La puttanata di Tex

Una faccia triste per Layla

La sorca dei pozzi

Morte allo specchio

LA PUTTANATA DI TEX

di Salvatore Conte (2024)

Girando per Tucson, si è preso una cotta per una puttana di prestigio: la quarantottenne Manuela Williams.

La tratta come una sgualdrina, e non ha ancora deciso se presentarla o no ai suoi pards.

Al momento si limita ad assecondarla nei suoi commerci illeciti con banditi messicani, da cui si rifornisce di droga per i suoi clienti.

«Io e te, Tex... abbiamo il West in pugno... nessuno potrà fermarci...».

«Sei una bella puttana, Manuela... ma è presto per fare certi discorsi; sono un ranger, lo sai, e poi non so se hai la testa per starmi dietro, le zinne di sicuro...; e non so nemmeno come la prenderebbe il vecchio cammello...».

«Quel che conta è che te lo faccio venire duro, no?

Perché non ci sposiamo, Tex? Una come me non la trovi più».

«Sei una pragmatica, Manuela...

Non dico di no a una bella donna come te, ma devi aspettare, voglio convincermi che sei la migliore...».

«Mi fai bagnare...».

«Sei una lurida vacca, Manuela... ma con te ci sto bene».

Il rapporto, se così si può chiamare, va avanti in questa maniera, tra insulti e schizzi di follia. E tra commerci pericolosi.

Se lei ci lasciasse la pelle, lui in fondo ci godrebbe.

Ma per il momento non vuole farne a meno, l'ha intossicato.

C'è un imprevisto sulla pista, prima dell'incontro con i messicani.

Un gruppo di indiani ha fatto secco un mercante di whisky.

E non devono essere lontani.

«Zoccola... te lo sei mai fatto un indiano?».

«Certo, scopano anche loro».

«Io mi sono fatto un'indiana, molto tempo fa. Per fortuna è crepata giovane, mi stava scassando le palle».

       

«Ma di me non sei mai stanco...».

«È presto per dirlo, vecchia troia; ma prometti bene; hai le zinne, e sono due punti a tuo vantaggio».

«Con me vai sul sicuro, ti metti a posto per sempre...».

«Potrebbe anche essere, visti i tuoi numeri.

Ma le pallottole, le sai reggere?

Intorno a me fischiano spesso».

«Nessuno mi ha mai sparato contro».

«C'è sempre una prima volta, Manuela».

«Non mi faccio ammazzare, se è questo il tuo problema».

«Lo vedremo, il piombo è una brutta bestia».

«So sparare e so uccidere, nessuno può fermarmi».

«Meglio così.

Perché adesso voglio dare una lezione a questi miserabili».

Tex si mette in caccia e dopo non molto riesce ad avvistare un bivacco indiano.

Devono essere gli autori dell'eccidio.

E per giunta sono navajos!

Tex decide di dar loro una bella strigliata.

«Tu non ti mettere in mezzo, stai zitta e rimani a guardare».

Gli indiani fanno bisboccia svuotando intere casse di whisky, sparando colpi a vuoto nel cielo terso del deserto straziato dal sole.
I navajos, con sorpresa della donna, conoscono bene Tex, lo considerano un capo, chiamandolo col lusinghiero nome di Aquila della Notte.
Per questo Manuela è ancora più sorpresa quando Tex molla il calcio del proprio fucile sul muso di uno di quegli indiani.
«Siete solo degli ubriaconi, ve ne state a spulciarvi in questo deserto come dei luridi coyotes!».
Il più prestante degli indiani, dal corpo possente segnato da svariate cicatrici dovute a lame e pallottole, si fa avanti gettando via una delle bottiglie che ha appena svuotato, regge bene l’alcool, non sembra nemmeno brillo.
«Non puoi fare questo, cane bianco, non ho mai approvato tutte le stronzate che dicono su di te, sei solo un razzista che pensa ai soldi e vuoi sporcarci con la tua ideologia da cane addomesticato, ma hai detto bene, noi siamo coyotes e adesso ci fotteremo in gruppo la tua vacca bianca!».
C’è un tripudio di ghigni lascivi tra i navajos.

«Vi piacerebbe... ma è la mia vacca!».
Tex si fa avanti, è abituato a trattarli come cani randagi da ammansire e prendere a calci, ma questa volta non funziona.
Quello con le cicatrici schiva il colpo e accoltella il braccio del ranger, la ferita è di striscio, ma basta a fargli abbassare la guardia; presto si ritrova immobilizzato nella polvere con un pesante corpo sulla schiena, faccia a terra tanto da soffocare.
«Ringrazia che non ci inculiamo anche te, Aquila della Notte!», sussurra una voce piena di intenzioni all’orecchio di Willer.
Tex non vede il resto, sente solo le urla della Williams.

«Basta! Siete troppi!».

Ma la gran troia ben presto si lascia ammansire, volente o nolente.
Niente di nuovo per la bella zoccola: cazzi indiani in ogni orifizio, bocca tappata da palle pulsanti, enormi tette maneggiate con troppa violenza tanto da renderle violacee, schiaffoni sulle natiche sobbalzanti tanto da lasciare i segni vermigli delle cinque dita callose abituate alla lancia e al tomahawk.

Culo rotto senza tanti riguardi, innumerevoli posizioni stranamente fantasiose per dei coyotes, e infine tanta di quella sborra da coprire non solo interamente il corpo nudo ed esausto di Manuela, ma da rendere umida, simile a una pozza viscida, persino l’arida terra del deserto dove si è consumato il violento coito.
Una volta finita la festa, gli indiani si divertono a prendere Tex a calci in culo, lo rotolano nella polvere a suon di cazzottoni e zampate nelle palle, se lo passano martoriandolo in un severo, inesorabile pestaggio, poi lo lasciano crollare, tumefatto e insanguinato, accanto alla sua ganza imbrattata di sperma.
«Volevi maltrattarci, vero, Aquila della Notte?
Solo per esserci divertiti con quel bianco e aver bevuto la sua acqua di fuoco; adesso hai capito che noi non abbiamo padroni, tantomeno un cane addomesticato come te; nessun navajo crederà mai più alle tue storielle!
Ora andiamocene, compagni.
La bava di questo cane rognoso è disgustosa da vedere».

«Bastardi…
Le abbiamo prese, puttana…», Tex aspetta che gli indiani si allontanino, prima di rivolgersi alla donna.
«Sei uno stronzo… guarda come sono ridotta… ahh…», la donna è dolorante e perde sangue da tutti gli orifizi.
«Tu sei indistruttibile, Manuela; è un complimento quello che ti faccio. Nessuno può fermarti, è la prova che volevo.

Ne ho viste di donne crepare lungo la mia strada…».
«Io non sono… come una di quelle cagne… ahh… te l'ho detto... io non mi faccio ammazzare…».
«Questo lo vediamo subito… mi hai fatto venire una gran voglia… di fotterti… anche così… sfondata da mezza tribù…».
La Williams deve subire l’ennesimo assalto.
Piove sul bagnato, nel deserto più arido del West.
«Sei una puttana, Manuela…», Tex si dichiara soddisfatto, quando estrae la colt fumante dalla fica sanguinante della sua donna.
Più duro di così non gli era mai venuto.
«Ci sposiamo, va bene?

Ti presenterò ai ragazzi».
Il patto è suggellato.

Un paio di giorni e i due si rimettono in piedi.

Ora cavalcano affiancati, a passo d'uomo.

Poiché hanno mancato l'appuntamento, andranno a casa del bandito.

«Se quel pendaglio da forca ci farà storie, non lo riconoscerà nemmeno sua madre...», Amarillo è in vista.

«Fai sempre il gradasso, non è vero?

Con gli indiani, però, abbiamo preso una bella ripassata...».

«Quei bastardi mi hanno preso alla sprovvista, ma con Sancho andrà diversamente.

È un figlio di cagna e lo tratterò come tale».

«Cerca di non rovinarmi gli affari...».

«Tanto dovrai smettere comunque».

Due tirapiedi del bandito li accolgono in città come sapessero del loro arrivo, forse la loro fama li precede, già si dice in giro che Willer voglia prender moglie.

«Non sei ancora sposata, vero, Manuela?», esordisce Sancho. «Andiamo di là a discutere di affari...».

Willer lascia fare, gli sta bene che la sua donna vada forte.

Il ranger indugia per qualche secondo, poi si mette a guardare dal buco della serratura.

Sancho si sta palleggiando le tettone sobbalzanti di Manuela.

Tex non sta più nella pelle, sente scoppiarsi il cazzo nei pantaloni, libera il suo arnese e comincia a menarselo come un forsennato, con la faccia schiacciata sul buco della porta.

Sta per schizzare contro il legno tarlato, ma qualcosa non va, il bandito invece di estrarre il proprio di arnese, tira fuori una derringer e tenta di infilarla nella passera della Williams, forse per giocare, forse per farle un brutto scherzo...

La donna si dimena e il colpo parte!

Anche una derringer può essere mortale, se infilata in quel posto!

La pallottola può arrivare fino in bocca, o al cervello!
Tex entra furibondo col bastone dritto - una goccia di sborra sulla punta pronta a rompere gli argini, ma strozzata sul finale - e tira un destro a Sancho diretto sulla mascella e gliela spezza con un crack che sembra vetro frantumato.
«Adesso finisci il lavoro, grandissima troia, fammi sborrare, sto esplodendo, ne ho fin nel cervello, ti allago le tette, poi scappiamo da questa città del cazzo!».

È talmente su di giri da non rendersi conto che Manuela ha una calibro 22 in corpo... la pallottola si è fatta il giro dei suoi organi... fregna, utero, budella fegato, polmoni... un tour completo...
Malgrado tutto, la moglie esegue fedele, la sega è compiuta, ma il respiro le manca.

«Sei mio marito...», sussurra la donna, allucinata e impaurita.

«Sei un pezzo di fica, Manuela. Non mi stancherò mai di te».

Tamponata la vagina della moglie e sistemati i due tirapiedi con mezza tamburata di revolver, Tex mette la donna sul cavallo e i due lasciano le baracche della città, carichi di droga e progetti.

La loro cavalcata, però, dura poco, perché una volta ripresosi, Sancho - con la mascella frantumata, scrivendo bigliettini per di farsi capire, e imbottito di laudano per calmare il dolore accecante - raduna un gruppetto di bei figli di puttana e li lancia all’inseguimento di Tex e Manuela.
I cavalli sfiniti dei fuggitivi vengono presto raggiunti dalla ciurma di Sancho.

Un certo Cane Pazzo Charlie comincia a sparare fucilate galoppando come un demonio, beccando Manuela dritta in mezzo alla schiena, con la pallottola che le esplode fuori dalle tette!

La donna di Tex si china sul collo del suo cavallo, e inerte, quasi incosciente, si lascia trasportare alla cieca.
Tex tiene le redini della moglie, facendole seguire la sua direzione, le pallottole fischiano dietro di loro inseguendoli inesorabilmente.
«Resisti, siamo in territorio indiano, adesso scoppia un casino!».

Proprio in quel momento, però, il cavallo del ranger si becca una pallottola nelle chiappe!

Ne consegue un capitombolo colossale, i due destrieri si invischiano e cadono rovinosamente in una maestosa nube di polvere.
I fuggitivi vengono raggiunti, sono per terra, inermi, patetici, solo la colt di Tex può tentare di difenderli.
Gli scagnozzi di Sancho, armati fino ai denti, se la ridono e sono pronti a fare fuoco. Una freccia però trafigge da parte a parte il collo di un bandito: uno schizzo di sangue violento vomitato dall’aorta imbratta l'arido terreno!

Segue una pioggia di frecce, la ciurma è crivellata di saette, i corpi sembrano enormi puntaspilli.

La stessa Williams è trafitta più volte, proprio nelle grosse zinne; e non esce solo sangue...
Poi urla invasate e selvagge, tomahawk che affondano nei crani. Qualcuno spara ancora, ma è inutile, gli indiani compiono un massacro.
Mentre piovono le frecce, Tex pensa bene di calarsi le braghe e con le chiappe al vento coprire il cadavere della moglie: vuole scoparsela così, con la bocca tinta di sangue, fredda e pallida come il ghiaccio, che in quel deserto del cazzo non si vede mai.

Glielo infila dentro, duro come un tomahawk, e bacia con la lingua quella bocca che espettora sangue nella sua.

Quando viene, capisce che la moglie non è del tutto morta, reagisce e ansima disperata, anche se con occhi spenti che fissano l'inferno. Nonostante ciò, le ficca in bocca il cazzo, impiastricciato di seme, nel tentativo di rianimarlo.

Tex si illude che la moglie giochi a fare la morta ancor più di quanto non lo sia davvero, dopo la fucilata che l'ha raggiunta in pieno alla schiena e dopo lo schizzo di derringer in fregna che le è arrivato chissadove.

È staccato da lei da un calcio nel costato che gli frantuma due costole. Rotola nella sabbia con le chiappe nude e il pene al vento, impanandosi di polvere come una cotoletta. È una visione degradante e triste. Un'intera tribù lo attornia e comincia a prenderlo a calci nel pallido deretano scoperto. Pugni, bastonate, persino un paio di frecce nei glutei.

Tex striscia umiliato, mentre gli indiani ridono sguaiatamente, sollevando di peso il corpo della moglie.

Glielo mettono vicino, a portata di lingua.

«Già tutti davano lei come quinto pard della tua banda, cane bianco...

La moglie che avresti usato per certi lavoretti sporchi...

L'avevi pensata bene: due grosse tette e una gran voglia di fare la zoccola e leccarti gli stivali.

Finora sembrava indistruttibile, l'ideale per te...

Ma guarda adesso come è ridotta! È una cagna miserabile!

E allora leccala, su! Cane!

Leccatevi!

E sarete marito e moglie, per Manitù!».

UNA FACCIA TRISTE PER LAYLA

di Salvatore Conte (2024)

S’era letteralmente mangiata una scarica di thompson.
Sette-otto pallottole .45 in pancia, difficili da contare sulla tuta scura.
Erano tante anche per una come Chana, la Papessa Nera.

Una dura, una bestia, che però adesso rischiava di chiudere i battenti prima della Boyle.

Layla, se non altro - mangiata dal cancro - queste complicanze le aveva evitate. La raffica era toccata a Chana.

I regolamenti di conti tra bande rivali erano frequenti in quegli anni.

Ma solo quando li toccavano da vicino, i pezzi grossi capivano sulla propria pelle la pesante tragedia del piombo.

Oggi era toccato a Chana scendere dal piedistallo.

La stavano portando da Williams, il medico di fiducia della banda, gestore di una clinica privata: una sorta di area franca, dove né la polizia, né altre bande andavano a ficcare il naso.
«Va bene, Layla?», domandò Fred, dal posto di guida.
La Boyle aveva la faccia sempre più triste, ma con la sua carne cercava di mantenersi credibile, come donna e come sicaria, ed era ancora considerata potente da alcuni membri della banda.
Minata da un male incurabile, infagottata nel suo trench nero, ossessionata dal poco tempo che le rimaneva, la quarantottenne era la lontana parente della felice sbottonata di qualche anno prima.

Divorata dal cancro, era sempre pallida, il collo gonfio per la reazione ai farmaci, il volto tirato; sembrava invecchiata di 10 anni e passa...!

Le diagnosi di Williams furono spietate: Chana aveva le ore contate, Layla i giorni contati.

«Ma qual è il problema, Doc?», chiedeva Bill.
«E me lo chiedi? Il piombo se l’è mangiata…».
«E Layla?», anche la Boyle, che accusava dolori all’intestino, era stata visitata.
«Layla è arrivata… ha l’addome gonfio di ascite.
Insomma... la pancia è piena zeppa di liquido tumorale!
È solo questione di tempo, e neanche di molto.
È finita, nessuno può salvarla».
Una doccia fredda per Bill, che pensava Layla potesse ancora gestirsi, come aveva fatto fino a quel momento.
«L'ascite, cosa sarebbe?».
«L’ho appena detto: è una raccolta di liquido, conseguenza di un tumore in fase molto avanzata».
«Layla è malata da tempo, lo sappiamo. Ma finora ha sempre tirato avanti, si è gestita bene. È grossa e potente, e ci tiene alla pelle. Non puoi tirarle fuori questo liquido?».
«Lo faccio tutte le settimane, però il tumore si è allargato ancora e il liquido aumenta sempre di più; adesso glielo tolgo, ma domani starà di nuovo male...».

Layla Boyle aveva l’intestino consumato da un tumore maligno molto aggressivo; però era arrivata bene alla fase terminale, con disturbi fino a quel momento limitati e occlusioni intestinali che, pur dolorose, non si erano rivelate letali; un blocco intestinale in grado di ucciderla non si era ancora realizzato, data anche la sua tempra fisica, e così lei aveva tirato avanti, tanto bene che ora sembrava assurdo avesse poco da vivere.

«Layla... tu... mi raggiungerai... presto... ohh...».
«Non sei carina, Chana.
Sì, è vero, sono fottuta. Ma ho più tempo di te.
Molto di più».

Dopo l'estrazione delle scorie tumorali per mezzo di una grossa siringa, Layla aveva fatto visita a Chana; la tensione, però, si tagliava con il coltello.
«Ghh...».

La Papessa Nera stava rantolando.

Layla aveva fatto uscire tutti, ormai non c'era più niente da fare.

La quarantottenne raccolse in una provetta gli ultimi fiotti di sangue vomitati da Chana.

E la portò a Williams...

«Brava, sarà molto utile».
«Temo che presto ne avrò bisogno anch’io…».
«No, con te proverò altro. Fermeremo il cancro, in un modo o nell’altro».
«Ci riuscirai davvero, John?».
«Dipende anche da te, Layla».

«Basta stronzate: quanto mi rimane?».
«Non è così semplice, bambola.
Sei dentro la fase avanzata del cancro già da diversi mesi.
Nonostante tutto, il tuo fisico massiccio è riuscito ad adeguarsi e a trovare un equilibrio, sia pur precario, con il tumore; è per questo che voglio tentare ancora qualcosa… ossia... l’adattamento totale!», esclamò con enfasi innaturale.
«Tu non vuoi dirmelo...».
«Se va avanti con questo ritmo, tra una settimana dovrai metterti a letto.
Poi la durata dell'agonia dipenderà da quanta voglia avrai di lottare.
Sono sicuro che una come te non si arrenderà.
Col tuo fisico potrai trascinarti per un paio di mesi, anche tre.
Ma sarà dura. Ci sarà da soffrire. E se attaccasse il pancreas, la situazione precipiterebbe in pochi giorni.
Io ti sarò vicino, sarai ricoverata qui».
«Bene... ora so che è finita».
«Lo sapevi già, Layla».
«Non volevo crederci.
Ma non so se avrò voglia di lottare».
«Ti verrà. Ne ho visti tanti di pazienti nelle tue condizioni.
Non ci si rassegna mai. E tu non farai eccezione.

Ora, però, rilassati: non sei in pericolo di vita, la fine non è imminente.
Pensiamo a Chana, adesso. Faremo un bel regalo al Capo».

Williams trasferì il corpo di Chana nei sotterranei della clinica, dove aveva installato i suoi laboratori segreti. Solo lui aveva la chiave per consentire al montacarichi di scendere al di sotto del livello 0.

Il medico prese a lavorare davanti a Layla, che intanto rimuginava sulle sue ultime parole.
Williams distribuì il contenuto della provetta fra le sette porte del corpo: le orecchie, le narici, la bocca, la vagina e l'ano.
Il tommy-gun le fu rimesso sotto braccio.
Infine preparò all'uso uno strano congegno.
«È un apparecchio rianimatore di ultima generazione. L’ho progettato io stesso», spiegò a Layla.

Il medico digitò sul pannello di comando una serie di istruzioni.

«È l'algoritmo della rianimazione!».
Williams spinse l'interruttore e una forte scarica elettrica attraversò il corpo di Chana.
Complessivamente, il medico generò dall'apparecchio tre scosse di intensità crescente.
Il cadavere di Chana sussultò due volte, per poi tornare rigido.
Dopo la terza scossa, però, avvenne l'impensabile: la mano della Papessa Nera si strinse sul tommy-gun, la bocca si dischiuse, gli occhi si riaprirono.
Chana era rinata!
«È fatta...!».
«Portale via il thompson, John...», suggerì preoccupata la Boyle. «Sai... non ci siamo lasciate molto bene...».
«Ora non sarebbe prudente, Layla.
Chana! Io, John Williams, ti ho ridato la vita! Io sono il tuo padrone, Chana! E tu mi devi obbedienza, se vuoi vivere ancora! E la devi anche a Layla Boyle, la donna che è accanto a me! Layla Boyle è la tua padrona, Chana!
Le istruzioni devono essere semplici, capito?».
«Capito».
«Chana! Se qualcuno minaccia la vita dei tuoi padroni, tu devi uccidere quel qualcuno, chiunque sia, mi hai capito bene?».
Un blando cenno di assenso con il capo.
«Ora alzati e cammina! Ritorna alla vita, Chana!».
La zombi si alzò lentamente, goffamente, come avesse dimenticato tutto, anche le cose più semplici.
L'unica cosa di cui si mostrò prontamente capace fu il maneggio del tommy-gun.
Layla trattenne a stento l'ansia.
Ma la rediviva non prese iniziative, rimanendo immobile, come un braccio a riposo.
«Chana! Tu sei la guardia di questo edificio! Uccidi chi è nostro nemico!
È meglio darle subito un obiettivo, intorno a cui aiutarla a ricostruire la propria identità», spiegò il medico, rivolgendosi di nuovo a Layla.
La zombi prese a muoversi lentamente.
Individuò l'uscita della stanza e la oltrepassò, sbattendo prima contro la porta chiusa e poi ricordando come andava aperta.
Williams la seguì a distanza: Chana stava perlustrando il corridoio sotterraneo; quindi si piazzò al fianco di un armadio, in piedi, impostata come una guardia, col thompson sotto braccio.
«Perfetta... che ne dici di festeggiare il tuo successo, John...?».
«Mi sembra più che giusto, Layla...».

«Mi è venuta un'idea, John...», si rialzò dal lettino completamente nuda, a parte gli stivali, e indossò il trench nero, allacciando a malapena un bottone.

Aveva gli occhi allucinati.

«Eccolo... questo è perfetto...», afferrò un vasetto di vetro e lo porse al medico. «Io sono pronta. E tu?», annunciò solenne, impugnando il suo revolver a canna corta; quindi orientò la canna verso sé stessa, contro la sua pancia...
«Layla... è una follia...».
«Perché mai, John...? Una follia sarebbe quella di illudermi ancora.

È finita, lo hai ammesso».
«Ma io ti sarò vicino... hai ancora mesi davanti a te, Layla...».
«Sì, mesi di sofferenza su un lettino a contorcermi come una biscia, sperando che il pancreas non mi dia subito il colpo di grazia.
No, non fa per me. Non voglio crepare come una puttana.

Certo... le tue cure attente mi farebbero campare qualche settimana in più, ma la fine sarebbe la stessa.
E sai per primo che non sarebbe piacevole vedermi arrovellare su un letto a gestire gli ultimi spiccioli, già di fatto fallita.

No, non mi salvo da questo tumore, per me finisce male; anche se sono stata brava a tirarla per le lunghe, anzi bravissima... andrei a crepare tra troppi rimpianti.
Verrebbero a trovarmi qui da te, morbosamente ansiosi di vedermi lottare inchiodata al letto, invocando una mascherina dell'ossigeno o una trasfusione per tirare avanti a oltranza e guadagnare qualche giorno, spaventata a morte dalla fine.
Un'altra possibilità c'è...

Fammi rinascere... John…».
«Layla... no!».

La Boyle indurì lo sguardo.
BANG
L'aveva fatto...

«Layla... cosa cazzo... hai fatto...?!», mentre lei cadeva sulle ginocchia.
«Avanti… raccogli il sangue… o sarà tutto inutile…».
Il dottore si chinò su di lei e le sbottonò il trench: la pallottola era esplosa nelle budella, a bruciapelo.
Un colpo mortale, anche per una donna in piena salute, e lei non lo era.
Williams impallidì. Non c’era nessuna possibilità di tornare indietro. Accostò il vasetto alla ferita. Il sangue colava molto lentamente a causa delle cattive condizioni dell’organismo, quasi putrefatto come un cadavere.
Il contenitore si riempì faticosamente. Alla fine c'era più liquido tumorale - biancastro, lattescente - che non sangue vero e proprio.
Al termine, quasi fosse rimasta sulle ginocchia solo per quello, Layla si accasciò in avanti con un gemito di sofferenza.
«John… sto morendo…», cercava un po’ di compassione in quel momento estremo.
«Maledizione...», Williams la sollevò, non senza fatica, e la distese sul lettino del laboratorio.
Il sangue si era già coagulato, ma l'ascite continuava a colare dal buco.
In un certo senso, sembrava che la pallottola avesse ucciso un cadavere.
«No… non voglio morire…», Layla si guardava attorno con occhi spaventati. Aveva qualche comprensibile rimpianto. Ampiamente tardivo.
Williams la ricompose, allacciandole un paio di bottoni.
Non voleva che morisse come una puttana.
«Fermarsi adesso sarebbe assurdo, Layla.
Rimarresti a metà del guado, non torneresti in vita e non avresti nemmeno la possibilità di tirarla per le lunghe… con questo buco non arrivi a domani mattina...».
«Lo so... dannazione... lo so... aspetta solo un attimo... ohh...», la bocca spalancata e gli occhi dilatati, ma le le mani a stringere forti la pancia, addosso al buco e allo stesso tumore, quasi a controllare la situazione e a misurare il tempo che le rimaneva. Si era fatta letteralmente esplodere e ora aveva tanti rimpianti.
«Lasciati andare, Layla...».
A rompere l'impasse giunse la crisi della Boyle.
«John...!», lo invocò allarmata. «John...», ripeté debolmente, ormai stordita. «Non... voglio... morire... ho... sbagliato... a...i...u...t...a...m...i...».
Seguirono degli spasmi; poi le mani caddero lungo i fianchi e gli occhi raggelarono.
La Boyle, che con feroce lucidità si era fatta esplodere la pancia, aveva stirato le zampe.
Il medico, senza perdere tempo, distribuì il sangue del vasetto tra le sette porte del corpo.
«Maledizione…», era in ansia e l'ansia gli faceva colare sul viso uno strano sudore, da cui cercava invano di asciugarsi: creare due zombi, una dietro l'altra, era evidentemente troppo anche per uno come lui.
Terminata la prima fase del procedimento, attaccò Layla al rianimatore e inserì la sequenza dell'algoritmo: adesso era tutto pronto per la seconda resurrezione.
Bastava solo spingere l'interruttore.
Lo fece senza indugi e la prima scossa attraversò il corpo della Boyle.
Poi la seconda e la terza, a intervalli regolari e intensità crescente.
Il dottore osservò ansioso il letto ove giaceva il cadavere di Layla.
Le gambe reagivano!
Si scuoteva!
Anche stavolta ce l'aveva fatta...
Era rinata!
«Layla Boyle! Tu sei la mia schiava! E tu perciò farai tutto quello che io ti chiederò di fare!», Williams aveva un debole per lei, ma Layla era abituata bene, e se aveva ceduto qualcosa negli ultimi tempi, a lui, un viscido, stempiato segaossa sempre sul punto di essere radiato dall'albo, era stato soltanto per farsi curare con maggiore attenzione, visto che perlomeno le aveva allungato la fine.
Adesso, però, Williams poteva asservirla per sempre.
«Vieni verso di me, Layla!».
Un paio di barcollanti passi e gli fu davanti, trench nero e stivali, mentre lui si era già allentato i pantaloni.
«Inginocchiati all'altezza del mio membro e prendilo in bocca!», la mano sulla testa di lei ad accompagnarla nella giusta direzione.
«Sì, Layla! Fammi godere...!».

Risalito in superficie con le due zombi, Williams spiegò ai ragazzi del Boss che Chana sarebbe stata ancora utile, mentre Layla necessitava di un ricovero d'urgenza.

Trattenuto da una serie di domande, fremeva per tornare dalla Boyle.

Quando ritornò nella stanza in cui l'aveva lasciata, rimase basito: lei non c'era e la finestra era aperta.

La cercò, ma senza attirare troppo l'attenzione.

«Tu sei bravo... a muovere quel coso...».

«Quale coso, signora?».
La Boyle imitò il ragazzo che guidava, le mani sul volante.

Dopo essere uscita dalla finestra, aveva fermato una macchina: si trattava di un giovane che aveva visitato un parente ricoverato nella clinica del Dott. Williams.

«Mi scusi, signora... è sicura di sentirsi bene?».
«Io... sto bene...».

Il trench nero mascherava bene le tracce di sangue e il buio dell'abitacolo faceva il resto.

«Però non mi ha detto dove è diretta... insomma dove posso lasciarla...».

«Io... a casa tua... andrà bene...».

Tenuto conto del trench molto scollato, il ragazzo cominciò a nutrire dei dubbi.

«Signora... lei è molto attraente, ma non so se... ecco...».
La zombi notò un oggetto nel vano dello sportello.

Era una torcia elettrica.
«Mi ricorda qualcosa... lo prendo...».
Layla afferrò la torcia e se la infilò senza esitazioni nella sorca.
Così facendo, si accese e il riflesso del cono di luce indirizzato sui piedi, ne illuminò il volto spettrale.
Il ragazzo era basito.
«Signora... se ti senti così sola... beh... io ho un'altra torcia: non fa luce, ma funziona bene e senza batterie...

Come ti chiami, bella signora?».

«Mi chiamo... inizia con la elle... almeno credo...».
«Sarai anche suonata, però sei un bel tipo, sai?».

Erano giunti a casa del ragazzo. Un economico alloggio di fortuna, nell'estrema periferia.
«Sono un semplice studente, signora Lana... mi dispiace non poterti offrire di più...».
«Tu... cosa studi...?».
«Medicina».
La Boyle si accomodò sull'unica poltroncina, stringendo le mani sui braccioli come se si ritrovasse su un trono.
«Signora Lana, vuoi farti una doccia?».
«No... Layla... mi chiamo Layla...».
«La sbornia sta passando, eh?».
«Se studi medicina... vuol dire... che diventerai... un dottore... come John...?».
«Prima o poi... ma chi è questo John?».
«Hai già fatto... l'esame dei tumori... che uccidono...?».
«Oncologia...?
L'ho appena superato!».
«Bene... allora mi aiuterai... fammi una visita...».
La zombi si aprì il trench.
«Ma...!? Sei ferita! Questo è il buco di una pallottola!».
«Non è quello il problema... controlla il tumore...
Ehi... cos'è questo buco...?».
«Qualcuno ti ha sparato, signora Layla. Non te lo ricordi?».
«Sì... sono stata io...».
«Io non ho il telefono, ma posso arrivare qui di fronte, dove...».
«No... pensaci tu...».
«Come vuoi... ho delle bende».
«Non ce n'è bisogno...
Per il tuo bene, figliolo, vai a nanna e dimentica tutto...
La signora viene con noi».
L'avevano ritrovata.

A quattro settimane da quella incredibile notte, la malattia di Layla si era pesantemente aggravata.
La Boyle si era ridotta a essere la biscia umana dei suoi peggiori incubi: avvitata al letto, inquieta, impotente e senza prospettive.
Le complicanze della pallottola nelle budella l'avevano ulteriormente indebolita.
Si diceva ormai che ne avesse per pochissimo.
Il Boss la visitava spesso, per non perdersi il momento fatale.
Vederla annaspare lo eccitava, ed era per questo che si augurava la fine non giungesse rapida.
Ma ormai Williams lo aveva avvisato che la situazione poteva precipitare da un momento all'altro.

Layla andò in crisi alle undici della sera. Non respirava più senza mascherina.
Il Boss aveva interrotto una riunione e stava arrivando di corsa.
Trovò Williams intento a ridurre l'ascite della Boyle con la solita siringa di grandi dimensioni: incuteva soggezione solo a guardarla.
Era tutto inutile, ma si cercava di farle guadagnare un po' di tempo.
Anche Fred era arrivato e assillava Williams con le sue domande.
Voleva assolutamente sapere se poteva trattarsi della crisi fatale.
Il suo speciale interesse per la moribonda era noto. L'aveva incoraggiata fino a quella mattina.
«Non mi lascio andare... promesso.... meglio fare la biscia... che essere mangiata dai vermi...», gli aveva risposto, poche ore prima che le mancasse il respiro.
La situazione era critica, ma relativamente sotto controllo.
La trasfusione era pronta.
Non si badava a spese per lei.
Se Layla non si fosse aggravata ulteriormente, avrebbe superato la notte.
L'obiettivo era quello di stabilizzarla.
Non sarebbe servito ad allungarle di molto la vita, ma nessuno aveva il coraggio di staccarle la spina.

Il Boss volle parlarle. Le fu tolta la maschera dell'ossigeno.
«Layla... vecchia mia... John sta facendo il massimo... ti teniamo...».
«Okay... ci provo... ci provo...».

«Brava... fai la brava...».
La Boyle superò la notte e passò una settimana relativamente tranquilla.
Era orgogliosa della sua tenuta e chiedeva spesso notizie di improbabili miglioramenti.
I giorni continuavano a passare tra frequenti malesseri, ma senza crisi acute.
Il suo organismo sembrava adattarsi di continuo.
Sangue a volontà, ossigeno, vitamine, farmaci, un medico h24 e continui prelievi di ascite la rendevano una privilegiata nella sventura, anche se il fisico massiccio risultava ancora la sua risorsa più preziosa.
Erano passati 15 giorni dalla crisi che aveva minacciato di risultarle fatale e la Boyle riusciva tuttora a gestire la situazione, con Williams e Fred sempre accanto a lei.

Però Layla aveva la faccia triste, perché la tenevano a galla, ma il tumore si era allargato ancora.

Per quanto si sforzasse, non vedeva alcun futuro per la sua carne marcia di zombi. Viveva solo nel presente e si attaccava alla vita.

«Se oggi ancora respiro è un gran giorno. Non voglio morire...», sussurrava a Fred, aggrappandosi alla carne da gran puttana; il Boss intorno a lei come un avvoltoio, gli altri a sperare di poterla stabilizzare, nelle incombenti crisi acute.

E allora... faccia triste, ma con un leggero sorriso...

LA SORCA DEI POZZI

di Salvatore Conte (2024)

È al servizio di Rafeeq, il braccio armato di King Awad, Re d'Arabia e del Petrolio. È una grossa puttana, molto ben stagionata, sempre sbottonata, con una kefiah da guerrigliera a mascherare le origini occidentali: è Anna Frazer, anzi Hanna Al Zafar.

Patrick Hale le ha subito messo gli occhi addosso, smentendo sé stesso.

È una storia sbagliata, con una donna sbagliata, ma in un mondo sballato come questo, non si può escludere che sia la cosa giusta.

Per lui è ormai diventata la sorca dei pozzi, perché tutto ha inizio da una parola magica e da strane voci nel deserto.

Non si può stare fermi, il sistema è programmato per generare conflitti e allora il brutale Rafeeq deve tirare per la dishdasha il Re buono, il Re santo, King Awad.

Si sono conosciuti attraverso i pozzi, dove il potere non conosce limiti.

A lui piace quella carne grassa, da mignottona. E il camicione di jeans sbottonato fino allo stomaco.

«Forse è meglio se smetti, troppi rischi...

Quando ho finito qui, puoi tornare con me... in fondo sei americana».

«Qui mi piace, ho potere... ma so di rischiare...», gli occhi si fanno allucinati. «A volte mi chiedo se... se sarei in grado di gestire una raffica di kalashnikov in pancia...», la lingua sul labbro e la mascella bassa, eccitata.

«Non è pensabile che tu debba correre un rischio del genere, Anna...

Le pallottole uccidono anche una come te...».

«Stai calmo... finora non sono morta.

Qui ho il mio potere, ma con me ti metti a posto, è chiaro: sono il tuo pozzo».

Anna ha ragione, se non ha torto: nel cervello gli è entrata forte, lei e le sue zinne sbottonate da sorcona, il pisello si fa subito duro quando la vede.

La storia diviene ancora più sbagliata quando a King Awad le voci del deserto (la CIA e il Mossad) suggeriscono di regalare due valigie atomiche a Rafeeq.

La cosa si fa imbarazzante, quasi giusta.

A questo punto parte la corsa alle valigie. E dentro c'è pure Hanna El Zafar, tanto sbottonata quanto risolutiva.

Siamo dunque alla resa dei conti: quel che è giusto è sbagliato, e ciò che è sbagliato è perfino giusto.

«Non pensavo che... m'avrebbero sparato addosso... ormai sono famosa...», Anna è stata raggiunta da una raffica nella pancia, come nei suoi incubi o desideri più perversi. Mentre si aspetta l'ambulanza, Patrick Hale è accanto a lei, in veste di giornalista.

«Volevo... mettermi in salvo... sapevo che l'elicottero... sarebbe stato abbattuto... ma prima... dovevo... mandare... a morire... le puttanelle... dell'Islam...».

Una confessione completa, da sbottonata.

«La famosa terrorista è stata trasportata in ospedale, in fin vita, accompagnata da Patrick Hale in persona. Sulle sue condizioni c'è il massimo riserbo, ancora non trapela se sia deceduta, o rimasta uccisa.

Nel suo caso, comunque, la cintura esplosiva non è esplosa: una bella fortuna per la signora...», strombazzano dalle TV.

Rimane solo da disfare le valigie, 20 anni prima.

MORTE ALLO SPECCHIO

di Salvatore Conte (2024)

Ha preso due brutti colpi, ma può ancora salvarsi, se sta attenta.

Adesso, però, non può più sbagliare, deve tenersi bassa, strisciare giù per le scale e mettersi in salvo.

Però c'è una cosa che Anna non ha considerato, ovvero uno specchio.

Ed è grazie a quello che il muro diventa trasparente...

Non c'è riparo!
È una doccia fredda per la Frezzante!
Crolla in avanti e sbatte col grugno sul gradino.
Non c'è più tempo per fuggire, Anna decide di sbattergli la sua morte in faccia; ansante, risale le scale, puntando lo specchio che l'ha tradita.
La bocca è spalancata, sa di averne ancora per poco, ma vuole spremersi fino in fondo.

Una come lei non è facile da buttar giù, ma il killer c'è riuscito, uomo o donna che sia.

Anna continua a strisciare... come una grossa serpe.

È arrivata davanti allo specchio, e lo guarda, con il sangue alla bocca...

BANG

Ci ha ripensato, dovrà rimanere con la curiosità, non la vedrà mai da morta.