Il pavone allarga la coda

La Locanda del Diavolo

Non c'è scampo nella giungla

Grosso problema, brutta soluzione

La segretaria fa tardi in ufficio

Zothique: Bochra è rimasta uccisa

IL PAVONE ALLARGA LA CODA

di Salvatore Conte (2024)

Finisce quasi sempre così tra banditi.

Si ammazzano fra loro.

La banda del Puerco si era riunita per dividere.

Ma qualcuno era stato seguito.

Fu così che all'appuntamento si presentò pure la banda della potente Anna Frazer!

Sicura del fatto suo, era solita pavoneggiarsi, ostentando il suo indubbio fascino. Il sorriso enigmatico, l'aria da bella signora e i suoi modi talvolta gentili occultavano abilmente l'anima nera di Anna.

La donna era avida e spietata, e uccideva con grande facilità. Nessuno osava impensierirla, almeno in Messico, perché qui le belle donne sono molto rispettate. Si fidava solo del suo braccio destro, Adriana Barreca, una donna abbastanza avvenente, ma non certo del suo calibro.

BANG BANG x 100

Una bella grandinata di piombo sulla Sierra Madre.

«Cabrones! Vi avevo detto di lasciarne qualcuno vivo!

Adesso chi ci dirà dove sono i dollari?».

«Anna... questa è ancora viva...», gli occhi della Frazer si illuminarono.

«Manola! Mi sembrava che fossi tu! Come stai, bella?

Tornerai a posto», la conosceva.

Era scivolata lungo la parete esterna della casupola bianca, finendo seduta a terra.

La pallottola, anche se si intuiva appena, l’aveva praticamente ammazzata.

Ce l'aveva sullo stomaco.

Una sola, in un corpo tanto grande, ma fatale.

La testa ciondolava sul petto, con gli occhi storditi e uno sbrodolio sanguinolento dalla bocca; eppure il buco mortale non si vedeva neppure.

La linea del petto - la spaccatura - era quasi netta, pulita, dritta: i seni spingevano l'uno sull'altro; ma in mezzo si intravedeva una piccola bruciacchiatura.

Si poteva soltanto intuire che una pallottola si fosse infilata là dentro, tra i giganteschi seni, nella scollatura della provocante camicetta bianca tesa fino allo spasimo; e che l'avesse raggiunta in pieno stomaco, tramortendola come se avesse ricevuto un cazzotto.

Manola Gutierrez era rimasta inchiodata alla parete.
Aveva raccolto piombo pesante.
E nonostante il fisico possente, ci sarebbe rimasta secca.
«Avanti, portatela dentro. Fatela parlare», ordinò la Frazer.

Nel pueblo abbandonato rimaneva una vecchia branda.

Gli uomini di Anna provarono a tirarle fuori qualcosa, prima che fosse troppo tardi.
Lei, però, non sembrava in grado di capirli. Lo sguardo inebetito, gli occhi fissi all’inferno.
«È andata, dannazione... », esclamò Adriana.
Gorgoglii, rantoli, e quelle braccia larghe, a penzoloni oltre i margini del letto, in segno di scoramento e resa.
Però non affrettava i tempi, cercando di convogliare aria nei polmoni, fintanto che le era possibile.
Era soddisfatta di non essere ancora crepata, a volte basta poco per essere contenti.

«Toglietevi di mezzo.

Con una bella ragazza ci vuole gentilezza...

Non è vero, Manola?».

La Frazer le riportò le braccia al corpo.

«Tu adesso mi dici dov'è il malloppo e io faccio chiamare il vecchio del villaggio.

Sono bravi, lo sai? Fanno miracoli».

Manola non abboccò, se volevano sapere qualcosa, dovevano aiutarla.

«Spargete voce, andate a prenderlo: c'è sempre un vecchio in questi villaggi che cura i peones. Il pueblo non è del tutto disabitato.

Tu rimani con me...», aggiunse Anna, poco dopo, a tu per tu con Adriana.

Si toccarono le zinne.

Tra le due c'era un rapporto morboso, insieme tenevano testa alla varia feccia che si alternava nella banda. Gli uomini li mandavano a morire, loro si proteggevano a vicenda.

Gli uomini di Anna, gli unici due rimasti, ritornarono presto.

Il vecchio c'era davvero.

Visibilmente intimorito, cominciò a medicarla con i suoi unguenti.

«Manola… io sono stata di parola... presto ti sentirai meglio...», la morbida voce di Anna era insinuante, il pavone allargava la coda. «Ma tu, intanto, devi aiutarci».
Discorsi incoerenti.
Anche per una donna dalla testa ormai vuota.

«Devi dirmi dove sono i soldi. Divideremo in cinque parti, fra tutti quelli che sono rimasti», cominciava a irrigidirsi, a perdere la pazienza. «Avanti… parla, Manola!».
Qualche fremito gutturale.
Poi, faticosamente, qualche sillaba…
«Non… voglio… crepare...».
Aveva parlato.
«Infatti non morirai, Manola... ma adesso dimmi dove avete nascosto i dollari, o ti faccio un buco in fronte!», Anna aveva perso la pazienza.
«Io… io… non…».
Mormorii incoerenti. Dal labbro di una ragazza bucata da piombo pesante e che vedeva la morte in faccia.
«Non vuoi crepare, Manola. Lo abbiamo capito.
Hai solo un problema, bellezza: una calibro 45 in mezzo alle tette…
Allora... ti decidi a parlare?!».
La ragazza boccheggiava, con gli occhi carichi di terrore.
«Io l’ammazzo, questa troia!».
«È già morta, Adriana. Non puoi farle niente».

Gli occhi della Frazer lampeggiarono. Aveva avuto un'idea.

Tirò il rustico guaritore in disparte e gli puntò la colt alla gola.

«Ascoltami bene, vecchio.

Devi dargli una droga che le sciolga la lingua, claro?

So che le conosci tutte. Voglio la migliore».

«Claro, signora».

Il vecchio si mise a rovistare nella sua borsa.

«Mettetevi il cappuccio... e accendete delle candele... spalmatevi del sangue addosso... creeremo una scena infernale... penserà di essere già morta e di trovarsi di fronte all’ultimo giudizio...», sussurrò ai suoi.
A un cenno del vecchio, Anna diede il via alla scena.

Pablo e Juanito si avvicinarono al letto con fare tronfio: impersonavano gli estremi giudici.

«Manola Gutierrez! Confessa i tuoi peccati! E restituisci i soldi ai loro proprietari! Dove li hai nascosti?».

«Manola Gutierrez! Io ti accuso di aver rubato e ucciso! Ma puoi salvarti dall'inferno, se ti liberi dei soldi rubati: ormai a te non servono più!

Avanti, parla!», l'infernale Adriana aveva concluso il suo intervento.

Per ora Anna rimaneva in disparte.

«Acqua...», rispose Manola.

«Qui l'acqua non ti serve! Sei all'inferno, e ci rimarrai se non parli!».

«Acqua...», rispose ancora la ragazza, non senza sforzo.

Ma forse stava aggiungendo qualcosa...
L'attenzione di tutta la banda era diretta alle labbra tremolanti della ragazza.
E non alla borsa del vecchio.
BANG
BANG

BANG
Pablo, Juanito e Adriana - tutta la corte, insomma - crollarono a terra.

Un attimo dopo si voltò verso la Frazer e la fissò dura.

«NO! Aspetta!», gridò la donna.

Il vecchio aspettò un cenno di Manola.

BANG

Un colpo nello stomaco della Frazer!

Anna strabuzzò gli occhi e spalancò la bocca.

Non aveva mai incassato piombo!

Sembrò crollare a terra, ma cercò di guadagnare la porta... ebbe uno slancio...

BANG

Il vecchio era astuto e non si fece sorprendere.

Le piazzò una pallottola nella schiena, all'altezza dei reni!

Sullo slancio, Anna riuscì comunque a varcare la porta e a girare l'angolo.

Il vecchio rinunciò a inseguirla.

La Frazer si schiacciò contro la parete esterna della fatiscente casupola, cercando di rimanere in piedi; poi si staccò dalla parere, spingendosi verso il piazzale antistante.

Barcollava, ingobbita in avanti, con entrambe le mani pressate sullo stomaco, guardandosi intorno con occhi allucinati.

Inciampò in un cadavere e franò a terra, dove incrociò lo sguardo vitreo del Puerco.

Era inciampata proprio nel suo cadavere.

Sembrava riderle in faccia.

Attanagliata dalla paura, estrasse la colt.

BANG
Gli fece schizzare il cervello, per essere sicura che fosse morto.

Poi cominciò a strisciare verso l'abbeveratoio degli asini: aveva una sete del diavolo e non si sarebbe fatta scrupoli, non ne aveva mai avuti.

Spingeva sulle gambe, con la paura di non arrivare all'acqua.

Il panico le bloccava il respiro. Dovette fermarsi.

Anna era disperata, da quel posto non se ne sarebbe più andata.

Riprese a spingere e nell'aggrapparsi al muretto per tirarsi su e bere, accadde una una cosa strana: una pietra si spostò e rivelò un buco.

Anna ci infilò la mano dentro: in un altro momento sarebbe stata molto più prudente.

Un sorriso illuminò il suo volto funereo...

E per un momento si dimenticò perfino di bere.

Poi una fitta di dolore la riportò alla realtà.

Resa folle e frenetica dalla morte incombente, si immerse nella vasca con tutto il corpo, gettando dentro le banconote del malloppo, a mo' di bagno-schiuma.

Un bagno di lusso per una donna di lusso, ma colorato di rosso, perché l'acqua stava bevendo il suo sangue.

Con la mente annebbiata, Anna non sapeva cosa fare.

Il vecchio l'aveva lasciata al suo destino e i peones non avevano il coraggio di intervenire. Nessuno interessato alla sua coda.

Il panico la soffocava, non voleva morire come una stupida, lei non era una donna comune.

Doveva uscire da quella vasca, o sarebbe stata la sua tomba.

In quel mentre spuntò la testa di un cavallo.

D'altronde tutte le creature - pistolere, asini e cavalli che siano - vanno all'acqua, prima o poi.

Ma non era un cavallo qualsiasi.

Anna alzò leggermente lo sguardo.

«Emiliano... capiti a proposito...».

La tirò fuori dall'acqua, mettendola seduta contro una parete.

«Mi spieghi perché ti ritrovo con un buco nello stomaco, Anna?».

«Ce l'ho anche dietro... cough...».

Emiliano le rivolse un'occhiata interrogativa e subito dopo le passò un braccio dietro la schiena.

«Sono sbalordito: ti sei giocata la pelle...».

«Non fare il drammatico... cough... con la vecchia Anna... non si può mai dire...».

«Sei stata una stupida... io, come vedi, arrivo quando i dollari sono sul piatto», mentre parlava, le manteneva una mano sullo stomaco, per incoraggiarla con un gesto simbolico.

Lei ne approfittò subito.

Si abbandonò contro di lui e gli portò la mano sulle zinne.

«Portami con te... ho finito gli uomini... cough... non mi lascio andare... non ti darò problemi... cough... lo sai che una come me... non si fa fregare... cough... ci siamo già scopati... lo rifaremo...».

La coda del pavone era aperta.

«E quella Adriana, che fine ha fatto?».

«È morta... non mi serve più... cough...».

«E va bene, Anna... ma al primo lamento ti scarico a terra».

«Non te ne pentirai...».

Emiliano raccolse i soldi, anche i dollari bagnati e sporchi di sangue.

Mise la donna su un cavallo e la legò stretta.

Uscì dal pueblo trionfante, con i soldi e la carogna di Anna al traino.

«Emiliano... lo so... ho promesso... cough...», Anna lo chiamava da dietro. «Ma tu non vuoi... cough... che io... ci lasci la pelle...».

«Arriviamo dietro quel costone, poi ti do un'occhiata».

«Brucia da impazzire...», Emiliano l'ha distesa all'ombra, con una coperta sotto la testa.

«Stai calma... devi rimanere lucida...

E se devi crepare, fallo con dignità... non sei una donna qualunque».

Lui cercava di non farsi coinvolgere, lei aveva bisogno di riaprire la coda.

«Te lo ricordi il camicione... cough... che portavo a Tucson...».

«Certo... sbottonato fino allo stomaco... sei sempre stata una puttana».

«Le nostre scopate... furono speciali... Emiliano... cough...

Noi siamo fatti... per stare insieme...».

Anna aveva il respiro corto e le vennero brutti pensieri.

«Quando perderò conoscenza... cosa farai...».

L'ansia della donna metteva la frenesia addosso pure a lui.

Si avvicinò.

«Anna... non devi lasciarti andare... noi ci mettiamo insieme... andrai in giro con il camicione sbottonato come a Tucson...».

Le teneva la mano fissa sullo stomaco, ma lei si stava aggravando.

In certi momenti non sembrava nemmeno essere lì...

«Sto morendo... vero... cough... non si può fare niente...».

«Devi farti forza, Anna... la cosa può farsi rapida, adesso», come avesse avuto un presentimento.

«Emiliano...!».

Anna lo chiamò spaventata, con la bocca allargata e un'espressione incredula stampata sul volto scolorito.

Poi il capo le cadde all'indietro e gorgogliò dei rantoli.

Lui aveva capito, non la chiamò nemmeno.

La coda del pavone era definitivamente chiusa.

LA LOCANDA DEL DIAVOLO

di Salvatore Conte (2019)

Tyburn, Inghilterra, 1° luglio 1681.

«A morte! A morte!».
Un'unica voce, urlata dalla folla senza prendere fiato, faceva da sottofondo all'orrore che stava per manifestarsi in una delle sue interpretazioni più sanguinarie.
«Impiccate il traditore!».
«Alla forca! Alla forca!», e gli uomini più vicini gli sputarono contro, ebbri oramai del loro desiderio di morte.
«Stringi bene il cappio!», si preoccupò, sveltendo le operazioni, l'uomo con la faccia umiliata dalla cicatrice.
Il boia passò una mano lungo la corda e la tirò ancora, controllando che il nodo che incravattava il disgraziato fosse intrecciato e chiuso a dovere.
«Tutto a posto, signore».
L'orrore era pronto e adesso si sarebbe manifestato.
«Oliver Plunkett, Arcivescovo di Armagh e Primate d'Irlanda, per alto tradimento ti sto condannando a morte».
Una voce si levò forte, facendosi udire sopra tutte le altre: l'uomo dalla cicatrice si era appena proclamato Dio, decidendo per Lui.
La corda stretta intorno al collo non gli impediva ancora di rispondere, ma tacque volutamente, continuando a muovere le labbra con gli occhi rivolti verso il cielo.
«Procedi, boia!», e la forca - formata da un triangolo orizzontale di legno sostenuto da tre gambe - si ritrovò a reggere l'ennesimo disgraziato corpo, che senza più appoggio terreno rimase sospeso nell'etere, fluttuando avanti e indietro come un pendolo di un orologio che stava per battere la sua ultima ora.
Tic-Toc. Il tempo è breve quando è la morte a pretenderlo.
L'Arcivescovo si fece subito di stoffa, con le gambe e le braccia ciondolanti senza più sangue vivo a muoverle e gli occhi rimasti aperti a fissare non più il cielo, ma la terra umida che si sarebbe per lui aperta in un infimo senza fondo.
«Toglietegli le viscere!».
«Che il traditore sia squartato!».
L'orrore sa essere un pozzo senza fine, del sasso che cade dentro a volte non si ode neanche il rumore dell'impatto.
E fu squartato e fu sviscerato, e chi non partecipò, guardò, godendo dello spettacolo.
Lui era confuso tra la gente, come da millenni, uomo avvolto in un mantello nero in mezzo ad altri uomini avvolti in altrettanti mantelli neri.
L'Unico tra i tanti.
A poco a poco il gruppo di persone si dissolse e Lui si diresse verso il villaggio per trovare una locanda dove brindare a sé stesso.
La riconobbe in un locale che il tempo e l’incuria avevano reso marcescente; entrò e sedendosi a un tavolo d'angolo cominciò a guardarsi intorno: come l'orrore, anche lui non aveva ancora udito il rumore del sasso che cade sul fondo.
Dette rapide occhiate, ma subito capì che quelle facce sedute ai tavoli o rimaste in piedi davanti al bancone erano più marce del legno di quella putrida locanda.
Nessuno era adatto a Lui.
«Cosa posso servirle, signore?», si avvicinò la giovane locandiera.
Alzò lo sguardo su di lei e la fermò lì, in piedi davanti a Lui, per guardarla bene.
Lei rimase ferma per il tempo che Lui capisse.
«Come ti chiami, bella locandiera?», aveva già capito.

«Come dice, signore?», riparlò per suo volere.
«Portami un whisky, Chana», aveva già deciso.
«Ma... come fa a sapere...».
«È inciso con il coltello su tutto il tavolo», la bloccò subito.
«E anche sul legno delle pareti, devi avere un sacco di ammiratori qui».
Arrossì fino allo straripante seno.
«E te li meriti tutti.
Adesso portami il mio whisky».
«Subito, signore», e tornò confusa verso il bancone.
Lei ancora non poteva saperlo, ma Lui l'aveva appena scelta.

Tyburn, Inghilterra, 21 marzo 1699.

Le aveva fatto tante promesse, le aveva promesso onori e ricchezze e un futuro da regina. E l'aveva impressionata con prodigi strabilianti.
Ma ora che gli anni si erano fatti tanti, quasi 50, Lui aveva cominciato a stufarsi e lei si era accorta che faceva ancora la locandiera.

Quella sera, alle 11, appena chiusa la locanda, decise di affrontarlo.
Gli rinfacciò che per Lui aveva rifiutato la corte di uomini colti e raffinati, innamorati davvero di lei, ma non altrettanto bravi a illuderla con belle parole e fumose promesse.
«Sei il padre della Menzogna!», sbottò al culmine.

Lui capì di aver perso la sua influenza su di lei, ma non se ne rammaricò più di tanto: stava marcendo come la sua locanda, il tempo l’avrebbe superata in fretta e ormai somigliava più a una vacca che a una donna; bella, burrosa e bovina, ma destinata a passare senza lasciare tracce.
La lasciò sfogare e la lusingò con altre promesse.
La cosa finì così.
La sera successiva, la locanda era piena come sempre.
La bella Chana - sebbene avesse ormai toccato i 50, non certo portati con leggerezza - rimaneva la principale attrazione di tutto il villaggio e dell’intera contea; anzi, il fatto che nessun altra riuscisse ancora a sostituirla, nonostante si fosse imbolsita e allargata, le attribuiva un’aura da invincibile anche presso i più umili avventori della locanda.
Le liti fra ubriachi e giocatori d’azzardo non erano affatto rare all’interno della taverna di Tyburn gestita dalla potente Chana, la locandiera più procace del Middlesex.
Fu così che all’inizio lei stessa non se ne preoccupò. Ma quando l’atmosfera cominciò a scaldarsi troppo, decise di intervenire con la sua imponente figura, che di solito acquietava gli animi in brevissimo tempo.
«Basta così, ragazzi...!», intimò la locandiera, sicura del fatto suo.

Quella sera era più zozza del solito: indossava una camicetta bianca con i bottoni allentati fino all'ombelico; le consumate tette da vacca cinquantenne stavano per scoppiarle fuori; faceva schifo.

Gli animi, però, erano accesi, troppo accesi.
«Io t’ammazzo, baro!», esclamò uno dei riottosi, minacciando l’altro con un coltello da macellaio.
E alle parole fece presto seguire i fatti, lanciandosi in avanti, a testa bassa, contro l’avventore accusato di barare. Questi si scansò appena in tempo, il coltellaccio proseguì la corsa… e si piantò profondo nel ventre molle di Chana…!
Un urlo di donna risuonò nella locanda.
Lui lo udì da fuori.
Un asso di picche svolazzò nell’aria viziosa.
L’ubriaco era incredulo quanto la locandiera.
Si fissavano l'un l'altra, sconcertati e attoniti.
L'avventore estrasse il coltellaccio dalle budella della locandiera, senza quasi rendersene conto; quindi lo lasciò cadere a terra, inorridito, con vari grumi di sangue e filamenti di carne rimasti attaccati alla lama, e si diresse verso l’uscita, folle di paura per quanto aveva commesso.
Nessuno fece in tempo a sbarrargli la strada; l'altro, invece, quello che si era sottratto al colpo, fu immobilizzato.
«Non è niente, non è niente…», tranquillizzò tutti Chana, che cercava soprattutto di tranquillizzare sé stessa.
Piegata in due, raggiunse da sola la sedia più vicina.

«È stato Lui... mi ha fatto fuori...», mormorò la locandiera, senza farsi sentire.

Aveva finalmente aperto gli occhi.
Alcuni dei presenti andarono a chiamare il dottore, altri cercarono con lo sguardo l’ombroso compagno della locandiera, ma quella sera Lui non si vedeva da nessuna parte.
Chana perdeva molto sangue; era stata sventrata; le budella potevano schizzarle fuori da un momento all’altro; il panico serpeggiava tra gli avventori della locanda.
La locandiera non avrebbe superato la notte, ma la situazione poteva precipitare molto prima.
Afferrandola con cautela, la distesero sul tavolo più vicino, con un cuscino sotto la testa.
Con gli occhi sbarrati dalla paura, Chana era intenta a guardare il soffitto della propria locanda, mentre con le mani si stringeva il ventre, nel tentativo di resistere.
La maggior parte degli avventori aveva compreso la gravità della situazione e si portava le mani alla testa in segno di sconforto.
E quelli che rientravano non portavano buone notizie: il dottore non si trovava da nessuna parte.
«Che si fa, adesso?», disse uno dei tanti.
La porta della locanda si aprì di nuovo.
Apparve uno straniero.
«Ho sentito dire che c’è bisogno di un dottore.
È qui il malato?».
«Se per voi una coltellata nella pancia è una malattia, allora la malata è qui, straniero».
Non tutti, però, erano disposti a fidarsi del nuovo arrivato.
«Chi ci dice che siete un dottore? Da dove venite?».
In mezzo a quelle domande, gli spasmi agonici di Chana catalizzarono l’attenzione generale.
«Smettila… non abbiamo altra scelta: sta morendo, non vedi?», ribatté un tale.
Lo straniero poté quindi visitare la donna.
Chana aveva perduto molto sangue ed era pallida, anche per la paura, come un lenzuolo di lino appena lavato.

«Whisky e bende, presto!», esclamò lo straniero.
Il whisky non fu difficile da trovare, le bende furono messe insieme.
La bella locandiera aveva le viscere di fuori e perdeva sangue come fosse stata macellata.
Non si contavano più le bende utilizzate dallo straniero, eppure l’immonda ferita continuava a buttare sangue; il procace petto di Chana si alzava sempre più a fatica e si riabbassava sempre più pesante; gli occhi spenti e oppressi da un’ombra oscura.
Nonostante lo straniero continuasse a imporre le mani sul ventre squartato della locandiera, come se fosse ancora possibile aiutarla, nella locanda dilagava la più aperta rassegnazione.
Tyburn avrebbe perso l’unica attrazione e sarebbe passata alla storia soltanto per il suo albero maledetto.
«Tutta colpa tua, infame!», il presunto baro che si era sottratto al colpo fatale era oggetto del furioso risentimento di coloro che rimpiangevano la bella Chana.
Venne picchiato a sangue.

Gli fu agitato contro il coltellaccio che era riuscito a evitare, ancora impregnato del sangue di Chana.
«Portatelo qui», intimò lo straniero, che non toglieva le mani dal ventre della donna. «Voglio saperlo dalle tue labbra: hai barato?».
«Lo sanno tutti che è un baro! Ammazziamolo!», inveì uno dei presenti.
«È vero, qualche volta mi capita di barare, ma questa sera non ho barato! Lo giuro!
Io voglio bene a Chana: quando mi beccano, io restituisco tutto. Lo sapete! Anche Chana lo sa! Una parte dei soldi li davo a lei!».
Lo straniero raccolse le occhiate dei presenti, anche se non ne aveva bisogno.
«Lasciatelo andare, non è lui il baro».
Quello, però, scelse di rimanere; a differenza di altri, che vinti dall’angoscia, affranti dagli occhi spenti di Chana, cominciarono a defluire dalla locanda.
Fra le strade buie del villaggio serpeggiava un’opprimente tristezza, alimentata dalle voci funeste di chi aveva assistito impotente al fatale dissanguamento di Chana.
Le voci giunsero anche all’orecchio di colui che - ubriaco - l’aveva colpita con il suo coltellaccio.
«È così grave? Davvero è così grave…? È morta…? Sta morendo?», ripeteva ai passanti.
Sconquassato da un duplice rimpianto, uno per la morte della locandiera e l’altro per esserne stato la causa, l’involontario assassino di Chana vagò sconcertato per il villaggio, fin quando non giunse davanti alla forca che era stata montata “in onore” di William Chaloner, un volgare falsario a cui era stato fatale l’aver ingannato perfino la forza di gravità, ovvero il famoso Isaac Newton (lo scienziato dei salotti buoni, ma anche vendicativo agente della massoneria), e infatti dalla forza di gravità sarebbe stato ucciso.
In quel preciso momento l’assassino fu preso da un irrefrenabile impulso: vi salì sopra e strinse da sé il nodo fatale. Quindi azionò la leva della botola e si gettò nel buco con la corda al collo.
La storia non lo ricorda, perché - in fondo - si trattò di un semplice suicidio causato dal rimorso.
In mezzo a questi fatti, intanto, nell’attonita locanda era finalmente cessata l’emorragia che aveva svenato la locandiera.
Chana conservava un flebile respiro, nonostante il tavolaccio sul quale era distesa fosse pregno del suo sangue come il ceppo di un boia.
Superato il momento fatale, lo straniero affidò la bella locandiera al dottore del villaggio, non dimenticando altresì di far portar via il tavolaccio, reclamandolo per sé, quale giusto premio per aver offerto le prime cure alla donna.
Una volta ristabilitasi, Chana lasciò per sempre la locanda di Tyburn, iniziandosi alle arti magiche e divenendo in poco tempo una potente maga.
Anche il tavolaccio lasciò l’Inghilterra, approdando in Italia, forse a Venezia; pare venne usato per prodigiosi esperimenti: se un uomo empio vi sedeva attorno, ebbene sprofondava direttamente all’inferno.
Di questi fatti non rimangono che tracce sottili; e la nostra penna si è incaricata di raccoglierle per voi, viziosi avventori di ogni epoca e luogo.

NON C'È SCAMPO NELLA GIUNGLA

di Salvatore Conte (2024)

Durante il viaggio d’andata erano sembrati quattro amici inseparabili.

Ma adesso che l’oro luccicava davanti a loro, nessun uomo sano di mente avrebbe giurato sulla loro amicizia.

Per arrivarci avevano torturato a sangue un povero vecchio, colpevole soltanto di conoscere l’ubicazione di uno straordinario tesoro, sepolto da secoli nella giungla amazzonica.

Una tipica situazione da film d’avventura, che per loro quattro era divenuta realtà.

«Di lui che ne facciamo?», domandò Bill, alludendo al vecchio.

BANG

BANG

«Ecco cosa…», Fred non perdeva tempo.

L’oro c’era e la strada ormai la conoscevano: il vecchio non serviva più.

Si avventò sul tesoro e lo divise in quattro parti.

«Buttate il ciarpame e riempitevi gli zaini con questo: siamo ricchi!».

Fred - per certi versi - era il capo.

Si avviarono sulla strada del ritorno, ma il buio li sorprese quando la piroga era ancora lontana.

Montarono il campo e accesero un fuoco.

Intorno alle fiamme crepitanti la giungla sembrava mutare forma, proiettando ombre quasi assurde, incoerenti, viscide, come a voler minacciare gli indesiderati ospiti.

Nonostante la piena riuscita dell’impresa, sull’accampamento incombeva un’atmosfera cupa.

Un uccello notturno emanò il suo lugubre richiamo.

«Maledetta...».

«Che ti prende? È solo una civetta, Janet...».

«Già... forse...».

«Fosse pure una pantera, o un qualsiasi guastafeste... abbiamo sempre queste...», Fred allungò la mano sulla mitraglietta. «E tu, quelle...», alludendo alle zinne sbottonate della donna.

In risposta, Janet si umettò il labbro.

Oscura cameriera d'albergo, ma in realtà esperta contrabbandiera, la donna girava con il suo camicione sbottonato aggressivamente fino allo stomaco, anche in piena giungla amazzonica. E nessuno poteva resisterle.

Considerata invincibile, tranquillizzava tutti con la sua mera presenza; era un punto di riferimento.

D'altra parte, avida e torbida di cervello, Janet Frexhen costituiva una pericolosa incognita.

Lo sapevano bene tutti e tre i suoi compagni d’avventura. L’unica differenza tra loro stava nel grado di rischio che erano disposti ad accettare pur di proteggerla e scoparsela: da qualche graffio alla pelle.

Non ci furono inconvenienti fino all’alba e il quartetto poté rimettersi in marcia.

Lo guidava Fred Wallace, il Duro, veterano di Afghanistan e Siria, seguito da Bill Collins, l’Esperto, trafficante d’armi; in terza posizione procedeva Janet Frexhen, la Sbottonata, specializzata in truffe, targeting sessuale e caccia ai tesori; era avida, ma anche attratta dall'ignoto e dall'impresa; per questo c'era ricascata, dopo la brutta esperienza di qualche anno prima: stavolta però s'era tinta i capelli di verde-giungla; chiudeva la fila il Dottor Pablo Gomez, il Dottore, archeologo riconvertito a succube tirapiedi della Frexhen, dopo la predetta avventura in cui si erano drammaticamente conosciuti: all’ultimo posto del gruppetto, poteva godersi in esclusiva il grosso culo da da vacca che la zozza Janet trascinava per la giungla amazzonica con malcelato orgoglio ed esperto incedere.

ZIF

«Fred, hai sentito?», domandò Bill.

Dopo aver alzato gli occhi sul compagno barcollante, non ebbe più bisogno di una risposta: una freccia gli aveva trapassato la gola!

RAT-RAT-RAT

Collins fece partire una raffica alla cieca.

«Che cazzo succede?», era Janet.

«Sparate!», ordinò Bill.

RAT-RAT-RAT

Anche la mitraglietta della Frexhen sputò piombo nel mucchio.

Gomez preferì schiacciarsi contro un albero.

«Ma che cazzo significa, Bill?», ruggì la donna.

«Hanno fottuto Fred: ecco che cazzo significa!».

L’ex militare rantolava a terra. Era una freccia indios, non c’erano molti dubbi.

Soltanto quei selvaggi potevano utilizzare armi tanto primitive.

«Che facciamo?», domandò la Sbottonata, con la fronte imperlata di sudore.

«Se ci fermiamo, siamo perduti: mandiamo avanti Pablo a mitra spianato e noi lo seguiamo, okay?», a bassa voce.

«E perché dovrebbe accettare?».

«Perché glielo chiederai tu…».

«E lo zaino di Fred?».

«Torneremo a prenderlo in seguito, le mani ci servono per sparare».

Janet si rassegnò a malincuore.

«Pablo… Fred è andato; se vai avanti tu, ti copro io: così correrò meno rischi...».

«Okay. Okay».

Bill aveva ragione: Gomez si lanciò in avanti, vomitando piombo all’impazzata.

Collins e la Frexhen lo seguivano appaiati, tenendosi il più possibile bassi.

ZIF

Bill lanciò un’imprecazione. Una freccia gli aveva trapassato la gamba. Doveva fermarsi.

«Aiutami, Janet…!», ma la Frexhen non aveva nemmeno rallentato la corsa, rimanendo alle costole di Pablo.

Si limitò a guardarlo di sfuggita.

«Mi dispiace, Bill, ma non mi servi più…», sussurrò a sé stessa, trattenendo a stento una risata.

La Frexhen, infatti, non aveva alcuna intenzione di lasciarci la pelle e per riuscire nel suo intento doveva rimanere agganciata al suo uomo, perché stavano insieme dalla famosa avventura nella foresta di mogano; anche se lo trattava come un servo, era il suo uomo e avrebbe cercato di riportarla alla piroga.

Tuttavia Collins non la prese bene.

«Maledetta… anche tu… mi seguirai presto…».

Fu anche tentato di spararle addosso, ma aveva necessità di risparmiare piombo.

Mentre correva dietro Pablo, Janet sentì un brivido gelido lungo la schiena.

Ma lo scaltro mignottone non se ne preoccupò più di tanto: aveva l’oro sulle spalle, era quello che contava.

Mitraglietta sottobraccio, era decisa a farsi strada a qualunque costo, anche a costo di spianare l'intera giungla.

Fu Gomez a rendersi conto che il compagno era rimasto indietro: «Dove cazzo è Bill?».

«Si è fatto fregare… ma non possiamo fermarci, lo capisci, vero?».

«Un uomo come lui ci serve, abbiamo già perso Fred.

Stenditi a terra e aspettami qui».

«Tu sei pazzo, Pablo!».

«Non muoverti da lì, Janet…!», era già partito.

Succube sì, ma fino a un certo punto.

Per un attimo fu indecisa sul da farsi.

Pablo le offriva una buona copertura, ma al tempo stesso la stava rallentando.

«Fanculo, idiota…», aveva deciso; e dopo uno sguardo di sfida, riprese a correre lungo lo stretto sentiero che conduceva alla piroga, rimasta ad aspettarli sulle sponde del fiume.

Il tentativo di soccorrere il compagno fu vano: Collins era inchiodato al tronco di un albero con una lancia nel petto. Non c’era più nulla da fare.

Gomez lasciò perdere sia lo zaino con l’oro, sia la uzi dell’Esperto: l’oro che aveva era già abbastanza pesante, e più che il piombo, ormai, soltanto la fortuna poteva salvarli.

Molto più interessante sarebbe stato il suo telefono satellitare, ancora stretto nella mano, ma Bill aveva detto che in quella zona non si riusciva a triangolare il segnale.

Collins doveva aver provato per l'ultima volta...

Il Dottore mollò anche la sua mitraglietta e tornò a correre verso la piroga, sperando di ritrovare subito Janet.

«Dannata stupida…», invece si rese conto che aveva proseguito da sola, e che se non si fosse sbrigato a raggiungerla, l’avrebbe piantato lì.

RAT-RAT-RAT

Era la sua mitraglietta, non aveva molto vantaggio.

RAT-RAT-RAT

La Frexhen correva e sparava, sparava e correva.

Sparare a casaccio non serviva a nulla, ma la faceva sentire più forte.

Ormai non doveva mancare molto.

Le zinne da puttana ballonzolavano su e giù, a stento trattenute dal camicione sbottonato.

Il cinico puttanone sbucò infine, sempre più sudato, in una piccola radura.

Se la ricordava. Era quasi arrivata.

Ormai si sentiva al sicuro. Da un po', intorno a lei, non si udivano tramestii. Forse era uscita dal territorio di quei selvaggi.

Un guizzo di soddisfazione balenò nella giungla, lanciato dai suoi letali occhi verdi.

Appena un secondo più tardi, però, quello sguardo compiaciuto si riempì di sciagurata sorpresa… 

SZOCK

La lancia, dalla devastante punta di ossidiana, si piantò nella sua pancia molle.

Era spuntata come dal nulla.

La sorpresa fu totale, il senso di frustrazione enorme.

«Maledetti!».

RAT-RAT-RAT

Ma non un urlo di dolore uscì dalle sue labbra. Solo un’imprecazione, che si propagò rabbiosa nella giungla, accompagnata da una raffica impazzita.

Leggermente ingobbita in avanti, a denti digrignati - con una mano sull’asta della lancia e l’altra sulla uzi - continuò a sparare a ventaglio, in tutte le direzioni.

E intanto indietreggiava verso un grosso tronco d'albero, che avrebbe potuto offrirle un ultimo riparo.

Più d’una furono le grida che si levarono dal folto della giungla. Qualcuno l'aveva beccato, stavolta. Si erano avvicinati per vederla morire, ma l'avrebbero preceduta all'inferno.

Quanti altri ce n’erano, però, di quei selvaggi, in quel verde opprimente?

Janet non lo sapeva, ma avrebbe voluto ucciderli tutti, prima di crepare.

RAT-RAT-RAT

Sembrava il Generale Custer a Little Bighorn.

Senza scampo, come lui.

Ma decisa a sfruttare qualche vantaggio.

Si accorse di essere ancora viva per un semplice colpo di fortuna: la punta della lancia l'aveva colpita in mezzo alla fibbia metallica della cintura dei pantaloni e questa ne aveva smorzato l'impatto; sebbene dolorosamente avvertita nella carne, non l'aveva uccisa sul colpo.

Forse la cosa si poteva ancora gestire, o perlomeno portare per le lunghe.

Intanto, raggiunto il grosso tronco, scivolò sul fianco, rannicchiandosi il più possibile.

Doveva aspettare il ritorno di Bill e Pablo, e con loro organizzare una sortita per raggiungere la piroga.

ZIF-ZIF

STONK

Un paio di frecce e una lancia si infissero nel tronco dietro cui si era riparata.

In attesa della Cavalleria, riusciva in qualche modo a resistere.

Perché Pablo e Bill, se non erano crepati, sarebbero tornati da lei.

L'avido troione intendeva proseguire a ogni costo, senza rinunciare all’oro, ma si convinse di non poterlo fare con una lancia conficcata nella pancia.

Doveva essere rapida, o l’avrebbero accerchiata e annientata. Gli indios non le avrebbero usato tanti riguardi, come facevano i bianchi, che riusciva a incantare con i suoi camicioni e le zinne da puttana, cedenti e penzolanti.

Senza farsi domande sulle conseguenze, senza darsi il tempo di pensare a cosa andasse incontro, ebbe fretta di svellere l’acuminata punta dal suo addome, contando di riprendere la fuga.

Prima si tirò in piedi, poi sorretta da una forza quasi bestiale, soffocò un grido di dolore e liberazione insieme: la lancia era fuori…!

Si tamponò il ventre con tutto quello che aveva a disposizione, ma ebbe la netta sensazione che pezzi di carne spingessero per uscire.

Tuttavia, se lei era pronta, il trombettiere tardava.

«Pablo! Dove cazzo sei…?».

Gomez era stato rallentato dalle stesse pallottole della Frexhen.

Avevano fischiato molto vicino, e per non incappare nel fuoco amico, era stato costretto ad acquattarsi a terra.

«Sono qui! Non sparare!».

Stava uscendo dal folto della macchia.

«Fa' presto... idiota!».

Corse verso di lei.

«M'hanno beccato... forse sono fatta…», subito l’annuncio. «Se tu... non avessi perso tempo… ora... saremmo alla piroga… dannazione…

Dov'è Bill?».

«Andato...».

Un'occhiata di biasimo in ritorno.

Janet era piegata in due, con le tette praticamente sulle ginocchia, schiacciata dal destino e dallo zaino pieno d'oro. Il peso dell'avidità non faceva sconti alla sua torbida bellezza.

Superata la sorpresa iniziale, Pablo non ebbe dubbi: poco prima, quella lancia insanguinata si trovava nella pancia di Janet…

Era fregata. Proprio lei che scaricava in fretta gli altri e si riteneva invincibile.

Forse si era illusa che, nella peggiore delle ipotesi, gli indios l'avrebbero presa viva.

Ma non era stato così.

«L’oro… almeno… l’hai preso…?».

«Ma che oro... pensiamo a salvare la pelle... Wallace e Collins ci sono già rimasti secchi. Ce l’hai un piano?».

«Sì… ce l’ho…», con gli occhi allucinati che fissavano la sanguinolenta punta di ossidiana. «Non possiamo rimanere qui… raccogli quella lancia... e dammela… tu strappala... dal tronco…».

La guardò con aria sconcertata.

Ma si rassegnò a eseguire gli ordini.

«Andiamo…».

La Frexhen uscì dal riparo, dirigendosi lentamente verso il centro della radura; un braccio a tenersi dentro le budella, l’altro a puntare la lancia contro il nemico.

«Ma che cazzo fai… sei impazzita...?», sussurrò tra sé, quasi incredulo, il Dottore.

Un lampo. E tutto si fece chiaro.

Gomez affiancò la Sbottonata, lancia in resta.

Era l’unica possibilità rimasta, non era affatto pazza.

Ogni popolo, ogni tribù ha le sue regole, i propri codici, matrici culturali, un senso dell’onore. Proprio lui doveva saperlo bene.

L’avevano colpita dopo che aveva usato la mitraglietta, e l’avevano colpita con il loro fucile: la lancia.

Forse avrebbero accettato una sfida completamente alla pari: lancia contro lancia.

Una sfida per l’oro e la vita.

Una sfida lanciata da quella grossa vacca di Janet Frexhen…

Sollecitato da uno sguardo, Pablo aiutò la donna a deporre lo zaino a terra. Poi lui stesso fece altrettanto, trasportando l'oro verso il centro della radura.

La speranza, se speranza poteva dirsi, non andò delusa.

Uscendo dal margine della radura, fecero il loro ingresso in quella sorta di arena verde due perfetti opponenti: un uomo e una donna, armati di lancia.

Lo scontro poteva cominciare; l’intera tribù faceva da cornice.

«Rimani vicino a me… mi libero della selvaggia… e ti do una mano…», la Frexhen sapeva che Pablo non era un gran lottatore; anche lei, in fondo, non lo era; ma la sua stazza, la disperazione di quel momento e il suo istinto bestiale la rendevano una minaccia per chiunque, nonostante l’handicap con cui era costretta a combattere: un braccio stretto sull’addome, per tenersi dentro le budella.

Gomez era già in difficoltà, l’altro sembrava giocare più che combattere.

La Frexhen affondò subito i colpi, ma non riuscì a impensierire la sua avversaria, molto agile ed esperta.

La folla degli indigeni partecipava eccitata allo scontro, dividendosi equamente tra le due squadre: era un pubblico sportivo, per certi versi.

Mano a mano i tifosi di Janet andarono crescendo, specie tra gli uomini della tribù.

Erano ammirati dalla sua resistenza, ben sapendo che era stata già colpita molto duramente.

Il gran mignottone, per stringere i tempi, perché non ce la faceva più, finse di ricorrere a una tecnica suicida: abbassò la guardia ed espose il ventre per invitare l’avversaria ad attaccare.

All'ultimo, però, quando stava per essere infilzata di nuovo nella budella, afferrò la lancia proprio sotto la punta, e allorché l'avversaria cercò di spingere con più forza, aiutandosi con l'altra mano, Janet la colpì con forza al collo - con la propria lancia - uccidendola sul colpo.

La Frexhen appoggiò subito Pablo, che gli serviva vivo.

«Falange...!».

Lei aveva due lance, il Dottore una.

Formarono un tridente e attaccarono l’indios.

Questi fu colto di sorpresa, cercò di indietreggiare, ma finì infilzato sia dalla falange nemica, sia dalle lance amiche che delimitavano l’area dello scontro.

Era finita.

La Frexhen non perse tempo; alzò il braccio a mano aperta, come a sancire la fine delle ostilità.

«Prendi... anche il mio zaino...».

Piegata in due, ma sicura del fatto suo, mosse verso i margini dell’improvvisata arena e subito i guerrieri si allargarono per farla passare.

Rispettavano l’esito dello scontro, il suo coraggio e la sua resistenza.

Gomez la seguiva con gli zaini in spalla.

Era incredibile, ma erano passati.

E la piroga non era lontana.

La potente Sbottonata, animata da una volontà di ferro, non si fermò fino a quando non l’ebbero raggiunta.

Il Dottore l’aiutò a salire, quindi tagliò la corda.

«Allora, bellezza... ti piace la crociera...?».

Ma la Frexhen non era in vena di scherzare. Era impegnata a non farsi esplodere le budella fuori dalla pancia.

«Su... bevi un goccio...

I nostri zaini non ce li tocca più nessuno», sapeva che quella notizia l'avrebbe consolata.

«Fottuti selvaggi… ma io e te... siamo una bella coppia... Pablo… li abbiamo fregati…».

«Tu li hai fregati... devo riconoscere che sei invincibile».

«Dove cazzo... stiamo andando…?».

«Non lo so, hai un piano?».

VROOM

Il rombo di un motore sembrò rispondere al posto della Frexhen. 

Un idrovolante li aveva sorvolati, e dopo aver virato, ora accennava ad ammarare sulle acque del fiume.

Forse Bill Collins era riuscito a contattare i soccorsi prima di crepare.

«Ci hanno visto!

Forse ci cercavano… eppure Bill aveva detto che il satellitare non funzionava...».

«Non hai... ancora capito… che era solo… un bastardo...?».

Ancora una volta dimostrava di avere ragione. E stavano diventando tante.

«D’accordo, d’accordo… hai ragione su tutto… adesso cerca anche di non crepare».

Gomez si portò verso l'idrovolante.

«Il viaggio vi costerà la metà di qualunque cosa abbiate trovato», senza convenevoli, ma con una certa professionalità.

«D'accordo, ma ci vuole un ospedale bene attrezzato alla svelta».

«L'ospedale è troppo lontano... ma più a valle c'è un villaggio indios con stregoni di alto rango: sono gente pacifica e sanno curare praticamente tutto...».

«Ancora meglio, allora. Andiamo lì».

«Fai presto... Pablo...».

«Certo, cara... certo...».

Il grosso mignottone della Frexhen cercava ancora di trovare una via di scampo, e di certo non le mancavano oro e zinne per pagare il conto agli stregoni.

grossO problemA,

brutta soluzione

di Salvatore Conte (2024)

Lo scontro a fuoco imperversava.
Ma la potente Luciana Mendez si considerava intoccabile.

Era famosa, venerata, abbondante.

Il lungo camicione blu, che fungeva anche da gonna, era il suo simbolo caratteristico: i seducenti bottoncini sembravano altrettanti inviti a scoprirla e venerarla.

Spavalda e aggressiva, non sembrava avere limiti, e nessuno finora aveva osato colpirla.

La sua banda si stava scontrando per l'ennesima volta con i desesperados di Fernando, il bandito in concorrenza con lei per il controllo dei traffici nella zona di El Paso.

I cavalli, imbizzarriti a causa degli spari, avevano sollevato una grande nuvola di sabbia.

Fernando la vide sbucare dalla polvere, a pochi passi da lui.

Aveva provato più volte a farla passare dalla sua parte.

Fu tentato di freddarla egli stesso, per vendicarsi dei tanti rifiuti, ma quando la vide incassare un colpo, ben centrato, provò un senso di stupore che gli raggelò il sangue caliente.

Luciana era stata colpita!

Impietrita, abbassò gli occhi arroganti su di sé: un grosso problema calibro 45 - marchiato a sangue sul suo camicione e dolorosamente avvertito nello stomaco - le era clamorosamente piombato addosso…
Rialzò imbufalita lo sguardo per decidere in fretta cosa fare, e incontrò il ghigno beffardo di Fernando...
Era stata imprudente, troppo sicura di sé. Soltanto in questo momento lo capiva. Eppure non era stato Fernando a punirla. Non lo avrebbe mai fatto.
Lungi dall'arrendersi, la Mendez tentò un disperato colpo di coda: avvolta di nuovo dalla nuvola di polvere sollevata dai cavalli imbizzarriti, si lanciò verso El Paso con l'intenzione di raggiungere un dottore prima dell'irreparabile; lo sceriffo era tra i suoi succubi, l'avrebbe coperta.
Era riuscita a sganciarsi, a evitare altri problemi, ma era fuggita come una vigliacca e con ogni probabilità sarebbe rimasta uccisa, nonostante il suo disperato tentativo.

La Mendez cavalcava a spron battutto inseguendo sogni di salvezza, sebbene dovesse vedersela con il suo buco nello stomaco.

In genere questo tipo di ferita non lasciava scampo, però lei voleva provarci lo stesso, raggiungendo in fretta un dottore.

Uno dei suoi uomini, un gringo, un ex cacciatore di taglie di nome Jack Wilker, aveva notato la sua precipitosa ritirata e le stava andando dietro.
La potente Luciana Mendez era piegata in due sulla groppa del cavallo. Quel buco non le lasciava scampo. E una come lei avrebbe dovuto capirlo.
Fu costretta a rallentare l'andatura.
THUD
E alla fine dovette arrendersi, franando a terra con un tonfo sordo.
Strisciò a fatica verso uno sperone di roccia e si tirò seduta contro la costa del masso.
Avevo lo sguardo annebbiato e sangue alla bocca.
In quel mentre sentì arrivare un cavallo.
Rimase ferma, non era in condizioni di reagire e non voleva prendere altro piombo, sarebbe stata la fine.
Il cavallo, per sua fortuna, era quello di Jack Wilker, e sopra c'era lui, uno dei suoi compagni più fidati.
Smontò subito e le fu accanto.
«Luciana...».
«Rimettimi... sul cavallo... devo raggiungere... El Paso...».

«Vuoi salvarti, vero?

Eppure ne hai accompagnati tanti all'inferno... dando loro il colpo di grazia...».

«Sì... tanti... ma io... sono io... e non voglio crepare... io... posso salvarmi...».

«Come vuoi... è giusto. Tu sei tu».
L’uomo la riportò in sella e insieme proseguirono verso la città.
Percorse un paio di miglia, però, la Mendez si disperò con veemenza.
«Dannazione...

Fermati… Jack... fermati...!».
«È meglio proseguire…».
«Fermati…!».
Era decisa.
Voleva scendere.
Jack Wilker fu costretto a fermarsi.

Il pistolero la mise seduta contro una roccia, in una posizione simile a quella in cui l’aveva trovata poco prima.
«Cosa vuoi fare, Luciana?».
«Non lo so... lasciami in pace...».
«Penso che ormai dovresti arrivare a El Paso. Poi si vedrà il da farsi... che ne dici?».
«Non ho chiesto... il tuo parere... idiota...», le piaceva maltrattare i suoi succubi, tanto più che adesso la faceva sentire viva.
«Come vuoi, dannazione. Ma non puoi fregarci così!
I tuoi fedelissimi credono in te. E anch'io...

Non puoi mollarci...», si sciolse il foulard dal collo e lo pressò sul buco allo stomaco, sovrapponendovi le mani della Mendez; quindi si allontanò di qualche passo, voltandole le spalle.
Lei sollevava a fatica il petto, incerta se lasciarsi andare o fare quadrato e tirare avanti.

Pareva riflettere sulle parole di Wilker.

Lo yankee aveva alzato la testa.

Nel frattempo, Fernando cercava di individuare - nella confusione generale - il cadavere della Mendez, sicuro com’era che ci fosse rimasta secca.
Non riusciva, però, ad avvistarlo e di certo non era facile confonderlo.
Qualcuno l’aveva portato via?
Voleva solo rivederla un'ultima volta.
Si chiamò fuori dalla mischia e provò a battere - d'istinto - la pista di El Paso.
Dietro di lui, intanto, si continuava a sparare.

«Jack…».
Wilker fu subito da lei.
«Jack... portami in città… fa' presto…».
La Mendez aveva paura e la paura aveva prevalso sulla rassegnazione.
C’avrebbe provato fino alla fine.

Appena giunto a El Paso, Fernando cominciò a chiedere in giro; ma senza farsi notare troppo, perché non aveva le coperture della Mendez.
L’arrivo in città della famosa bandita non era certo passato inosservato.
Il bandito si diresse dal segaossa.

Non poteva credere che fosse ancora viva.
Si portò sul retro e osservò di nascosto dalle finestre.
Benché freddo come un serpente e avvezzo a ogni sorta di crimine, non poté evitare un salto al cuore quando la vide: era distesa sul letto, il volto pallido, sgomento, la bocca semiaperta in un'espressione di rassegnata attesa, una mano sulla pancia, l'altra serrata sul lenzuolo.

La Mendez era tirata allo spasimo e sul punto di arrendersi.

Ma ancora viva.
Al capezzale della potente pistolera c’era uno dei suoi compagni, l’aveva riconosciuto.
Il dottore invece non si vedeva: probabilmente l’aveva già visitata.
Fernando decise di non perdere altro tempo.
Girò intorno allo stabile, varcò indisturbato l’ingresso e fece capolino nella camera che ospitava la Mendez.
«Come sta la malata? Un’indigestione di piombo...?», sghignazzò con la colt spianata. «Luciana...! Una strega come te che si mette nelle mani di un segaossa?!», e scoppiò in una fragorosa risata.
Wilker era allibito.
La Mendez, invece, a dispetto della sua condizione, reagì subito.
«Fernando... maldito... sto morendo...», provò a commuoverlo, cercando di evitare una cattiva medicina per la sua brutta malattia.
«Getta la pistola, molto lentamente... e spostati!», ringhiò Fernando all’indirizzo di Wilker, sventagliandogli contro la colt. «Voglio vedere come sta la bella Luciana: ho sempre avuto un debole per lei…».
L'ex bounty-killer, non avendo scelta, si fece da parte.
«Mi hai fottuto... Fernando… sei venuto... a finire... il lavoro...?».

«E perché mai? Non sono stato io a spararti.

Anzi, volevo scusarmi con te… da parte dei miei uomini... di solito non sparano alle belle donne… ma sai com'è… con una come te è meglio sparare per primi…», e rise ancora, prima di farsi terribilmente serio. «Ti ha visto il segaossa? Che ti ha detto?».
«Ha detto... ha detto che… che...», l'indugio della Mendez sembrava quasi un segnale, o almeno tale sembrò a Wilker, il quale con uno scatto improvviso afferrò il braccio con cui il messicano impugnava la pistola, cercando di disarmarlo.
BANG
Era partito un colpo in aria.
I due si contesero il controllo della pistola, lottando strenuamente.
BANG
Era partito un colpo ad altezza uomo.
Per qualche attimo i due proseguirono nella lotta.
Poi, improvvisamente, si fermarono.
Finalmente avevano notato che la Mendez si era irrigidita, con gli occhi fuori dalle orbite…
In realtà, infatti, era partito un colpo ad altezza donna... che l’aveva raggiunta al fianco…
La faccia della Mendez era impietrita e guardava il soffitto...
«Bastardo di un gringo! Guarda che hai fatto!», imprecò il messicano.
«Poteva ancora farcela, porco!», ribatté Wilker.
«M...a...l...e...d...e...t...t...i... i...d...i...o...t...i...», con voce oltretombale e gli ultimi sospiri, ormai poteva sbattergli in faccia cosa pensasse di loro.

La pistola tanto contesa saltò via dalla mano di entrambi.
«Hai ragione, Luciana. Hai ragione...», assentì servilmente Wilker.
«Imbecille, dove diavolo è il dottore? Non è una maledetta infermeria?
Su, Luciana... su, bella... su! Non fare scherzi…», Fernando si era piegato sulla Mendez, dimentico perfino delle pistole rimaste a terra.
In quel momento il dottore si affacciò nella camera: gli spari lo avevano richiamato.
«Che succede? Chi ha sparato? Che avete fatto?».
Fernando indicò con un paio di dita il nuovo buco di Luciana Mendez, sul fianco.
Il dottore trasalì.
«Questa donna ha bisogno di cure, non di piombo!
Fuori di qui, subito!», urlò isterico, senza rendersi conto del pericolo a cui si esponeva.
Fernando, tuttavia, non ci pensava proprio ad andarsene.

Si limitò a scalare ai piedi del letto, afferrando la Mendez per gli stivali: «Su, bella, su! Su che il dottore adesso fa qualcosa per te...».
Il bandito sembrava davvero speranzoso e cercava di contagiare la potente pistolera, che da parte sua rimaneva impietrita, con gli occhi fuori dalle orbite, rabbiosa, spaventata, ma anche incredula di sentirsi ancora viva, nonostante il colpo di grazia appena ricevuto.
Il dottore si limitò a fornirle qualche palliativo, e quando ebbe finito, tornò verso la porta scuotendo la testa: «Se dovete parlarle, fate presto».

La Mendez era una statua di cera, pallida e immobile.

Ormai impotente, aspettava terrorizzata il momento culminante della sua tragedia, cercando di avvertirlo con un attimo di anticipo, forse per tentare un'ultima, disperata resistenza.

Ci aveva preso gusto a lottare, e voleva farlo fino alla fine, anche se condannata a morte, come dovesse penzolare dalla forca per i suoi tanti crimini.
I due nemici si strinsero al capezzale della Mendez, uno di fianco all'altro. Tra loro era insorta una tacita tregua.
La pistolera morente colava sangue da entrambi i lati della bocca.

Non era in grado di parlare, ma dal suo sguardo, carico d'odio, capirono molte cose.

Ce l'aveva anche con Wilker, reo di aver interferito nonostante avesse ormai indotto Fernando a non infierire su di lei.

Con ogni probabilità sarebbe rimasta uccisa lo stesso, ma la seconda pallottola aveva chiuso ogni discorso.
La carriera criminale di Luciana Mendez - la pistolera messicana famosa per il suo camicione blu dai tanti bottoni - era giunta al tramonto.
«È una donna di ferro, riuscirà a reggere anche la seconda pallottola…», pazzesco, forse, ma Wilker ci credeva ancora.
«È più sicuro se l’aiutiamo. E ci vuole qualcuno delle mie parti.

Ti propongo una tregua, gringo: il tempo di dare una mano alla nostra Luciana. Poi torneremo a spararci. Ci stai?».
«Che cosa vorresti fare?».
«Vai di corsa al Saloon della Pantera: il vecchio Pablo è richiesto con urgenza dal suo più grande amico, con tutto il necessario.
Vai... corri!».
«Perché dovrei fidarmi, cane messicano...».
«F...a...l...l...o…», intervenne la pistolera, con voce oltretombale, occhi sbarrati e bocca spalancata.

«Subito, Luciana».
Rimasto solo con la Mendez, Fernando si sollazzò con le mani sul seno di lei.
«Speri ancora di farcela, vero? Dimmi la verità…».
«O...h...h...», un lamento tutto da interpretare, da parte della potente pistolera.
Ma il bandito, in fondo, doveva aver ragione.
«Avanti, ammettilo...

È diventata dura, ma tu ci speri ancora...».
La Mendez era sul punto di crollare. La situazione poteva precipitare da un momento all'altro.
Ansimava e sperava insieme, con tutta la forza che le rimaneva, pallida della morte incombente.

Finalmente arrivò Pablo.
L’infermeria era un valido tetto.
Ma del segaossa era meglio non fidarsi.
Forse era in società con il becchino di El Paso. Di sicuro gli portava molta occupazione.
Per il vecchio Pablo ci fu un grosso lavoro da fare.
Doveva rivedere da capo una brutta soluzione a un grosso problema.
Non capiva nulla di aritmetica, e neanche di medicina dei bianchi, ed era quasi analfabeta; ma conosceva bene altre cose di vitale importanza.
E alla fine, di tanta ignoranza, se ne andò giovando la potente pistolera Luciana Mendez: occhi sbarrati al soffitto, in disperata attesa di una buona soluzione ai fatali problemi che l'avevano stroncata.

Una mano in quella di Fernando, l'altra in quella di Jack, ogni respiro una battaglia, le ultime bolle d'aria più preziose dell'oro stesso.

La Mendez aspettava paziente che il vecchio brujo rimettesse le cose a posto nella sua vita, per cavalcare ancora a lungo.

LA SEGRETARIA FA TARDI IN UFFICIO

di Salvatore Conte (2017-2020)

L’ha assunta l’anno scorso per addolcire i clienti che aspettano, che hanno troppa fretta di andarsene, o che addirittura vorrebbero revocare l'incarico.

«Non prende un caffè, prima di andare via, Mr. Jones?».

«Perché no...».

E si struscia addosso, grassa e pesante, nel porgere la tazza.

Il seguito è prevedibile. Fioccano gli appuntamenti extra; con relativi anelli e proposte di matrimonio.

Non sa fare praticamente nulla, ma cercava lavoro, perché di contributi per andare in pensione ne ha pochi, e a lui comunque - all'avvocato - va bene così.
Talvolta i clienti si stupiscono che l'attempata segretaria di uno stimato studio legale tenga la camicetta un po' troppo allentata, ma alla fine nessuno se ne lamenta, e così la storia va avanti.

Anche questo pomeriggio, profittando dell'aria condizionata, indossa una camicetta a quadrettini rosa quarzo - a bottoni grigi come i suoi capelli - lasciando bella scoperta la spaccatura dei seni, come se un bottone di troppo si fosse allentato per sbaglio.

Insomma il bottone critico è sempre pronto a cedere, all'occorrenza (un cliente insoddisfatto o troppo nervoso, una sentenza sfavorevole).
A parte il ruolo da civetta che sa interpretare a meraviglia, è una bella signora più che matura, intorno ai 55, ma in carne e ben tenuta.
Solida e sensuale, incarna bene lo spirito della donna che non passa mai di moda, con la promessa implicita di approcciare la sessantina in buone condizioni, quasi da immortale.

Ha strappato, infatti, un contratto quinquennale.
Anna Frazer sa tutto sul motivo per cui è stata assunta, ma poco sul suo datore di lavoro.
È un avvocato che nuota in acque sporche; e questa sera lo scoprirà a proprie spese.

FLOP
FLOP
La causa non andava bene, il cliente non era soddisfatto, e stasera gli ha revocato l’incarico, con liquidazione immediata.

Però, avendo agito a volto scoperto, il cliente non può lasciare testimoni.
È l’ultimo appuntamento della giornata. In studio c’è solo la segretaria.
Se ne sta seduta a rifarsi le unghie sul suo sgabello girevole, uno di quelli con braccioli stilizzati e schienale esiguo.
«Deve tornare, signore?».

«Non credo proprio».
Di fronte a quel tono brusco, si rassetta la camicetta, tirando su il petto cadente.
Il suo compito è infatti quello di addolcire i clienti un po’ troppo nervosi.
«Ho pagato direttamente all’avvocato, signora, se è questo che la preoccupa».
«Ma no, si figuri, sarà un peccato non averla più a studio».
«Anche per me non vederla più…».

«A me può vedermi ancora, se vuole...».

«Sì, all'obitorio, forse...».

«Come... come dice...».
La delusione di aver fatto cilecca rende ancora più gelida l’apparizione di quel macabro silenziatore...
«No! Ma che fa? Scherza?!».

FLOP
FLOP

No, non scherza.

Le ha sparato in corpo due volte!

Un colpo allo stomaco (!), l'altro al petto!

La segretaria è scossa da un doppio sussulto, si inalbera sullo sgabello inarcando la schiena all’indietro, con le braccia aperte che ricadono molli.
Lo schienale sembra sul punto di cedere.
Ma la Frazer rimane in precario equilibrio, con due grossi buchi sanguinolenti sulla camicetta rosa.
L’espressione esterrefatta, la bocca spalancata, con un rivolo di sangue che le cola dal labbro.
Singhiozza ancora, ma è in fin di vita.

Più tosta dell’avvocato, comunque.

La Frazer è agli sgoccioli, il colpo di grazia è superfluo.

Combatte con gli occhi in fuori e il panico la uccide ancor prima delle pallottole: l'aria non arriva più, boccheggia, e alla fine manda un gemito aspirato, si contrae tutta e rimane impalata sullo sgabello, a schiena tesa.
L'ex cliente se la guarda stupito.

Incredibile come certe donne non si arrendano mai.

No, il colpo di grazia è diventato superfluo.

Non ci saranno testimoni.
Sempre costoso comprarli.

Il cellulare della Frazer comincia a squillare.
Il suo boyfriend la cerca.
Qualche volta fa tardi, è vero, ma stavolta sta esagerando.
La vecchia stronza non risponde.
Sospetta una tresca, come tutti i boyfriend gelosi della loro mamma.
Andrà sul posto a verificare. Le ha fatto un mucchio di regali, pretende una ragionevole esclusiva, o quantomeno una puttanaggine non troppo scoperta.
Ma sul posto arriva prima qualcun altro.
Sono in due e stavano aspettando l'avvocato.
Anche se nessuno risponde, forzano la serratura e irrompono.
«La vecchia puttana è ancora viva».

Anna Frazer tira un sospiro di sollievo: neanche lei si credeva viva; aggrappata agli ultimi, soffocati respiri, temeva di essere già morta.
«Falla parlare, presto».
«Avanti… voglio sapere chi è stato…», l’afferra bruscamente per il bavero della camicetta. «Su bella, parla…
Non ce la fa, è fottuta».
«Portiamola con noi, allora. Deve parlare per forza.
Il dottor Stork la farà vivere un altro po'...».
C’era la fila, insomma, per fare la festa all’avvocato.
Doveva averla combinata davvero grossa.
E la sua bella segretaria c’è andata di mezzo.

«Non voglio morire...», ha ripreso coraggio, vuole provarci.

«Okay, okay... ma non farti illusioni, bellezza».

«Questa è una che non molla... è ancora un pezzo di donna...».

«Sarà anche vero, ma non siamo qui per giocare».

Esce la sua foto sui giornali e diventa famosa.
È sempre una bella donna, infatti; il mestiere di segretaria le stava stretto.
Ma se sapessero che Anna Frazer si ritrova con due palle in corpo, la foto sarebbe accompagnata da un necrologio.
Sanno che è ferita - perché il sangue sullo sgabello non mente - ma non quanto gravemente.
E non sanno nemmeno perché sia stata rapita, o perché il corpo sia sparito.
«E ora che ne facciamo?».
La segretaria ha parlato, ha descritto l’assassino.
«La portiamo in discarica e la mischiamo ai rifiuti organici».
«Stork ci ha chiesto di lasciargliela».
«E perché dovremmo farlo?».
«Perché altrimenti dovremo pagargli la parcella: 25.000 dollari».
«Così tanto…?!».
«C’è la reperibilità, l’urgenza, l’obbligo di riservatezza, il costo della ricerca, quello della sperimentazione, etc. etc.».
«Sì, hai ragione, dovevamo aspettarcelo.

In ogni caso adesso sappiamo chi l’ha fottuto prima che lo facessimo noi.
Lasciagli la puttana e andiamocene».
«Cosa se ne farà, secondo te?».
«Lo sai che fa molti esperimenti strani, no?».

«Io penso che ci farà qualcosa di molto semplice e tradizionale...».
Il dottor Stork, come tanti altri scienziati che si dissociano dalle multinazionali della medicina, è stato radiato dall’albo.
La medicina ufficiale si occupa dell'invenzione di nuove malattie e della prevenzione dalle cure.
Lui studia la cura migliore e la applica.
Il sistema lo colpisce duro da una parte e lo tollera bene dall’altra, nel consumato gioco delle apparenze tipico della società moderna.
Gli vieta di svolgere ufficialmente l’attività medica, ma al contempo gli permette di metter su uno studio molto privato, ove trattare pazienti estremi, spiando le sue tecniche sperimentali, per poi potersene appropriare quando verrà comodo, o per applicarle intanto ai propri sodali.
Di tutto questo sta ora beneficiando Anna Frazer.
Bruciata da due brutte pallottole, sparate con cattiveria da distanza ravvicinata, è ancora in grado di respirare grazie alle tecniche estreme di Stork.
La sua situazione rimane critica, ma almeno riesce a tirare avanti; e pare che la cosa la interessi molto.
«È finita… vero…? Mi dica la verità...».
Quando la stacca dal respiratore artificiale è la sua domanda preferita.
«Le ho già detto che il mio compito non è prevedere, ma agire, signora...».
Però deve impegnarsi anche lei, perché le cure sono niente, senza il contributo del malato.
La prima medicina è la volontà di non mollare. E in pochi ce l’hanno.
Sembra che cercare di sopravvivere sia quasi un’onta nella nostra società.
E molti pazienti hanno assorbito nella loro psiche questo pregiudizio».
«Io non ce l’ho… io voglio salvarmi… rivedere il mio ragazzo...».

«Questa è una buona cosa, signora.

Ma dovrà dimostrarla con i fatti.

E cioè... vivendo».
«Ci conti...».
«Bene. Io e lei andremo d’accordo.

Ma non voglio sentirla piagnucolare, se le cose volgeranno al peggio».
«Lei... però... mi aiuterà… vero…».
«Non sono onnipotente, signora. Sono uno scienziato, non un dio.
Adesso la riattacco alla macchina dell’ossigeno.
Gli dei talvolta sono pigri, meglio non farli faticare troppo».
«Solo un attimo...», ha una richiesta. «Prima di crepare… vorrei rivedere… il mio ragazzo…».
«Forse si può fare. Mi dia i dati.
Gli ricorderà lei stessa che non dovrà parlarne con nessuno».
«Certo… è un ragazzo in gamba…».

La Frazer fa in tempo a rivederlo.
«Emiliano… ci sto provando… ma non allontanarti… perché mi sento strana…».
«Rimango qui finché serve, coraggio…
Te l’avevo detto, però, che quell’avvocato t’avrebbe rovinato…

Me lo sentivo... era un dannato bastardo».
«Emiliano…», la segretaria è molto tirata.
«Anna… se non ti senti bene, vado a chiamare il capoccione».
«Emiliano… mi sento... così strana…», è molto tirata e spaventata.
«Lo vado a chiamare…».
«No… non può fare altro… dipende da me... ho paura… Emiliano…».
«Parla, Anna... sfogati...».
«Quello... ha sparato... per uccidermi... lo capisci...», spaventata dalla logica delle sue stesse parole.
«Non voleva testimoni.

Voleva freddarti, ma non c'è riuscito».

«No... poteva infierire... ma non l'ha fatto...», la ricostruzione è lucida.

«Che intendi dire? Spiegati...».
«Emiliano... la mia camicetta... è servita a qualcosa... se sono viva... lo devo a lei...», alza gli occhi sull'indumento imbrattato di sangue, appeso sulla sedia a fianco come un totem.
«Forse hai ragione... il killer ha avuto un attimo di esitazione, si è persuaso che tu fossi rimasta uccisa, ma nel suo inconscio ha sperato che tu non fossi...».

«Emiliano...!», lo chiama affannata, disperata...

Il petto - un attimo dopo - va giù pesante, la bocca rimane spalancata, gli occhi si fanno vitrei...

«Dottor Stork, presto!», grida a gran voce il ragazzo di Anna Frazer.

La segretaria fa tardi anche dal dottore.

ZOTHIQUE:

BoCHRA È RIMASTA UCCISA

di Clark Ashton Smith e Salvatore Conte (1926-2024)

La banda di balordi assassini è composta da Ylgoth, Zorok e Bochra.
A Ummaos svolgono missioni sporche per funzionari di Corte e negromanti. In questa occasione devono eliminare un oppositore politico simulando una rapina.

Bochra ha il compito di distrarre la vittima. È una vecchia baldracca, ma le sue zinne e la pancia gonfia e morbida fanno ancora impazzire mezza Ummaos.
È famosa a Zothique come la Vacca di Xylac, per la sua prestanza e quel sorriso allegro e bovino sempre stampato sulla faccia, che le serve a dissimulare l'oscuro carisma.

Sulla sua età vi sono credenze discordanti: c'è chi la ritiene una cinquantasoli, imbolsita dalla sua vita infame e consumata dalla magia nera; e chi - al contrario - una centosoli, mantenuta prestante dalla stessa magia nera e dagli amici negromanti.

Forse la verità è nel mezzo.

In ogni caso, prima di farsi troppo decrepita, vuole inserirsi a tutti i costi nella lotta per il potere. Ormai ha capito che solo questo conta, e facendo leva sull'abbondante carne - segno di somma potenza a Zothique - intende arrivarci e rimanerci.

È sicura di potersi gestire, di tenere sotto controllo i soli sulla fronte e di non essere finita, nonostante la feroce concorrenza delle giovani puttanelle di Ummaos.
Gli altri due usciranno dall’ombra e gli chiederanno la borsa. Ma non gli daranno il tempo di decidere: lo colpiranno comunque.
L’importante è che dalle finestre intorno qualcuno senta.
«Ehi, bell’uomo… sei fortunato stasera…
Lo sai chi sono, no? Sono la famosa Bochra…».
Indossa il suo caratteristico camicione, di un particolare tessuto molto resistente, sbottonato fino allo stomaco: le famose zinne si intuiscono dalla forma che scolpiscono, la pancia
è gonfia, l'insieme massiccio.

La Vacca di Xylac sa di essere ancora piacente, le sue ambizioni non sono campate in aria.
La mignottona lo distrae come convenuto, strofinandosi languida su di lui da vecchia bagascia, per irretirlo al massimo grado.

«Ammazza quanto sei bona…», la vittima designata ci casca subito.
«E tu un uomo morto, se non molli subito la borsa!», i tagliagole sono entrati in azione, Ylgoth ha parlato a voce alta, coltellaccio seghettato alla mano.
Ma non gli dà il tempo di rispondere, perché affonda subito il colpo!
SZOCK

«Bochra!», esclama, basito.
La vittima designata ha fulmineamente interposto il corpo della grossa prostituta tra sé e la lama arrugginita!
Bochra viene trafitta dal coltellaccio che avrebbe dovuto uccidere l’oppositore!

«Io... non volevo...», balbetta Ylgoth.
Stordito, l'assassino si riprende d'istinto l'arma.

Ma così facendo... Bochra viene sbudellata!

L’effetto sorpresa è finito, i due se la battono.

La grossa puttana si appoggia di spalla a una parete e scivola lentamente sulle ginocchia, con le mani che cercano febbrilmente di tenere insieme le budella.
«Bastardo... sei stato tu...

Bochra... rimarrà uccisa…», la bava alla bocca, gli occhi sgranati, un pallore funereo che la sbianca come uno spettro.
«Sono stati i tuoi amici ad aprirti la pancia, bellezza...», la vittima corregge il tiro.
«Lo so... ma non voglio morire… diventerò tua...», la potente Bochra fa rivedere il suo sorriso languido, la lamia di Ummaos prova a rimanere in gioco.
«AIUTO! CHIAMATE UN CARNEFICE! UNA DONNA È STATA ACCOLTELLATA!
Tra poco arriverà qualcuno», si piega accanto a lei, mettendo una mano sulle sue, pressate sul ventre.
«Non una donna… ma Bochra…».

Anche se sbudellata, se la tira sempre parecchio.

Ma non ha torto.

Arriva qualcuno.
Bochra viene portata via in barella.

Ma con un braccio tragicamente a penzoloni nel vuoto...!

Tutti la riconoscono mentre transita per le vie della città con il sorriso sbiadito e gli occhi lucidi di lacrime.
La vittima designata è accusata di aver ucciso la famosa bagascia.
Le guardie cercano l’arma del delitto, di sicuro occultata o passata a un complice.
«Ma davvero pensate che me ne sarei rimasto qui, buono e tranquillo, se l’avessi uccisa io?

Era ancora viva quando è arrivata la barella! Io stesso ho chiamato aiuto!

Provate a interrogare chi abita qui: sono stato aggredito da due banditi!

E quella donna... era loro complice!».
Tuttavia nessuno conferma, nessuno ha sentito niente.
Non è stato ucciso in una rapina finita male; verrà, però, giustiziato per omicidio.

Appena dilaga la notizia che Bochra è stata accoltellata a morte, diversi funzionari accorrono al suo capezzale, presto seguiti da eccitati negromanti.

C'è un certo rispetto nei confronti della vecchia bagascia, ma anche timore: potrebbe confessare qualcuno dei suoi tanti delitti e tirare in ballo i suoi mandanti, prima di crepare.
Serpeggiano le recriminazioni.
«Come è stato possibile?», domanda uno di loro, irritato.
«Che vuoi? Si sapeva che sarebbe finita male, prima o poi…», risponde un altro.
La vibrante notizia continua a divampare, a incendiare Ummaos: ormai tutti sanno che Bochra - la famosa puttana coinvolta in tanti scandali - è rimasta uccisa; si è fatta sorprendere da uno spietato assassino, che ha infierito su di lei; si tratta di un oppositore del Re, che ha perso la testa per la famosa prostituta.
Il panico dilaga nella capitale di Xylac.

Bochra è ritenuta un mostro sacro, un totem; pur accusata di frodi e omicidi, è sempre uscita pulita dalle inchieste a suo carico.

«Le puttane… fanno… gnhh... questa fine…», ammette lei stessa, tremando, rivolta ai funzionari riuniti intorno a lei. «Io… non parlo... non so niente... gnhh...», ha paura che le tappino la bocca.

La Vacca di Xylac cerca di suscitare rimpianto, gonfiando le zinne, sotto il camicione.

«Io... io... non voglio... gnhh... gnhh... non... voglio... morire...», avvisa tutti, a stento di equivoci, intimorita dalla presenza dei negromanti; Bochra si spreme a fondo, lusingata da tanta attenzione, dall'ansia che turba i volti intorno a lei; la sua stazza e la sua possanza sono tali che, pur orrendamente sbudellata, riesce ancora a differire la fine.

La grossa puttana morente suda freddo, protraendo la sua disperata agonia; è un'amante della vita e della morte, e lo rimane fino in fondo.
«Devi dire che sei stata uccisa da lui, da Rupert, capito, Bochra?».
«Tra poco verrà il giudice. Non creare problemi».
La sorte di Bochra è segnata.
Nonostante la prestanza fisica e la patetica voglia di vivere, il coltellaccio seghettato - estratto in tutta fretta da Ylgoth - le ha maciullato gli intestini; la realtà è questa.
Per poco non sviene quando rende la sua testimonianza al giudice inquisitore. Respira male, il petto, sempre più pesante, non si alza più. Le è rimasta soltanto la forza della disperazione.
Rupert viene condannato a morte per l’omicidio della famosa prostituta.
Bochra, in realtà, viene trasferita in segreto a Corte, in fin di vita, per essere vegliata dai funzionari.
Si attende solo la sua fine, quando improvvisa divampa la protesta della folla, che pretende di ottenere il corpo della vecchia puttana, affinché venga rianimato dai negromanti della città, così da riaverlo in circolazione.
Alla rivolta si associano svariati gruppi politici.
Rupert viene liberato insieme ad altri prigionieri.
Ylgoth e Zorok catturati e fatti confessare. E impalati.
Bochra viene consegnata alla folla, nel tentativo di sedare gli animi.
Trasportata ormai cadavere fino a casa sua, si cerca di indurla ad accettare la rianimazione negromantica. Lei, però, non è convinta di crepare subito. Col suo fisico prestante vuole guadagnare altro tempo.
Per qualcuno, se pure dovesse sopravvivere, sarebbe da impalare, perché accusata - da Ylgoth e Zorok - di vari omicidi.

«Sta per morire, che importanza ha?».
«Vogliamo sapere la verità».
Bochra è messa di fronte al suo passato. Se confessa, si gioca le ultime possibilità di raggiungere la salvezza.
«Io… io… sono una puttana… gnhh... ma… ma... ghnn... non ho… mai… ucciso…», un accenno di sorriso bovino, dalla bocca aperta, disperata, che succhia aria a fatica, mentre il petto da mignottona, pesante come un macigno, è affossato sul ventre da vacca.

«Lasciatela in pace! Non vedete che è solo una vecchia disperata, con una paura fottuta di morire?».
In molti intuiscono che è solo una mezza verità, ma la grossa puttana ormai fa pena: è in fin di vita e non si salverà.
Tutti sanno ormai a Ummaos che Bochra è rimasta uccisa per mano di Ylgoth, un miserabile tagliagole degno di lei, in una rapina finita male (per loro).
L’arma del delitto, un coltellaccio seghettato, è stata rinvenuta ancora insanguinata, con brani di carne tratti dal ventre molle della famosa prostituta di Xylac.

La grossa puttana, però, impaurita dalla fine, convinta di dover fare qualcosa, non ha accettato subito la sorte e ha fatto appello a clienti e amici, affinché consumassero con lei la sua stessa agonia, circondandola di affetto e attenzione.
Intanto il coltellaccio ricurvo di Ylgoth viene esibito pubblicamente come l’arma che ha ucciso Bochra!

Da squallido oggetto arrugginito che era, adesso vale una fortuna!

Le condizioni della famosa prostituta sono tenute sotto costante controllo.
L’attesa è ossessiva.
Quando le manca il respiro, i presenti mandano un grido d’allarme.
Da fuori il grido viene rilanciato in tutta la città.
Quando invece riprende il controllo, i presenti gridano: ««BOCHRA!!»».
Il sacro nome viene ripetuto fino alle mura esterne.
Dopo aver respinto l'assalto delle giovani puttanelle di Ummaos, ha respinto le accuse di omicidio e ha respinto la morte assistita.

E ora sta cercando di prendere altro tempo.
Solo i più fortunati possono vederla mentre tira le cuoia.
Già in un paio di occasioni si è diffusa la notizia della sua morte, poi smentita.
Il momento di Bochra non è ancora arrivato.
La Vacca di Xylac è molto prestante.
Anche se il flaccido petto è praticamente immobile, e lei bianca e tirata come un cencio spiegazzato, i freni sono tirati al massimo e la famosa prostituta sta mortalmente attenta a non vomitare la sua immonda sostanza, concedendo di tanto in tanto un'ombra del suo sorriso bovino.

In certi momenti sembra deglutire un rospo, mentre un doppio rivolo di sangue schizza fuori dai lati della bocca.
Basterebbe un niente per far crollare l’ultima difesa dietro cui si è arroccata.
L’attuale fragilità contrasta con l’immagine del suo corpo prestante.
Non la muovono, non la toccano, non le parlano: Bochra sta per morire!
C’è viva apprensione e sofferenza nelle strade.
La gioia per aver defenestrato la Corte di Ummaos è rovinata dalla tragica fine della grossa puttana.
Al suo capezzale giunge lo stesso Rupert.
«Mi dispiace, Bochra. Ma anche tu eri complice del vecchio regime».
La grossa puttana vorrebbe rispondere, forse, ma non ci riesce: balbetta e basta.
«No… nhh… vo... cre...p…».
«Non vuoi crepare, Bochra?».
Annuisce debolmente, come una demente.
«È la stessa cosa che mi hai detto quando ti hanno ucciso.

Ricordi, però, cos'altro mi hai detto?».
Aggiunge una mano alle sue, che non si staccano dal ventre sbudellato.

«Sto prendendo il potere. Se riesci a non crepare, sarai Regina», le sussurra all'orecchio.

Gli occhi della grossa puttana morente brillano di nuova luce.

«Bochra balbetta ancora e dice: “Non voglio crepare!”.

Ma è morta, è finita, sono le sue ultime parole!», i giovani strillano per le strade, eccitati e sgomenti al tempo stesso.
Intanto a Zothique lo sanno tutti: Bochra, la Vacca di Xylac, è rimasta uccisa!

Proprio nel momento in cui una Regina-Puttana sale sul trono.