con in mano una tuta celeste e una grossa borsa con dentro
il trapano, varie chiavi inglesi e cacciaviti.
«Domani ti riporto tutto».
Il killer scattò via con la macchina e dopo essersi cambiato, si fermò davanti all’ingresso
dell’ospedale. Scese dall'auto, si mise a tracolla la borsa degli
attrezzi, ed entrò.
Quando volete entrare liberamente in qualsiasi posto, ospedale, cinema, teatro,
segreteria del ministro della Difesa, archivio segreto del Sim, Servizio
Informazioni Militari, mettetevi una tuta e una borsa a tracolla, e andate
dove avete bisogno di andare, e se qualcuno vi ferma, voi dite: «Sono l’idraulico, mi
avete chiamato ieri»; potete dire anche che siete l’elettricista, o il
tapparellista, le porte si spalancano davanti a voi e potete entrare dove
volete. Un operaio in tuta blu che viene ad accomodarvi il rubinetto, nessuno ha
il coraggio di rimandarlo indietro o di fermarlo.
E il piccolo
idraulico attraversò il largo atrio, domandò a una suora dove fosse la stanza numero 11
del reparto di Rianimazione, e s’inoltrò nel lungo corridoio che la suora gli
aveva indicato, facendo ondeggiare nella camminata la borsa degli attrezzi, in
cui aveva aggiunto la stessa mitraglietta Skorpion che aveva già sputato 20
colpi sull'assassinata viva.
Questa volta Layla sarebbe morta davvero, non gli importava
neppure di andare in galera, tanto i suoi capi lo avrebbero tirato fuori.
Lungo il corridoio vi erano delle panche.
Su queste panche erano seduti quelli che i medici chiamano pazienti, che pazientemente infatti aspettavano di essere visitati dai vari specialisti; passò anche un chirurgo che camminava con la mascherina sul viso e una cassetta dei bisturi nella mano, e il piccolo idraulico, elettricista o tapparellista che sia si fermò davanti alla porta della stanza numero 11.
Abbassò la maniglia, la porta si aprì e lui entrò.
Allora l’uomo in tuta la vide, dietro il telo trasparente
della tenda a ossigeno; la vide e tirò fuori la mitraglietta.
Nessuno può fermare un idraulico, un elettricista, o un
tapparellista che sia: è una missione quasi impossibile.
E tirò fuori la mitraglietta.
O quasi.
STUMPF!
L'ometto si accartocciò a terra, in un frastuono di cacciaviti e chiavi inglesi.
Il chirurgo visto prima l'aveva operato al cervello con una
calibro 38.
Intorno al letto della signora Massari c’erano quattro persone, che dopo la
breve interruzione, continuarono come
niente fosse: due agenti in
divisa, uno in borghese con un registratore al collo e un microfono che teneva
vicino alle labbra di lei, e il dottore che le carezzava la fronte e le
diceva: «Se non se la sente di parlare, non parli».
Layla annuì.
Era farcita di proiettili, ma viva.
Viva, ma assassinata.
Viva, ma colpita a morte, liquidata da un sicario esperto, che lei stessa aveva ricattato per spremergli altra grana. Un gioco pericoloso, finito male.
La Massari mosse il capo per dire di sì, che parlava.
«Il nome», disse l'agente graduato, «il suo nome, signora», era curvo vicino
alla bocca di lei, attendendo una risposta.
«Layla...», fu un soffio.
«Layla, e poi?».
«Massari...», un altro soffio.
«Chi la voleva uccidere, signora?».
«Io... lavoro... alla Nato...», rispose.
Il medico intervenne: «Basta, la signora ha ancora sette proiettili in corpo e
gli organi vitali compromessi...».
E lei invece soffiò, faticosamente: «No... dottore... devo parlare...», e parlò,
ansimando, davanti al microfono del registratore, disse tutti i nomi che sapeva,
tutti gli indirizzi che sapeva... sapendo di non avere molto tempo per farlo...
L'avevano minacciata, lei aveva avuto paura e per un po' era
stata al loro gioco, ma quando si era decisa a uscirne, ecco cosa le era
accaduto...
«Dunque hanno cercato di ammazzarla, perché non voleva più cedere ai loro
ricatti»,
disse l'agente.
«Li prenderemo tutti, signora».
«Adesso devo visitarla io, signori», disse il chirurgo.
«Metterò tutto a tacere, signora Bond.
Ma devi stare attenta a non rimanere assassinata».
E le strizzò le zinne; proprio come lei aveva sognato; senza nemmeno sfiorarla.
E
per i due bravi camionisti, licenza - unlimited - di fare il pieno.