Morte a penzoloni

MORTE A PENZOLONI

di Salvatore Conte (2024)

I. APPUNTAMENTO CON LA MORTE

II. TRE SPARI IN FONDO AL VIALE

III. UN DUBBIO PROFETICO

IV. IL SALTO DI GRAZIA

V. VIALE PARIGI

VI. IL RESPONSO

VII. UNA BANDIERA AL VENTO

VIII. UNA PREGHIERA PER MAMMA

IX. L'ATTESA

X. RISULTATO DA MIGLIORARE

XI. LA CHIAMATA

XII. UN SEGGIOLINO CHE BRUCIA

XIII. PRIMA DEL GRANDE SALTO

I

APPUNTAMENTO CON LA MORTE

La vecchia Anna non è più quella di una volta, ma me lo tira sempre parecchio, e quando chiama io vado.

E poi ho rispetto per la morte.

Anna Frezzante non ha molto da vivere. Ha un tumore allo stato terminale nella pancia. Non sono riusciti a fermarlo.

So che Anna è molto preoccupata, ma che al tempo stesso prova a gestirsi, come sempre. Fa la sua vita normale, va al cinema, fa la spesa, gioca a carte. E fa la mignotta, come sempre.

Ci sarà panico nel suo entourage solo quando la vedranno ricoverarsi in clinica; sempre che - per affrontare gli ultimi giorni - non se ne rimanga tranquilla a casa.

L'ultima volta che l'ho vista si era allargata da morire; penso per la rabbia, la frustrazione, le medicine, ma anche per l'ascite, il liquido tumorale che gonfia la pancia dei moribondi.

Nonostante tutti i suoi problemi, però, Anna Frezzante è ancora una grandissima donna.

Le sue camicette sono sempre sbottonate e portate senza reggiseno; le tette che le cadono a penzoloni sul ventre non sono che una logica conseguenza della forza di gravità; tutto ciò è abbastanza per invogliarmi a rivederla.

Si piace ancora, di sicuro non ha perso la sua arroganza.

Lo farà solo in piena agonia.

II

TRE SPARI IN FONDO AL VIALE

Non c’è un posto neanche a morire, Milano è insopportabile.

Parcheggio la mia SLK non so dove e mi avvicino a piedi: la palazzina di Anna è l’ultima in fondo a viale Parigi.

Sembra una serata tranquilla, ma è evidente che mi sbaglio.

Urla di donna dal fondo del viale.

Allungo il passo.

POW

Cazzo, uno sparo!

Corro.

Mi viene il dubbio che si tratti proprio dell’appartamento di Anna, al secondo piano.

POW

Cazzo! Un altro sparo!

È proprio lei e sta uscendo a cosce nude dalla porta-finestra che dà sul balcone…

«Emiliano…!», mi ha visto.

POW

«Uuughh…!», un urlo soffocato.

Dopo il terzo sparo, la vedo allargare il braccio, fare ancora un passo avanti, quasi per forza d’inerzia, e infine accartocciarsi su sé stessa: Anna frana sulla ringhiera del balcone e ci rimane sospesa sopra, letteralmente a penzoloni, come un panno steso; il braccio destro ciondola nel vuoto, cadendo giù come il ramo di un salice piangente.

Quello sinistro è rimasto sotto il corpo, incollato all’addome.

Se indovino il motivo, Anna ha preso prima uno o due colpi in pancia, poi - fuggendo - il terzo alla schiena.

Ho finito di correre, adesso la vedo dalla base di una perfetta verticale, due piani più sotto: Anna Frezzante ha provato a spiccare il volo, ma pesante com’è non c’è riuscita, zavorrandosi sulla rampa di lancio; ha provato a buttar giù di colpo tutti i suoi chili, ma la trippa s’è ingrippata nella ringhiera; ora mi guarda fisso, con occhi sbarrati.

E non credo mi riconosca.

Sono arrivato tardi.

Con un calcio apro il portone e mi preparo ad affrontare il killer, ma dalle scale non scende nessuno, e l’ascensore è fermo.

Uno scalpiccio rapido e sempre più remoto mi suggerisce che l’assassino stia fuggendo dall’alto.

Ha troppo vantaggio, meglio controllare l’appartamento della Frezzante, prima dell’arrivo della polizia.

La figlia è a terra, con un buco in fronte.

La madre ha fatto qualche passo in più, ma non è arrivata lontano; la camicetta rosa con cui mi aspettava è imbrattata sulla schiena da una chiazza sanguinolenta.

In più deve avere una pallottola nella pancia.

III

UN DUBBIO PROFETICO

Il ventre di Anna è rimasto al di qua, la testa e le tette, più che mai a penzoloni, sono al di là.

La trippa si è dimostrata un ancoraggio più che saldo, la Frezzante è rimasta in bilico, zavorrata alla ringhiera del balcone, nonostante la spinta inerziale in avanti e la massa imponente del corpo.

Non la tocco: non vorrei accollarmi un omicidio di cui non so niente.

Avrei avuto il movente e l’occasione.

Tanto da lì non si muove.

Prima che arrivi la polizia frugo nell’appartamento e non ci metto molto a trovare la roba.

Ed è tanta roba…

Hai capito la vecchia Anna…?!

Col pretesto della figlia tossicomane è entrata nel commercio e ha preso in mano le redini.

Lei ci sa fare in queste cose. Quando si sbottona le camicette sono tutti ai suoi ordini.

Forse aveva bisogno di soldi per curarsi, ma così si è abbreviata la vita.

L’Organizzazione non perdona gli sgarri, anche se lei ha cercato fino all’ultimo di far pesare il suo fascino; è mezza nuda per questo, suppongo; ma non c’è più rispetto per le belle vacche, ai giorni nostri.

Tengo per me la roba, visto che ad Anna non serve più; l’Organizzazione si è limitata a saldarle il conto e io non posso permettere che tanto ben di dio vada ad arricchire qualche piedipiatti.

Da sotto, le lancio un ultimo sguardo, prima di andarmene.

Peccato…

«E…m…i…l…i…a…n…o…», un sussurro estenuato…

Non è ancora crepata!

IV

IL SALTO DI GRAZIA

Avrei dovuto controllare la giugulare, ma sarei finito giù con lei.

E adesso?

È moribonda; ed è gravemente malata; in ospedale c’arriva con il lenzuolo in faccia.

Eppure mi viene voglia di baciarla, è sempre sexy nelle sue camicette sbottonate; sono rimasti allacciati solo i due bottoni intorno all'ombelico.

UAAA…

UAAA…

La polizia…

Cazzo, devo andarmene.

Sto per mollare Anna al suo destino, quando in lontananza spunta un’ambulanza…

Si è fermata molto prima, evidentemente non hanno l’indirizzo esatto, e io posso trattenermi ancora un po’.

Plic!

Plic!

Il sangue di Anna, goccia dopo goccia, cola di sotto con la cadenza di un rubinetto chiuso male.

Le imposte al primo piano sono chiuse. Gli inquilini devono essere fuori.

Mi arrampico sulla condotta di scolo e salgo sul balcone, un’idea folle mi è balenata in testa.

E ormai non posso più fermarla, è una palla di pesante pazzia che rotola a valle.

Plic!

Una goccia di sangue mi finisce in testa.

«Anna...», alzo gli occhi, lei è sopra di me, a testa in giù, con metà del corpo oltre la ringhiera e le tette a penzolare oltre la metà stessa.

«E…m…i…l…i…a…n…o…», mi guarda con gli occhi sbarrati, forse al mio posto sta già vedendo il diavolo. «M’...h...a...n...n...o… f...a...t...t...o… l...a... f...e...s...t...a…», Anna ha la forza di concedersi un sorriso amaro, che le fa sfuggire dalle labbra una boccata di sangue.

«B...a...c...i...a...m...i...», la sua richiesta mi arriva addosso insieme al suo sangue, che insiste a cadermi in faccia, goccia dopo goccia.

Anche lei lo vuole.

La follia ci univa, avremmo potuto rimanere insieme.

Salgo sulla ringhiera, in precario equilibrio, mi afferro al cornicione di sopra, e spingo più che posso sulla punta dei piedi, protendendomi verso di lei.

Lei scivola più giù, annullando così gli ultimi centimetri di distanza che io non sarei mai riuscito a colmare: per la prima volta nella vita ci veniamo incontro.

Spingendo ancora sulle gambe, riesco a sfiorarle le labbra: sanno di sangue e sono fredde; Anna è già morta, anche se ancora non lo sa.

Peccato, la mancanza di parcheggi uccide.

«P...e...r…c...h...é…».

Perché ci siamo lasciati.

Perché non sei arrivato in tempo.

Perché mi sono fatta ammazzare.

Perché mi è venuto il cancro.

Mentre ancora ci penso, me la vedo andare giù a peso morto, non posso fare niente, anche se mi passa così vicino che mi pare di sentire il suo ultimo respiro.

Mi volto e la vedo là sotto, un grosso fantoccio seminudo sul bordo della strada, con una gamba rimasta impigliata tra le fronde di una siepe.

La sua pesante palla di pazzia è arrivata a valle.

Le luci dell’ambulanza si avvicinano, sta arrivando anche la polizia, faccio appena in tempo a dileguarmi.

L’ultimo bacio di Anna poteva costarmi parecchio.

Ma ne è valsa la pena.

Guido piano, senza dare nell'occhio, stanno convergendo diverse pattuglie.

Faccio passare un'ambulanza che corre impazzita.

Mi comporto come un bravo cittadino.

Un'ambulanza che corre impazzita... la siepe... le vacche...

Ma no, che vado a pensare...

V

VIALE PARIGI

Eppure, chissà perché, mi ritrovo a seguire l'ambulanza.

E non è una cosa facile, nel traffico di Milano.

Farò finta di essere un parente al seguito.

«Può lasciarla solo cinque minuti, mi raccomando: poi non dimentichi di spostarla».

La guardia giurata dell'ospedale ha già capito tutto.

«Grazie tante per la comprensione», mentre ringrazio, i paramedici scaricano un malato intubato da tutte le parti.

«Non stia in pena, qui sono molto bravi».

«Viale Parigi», dice un barelliere all’ingresso…

Devo stare attento a non farmi beccare.

Polizia per il momento non ce n'è.

Non avendo trovato la droga, potrebbero aver ipotizzato un semplice delitto passionale, per così dire.

Comunque ho messo baffi finti e occhiali scuri per le telecamere.

Incredibile, è proprio lei... adesso ne sono certo.

Forse non era ancora morta quando è volata giù, o forse la caduta stessa l’ha rianimata… vai a capire...

La cellulite si è rivelata preziosa in ogni caso.

E anche quella provvidenziale siepe.

Anna...

Tra noi non è ancora finita...

VI

IL RESPONSO

Adesso deve lottare, se vuole tenersi la pelle.

Ma almeno è arrivata in ospedale.

Cerco subito di individuare il portantino più sveglio, quello che per secondo lavoro si porta via la morfina o procura troie ai primari.

C’è anche il medico, ma di quello sbarbatello non so che farmene: ho bisogno di una previsione rapida e affidabile.

Okay, ho deciso, è lui.

Lo affianco mentre caricano la lettiga sul montacarichi, diretti - presumo - in sala operatoria; il medico si è sganciato.

«Ehi… lei non può scendere, se è un parente attenda in sala d’aspetto…», ha parlato lo stupidotto.

Allungo sfuggente la mano e due biglietti da 50 al barelliere scafato, quello prende e intasca con movimento naturalissimo e altrettanto sfuggente; lo trattengo giusto un paio di secondi: «Puoi dirmi come andrà a finire?».

Increspa le labbra.

«È a pezzi, dottò… anche se…», abbassando ulteriormente la voce, «nun se offenda, ma ‘na bodrillaccia così... nun molla mica facile…». Gli effetti delle migrazioni interne sono eloquenti. «Comunque, dottò… je faccio sapè io quello che succede…».

Annuisco e allungo altri due biglietti color salmone: le informazioni costano e quelle che servono a me vanno controcorrente, perciò è tutto giusto.

A occhio e croce Anna Frezzante sta andando a crepare sotto i ferri, ma una vacca come lei può ancora rovesciare tutto.

Intanto è a penzoloni tra la vita e la morte, in bilico sull'inferno.

VII

UNA BANDIERA AL VENTO

Toc-toc!

«Avanti».

«Don Salvatore...», l’uomo si affaccia alla porta con un fare timido che ha poco a che spartire con la sua presenza rozza e massiccia. «È arrivato Tony».

«Fallo entrare».

«Subito, capo».

«Con permesso, Don Salvatore», il secondo uomo, una specie di fotocopia del primo, entra nella stanza meno timidamente, ostentando una certa sicurezza.

La convinzione di aver fatto un ottimo lavoro è il veicolo migliore per accrescere l’autostima.

«Allora, Tony?», Don Salvatore si accende con calma un cubano, rimanendo comodamente seduto sulla poltrona di pelle, dietro la grande scrivania.

«Tutto fatto», si siede senza aspettare il consenso, troppo sicuro anche in questo.

«La puttanella della figlia è stesa sul pavimento con un grosso buco nella fronte.

E la troiona della mamma è rimasta a penzolare dal terrazzo di casa come una bandiera a lutto, con due buchi nella stoffa...».

«Una bandiera ammainata, spero...», il boss dà una voluttuosa boccata al sigaro.

«Ammainata e ripiegata in due sopra la ringhiera».

Drin!

Drin!

Squilla uno dei tre cellulari sparsi sulla scrivania: più un uomo è potente, più ha il diritto di conoscere la realtà in presa diretta.

«Dimmi». Un momento di pausa. «Ho capito...», la tirata di sigaro è più lunga e nervosa della precedente. «Voglio che tu mi tenga informato minuto per minuto, intesi?».

Sbang!

Uno scatto improvviso e il Samsung Galaxy si fracassa contro la parete.

«Ma… capo...?! Cosa...», il costoso cellulare appena andato in pezzi ha il potere di fargli perdere all’improvviso tutta l’autostima.

«Tony, Tony...», la voce dall’altra parte della scrivania è pericolosamente calma. «Una bandiera ammainata, eh...? Una bandiera ammainata e ripiegata…», lo guarda fisso negli occhi, con l’espressività di uno squalo che vede colar sangue dalla sua vittima.

«Capo... cosa significa...?», una goccia di sudore gli cola dalla fronte.

«Significa che quella troia di Anna non è affatto crepata!», Don Salvatore sbatte i pugni sulla scrivania, facendo sobbalzare ogni cosa che c’è poggiata sopra.

«Ma io le ho piantato due pallottole in corpo...

Ha iniziato a spogliarsi, però io non ci sono cascato!

Mi ha supplicato in tutti i modi di non eliminarla.

Ha detto che era malata, molto malata...

Ma io le ho fatto un bel buco in pancia, senza pietà...!

Tuttavia ha avuto uno scatto di rabbia, ha cercato di fuggire, correndo verso il balcone.

Allora l'ho beccata alla schiena, con la seconda pallottola.

È crollata stecchita sulla ringhiera…!».

«Vorrà dire che è resuscitata…

Ti costava tanto buttarla giù dal terrazzo?», le notizie sono ancora incomplete; restando seduto, apre il secondo dei tre cassetti, quello all’altezza delle ginocchia.

«Vediamo se saprai fare altrettanto».

«Don Salvatore! No!», Tony porta d’istinto le mani avanti.

BANG

BANG

BANG

Il gesto serve solamente a farsi bucare il palmo della mano da una pallottola, che senza fermarsi gli finisce precisa in faccia, come le altre due.

«Maledetto incapace», il boss ripone la pistola nel cassetto come niente fosse, come se avesse sparato a un piattello dopo il Pull dell’addetto al campo di tiro.

«Roberto!», Don Salvatore chiama il primo uomo, senza accorgersi che gli spari l’hanno già fatto rientrare nella stanza.

«Capo...», guarda senza particolari emozioni il corpo di Tony, quello sì ripiegato sulla sedia come una bandiera ammainata.

«Toglimi da davanti questo verme», gli fa cenno mentre si alza, dirigendosi verso l’ampia vetrata che guarda la città. «E tieniti nei paraggi.

Potrei avere la necessità di essere accompagnato all’ospedale per andare a far visita a una mia cara amica...».

«Un incidente, capo...?», l’aspetto fisico del guardaspalle è coerente con il quoziente intellettivo.

«Più o meno…

Una brutta troia che nonostante abbia sbattuto contro due pallottole, non vuole saperne di crepare; ha i vermi nella pancia da mesi, ma ancora gioca a carte con le amiche; e vince...», e guarda il Pirellone, senza però vederlo; davanti a lui ormai c’è solamente Anna e il suo corpo da vacca rimasto in bilico sulle porte dell’inferno.

Il boss è pronto a darle in prima persona la spinta decisiva.

VIII

UNA PREGHIERA PER MAMMA

Medicina Donne

Chirurgia

Premo il pulsante dell’ascensore e salgo, non posso affidarmi solamente a un barelliere, devo farmi altri complici per avere più notizie possibili riguardo alla bodrillaccia...

Professor Raffaele Tersilli

Primario del Reparto di Chirurgia

Le porte dell’ascensore si aprono quasi precise davanti a quest’altra porta, è semichiusa e da dentro escono voci che sembrano scherzare fra loro: devo approfittare di questa favorevole fermata...

Entro sfacciatamente, annunciandomi solamente con un paio di piccoli pugni sul legno che il trambusto del via-vai di persone rende del tutto inutili.

«Desidera?», una delle tre voci si gira verso di me.

«Scusatemi…», sono due infermiere più un portantino, che stavano evidentemente parlando dei cazzi propri. «Poco fa è stata portata in ospedale una signora di mezza età, caduta da un balcone», ometto volutamente l’imbarazzante particolare delle due pallottole... «Vorrei sapere qualcosa riguardo alle sue condizioni», se è crepata o no, insomma, lo penso senza precisarlo.

«Lei chi è?», l’infermiera attempata anticipa quella più giovane, che mi ha rivolto per prima la parola, e si intromette dura, d’autorità.

«Sono il figlio», davanti al richiamo materno ogni donna solitamente si ammorbidisce.

D'altronde ho diversi anni meno di lei.

«Ah... mi dispiace... sua madre è arrivata in condizioni disperate», il tono diventa quasi da omelia funebre, il trucco ha funzionato. «E poi... ho saputo che... insomma... che le rimane poco da vivere, a causa di un male incurabile. Mi dispiace molto, lei ha una madre ancora molto giovane».

Rispetto a te, sì. Ancora una volta lo penso senza precisarlo.

«Per quanto riguarda il tumore, mamma ha voglia di lottare ancora.

Ma lei pensa che ce la farà...? Adesso dov’è?», riesco a farmi inumidire gli occhi e mi chiedo se sono un attore così bravo, oppure se mi sto veramente interessando a questa troia sfatta...

«È in sala operatoria.

Ma se ha una possibilità di farcela, è messa nelle mani migliori, mi creda.

La sta operando il Primario in persona, il Professor...», ormai so quello che volevo sapere, non ho voglia di perdere altro tempo.

«Tersilli», aggiungo io il nome.

«Lo conosce?».

«No, ho solo letto la targhetta sulla porta.

Quanto può durare l’intervento? Pensate che una volta aperta, lavorerà anche sul tumore all'intestino?», la domanda mi scappa di bocca.

L’infermiera giovane mi guarda quasi compatendomi e mi risponde cercando di non sbattermi in faccia la realtà così com’è.

«Il tumore è molto esteso e sua madre è in condizioni critiche.

Però so che il Professore ha immediatamente contattato un oncologo, per vedere di ripulirla un po', prima di richiuderla... difficile pensare di salvarla, ma potrebbe guadagnare qualche settimana, se tutto va bene...».

«Vi ringrazio», esco sommessamente dalla porta, visibilmente contrito.

«Si fermi giù alla cappella.

E preghi per sua madre…», l’infermiera tardona deve avere più cuore di quanto il suo aspetto sciupato e indurito dalla vita d’ospedale suggerisca.

«Certo...».

Già! Come no!? Adesso ci manca solamente che mi metta a pregare per quella vecchia troia!

Anche se mi bagno solo a pensarci, accidenti a me.

IX

L'ATTESA

«Dottò!», la voce romanesca mi arriva da dietro le spalle, è il barelliere coatto trapiantato fra i bauscia: gli vado incontro, in fondo rimane il mio complice più fidato e attendibile. «La bodrillaccia è sotto i ferri», biascica le parole insieme al chewingum.

Prendo la penna dal taschino e una banconota dal portafoglio, e l'autografo con il mio numero di cellulare: stavolta cambio colore, verde come la speranza, anche se, pensandoci bene, non so neanch’io che cazzo sperare.

Se anche dovesse scamparla grossa, uscirebbe letteralmente a pezzi da questa storia, solo per morire di cancro tra mille lamenti.

Forse sarebbe stato meglio se il killer le avesse sparato in bocca.

«Voglio che mi chiami appena sai qualcosa di mia madre», gliela infilo nella tasca della tuta.

«Ammazza oh... bbona tu’ madre... dottò!».

Non se l'è bevuta, troppo sveglio.

«Lascia perdere…

Se crepa, se sopravvive, se resuscita, qualunque cosa faccia, tu mi chiami.

Intesi?».

«Ma dottò… fra un’ora finisco il turno…», e si infila la mano in tasca per far scivolare meglio il bigliettone.

«Vorrà dire che stanotte farai un po’ di straordinario», tiro fuori dal portafoglio un’altra banconota dello stesso colore della prima, ma a differenza di quella, finita nei pantaloni, questa gliela faccio solo annusare, un po’ come ha sempre fatto Anna con la sua fica, per corrompere gli uomini e piegarli ai suoi disegni di potere. «Questa te la darò a straordinario finito».

«Vabbè dottò, vorrà dì che me porterò in giro tutta la notte a pijà caffè».

Fai il cazzo che ti pare, basta che mi chiami, pezzo d’idiota.

Esco sul piazzale dell’ospedale, finalmente un po’ d'aria fresca.

Inalo un lungo respiro e mi dirigo alla macchina, decidendo di aspettare lì la telefonata del coatto: arrivato a questo punto, voglio sapere che fine farà Anna.

Plic!

Plic!

Le ore trascorrono lentamente e dentro l’abitacolo della mia SLK sembrano ulteriormente rallentate dalla mia solitaria attesa.

Plic!

Plic!

Pioviccica.

Le gocce d'acqua rimbombano attraverso la capotte della mia auto, lente e ossessive, come cadessero da un rubinetto... invece che da una nuvola passeggera.

X

RISULTATO DA MIGLIORARE

Drin!

Drin!

«Raffaele...», la risposta è pronta, l’impaziente attesa della telefonata gli ha fatto spegnere tre cubani dentro il posacenere. «Dammi buone notizie».

«Purtroppo non credo di potertele dare».

«Non dirmi che...».

«Sì... la tua amica è uscita viva dalla sala operatoria». Silenzio da entrambi i ricevitori. «Gravissima, ma viva».

«Maledetta puttana... non potevi lasciarti scappare il bisturi e aprirla in due quella troia?».

«Sai che non potevo comportarmi diversamente da come ho fatto.

Ho anche allungato l'intervento, ripulendole il tumore dagli intestini.

Ha la pelle più dura di quanto si potesse pensare.

Comunque il cancro non le darà scampo. È ridotta veramente male. Ha una metastasi al fegato e un'altra all'utero. Rimarrà uccisa al massimo in tre settimane».

«Questo mi consola.

Sicuro che ci lasci la pelle?».

«Sicurissimo, nessuno può salvarla. Un'altra senza il suo fisico sarebbe già morta da mesi, ma anche lei non è immortale. Dovrà arrendersi molto presto. Le cose precipiteranno in fretta e si renderà conto da sola di non potere fare più niente. A quel punto sarà morta in pochi giorni, non avrà tempo di reagire e il suo entourage dovrà rassegnarsi.

Adesso, comunque, che pensi di fare?».

«Quello che non hanno saputo fare due pallottole, un tumoraccio e un volo senza paracadute».

«Io invece tolgo il camice e me ne vado a casa.

Non voglio andarci di mezzo, questo puoi capirlo».

«Non c’è bisogno che ti caghi addosso, Professor Tersilli.

Non ci andrà di mezzo nessuno, a parte la Signora Frezzante…».

Clic!

«Roberto, tira fuori la macchina.

Andiamo a fare una visita in ospedale…».

XI

LA CHIAMATA

Drin!

Drin!

Finalmente mi squilla il cellulare, mi sveglia ma non è un gran peccato, non è comodo addormentarsi sul sedile di una SLK.

Più o meno è come un sarcofago.

«Pronto…», ho paura di sentirmi dire che la troia è crepata, e ciò mi fa dubitare di me stesso.

«Dottò… so io».

«Allora...?», meglio togliersi subito il dente.

«Allora, dottò... la bodri… cioè su’ madre... pe’ ora je l’ha fatta...

Però per malaccio... pe' quello nun c'è sta niente da fà, dottò...

Me dispiace... ma su’ madre nun c'ha molto da campà...

Però... s’è appena riportata in stanza, tutt’antubbata...».

«Dimmi in quale camera l’hanno portata e ti sarai meritato il secondo verdone».

«S’è portata in chirurgia generale, 'a stanza è la seconda a destra, la numero tre me pare, se nun me sbajo...».

«Arrivo».

Clic!

XII

UN SEGGIOLINO CHE SCOTTA

Ci si incontra sulle porte di vetro dell’ospedale e gli retribuisco lo straordinario: la mia paga è sempre al netto delle tasse.

«Grazie, dottò.

Ammazza quant'è bbona... come er pane...», e se ne va, prendendo un vecchio scooter appoggiato senza catena a un lampione.

Rientro nell’ospedale e penso che, in mezzo a tutto questo casino, posso starci benissimo anch’io, il figlio di Anna Frezzante, che con le lacrime agli occhi sta andando al capezzale della madre moribonda.

Entro nel reparto e per prima cosa mi guardo attorno per vedere se ci sono in giro piedipiatti; d’altra parte Anna è pur sempre arrivata in ospedale con due pallottole in corpo, non è una paziente qualunque.

Ma la pista del delitto passionale deve aver preso piede, perché di sbirri non se ne vedono; grossi precedenti non ne ha.

Conto partendo da destra come da indicazioni e mi fermo davanti a una porta socchiusa: stanza tre, nun s'è sbajato...

«Dove pensa di andare lei?», la voce mi sorprende con la mano appoggiata sulla porta, già pronta a spingerla. «Non può entrare in quella stanza!», la caposala mi affronta decisa.

Sarei tentato di tirar fuori la mia beretta e di stenderla con un paio di colpi, ma non mi sembra il caso...

«Sono il figlio della Signora Anna Frezzante...», è l'arma migliore al momento e fa meno rumore. «So che è uscita dalla sala operatoria e stavo cercando la camera dove è stata portata», mi sforzo di fare una faccia addolorata e cerco di non pentirmi d’aver tenuto la pistola in tasca.

«Ah... lei è il figlio della Signora…», come l’infermiera di qualche ora prima, anche questa attenua subito la sua durezza.

«Sì... come sta mia madre?

Se la caverà?», vado subito al sodo.

«È in coma», anche lei bada al sodo. «Considerato, però, che è arrivata in ospedale in condizioni disperate, deve ritenersi fortunato che sia ancora viva. Inoltre ha un tumore allo stato terminale, lo sa, no?».

La domanda è retorica.

Annuisco.

«Posso entrare a vederla...? È qui?».

«Da disposizioni del Professore non potrei fare entrare nessuno, ma...». Forse cede. «Ma dato che lei è il figlio… farò uno strappo alla regola».

Ha ceduto.

«Grazie...», è il minimo che le devo, mi ha evitato la fatica di usare altri metodi.

«Ma solo qualche minuto, intesi?».

«Intesi», la rassicuro mentre spingo la porta.

«Ah, un’ultima cosa…

Sia forte, vedere sua madre in queste condizioni non sarà un bello spettacolo».

Le faccio un cenno con il capo ed entro nella stanza.

La donna sdraiata sul letto è lei, monitor a destra e a sinistra, e tubi e fili attaccati ovunque: tutt’antubbata… il coatto aveva ragione.

Mi siedo e la guardo, il viso è tumefatto, annerito dai lividi; così com'è potrebbe essere mia nonna.

Drin!

Drin!

Mi suona il cellulare nella tasca, chi cazzo è adesso?

Clic!

Lo prendo e lo spengo, posandolo sul comodino: adesso non ci sono per nessuno.

Nonostante tutte le fregature che mi ha dato, adesso mi fa quasi pena…

La sua vita è letteralmente appesa a un filo.

Ma è una combattente, lotterà fino in fondo.

Stare lì fermo mi dà ansia, pensare non serve a niente.

Senza aspettare che la caposala arrivi a ricordarmi che devo uscire, me ne vado da solo; in questo momento c'è poco da fare.

Mi faccio le scale, il pulsante dell'ascensore è perennemente rosso e non ho la pazienza di aspettare.

XIII

PRIMA DEL GRANDE SALTO

Sono di nuovo alle porte di vetro dell’ospedale, quando mi frugo in tasca e... cazzo!

Il cellulare: l’ho lasciato sul comodino, al capezzale di Anna.

Mi tocca tornare su, accidenti.

Sono pronto a giustificarmi con la caposala, ma non ce n’è bisogno, il corridoio è deserto, meglio così.

La porta della camera è socchiusa, la spingo, ma invece di entrare mi fermo di colpo: c’è una figura di spalle, ritta davanti al letto.

Non si accorge che ho aperto la porta, sembra troppo impegnata a maneggiare una siringa.

Un infermiere? Non mi pare abbia il vestito giusto...

Un dottore? Nemmeno.

La figura si sposta di lato quel tanto che basta per offrire il suo profilo alla debole luce.

Cazzo! Certo che non è un infermiere!

E neanche un dottore: è Don Salvatore Petrucciani!

Il pesce più grosso che nuoti nei mari avvelenati della droga: che cazzo ci fa qui?

E che cazzo ci fa con quella siringa in mano?

La risposta è scontata, come la mossa di prendere in mano la mia beretta.

«Butta a terra quella fottuta siringa!», mi presento maleducatamente, alle sue spalle.

Ha un sussulto.

«Girati piano e niente scherzi».

Si volta e mi guarda, la siringa è ancora nella mano, stretta come fosse una pistola.

Non ho ancora capito se sia riuscito a usarla.

«Emiliano...», in fondo le presentazioni non servono, ci conosciamo abbastanza bene. «Mi stavo giusto chiedendo quando saresti entrato in scena… in fondo era una tua vecchia fiamma... anche se ormai stanno scorrendo i titoli di coda…», l'ha usata, il suo ghigno beffardo non mente...

E intanto ha cercato di mascherare un piccolo passo in avanti.

«Fermo lì, Petrucciani.

Fai un altro passo e ti buco la pancia».

«Ehi... calmo... una siringa non dovrebbe innervosirti tanto, no?».

«E così hai tappato la bocca a questa troia una volta per tutte… ti sei scomodato di persona…».

«È solo un aiutino…».

«Butta a terra la siringa, non te lo chiederò un’altra volta».

«Okay, o-k-a-y…», l'ha mollata.

«Dovevo immaginarlo che c’entravi tu in questa storia.

Dove c’è il puzzo, c’è sempre anche il marcio…».

Chiudo la porta e la blocco con le spalle, non sono ammessi intrusi adesso.

«Quella troia ti piaceva ancora, vero, Emiliano...?», mi sfida.

«Piuttosto dimmi perché ti è venuto in mente di far fuori sia la madre che la figlia», faccio finta di non aver sentito e non raccolgo il suo guanto. «Che tipi di conti avevano con te?».

«Conti che non tornavano», continua a sfidarmi, senza dare troppo peso alla mia beretta. «Cose che dovevano restituirmi...».

«Penso di sapere quali siano queste cose», lo conosco abbastanza per avere già chiara tutta la trama.

«Spara.

Le cose, intendo...», Don Salvatore, nonostante tutto, ha ancora voglia di fare lo spiritoso.

«Vediamo... la tossicomane della figlia non ti ha pagato un bel mucchio di bigliettoni che ti doveva per la roba che le avevi dato a credito, grazie ai buoni uffici della madre».

«Perspicace».

«E la vecchia troia, oltre a spacciare le eccedenze della figlia, non si è mai sdebitata con te, perché ancora ti doveva la fica che ti ha sempre promesso e fatto annusare…

Dunque neanche stavolta ha mantenuto la parola... ma l'ha fatto anche con me, sappilo... e tu ti sei incazzato al punto di farle piazzare un paio di pallottole in corpo… e poi di venire qui di persona a terminare il lavoro... anche se sapevi che era molto malata e che un tumore avrebbe fatto giustizia per tuo conto».

Alla fine è davvero un delitto passionale, accidenti.

«Doppiamente perspicace.

In più la gran troia era entrata nel giro sotto un’altra bandiera…», e fa un altro passo in avanti, il secondo da quando abbiamo iniziato la conversazione. Troppi.

«Un altro passo e sei morto, Petrucciani», se prova a fare il terzo, si ritrova una pallottola in fronte.

«Ma se sono disarmato… non lo vedi?».

Bip-bip-bip!

I monitor sembrano impazziti.

Anna ormai è fritta.

«Che cosa le hai dato?».

«Un veleno che non lascia tracce.

Me lo passano i servizi.

Molta gente muore in ospedale, a volte per banali complicazioni.

E se qualcosa va storto, la colpa va a un'infermiera psicopatica, sono sempre le stesse, accollano tutto a loro».

Bip-bip-bip!

L'infermiera di turno dovrebbe essere già qui.

«L'hai mandata via, vero?».

«Chi?».

«L'infermiera».

Di nuovo quel ghigno.

«Stavolta hai commesso uno sbaglio».

Mi guarda incuriosito.

«Ho solo un modo per richiamare altro personale sul posto».

«Stai scherzando...», ha capito, «non vorrai scaldarti tanto per una vecchia troia...».

Bip-bip-bip!

Questo martellante cicalio elettronico sembra la voce di Anna che mi chiede di fargliela pagare.

Alzo il braccio con la beretta all'altezza della sua fronte.

Lo guardo duro.

Sa che sto per farlo.

«No, aspetta... ci metterà un po' a crepare... il veleno è lento...

C'è un modo per riprenderla... i servizi le sanno tutte...».

Bip-bip-bip!

«Sputa il rospo, se vuoi salvarti. Questo infernale cicalio mi innervosisce».

«E va bene... si usa il siero antivipera...».

Abbasso la pistola.

«Contro questa non ci sono antidoti, Petrucciani».

BANG

BANG

BANG

Suono tre volte il campanello.

Ma ho sparato al petto, o avrei schizzato Anna con i pezzi del suo cervello.

Apro la finestra e lo scarico di sotto come un sacco di merda.

Un'infermiera più coraggiosa delle altre arriva sul posto.

Bip-bip-bip!

«Ma che succede? Chi è lei?

Perché la collega di turno non è qui?».

«Ascolti bene: stavo vegliando mia madre quando una vipera è uscita dal bagno e l'ha morsa, prima di andarsene dalla finestra. Bisogna somministrarle subito l'antidoto.

Aveva questo colore qui...», le infilo nel taschino cinque biglietti da 100. «Gliene darò altrettanti, se entro 100 secondi lei darà l'antidoto a mia madre».

«Torno subito, ma non si preoccupi. Le vipere non uccidono prima di qualche ora.

Spero sua madre possa resistere almeno dieci minuti».

Non posso rimanere a verificare la sua efficienza. Ma una buona sanità costa.

Le lascio gli altri cinque bigliettoni sotto il braccio di Anna.

Adesso voglio andarmene a casa e farmi un lungo sonno, come sta facendo la Frezzante.

Dal pomeriggio comincerò a studiare un antidoto per questa grossa troia.