di Salvatore Conte (2024)
Il coniglio nero... ho capito troppo tardi che aveva fatto la sua tana vicino alla mia casa per mettermi in guardia da tutto quello che poi mi sarebbe accaduto: come gli antichi traevano presagi dal volo degli uccelli, io dovevo riconoscere in lui il mio segno premonitore, il mio inequivocabile presagio.
Si è scavato una buca nel fosso che divide il mio vialetto dalla strada mortale: la chiamano così da anni perché ha ammazzato di tutto, dagli uomini agli animali, a chissà cos’altro.
A parte lui, il coniglio nero, che anzi sembra farsi beffe delle auto e dei pericoli, correndo apposta lungo il bordo della morte, sempre in veloce equilibrio.
Lo vedo quasi ogni mattina, come un morto resuscita da sotto terra e resta immobile davanti a me, fissandomi, con quegli orecchi lunghi che lo fanno assomigliare al Joker delle carte: un Joker nero, dal ghigno altrettanto demoniaco, che avrebbe, però, potuto essere la mia salvezza.
Se solo avessi saputo pescarlo dal mazzo.
Tutto ha avuto inizio alcuni giorni fa.
Percorrendo il vialetto di casa che come detto mi porta sulla strada mortale, dove ogni mattina aspetto l’autobus nella speranza che qualche carambola d’auto non coinvolga anche me, vedo il coniglio nero fermo sopra un oggetto che da lontano identifico come un pezzo di cartone o qualcosa di simile.
Resta immobile per qualche secondo e poi corre veloce verso la strada per scomparire nella sua buca evitando anche questa volta d’essere ucciso.
Sorrido davanti alla sua furbizia e pensando quanto lo sia più lui, furbo, rispetto a tutti i miei colleghi d’ufficio che sto per incontrare anche stamattina.
Passa il bus. È stato puntuale.
La scena si ripete dopo due giorni. Il solito coniglio nero che compie i soliti gesti: corre, si ferma sopra quella specie di cartone che è rimasto sempre nello stesso punto, mi fissa e poi ricomincia a correre per sparire nella sua buca. E salvarsi per l’ennesima volta.
A questo punto, incuriosito da quel cartone immobile al vento e alla pioggia, e da come faccia a essere ancora lì, esattamente nella stessa posizione, nonostante siano passati diversi giorni dalla prima volta che il coniglio me l’ha fatto notare, decido di andare a ispezionare per vedere meglio di cosa si tratti.
Mi avvicino e chinandomi vedo che non è un cartone ma un pezzo rettangolare di compensato, con una foto di donna appiccicata sopra che lo fa sembrare una specie di ritratto.
Un sasso messo sopra lo tiene fermo, e questo spiega perché possa trovarsi ancora lì.
La foto è in bianco e nero, e ritrae una donna mora con i capelli che le coprono un occhio, e lo sguardo enigmatico, quasi misterioso, anche a metà.
Una bella donna, indubbiamente. Le labbra che invitano a un bacio bollente.
La prendo e la infilo nella borsa e vado alla fermata del bus.
Passerà però con quarantacinque minuti di ritardo a causa di un incidente mortale avvenuto qualche chilometro prima lungo - sempre - questa strada maledetta.
Più tardi, in ufficio, un mio collega appassionato di numerologia e di smorfia, mi dirà che il numero quarantacinque è il numero associato al coniglio nero.
La notte sogno di conigli neri e demoniaci che si accoppiano con la donna della foto in orge infernali, attorniati da gruppi di figure diaboliche che ballano sabba e compiono rituali, mentre sopra una pietra sacrificale vedo me stesso.
Mi sveglio urlando solamente dopo avere avvertito il contatto così reale e freddo con la lama di pietra che stava per squarciarmi il petto.
Decido di non andare al lavoro, oggi in ufficio sopravvivranno anche senza di me: non sarà poi così difficile, essendo già morti da anni senza che lo sappiano.
Scendo in cucina e mi verso un caffè, scende nero nella tazza come a formare la sagoma del coniglio, e anche se è bollente lo bevo lo stesso alla svelta, per svegliarmi dalla nottata d’incubo e per fare sparire subito l’illusione del demoniaco animale.
Prendo la foto della donna e la metto sul tavolo: provo a guardarla ma mi accorgo che devo abbassare gli occhi, il suo sguardo di compensato, anche a metà, è più potente del mio.
Mi gira improvvisamente la testa tanto da buttare uno straccio sopra la foto e coprirla, prima di essere vittima di qualcosa che assomigli alla sindrome di Stendhal.
Accendo la televisione per distrarmi, per provare a scuotermi di dosso l’angoscia che mi inzuppa l’anima più di quanto abbia potuto fare il temporale con i miei vestiti.
Passo da un canale all’altro senza interessarmi a nulla, finché stanco di girovagare nell’etere mi fermo sul telegiornale della mattina.
Oggi incontro al Viminale per il punto sulla sicurezza.
Il coniglio nero, la donna della foto, le orge demoniache.
Scandalo delle tangenti: indagati cinque assessori.
I sabba, le danze, lo sguardo enigmatico, l'occhio ipnotico, le labbra che ti divorano.
Misteriosa scomparsa della moglie del console iraniano Assim Balthazar.
Alzo il volume.
La donna, Pegah Emambakhsh, si trovava in visita nella nostra città insieme al marito e risulta scomparsa dal tardo pomeriggio di ieri.
Alzo ancora il volume.
Il marito e la consorte dovevano presenziare alla cena con il sindaco, quando non vedendola scendere dalla camera d’albergo in cui alloggiavano, è stato lo stesso diplomatico a salire direttamente al piano trovando però la camera vuota. Avvertito il personale dell’Hotel, sono iniziate subito le ricerche all’interno dello stesso, ma senza risultato. Le forze dell’ordine sono state immediatamente allertate, dispiegandosi subito alla ricerca della scomparsa.
Questa è una sua recente foto.
Il cuore smette di battermi.
Chiunque l’avesse vista o la vedesse è pregato di telefonare al numero in sovraimpressione.
La morte a occhi aperti deve essere questa.
Tremo come in preda a convulsioni, mi alzo a fatica dal divano e raggiungo la vetrinetta dei liquori, pochi passi che mi sembrano chilometri camminati verso l’inferno.
Mi attacco al Jack Daniels e finisco il quarto di bottiglia rimasto come fosse acqua.
La donna appiccata al pezzo di compensato è la donna che ho appena visto al telegiornale.
Levo lo straccio dalla foto, magari ho preso un enorme abbaglio e non è lei, forse la stanchezza degli ultimi tempi mi sta giocando dei brutti scherzi, forse, forse, forse…
Invece è proprio lei, e anche la foto è maledettamente la stessa: come il taglio dei capelli, come gli occhi, come lo sguardo che adesso sembra diabolico. E le labbra che ti divorano.
Gli occhi... no, gli occhi non tornano. In tv sono due.
Sì, ci sono: due foto scattate a pochi istanti l'una dall'altra. O forse no. Forse una firma.
Ma non è questo il problema.
Provo a ragionare, a razionalizzare.
La foto attaccata al pezzo di compensato l’ho notata diversi giorni fa, mentre la moglie del console è scomparsa solamente ieri sera: la mia testa ormai è un turbinio di domande, un gorgo che risucchia dentro tutti i miei più oscuri pensieri.
Chi l’ha messa in fondo al mio vialetto? Per quale motivo? Chi sapeva che poi sarebbe scomparsa?
La situazione è assurda, indecifrabile, momentaneamente fuori dalla mia analitica comprensione.
Forse il coniglio nero… il presagio… prendo il telefono e compongo un numero.
Ho ancora diverse conoscenze nelle stanze che contano, anche quelle più segrete. Devo saperne di più su questa donna.
Chi sei, Pegah Emambakhsh? Riesco per un attimo a riguardarla in faccia.
«Pronto?
Pronto, Frank?».
Finché la voce al telefono risponde, distogliendomi dal suo incantesimo.
DUE GIORNI DOPO
Mi sveglio con un tremendo mal di testa e un senso di nausea quasi incontrollabile, apro gli occhi e cerco nell’oscurità l’appiglio di luce che filtra dalle mie tapparelle a qualunque ora, senza trovarlo: buio e soltanto buio è tutto quello che non vedo...
Ricordo solo questa Emambakhsh che mi sorride beffarda, con una pistola in mano... ma dev'essere un sogno, credo... anche se dannatamente bello...
Allungo la mano verso il comodino per ripiegare su una luce artificiale, ma non trovo nemmeno quella; dell’abat-jour nessuna traccia tattile, e anche il muro dietro la testata del letto sembra sparito: non mi trovo nella mia camera, questo è evidente.
Cerco di mantenermi calmo, mi alzo dal letto cominciando a ispezionare alla cieca l’ambiente e capisco subito che - a parte una sedia nella quale sbatto contro - il resto della stanza è spoglio, vuoto di ogni arredamento.
Aiutandomi con la parete arrivo fino alla porta, liscia, metallica e senza maniglia, e inizio a prenderla a pugni urlando: pochi secondi e da sotto lo stipite della porta vedo il chiarore di una luce.
«Aprite!», la porta sembra ubbidirmi aprendosi e scorrendo elettrica di lato, e il suo movimento fa accendere una luce anche nella stanza in cui mi trovo. «Frank…?».
«Ciao, Sal».
«Dove mi trovo…? Cosa ci faccio qui…? Ho un gran vuoto in testa…».
«Mi dispiace, forse Mike ha esagerato un po’ troppo…», si rivolge all’uomo che è dietro di lui. «Mettiti seduto, credo che tu abbia diritto a delle spiegazioni».
«Spiegazioni…? Mi sveglio in una stanza che non conosco e mi dici che ho diritto a delle spiegazioni?!».
«Siediti e ti spiego tutto», fa un cenno. «Falla entrare, così non ripeto due volte la stessa storia», l’uomo annuisce e la porta si apre di nuovo.
«Ma cosa…?», entra una donna che riconosco subito. «Ma lei è… Santo Iddio…».
«Pegah Emambakhsh», Frank non perde tempo nelle presentazioni.
«Maledizione… ma è la donna scomparsa!», la fisso incredulo. «Quella della foto appiccicata sul compensato lasciato nel vialetto davanti la mia abitazione», le tempie mi pulsano sempre più forte. «Che diavolo sta succedendo?! Rispondimi, Frank, maledizione!», lo prendo per il bavero del cappotto tirandomelo a me.
«Stai buono, Sal», mi stringe con forza le mani rimettendomele al loro posto. «Ti spiego tutto, ma mettiti seduto». Con la testa indica il letto. «E calmati».
Ho sempre invidiato la sua freddezza, fin dai tempi delle prime missioni insieme.
«Certo, mi metto seduto, ma parla! Voglio delle spiegazioni, e subito!», al contrario di me.
Anche se stavolta sono giustificato dalla situazione.
«È una lunga storia, ma cercherò di sintetizzarla», si siede sull’altro lato del letto, mentre la donna resta in piedi, immobile nella sua enigmatica bellezza. «Quelli dei piani alti, come sai bene anche te, qualche anno fa hanno deciso che sia io che te eravamo diventati troppo scomodi per continuare a lavorare nell’intelligence, così il più giovane l’hanno messo dietro una scrivania a firmare e timbrare fogli di nessuna importanza, mentre il più vecchio hanno pensato bene di mandarlo in pensione: sbaglio, Sal?».
«Vai avanti, Frank, in fretta».
«Ma le loro pensioni non sono poi un granché, specialmente se hai rischiato la pelle per oltre vent’anni e se ti divorzi, perché io e Barbara ci siamo lasciati, lo sapevi, no? Così sono stato costretto a rimettermi sul mercato e aspettare l’offerta migliore». Si accende una sigaretta. «E dopo qualche mese è puntualmente arrivata. Fumi?».
«No».
«Bravo Sal, gente come noi rischia la vita già per conto suo, quindi perché anche fumare? Comunque l’offerta giusta è arrivata dal Mossad». Prende una boccata di fumo. «Pagano bene e puntualmente, e poi mi mancava tremendamente l’azione, Sal, non sono certo un tipo da pensione io. Così mi hanno dato subito degli incarichi, piccole cose, ma sufficienti per rimettere in sesto il conto in banca, finché il mese scorso sono stato contattato per qualcosa di più grosso, uno di quegli affari che quando lavoravamo insieme ci mettevamo addosso così tanta adrenalina da fare il pieno per un anno», fa una pausa per poi andare subito al sodo. «Conosci il caso Romina?».
«L’agente del Mossad catturata dai servizi?», non mi trova impreparato.
«Proprio lei: vedo che nonostante ti abbiano imbavagliato e messo in punizione dietro una scrivania sei sempre sul pezzo».
«Sulla mia scrivania c’è solo passato il suo fascicolo, tutto qui. Non mi occupo più di certe cose, lo sai bene».
«Comunque, a quel punto sai cosa hanno pensato i miei nuovi datori di lavoro? Che dovevo attivarmi per liberarla e consegnarla a loro, sembra sia un pesce grosso per restare chiusa in un acquario. Così ho pensato a un piano e sapendo come ragionano dall’altra parte, ho capito che per riavere Romina dovevo proporre uno scambio, mettere sulla scacchiera un’altra pedina di uguale se non maggiore peso».
«Scommetto che non ci hai messo troppo per individuarla quella pedina, vero?».
«Una settimana scarsa, forse sono davvero invecchiato».
«Chi sarebbe?», la storia comincia a incuriosirmi, forse sta risvegliando l’agente dei servizi segreti confinato dietro una scrivania.
«Sono io», mi guarda con lo stesso occhio che negli ultimi giorni mi ha ossessionato dalla fotografia, anzi con tutti e due. «Il mio nome lo sa già», si avvicina come si muovesse in frame, forse perché devo ancora metabolizzare che si è staccata dal rettangolo di compensato, e mi porge la mano bianca ed elegante, abbellita da anelli dal taglio mediorientale. La stringo senza riuscire a dirle nulla.
«Frank… cosa c’entro io in tutto questo?», in fondo a me interessa solo questo, e come possa essere finito in questa maledetta stanza senza finestre.
«Ricordi, Sal, di avermi telefonato? E che volevi incontrarmi per parlarmi di un fatto strano che ti era accaduto?».
«Sì… volevo parlarti della donna scomparsa», cerco di fare mente locale. «E del fatto che la sua foto era stata messa in fondo al mio vialetto già diversi giorni prima che la notizia venisse diffusa».
«Rispetto alle mie previsioni, mi hai chiamato prima del previsto: con l’età stai diventando impaziente».
«Quindi… il compensato con la foto… l’hai messo tu sul vialetto?».
«Non personalmente», si guarda attorno. «Non potevo rischiare di espormi direttamente. Ma l’idea è stata mia, quella sì».
«Che tu sia maledetto».
«Ricordi poi che la sera dopo ci siamo incontrati a casa tua?».
«Certo… abbiamo parlato della donna scomparsa, forse abbiamo bevuto qualche scotch…», fisso la parete spoglia. «Poi ho come un vuoto… non ricordo altro… non so cosa mi sia successo», mi passo nervosamente le mani fra i capelli, i pochi rimasti.
«Finisco io la storia, Sal», mi mette una mano sulla gamba. «Mi hai accompagnato sulla porta e lì il vecchio Mike ti ha narcotizzato, calcando un po’ la mano, visti i risultati».
«Figlio di puttana! Io ti…», faccio per andargli contro, ma il guardaspalle mi punta subito una pistola addosso senza neanche farmi finire la frase.
«Buono, Mike, non ce n’è bisogno, siamo vecchi amici noi», gli fa rimettere la pistola nella fondina, alzando il palmo della mano. «Diglielo anche tu, Sal».
«Come no, grandissimo bastardo, mi hai narcotizzato e rapito, perché questo è il reato, lo sai, vero?», lo guardo cattivo. «Per quale stramaledetto motivo poi? Forse perché sei un pensionato rimbambito che ha nostalgia dei bei vecchi tempi e si ostina ancora a giocare a guardie e ladri?».
«No, Sal, non è per questo».
«Allora per cosa? Perché stai facendo tutto questo?».
«Perché per portare a termine questo incarico ho bisogno di te».
«Hai bisogno di me?», gli rido in faccia. «Nessuno ha più bisogno di me ormai, a parte i tarli della mia scrivania».
«Io sì, invece».
«E perché proprio tu avresti bisogno di me? Dammi un dannato motivo!».
«Farò di più, te ne darò tre di motivi», spenge la sigaretta sotto i piedi. «Il primo è che anche tu hai bisogno di riprovare ancora quella adrenalina che una scrivania con i tarli non può certo darti».
«Non psicanalizzarmi, Frank: passa al secondo motivo».
«Secondo, è perché sei il tipo più in gamba che tuttora conosco».
«Questo è già più convincente».
«Terzo, perché sei in debito con me».
Un momento di silenzio da parte di entrambi, poi decido di ricordare io.
«L’attentato a Beirut, ricordo tutto nei minimi dettagli», rivivo la scena guardando un punto a caso della stanza. «Dieci morti, e sarei stato l’undicesimo, se non mi avessi avvertito dell’imboscata».
«Quindi sono sufficienti tre punti per convincerti?».
«A fare cosa?», quel ricordo merita perlomeno la mia disponibilità ad ascoltarlo.
«Te l'ho detto, no?
Ti metterai in ferie e prenderai un volo diplomatico per Beirut, incontrerai un contatto, sponda italiana, e accompagnerai la qui presente signora nel luogo convenuto.
Tornerai indietro con Romina. E la porterai dove lei stessa ti dirà.
A quel punto ci penserà l'Istituto e il tuo lavoro sarà finito.
Tutto chiaro?».
«Come no, chiarissimo.
E perché proprio io?».
«Ci risiamo?
Stai sbagliando la domanda, Sal.
Perché non tu?
Lo capirai strada facendo».
«Quanto verrò pagato?».
«Niente, si capisce».
«Niente...?!».
«Niente soldi.
Capirai strada facendo.
Intanto scopriamo la prima carta», si fa dare un plico dal suo scagnozzo.
«E chi sarebbe? Il contatto a Beirut?».
«No.
Non hai detto di aver visto il suo fascicolo?».
«Il fascicolo...? Ma...».
«Il fascicolo era senza foto... lo so, Sal. Perché pensi che io lavori per l'Istituto?
Questa è Romina».
Deglutisco.
«Ce l'hai una caramella?».
Frank alza gli occhi.
«Non dirmi che... ti fai pure tenere le... caramelle...», neanche il tempo di finire la frase che Mike me ne lancia una.
Metto in bocca e cerco di rendermi spigliato, cammuffando la voce.
«Dunque, è Romina...».
«Sì, Romina».
«Romina...», cerco di memorizzare, sono arrugginito, devo riprendere confidenza con le procedure.
«Qualcosa non va, Sal?».
«No... è che...».
«Che...?».
«Che... non so... sembra abbia qualcosa di famigliare».
«Ti sbagli, di sicuro non la conosci. Abbiamo verificato».
«D'accordo. M'era sembrato.
Ma perché proprio io? Di sicuro avete gente più qualificata di me sotto contratto».
«Avete? Avete chi? Stai parlando con me, Sal.
Comunque, ho capito: intendi gente con un coefficiente operativo più alto?».
«Quello, sì».
«Forse è vero. Sei un po' arrugginito, Sal. Ma supponi che il coefficiente operativo non sia la sola variabile in gioco.
Saresti contento di saperlo?».
«Cambia qualcosa?».
«Avanti, Frank, perché non glielo dici? O devo spiegarglielo io?», questo Mike non lo sopporto proprio. «E va bene. Te lo dico io. In certi tipi di operazioni, la presenza di un idiota confonde le idee al nemico, fa saltare i parametri del gioco».
«Sei cambiato davvero, Sal.
Qualche anno fa a Mike te lo saresti mangiato.
Oppure lui avrebbe mangiato te.
E invece mi tocca assistere a un nulla di fatto.
Mike come al solito esagera, ma c'è un fondo di verità in ciò che ha detto.
In certe faccende non basta la professionalità.
Però se non ti senti pronto, darò l'incarico a qualcun altro.
Vuoi mettere in pericolo la vita di Romina, obbligandomi a una seconda scelta?».
«Non ho detto questo...», mi accorgo di ringhiare senza volerlo. «Se siete convinti, cioè se sei convinto... se posso aiutare... lo farò».
«Visto che ci sei arrivato? Con te non c'è spazio per un ragionamento logico, Sal. Il discorso bisogna farlo al contrario, cominciando dalla fine.
Ma l'importante è esserci capiti.
Sal... questa è la tua grande occasione per tornare nel giro che conta».
«È inutile, Frank. È già la sua priorità numero due».
«Esageri sempre, Mike».
«Non vorrei deludervi, ragazzi, ma la priorità numero uno è uscire dall'acquario per sempre».
Mentre allaccio le cinture, mi chiedo come farò a tenere a bada la sfolgorante Pegah al mio fianco.
«Per due motivi.
Primo, ha il suo tornaconto personale.
Secondo, sa che con l'Istituto si può giocare, ma non scherzare».
Frank ha sempre una risposta per tutto.
Anch'io devo stare attento, con l'Istituto non si scherza. Però se non lo freghi non ti frega. Questo almeno l'ho imparato.
A proposito di tornaconto personale, perché diavolo non ho contrattato un cachet? Va bene darsi da fare, uscire dall'acquario, ma rimanere a bocca asciutta...
«Capirai strada facendo».
Già, capirò cosa? Che sono un fesso?
«Scusa, caro, ma ti sei fissato con questa guida turistica? Potrei diventare gelosa...».
Guida turistica?
Ho l'impressione che tutti sappiano molte più cose di me. E non è una semplice impressione, è una certezza.
«Hai ragione, cara. Una guida turistica vale l'altra. Se questa è in ferie, ne troveremo un'altra».
Rimetto a posto le foto di Romina.
Chissà perché Frank me le ha lasciate. Non fa niente a caso lui.
Una donna così non si dimentica facilmente. Espressione rassicurante ma decisa. E poi ha qualcosa di famigliare, ne sono convinto.
Il volo prosegue per Mumbai. Noi però siamo arrivati.
Berito... che piacere rivederti...
Fino al Caffè italiano vicino all'Ambasciata italiana va tutto liscio.
«Sto cercando chi cerca Didone».
È la parola d'ordine.
«L'ha trovato. Si accomodi».
In questa storia non ci sono mezze misure.
Un'altra bambola da capogiro, anche piuttosto allentata.
Una specie di incrocio tra la classe di Rita Hayworth e la carne di Anita Ekberg.
«Posso sapere il suo nome?».
«Anna Frezzante».
Le belle donne devono subito avere un nome. Altrimenti che missione sarebbe?
«Come saprete, Didone è una regina fenicia», insiste.
«Scusi... era... fu...», la rettifico.
«Scusi lei... è...
Altrimenti non saremmo qui a parlarne, non le sembra?».
Ho già detto che tutti la sanno più lunga di me. E lo confermo.
«Comunque non dovrete preoccuparvi di nulla. Vi farò conoscere io la guida turistica migliore». Sembra che Pegah e Anna parlino la stessa lingua, benché la prima iraniana e la seconda italiana.
«Il posto migliore per cominciare è di sicuro Baalbek.
Sì, certo, l'hanno costruito i Romani, ma il progetto e le fondamenta pare siano di Erode il Grande.
Comunque sono chiare le origini fenicie, in situ, del culto di Baal e Astarte.
E poi il vino l'hanno inventato i Fenici, no?
Cito a memoria: "Baalbek è il trionfo della pietra, una magnificenza lapidaria il cui linguaggio, superbamente visivo, riduce New York a una dimora di formiche"; un giudizio severo, ma impeccabile, non credete?
Certo, New York non è più la stessa di Robert Byron, quella degli anni '30, ma credo non cambi molto».
Ha studiato bene la parte, non sembra avere il physique du rôle della talentuosa critica d'arte, ma forse è un solo un pregiudizio maschilista.
«E quando si parte?».
«Perché non subito?
In un paio d'ore ci arriviamo. E la sera l'atmosfera è splendida...».
Qui hanno fretta. Meglio così, mi tolgo il pensiero subito.
«Una domanda, signora Frezzante...
La Didone si è conservata così bene dopo tutti questi anni?».
Per la prima volta Pegah e Anna mi guardano all'unisono. Anzi, mi squadrano all'unisono.
Sarò pure arrugginito, ma qualcosa ancora mi riesce.
«I ruderi sanno affascinare con la loro polvere e il peso delle forme; però a volte è meglio guardarsi intorno e ammirare ciò che è ancora fresco».
Un contatto, sì, ma non certo tenero.
Di sicuro la Barkisha concorda.
Però vedi le donne... credono tu debba riscuotere un bel cachet per il tuo sporco lavoro, e ti cascano quasi addosso.
Tuttavia non sanno che quel cachet non esiste, e che capirò strada facendo...
Ma forse è di nuovo un pregiudizio maschilista. Didone mi manca da troppo tempo. Forse non ci credo più.
Tra una cosa e l'altra si è fatta pure Pasqua.
Come tocco il cellulare mi arrivano immagini di graziosi addobbi pasquali, con una spiccata presenza di conigli, perfino neri.
Non ricordavo fossero tanto popolari, in Libano poi...
Ma appunto, non è mai un caso.
Lavora di fino, e se proprio non riesci a fartelo amico, cerca almeno di non fartelo nemico.
L'ho capito a mie spese. Però ho giocato male, ma non ho scherzato. E questo per ora mi ha salvato.
Se aggiungiamo che l'Istituto ha rispetto per Didone, quasi fosse un Istituto di lingue classiche, questa volta potrei perfino ricavarci qualcosa.
Però a me interessano i progetti a lunga scadenza.
Stavolta voglio uscire dall'acquario per sempre.
Farò del mio meglio e me ne tornerò buono come un agnellino a Roma.
Non lo puoi forzare, ma se lavori ti rispetta.
Anni di timbri e firme inutili per cominciare a capirci qualcosa.
È vero, in certi campi sono bravo; come filologo dilettante ho riscosso dei buoni riconoscimenti, ma come filologo della mia vita sono davvero un ritardato.
Magari mi becco una pallottola e la faccio finita qui.
Il finale non lo conosco, ma il finale è la parte più importante di ogni storia.
A che serve seguire Didone fino al rogo?
Tutti la seguono: le ancelle, gli eneadi, i lettori, i professori, gli dei.
Ma come finisce?
C'è una bella differenza tra l'ammazzarsi per un grosso cretino e fargliela pagare cara.
Proprio il contrario di "It's never an accident": se non capiamo il finale della storia, allora davvero crediamo alle coincidenze.
Il fato, il caso.
O Didone? O l'Istituto?
E poi c'è una cosa che mi lascia perplesso: l'immagine con conta?
Sì, conta. Certo, non è tutto. Didone è bella. Le tre donne di questa storia sono belle.
Il Capo dell'istituto, per essere un uomo, ha davvero una bella immagine. E ha 60 anni.
Un'immagine pulita, bella, emana forza. Ecco perché le regine sono tutte belle. Anche se in giro vi sono parecchi falsi d'autore.
E in questa storia devo sperare che nei paraggi non ce ne siano troppi. Possibilmente, meno di tre.
«A che stai pensando?», mi sussurra Pegah. «La sai una cosa? Saremmo una bella coppia io e te...».
Ecco, appunto.
«Siamo quasi arrivati», dice Anna.
Ecco, appunto.
E per non farmi mancare il terzo, mi ripasso il volto di Romina.
È calato un crepuscolo da brivido sulle rovine di Baalbek.
Sanguigno e anche un po' funereo.
In effetti Romina vuol dire crepuscolo, l'ultima luce prima del buio.
Quante speranze hanno visto morire queste maestose colonne...
È vero, muore per ultima, ma alla fine - se non è sostenuta da qualcosa di reale - muore comunque.
«Facciamo in tempo a vedere l'ultimo raggio del sole», dice Anna. «In estate si svolgono importanti eventi e spettacoli tra queste rovine.
Vi sono delle scale che portano in cima, a uso dei tecnici delle luci. Da lassù, ve lo assicuro, la vista è mozzafiato. Non solo si vede bene il crepuscolo, quasi lo si può incontrare...».
La Frezzante pare una sibilla.
E pensare che mi sono preso una settimana intera di ferie. Qui la situazione precipita. Speriamo non in tutti i sensi.
L'invito mi pare esplicito.
La beretta è sotto l'ascella con il colpo in canna.
Devo concentrami sulla mia sfera di controllo. Questo mi ha detto Frank.
«Ognuno farà il suo, tu fai il tuo».
Ognuno chi?
Qui non vedo nessuno.
Certo, l'Istituto ha occhi dappertutto, come Argo.
Vediamo Anna che fa, se sale sulla scala con noi, oppure si ritira.
«Vado avanti io».
Non si ritira.
La scala è a chiocciola, in acciaio.
Dietro Anna mando Pegah.
Potrebbe scapparmi da sotto, altrimenti.
In vetta potrebbe non esserci nessuno, a parte il crepuscolo.
Dall'alto la struttura del tempio principale appare ancora più maestosa, se possibile; fa venire le vertigini, non solo per l'altezza in sé, ma per la sua sublime magnificenza.
Se non è questa la Casa del Dio, quale può essere?
In giro non c'è un'anima. Gli scavi sono chiusi a quest'ora.
In cima ci sono due persone, a una distanza di 30 metri.
Il numero è quello giusto, ma il crepuscolo è ormai notte.
La Frezzante si defila, ha fatto il suo. È l'intermediaria.
Se gli altri due sono Romina e un agente iraniano, allora fino a qui va bene.
Tengo sotto braccio la Barkisha e cerco di avvicinarmi, molto lentamente.
Dalla parte di Anna, però, i conti non tornano più: sono spuntate, letteralmente dall'ombra, altre due sagome, non molto alte, anzi basse, più basse della Frezzante, che è comunque una donna; che siano cinesi e non portoghesi?
I tecnici della luce sulla scena sono diventati troppi. E sono troppo in anticipo rispetto alla kermesse estiva.
Qualcosa sta andando storto.
Io mi avvicino al presunto iraniano e lui no.
Mentre avanzo a piccolissimi passi, mi copro dietro alla Barkisha: non riuscirei neppure a vedere una pistola con questo buio.
I tecnici della luce stanno lavorando davvero male.
Rimango però scoperto dal lato di Anna.
Stranamente l'iraniano, o presunto tale, rimane allineato con la presunta Romina, cioè non segue la mia tattica, non si fa scudo con il corpo dell'ostaggio.
Lei potrebbe anche essere Romina: la sagoma è imbolsita, quella di una donna matura e sovrappeso.
Devo ragionare.
Una parola...
Perché lui non si avvicina, perché non si fa scudo con il corpo di lei.
No, giusto, non devo prendermi Romina adesso. O ci ammazzano tutti e due.
Devo tenermi Pegah.
Ma allora perché i due portoghesi si sono fatti notare?
Forse proteggono la Frezzante e basta.
L'Istituto che fine ha fatto?
Argo è ormai diventato un pavone?
Potrei chiederlo a Giove, visto che ci sono.
«Tu fai il tuo», le parole di Frank mi pulsano nelle tempie.
Già... ma qual è il mio, Frank?
Mi sono fermato. Da questa distanza comincio a vedere qualcosa, gli occhi si stanno abituando all'oscurità.
Ho un salto al cuore.
È lei.
Sono troppo emotivo per questo genere di lavoro, l'ho sempre saputo.
Perché diavolo ho accettato, ma soprattutto perché diavolo l'hanno fatto fare a me?!
«Capirai strada facendo», ma qui la strada è bella che finita.
Lei è serena, non come nelle foto, ma quasi.
Ha sangue freddo, al contrario di me.
Ogni tanto guardo alle mie spalle. Non devo mostrarmi troppo nervoso. Le tre sagome si mantengono a una certa distanza. Al momento sembrano solo controllare.
È stallo.
«Lasciami, dai... chiudiamo l'affare...», la Barkisha si divincola dal mio abbraccio.
Ho solo un istante per tenerla o lasciarla andare.
Anche Romina si spinge in avanti.
Non la trattengo.
«Torna al tuo posto», dice la libanese all'iraniana, anche se tutti parlano italiano, fino a questo momento.
Io a stento parlo inglese, dopo una vita che provo a parlarlo.
Lo spazio è stretto e le due sono ben piazzate.
Dal lato interno il parapetto è scarno: si tratta della balaustra metallica di un ponteggio volante, tirato su - penso - per gli immancabili e redditizi restauri; lungi dal portare offerte al Dio, oggi se ne prendono.
Lottare in quel tratto sarebbe quindi molto pericoloso, data l'altezza da terra. Gli dei non soffrono la forza di gravità, le belle donne sì.
Pegah torna da me, Romina dall'iraniano.
Caspita, che donna...
Se l'Istituto sceglie i migliori, perché diavolo ha scelto me?
«Lo vogliamo concludere o no, quest'affare?».
Alle mie spalle risuona la voce melodiosa di Anna Frezzante.
E nella mano distinguo una pistola, una beretta; con silenziatore.
Fregato da un'italiana: il colmo.
Comunque è buio pesto, la luna non si vede, da quella distanza può colpire la Barkisha, che intanto mi spalmo addosso come una crema solare.
Quando mi sento relativamente coperto, estraggo anch'io.
«A che gioco stai giocando, Anna? Ti consiglio di non fare scherzi, mi dispiacerebbe perderti di vista».
«Avanti, concludi lo scambio. Siamo qui per questo, no? Non mi pagano, se l'operazione non riesce».
La sua voce è falsa come il terzo Jolly del mazzo.
«Allora metti via il ferro e aspettami sotto».
ZIP
ZIP
ZIP
ZIP
La situazione precipita.
Mi spara due colpi. Io ribatto colpo su colpo.
Quello in pieno petto la mette in difficoltà.
Inarca la schiena, barcolla, e perde l'equilibrio...
«AAHHH...!!».
SDENG!
È ancora viva mentre va giù.
Il grido è pieno di orrore.
Ma viene trattenuta, sia pure a stento, dal parapetto sommitale dell'impalcatura volante. La Frezzante si ferma a penzoloni della balaustra, le braccia molli e abbandonate piangenti verso il fondo del baratro; sembra un panno steso ad asciugare.
Ho un dolore al fianco, ma sembra gestibile.
Pegah si è divincolata e sta per raggiungere il connazionale.
Questa volta Romina non si contrappone e viene verso di me, ma poi si ferma a metà strada.
Che cosa le prende?
Nel dubbio mi gioco il Jolly.
La pietra sotto i piedi è ben levigata, liscia come un tavolo da biliardo.
Stavolta l'Emambakhsh non parla italiano. Non so cosa abbia detto al suo compagno, ma penso niente di buono, a giudicare dal tono ringhioso.
ZIP
Un solo colpo in mezzo agli occhi.
POW
E un solo colpo di cannone. Nello stomaco.
L'iraniana non si lascia scappare nemmeno un gridolino.
Intercetto solo un sussulto negli occhi, come un bambino dopo una fastidiosa iniezione, ma senza far lacrime.
Quando l'iraniano ha alzato l'arma, Romina l'ha freddato con la mia beretta. Era più vicina di me per un colpo del genere.
Quando l'iraniana c'ha riprovato con la seconda pistola del compagno, anch'io ho usato il cannone di riserva. Al bersaglio grosso.
Intanto, però, trascinando i piedi a terra, le braccia molli lungo i fianchi, un sorriso sardonico sul volto, l'iraniana si avvicina!
Giunta a un paio di metri, mi fa vedere un pezzetto di lingua; poi, quasi punita per la sua arroganza, è scossa da un brivido fatale e viene spinta sulle ginocchia da una forza misteriosa.
L'iraniana spalanca gli occhi, ora c'è paura e rimpianto nel suo sguardo.
I giorni felici di Brighton, e gli ormeggi da grossa piovra, sono lontani.
È scossa da una lunga contrazione, mi guarda e si schianta a terra, faccia avanti.
Mi precipito su di lei per capire se è morta.
La volto piano-piano, come a poker si scopre se è entrata la carta giusta.
«Stronzo... non voglio morire... orghh... gh...», arrogante fino all'ultimo. «Io... sono... la Emamba...khsh...».
A dispetto della sua eccellenza, ha fatto una fine da stupida.
È come se l'Emambakhsh avesse fatto harakiri con una katana, sfondandosi la bella pancia fino in fondo.
Romina le gira intorno.
«L'hai messa nel sacco, accidenti!
La famosa Emambakhsh... la puttana intoccabile...
Ma tu l'hai toccata, eccome!».
Sì, ma adesso... se la Emambakhsh si schianta a terra, il castello di carte viene giù con tutta la castellana!
La bocca è spalancata! Gli occhi incrociati!
Dietro la schiena ha un buco da infilarci un braccio...!
L'ho fatta secca!
«Ma io... non sono così preciso...».
«Doveva crederlo anche lei... ha pensato di farla franca... ma non ha tenuto conto della proverbiale fortuna del dilettante...
Altrimenti non sarebbe morta con questa espressione basita sul volto.
Anna sarà rigenerata.
Per l'Emambakhsh c'è il sacco, spiacente.
L'hai posseduta con tutta la tua forza, da vero uomo, ma il momento è durato poco...».
«Ma... sei sicura che... non può essere morta così!».
«È morta incredula, però è morta... l'hai sfondata...
Ma forse sarà tenuta in frigo per un po'».
«In che senso?».
«Visto che era una top assoluta, proveranno a rianimarla.
Ci sono tecniche speciali che noi non conosciamo e che non dovremmo sapere di non conoscere».
«Cazzo! Valeva così tanto l'Emambakhsh?».
«Giudica tu stesso...».
Romina si è messa a parlare come se gli altri due non fossero più un problema...
E io sono troppo eccitato per capire se abbia preso una pallottola pericolosa, oppure di striscio.
Anna si muove ancora, ma è stordita, può precipitare nel vuoto da un momento all'altro. Nonostante tutto, mi dispiacerebbe se rimanesse uccisa; anche se temo che il mio colpo al petto sia mortale.
Mi appoggio alla parete di fondo e mi preparo a sparare ancora, se occorre.
Romina, però, appare serena.
Si è portata accanto a me e mi sta toccando.
Certo, sono il suo salvatore, ma la ragazza non mi sembra tanto avventata.
«Riprendi la pistola», le intimo, come fossi io a comandare.
«Stai calmo.
Non sembra grave. Mi dispiace».
«Ti dispiace che non sia grave?», anche io non sono mai contento. «E quei due? Chi saranno?».
«Non ci sono più. Sono fuggiti come conigli».
Ecco, siamo tornati lì.
«Vuoi dire che...?».
Annuisce.
Mi sposto verso Anna e la osservo cinicamente mentre cerca di trovare gli ultimi respiri fissando il baratro, con il seno quasi uscito dalla camicetta che sembra inseguire le braccia a penzoloni nel vuoto.
La Frezzante non si consegna come la Barkisha: cerca disperatamente di prendere tempo, e intanto gronda sangue al Dio, a mo' di offerta.
«Potevano darci una mano», riprendo il discorso con Romina.
«L'avrebbero fatto, ma non ce n'è stato bisogno.
Sei stato bravo.
Però penso che la tua Anna si ritrovi qualche scheggia di piombo sulla schiena».
«Vuoi dire che l'hanno uccisa loro?».
«Stai calmo, non è morta.
Però sa troppe cose».
E si avvicina sinistramente alla Frezzante.
«Non c'è un altro modo?».
«Certo che c'è: aiutami».
«Da che parte?», la stiamo afferrando insieme.
Romina tira dalla mia stessa parte.
E la mettiamo seduta contro la parete solida del tempio.
«Perché hai detto la mia Anna...?».
«Hai civettato con lei fino all'ultimo».
«Non è vero... è pur sempre una bella donna... ma io...
Che c'entra questo? Perché i conigli non le hanno impedito di sparare?».
«Non lo so, sei tu l'agente, lo hai dimostrato. Forse l'hanno messa alla prova. Non era sicuro che tradisse, almeno non fino all'ultimo».
«E tu, invece, non saresti un'agente?».
«Certo che no, che agente? Mi hanno sequestrato. Grazie per quello che hai fatto per me».
Tampono con un fazzoletto il buco in pancia di Anna. Quello al polmone, no; sarebbe più doloroso per lei, se lo facessi. Ha difficoltà a respirare, ma riesce a tirare avanti.
«Senti, Romina, io questa non me la bevo. Devo portarti dove tu decidi di andare. E poi sarà finita. Quanto a lei, che ne facciamo?».
«Lei, se ce la fai, e visto che ci tieni tanto, te la carichi in spalla e la porti giù. Può darsi che vogliano riconvertirla. Una grossa jena così, buona incassatrice, può sempre far comodo.
Quanto a me, va bene. Decido di andare a Tripoli».
«Nel Libano?»
«Certo, è la mia città».
«Allora non ci vorrà molto. Dobbiamo sbrigarci. I custodi avranno sentito il mio sparo».
«Stai calmo. I conigli li avranno distratti. Da queste parti si spara facile, pure alle feste di matrimonio.
Ma non sei stato in Libano per diversi anni?».
«E tu che ne sai?
Sei mai stata in Italia?».
«Mai».
«Eppure mi ricordi qualcuno».
«Forse la tua donna».
«Che donna... sono anni che non sto con una donna».
«Hai la risposta facile. Ma pensi mai prima di rispondere?
Chi dovevi cercare in questa missione? Chi hai cercato nella vita?».
«Romina... come faccio a pensare con te davanti?».
«Provaci, senza fare il galletto».
«So solo che non vogliono pagarmi neanche un euro.
Hanno detto che avrei capito strada... facendo...
Ora che ci penso è una bella canzone di Baglioni...».
«Dunque hai capito adesso che ti sarò grata... diciamo... per un bel po'?».