Il Capo si era stancato di lei. Aveva
fatto la cresta sugli incassi per l'ennesima volta. E l'ultima.
Quando Marc Robson chiamò Pamela Shoop
e le disse che voleva parlarle, la donna si informò. Aveva degli amici nella
stanza dei bottoni, amici che non avevano resistito all'impatto delle sue tette.
Marc sarebbe venuto per ucciderla.
Ora ne aveva la certezza.
Era venuto il momento della resa dei
conti con il suo Capo, e lei sarebbe stata al gioco.
Marc fu puntuale. Pamela
lo fece accomodare - l'incontro era a casa sua - e si stappò una lattina di
birra ghiacciata - senza usare bicchieri - passandone un'altra all'ospite.
La Shoop era sempre in tiro: aveva ancora addosso la
provocante camicetta a colletti larghi, in stile anni '70, ben attillata e
sbottonata il giusto, che aveva portato in ufficio.
Lavorava in un
grande dipartimento ed era lì
che spacciava la merce, in società con
una guardia giurata.
Pamela era una donna potente, raffinata, prorompente; le tette
portate senza reggiseno, con i capezzoli stampati sulle camicette, erano il suo pezzo migliore.
Ma dietro quella figura morbida,
sensuale e accattivante, si nascondeva un'assassina.
Oltre a spacciare, aveva eliminato
diversi rivali, a richiesta del Capo.
Un osservatore attento lo avrebbe
intuito dallo sguardo, insidioso e vampiresco; tutto in lei, comunque, era una summa di
femminilità e potere seduttivo, come se tali attributi provenissero da lontano,
radicati nella paziente esperienza dei tempi, giunti a perfetta maturazione.
La poltrona del soggiorno, sotto la sua
imponente figura, sembrava un trono.
Lei, però, era tuttaltro che una regina.
Era semplicemente una donna ambiziosa e assetata di potere.
«Di che mi devi parlare?».
«Cose importanti, da parte del Capo».
«Inizia pure…».
«Okay, ma dammi il tempo di ammirare il
panorama…», dopo uno sguardo fortemente allusivo, Marc si accese una sigaretta e
cominciò a camminare verso l’ampia finestra del soggiorno, dando le spalle alla
donna.
C’era una bella vista da
lì, ma anche fosse consistita nel Grand Canyon al tramonto, sarebbe valsa poco
rispetto a quella che aveva goduto dalla poltroncina.
La Shoop, intanto, pensò che non fosse
necessario ascoltare le stronzate che Marc stava per spararle.
Lui era di spalle e lei poteva
saldargli il conto senza inutili sceneggiate.
La sua Beretta calibro 9 era a portata di mano
tra i cuscini della poltrona.
Quando Marc tornò a voltarsi verso la
donna, vide la prolunga della canna puntata contro di lui.
«Che significa, stronza?!».
«Significa che so tutto, idiota».
«Chi è che ti passa le informazioni?
Quel coglione di Johnny?».
«Johnny sarà pure un coglione, ma mi è
fedele. Tu, no. Tu sei ancora fedele al Capo. E il Capo è vecchio, ormai. È
tempo che le donne si facciano avanti…».
«Senti, senti… donne come te, per
esempio?
Che aspetti, allora, fottutissima
stronza? Premi quel grilletto…».
«Hai ragione, Marc. Mi hai stancato…».
La Shoop protese il braccio in
direzione dell’uomo e fece fuoco senza esitazioni.
FLOP
Marc, però, rimase in piedi. Niente
sangue, nessuna reazione…
FLOP
FLOP
La Shoop sparò ancora, visibilmente irritata.
Quando la donna cominciò a capire, Marc
aveva già estratto la pistola.
E dopo averla fissata negli occhi, le
piazzò un colpo nella pancia!
Pamela sobbalzò all’indietro,
schiacciandosi contro lo schienale della poltrona.
«Bravo... ci sai fare...».
Per una come lei ci voleva altro.
FLOP
La seconda pallottola la raggiunse allo stomaco.
L’espressione della Shoop cambiò
radicalmente: gli occhi schizzarono fuori dalle orbite, la bocca si spalancò a
cercare aria.
Era fatta. Marc l’aveva fottuta.
Tuttavia, l'imponente donnone -
animato da una vena di follia - voleva sfidarlo ancora.
Lo fissò, umettandosi il labbro, facendogli credere di avere
ancora il controllo.
FLOP
Marc infierì con un altro colpo
allo stomaco.
Stavolta Pamela fu colta dal panico.
Un grosso fiotto di sangue le salì in
gola, facendole mancare il respiro; strabuzzò allarmata gli intensi occhi
grigi, e alla fine, piegandosi in avanti, riuscì a sputarlo fuori.
Marc sorrise divertito.
Poteva bastare, per il momento.
Abbassò la pistola e si avvicinò alla
donna.
«Sei
fatta, Pamela...».
«Chi è stato… a fottermi…?»,
farfugliando con la lingua fra i denti.
«Non dubiterai di Johnny, vero? No… lui
è un tuo schiavo. È stato Ric… dovresti scegliere
meglio i tuoi amanti… o almeno controllare che non mettano mano alla tua Beretta… ma
temo che non avrai abbastanza tempo per imparare.
Non hai più controllato l’arma da quando
Ric l’ha caricata con proiettili fasulli… e lo so perché c’è una spia che
vede tutto… anche oggi che volevi fottermi, ti sei limitata a innestare il
silenziatore.
Decisamente troppo poco.
Io, invece, non lascio nulla al caso.
Hai fatto una stronzata, e io ti ho fottuto, Pamela».
«Mettiti con me… Marc… insieme… non ci
fermerà nessuno…».
«Non sei stanca di dire stronzate? Ti ho
fatto il servizio, il mio piombo non scherza…».
La Shoop lo sapeva bene.
«Bastardo… hai mai scopato… una come
me…?».
«Dovresti sapere che sono un
professionista: le donne rallentano i riflessi, e per me i riflessi sono tutto».
Per tutta risposta, la Shoop prese a
palparsi il seno.
Oltre che bella, la sua voglia di vivere la rendeva ancora più sensuale.
Marc cominciò a pensare che non c’era
fretta di saldarle il conto…
Senza volerlo, però, la donna si
afflosciò contro lo schienale della poltrona. Gli occhi imbambolati roteavano
alla ricerca di qualcosa su cui fermarsi. La bocca era spalancata in modo
inquietante.
«Te l’ho detto che il mio piombo non
scherza, no?
Ehi, Pamela… mi senti? Mi è piaciuto come
incassi,
sai?
Proprio una gran troia, anche mentre
crepi…
Ma ora che c’è? Ti va storta? Pensavo lo reggessi meglio il piombo...». Pamela avrebbe voluto reagire, ma i buchi la stavano
divorando.
«Ti va di giocare ancora un po'...?».
Marc spostò la Shoop sul divano: imbambolata, la donna si
afflosciò su un fianco,
cadendo a bocca aperta sulla seduta. L’uomo le fu addosso e cominciò a tastarle
il seno…
Il calcolato Marc stava scoprendo le delizie di Pamela.
Lei doveva starci per forza. Era Robson che conduceva il gioco.
Se riusciva a farlo godere, forse l’avrebbe portata
da un dottore…
Marc si andava rapidamente eccitando contro il morbido corpo della Shoop, la
quale cercava a ogni costo di non mollare, tenendo in vita l’illusione di
trovare una via di scampo, anche in una situazione disperata come quella.
Il killer esplose di piacere, rilassandosi contro il divano per
assaporare appieno il gusto di essere stato l’ultimo a divertirsi con una tale stronza.
«È ora che io vada, Pamela.
Addio…».
Senza aggiungere altro, Marc si alzò e lasciò il soggiorno. Poco dopo il portone
si richiuse sonoramente.
La Shoop era rimasta sola: con tre
pallottole in corpo, ma incredula di essere ancora viva…
Marc Robson, quella schifosa nullità, era andato via. La sua idea aveva funzionato. Ora
doveva pensare a salvarsi…
Si lasciò scivolare sul parquet, sforzandosi di ricordare dove avesse lasciato il cellulare.
Quel maledetto
cellulare…
Doveva trovarlo, doveva chiamare qualcuno.
Sì, era di là. All'ingresso. Era lì che
l'aveva lasciato. Doveva arrivarci. Pamela sembrava crederci. Col
sangue alla bocca, la donna protese in avanti il braccio destro
per coprire, strisciando, il terreno che la separava dal cellulare.
Un brutto imprevisto, però, le sbarrò la strada sul più bello.
La pistola di Marc Robson era di nuovo puntata contro di lei...
L'ombra della delusione oscurò il volto di Pamela.
Poi, prima
dell'irreparabile, la mano destra si protese disperata in aria, staccandosi
dal pavimento: «No! Aspetta...!».
Marc si godeva la scena con un sorriso sardonico sulla faccia da aguzzino. Non
aveva mai pensato di lasciarle scampo. Non era mai uscito dall'abitazione.
La lasciò
implorare...
«Non voglio morire... Marc... no!».
Un lampo crudele guizzò negli occhi
del sicario…
FLOP
Robson fece fuoco per la quarta volta.
Il corpo della Shoop sobbalzò ancora. La pallottola la raggiunse al petto,
attraversando il polmone.
La testa della donna ricadde pesante sul parquet.
Marc Robson la guardò soddisfatto: conto saldato e lavoro finito.
«Ti ho fottuto, Pamela», sussurrò il killer; quindi si allontanò con tutta calma.
Il suo amico Jim, al
Daily Telegraph, avrebbe titolato così: “Avvenente impiegata di nota
multinazionale, freddata
tra le mura domestiche con quattro colpi di pistola”.
Pamela
non lo sentì nemmeno entrare.
Johnny la rivoltò supina.
Lei lo fissò incredula con lo sguardo annebbiato.
Il seno palpitò eccitato, i capezzoli quasi bucarono la camicetta.
Poco dopo si udì l’ossessivo ululare di un’ambulanza.
Le mollò un lungo bacio, che era anche una grossa bolla d'ossigeno, lasciando
sul parquet una mazzetta per lo staff medico.
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Il racconto è un tributo alla sua bellezza,
carisma, personalità.
Gli aspetti negativi sono introdotti per mere
esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico.
Il ruolo della protagonista va assimilato a
quello dell'attrice rispetto a un film.
La devozione alla persona in questione, da
parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta.
Una
pallottola
da obitorio
di Salvatore Conte (2011-2022)
Lavorare
per i servizi segreti, per giunta deviati, non è un mestiere tranquillo.
Anche Pamela lo sapeva, ma ormai vi era dentro da anni e sapeva di non poterne
più uscire se non sdraiata su una lettiga d’obitorio: un’irrevocabile forma di
dimissioni che si era impegnata a procrastinare il più a lungo possibile.
Lo scambio, quella sera, sarebbe stato teso, come sempre in questi casi.
Niente era scontato, tante le variabili in gioco, impossibile fare calcoli.
Insomma, bisognava essere fatalisti: prima o poi qualcosa sarebbe andato storto,
si poteva solo prendere tempo e godersela alla grande tra una missione e
l'altra.
Il microfilm era già nelle tasche di Pamela, ma i due scambisti
ebbero a lamentarsi dei soldi: dicevano che erano falsi.
Il volto della super bionda si oscurò: grane in vista e molto vicine a lei.
Stavolta i soldi erano arrivati sigillati e non poteva escludere che qualcuno
dei suoi avesse fatto il furbo, lasciando a lei e al compagno gli oneri
dell’inadempimento.
Il diverbio si surriscaldò in fretta, partirono i primi colpi,
Pamela cercò di
raggiungere la porta, l'importante era portar via il microfilm.
Ma
qualcuno non era d'accordo.
Una pallottola la raggiunse al fianco!
Ebbe la
terribile sensazione di un corpo estraneo che si era fatto strada con violenza
nei suoi più intimi recessi, ma non si fermò a constatare la ferita. Non c’era
tempo di fare nulla. Era ancora in piedi e questo le bastava. Riuscì a superare
la porta senza altri danni e a intravedere le scale dell'alberghetto. Solo un piano la separava
dalla sua Alfetta: doveva tentare il tutto per tutto.
Corse giù senza voltarsi indietro.
Era una bella spia e fino a quel momento la sua bellezza l'aveva sempre
protetta.
Nessuno la stava inseguendo, mise in moto e partì a razzo, il rombo del potente
motore le trasmetteva sicurezza. Se Kamran non era
uscito dietro di lei, voleva dire che non ce l’aveva fatta. Però era riuscito a
fare da tappo. E il microfilm era al sicuro nella sua tasca. Il bilancio
dell'operazione non sarebbe stato così negativo, se non si fosse messa di
traverso quella maledetta pallottola.
Mentre guidava
Pamela sentiva che un cieco fuoco la stava divorando. E quel che
era peggio, Omar non l’avrebbe presa bene. Lui non voleva bene a chi aveva
bisogno d’aiuto.
Fu tentata di raggiungere un ospedale: lei conosceva le regole, non
l’avrebbero aiutata, se non a crepare. Ma mollare tutto e tradire, dopo anni di
successi, non le andava giù. Li avrebbe convinti a darle una mano.
Intanto, però, la benzina stava finendo.
Accostò l'auto in un posto tranquillo e cercò di raccogliere le forze.
Sarebbe rimasta uccisa, non poteva illudersi.
C'era appena il tempo per un piacevole diversivo.
Lei amava quell'auto. Mise
a folle, si spostò fra i due sedili e senza toccare la frizione, con un
preliminare minimo, si impalò da sola sulla leva del
cambio.
Ce l'aveva larga, voleva godere fino alla morte e ci stava riuscendo in pieno.
Era la potente Pamela Shoop.
«La macchina è dentro questo vicolo».
«Vai...».
I suoi erano arrivati, attirati dal segnale di localizzazione.
Omar capì subito la situazione e tenne lontano i compagni.
«Ci penso io».
Pamela
era dentro l'Alfetta e l'Alfetta era dentro Pamela: simbiosi perfetta.
«Vuoi rimanere così tutta la serata?».
«Omar... sono fottuta...».
«Lo vedo, Pamela, lo vedo...
Ti disturba dirmi come è andata?
Allora... ce l’hai il microfilm?».
«Stupida pallottola… è entrata sul fianco… lo vedi...?».
«Cazzo, Pamela, ce l’hai il fottutissimo microfilm… o ti sei fatta ammazzare per
niente?».
«Nella tasca…».
«E Kamran?».
«Non ce l'ha fatta...». «E brava
Pamela... prima di crepare hai pensato di consolarti...
Spingi più a fondo... lasciati andare... e vedrai che il cambio dell'Alfetta
ti arriva in gola...».
Omar la abbrancò per le spalle e la spinse giù...
«Lasciami... che fai... così m'ammazzi...!», Pamela reagì spaventata, il cambio dell'Alfetta
era un bell'arnese...
«Che hai da perdere, Pamela? Goditela... cambia marcia, su...».
Omar
insisteva, voleva farla finita.
Ma fu lui a stufarsi per primo: la estrasse dal toro meccanico e la
abbandonò sul sedile del passeggero.
Pamela si accorse di perdere sangue anche dal buco principale.
L'Alfetta ingranò la retromarcia e in pochi minuti fu raggiunto il covo.
Pamela fu posta agonizzante su un letto.
Stava boccheggiando, con la faccia stravolta dall’angoscia e gli occhi sbarrati
- ma ancor vitali - come stesse vedendo qualcosa di interessante.
Forse stava rivedendo la sua vita
in rapide immagini. Il perispirito si stava districando dal corpo grossolano; per conseguenza, i
dati residenti nel cervello della focosa cinquantenne venivano trasferiti
all’intelletto puro, in
una sorta di back-up accelerato prima del crash fatale dell’hard-disk biologico.
«Aiutami... Omar… sto crepando…», la bella spia, decisa a non mollare, aveva
sospeso il back-up.
«Conosci le regole, Pamela.
E visto che riesci a parlare, adesso voglio sapere cosa è andato storto...».
«I soldi...», Pamela lo guardò negli occhi…
«Non dirmi che hanno tirato fuori la vecchia storia dei soldi falsi, perché quei
soldi li ho controllati io - personalmente - prima di sigillarli, ed erano
buoni…».
«No… hanno solo detto… che ne volevano... di più…», Pamela era già con due pedali
e mezzo all'inferno, e di sicuro non le avrebbe giovato rimanere soffocata da un
cuscino premuto sulla faccia.
«Quanti di più?». «Altri 500.000…».
«Bastardi…».
«Io… io... ho bisogno... di aiuto... Omar…».
«Mi dispiace, Pamela. Davvero. Hai un grosso buco nel fianco. Conosci le
regole…».
«Ma io…».
In quel mentre Omar sentì aprire la porta; Reza fece la sua apparizione.
«Ce l’hai un milione di dollari?».
«Ho il microfilm, non è la cosa più importan…».
FLOP
Non gli diede neppure il tempo di completare la frase. Un attimo dopo Omar si
accasciava a terra come un sacco di merda.
Reza lo aveva freddato con una palla in mezzo agli occhi: «Riportate il
microfilm ai venditori, insieme alle mani di Omar. Avranno 500.000 dollari per
la perdita dei loro uomini. Un buon agente è valutato 250.000 dollari. Ma non tutti fra voi li valgono.
Pamela, invece, li valeva tutti», e
guardò la bella cinquantenne riversa sul letto, tesa, esasperata dall'agonia, con
il sangue alla bocca e i freni tirati al massimo, per mantenere un minimo di
controllo su di sé.
«Non si può fare un'eccezione per lei, capo? Per esempio, lasciarla davanti a un
ospedale...», fu Sasan a parlare.
«Dubito che servirebbe a qualcosa».
«Ma forse lei…».
«Lo sa anche lei».
Pamela non confermava né smentiva.
Troppo intenta a non crepare.
Reza si sedette accanto a lei.
«Io... ci rimetto... la pelle... per quello stronzo...».
«L'ha pagata cara, Pamela».
«Reza… ti ricordi… quando… ci abbiamo provato…?».
«Me lo ricordo…», e le scostò i capelli sudati dalla fronte.
«Ero... più bella… di adesso…».
«Sei sempre bella…».
«Ma... non avevo… una palla... in corpo…».
«Questo è vero, purtroppo».
«Quanto... tempo… mi rimane…?».
«Non lo so. Devi cercare di stare calma».
«Reza… è così stupido… morire… all'ospedale...?».
«Non lo so; come morire è una scelta personale».
«Voglio... sapere… da te... se è... una pallottola… da obitorio…
controlla…».
L'iraniano osservò accuratamente la ferita.
«Temo proprio che sia una pallottola da obitorio, Pamela; mi dispiace.
Sasan, pensa tu a lei».
«Non ha... nemmeno… il tempo… di vedermi... crepare…», si lamentò Pamela, quando Sasan prese il posto del capo.
«Ha molto da fare…».
«Come no... lo conosco...».
«Però non ha escluso di portarti
all'ospedale: perché non ci provi?».
«Non voglio morire… sotto i ferri… non voglio... che un
macellaio… mi squarti… come un maiale…».
«Forse sarebbe meglio provarci, nessuno ti scambierebbe per un maiale».
«È... una pallottola… da obitorio… ha detto... Reza…».
«Forse la pallottola lo è; tu, però, non sei una donna da obitorio».
«Tu... dici…».
«Con la tua Alfetta potremmo essere all'ospedale in tre minuti…».
«Va bene… Sasan… ho deciso... di morire… da stupida…».
La pallottola era mortale, il referto lo confermò.
Era una pallottola da obitorio.
Sasan chiamò il capo, dicendogli che aveva ragione, ma Reza andava sempre di
fretta e riattaccò senza chiedere se anche Pamela lo fosse.
Sasan dovette richiamarlo.
Lettore, se vuoi conoscere l'attrice che ha
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Il racconto è un tributo alla sua bellezza,
carisma, personalità.
Gli aspetti negativi sono introdotti per mere
esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico.
Il ruolo della protagonista va assimilato a
quello dell'attrice rispetto a un film.
La devozione alla persona in questione, da
parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta.
LA CADUTA
di Salvatore Conte (2012-2020)
Francia,
1789.
Nella città bretone di Saint-Malo si diffondeva il virus della Rivoluzione.
Una parte della popolazione era da sempre gelosa della propria autonomia,
rivendicata e ottenuta sin dal secolo XIII, con il diritto di nomina dei
magistrati municipali.
Ma l’altra parte, quella delusa e frustrata, era ansiosa di novità, qualunque
genere di novità.
E aveva individuato l’incarnazione più che concreta dei principi rivoluzionari:
Chana la Grande.
Una procace, lardellosa lavandaia sulla
cinquantina, dedita ormai più all'alcol
e alla prostituzione che alla bottega, frequentatrice di bassifondi e canaglie,
truffatrice, avvezza a vivere di espedienti, ma con smanie di grandezza e la
capacità di
esercitare sugli adepti della setta rivoluzionaria un fascino sinistro e
ambiguo, quasi ipnotico.
Massiccia, imponente, prorompente, spesso ubriaca con i capelli biondi arruffati sulla
fronte, ma ferocemente decisa a emergere, si aggirava per le strade di Saint-Malo con una blusa
nera ampiamente scollata
e afflosciata dall’urto del pesante seno: Liberté, Égalité, Décolleté.
Sottovalutata dall’establishment cittadino, Chana sfruttava la sua
apparente innocuità organizzando una rete sempre più vasta di aspiranti
rivoluzionari.
Smodatamente ambiziosa, aveva deciso che il primo passo che avrebbe mosso per scalare i gradini
del potere, e arrivare fino a Parigi, sarebbe stato quello di imporsi nella
propria città e di
cambiarle il nome e l’orientamento sessuale. Da Sindaca a Deputata Nazionale,
l’ascesa sarebbe stata rapida.
Dodici dei suoi giurati fedelissimi le appuntarono, in gran segreto, i gradi
di Marescialla in Capo dell’Esercito Popolare Rivoluzionario di Sainte-Chana,
nuovo nome della città a partire dal 1789, o comunque da quell'anno, qualora
anche il calendario fosse stato rivoluzionato.
Il piano prevedeva l’assalto, in punta di forcone, alla piccola guarnigione
della città. Contando sull’effetto-sorpresa, si sarebbe razziata l’armeria dei
realisti; dopodiché, tutti uniti, si sarebbe marciato fino al Municipio, con
Chana la Grande in testa.
Ma la resistenza della piccola guarnigione cittadina fu superiore a quanto previsto:
si combatteva corpo a corpo, baionette contro forconi.
Chana la Grande cercava di non esporsi troppo, ma il marasma era tale da non
consentire margini di sicurezza assoluti.
Il destino era in agguato, spesso si avvantaggia della confusione.
Chana la Grande cercò di nascondersi in uno stanzino, dove però si era già rifugiato
un soldato della
guarnigione. Era giovane, spaventato.
«Non vo…», ma quello non la fece nemmeno parlare: la paura lo aveva reso folle.
Il soldatino affondò la baionetta nella pancia della rivoluzionaria, proprio
attraverso la coccarda tricolore, quasi fosse stata presa a bersaglio, almeno a
livello inconscio, visto che il ragazzo era inebetito dal panico.
«Uuuhh…!», l’urlo strozzato di Chana la Grande, gli occhi sbarrati, la paura che la
sferzò come un vento gelido.
Per un attimo i loro occhi si incrociarono: lui l'aveva
riconosciuta, lei vedeva Parigi allontanarsi.
Subito dopo il lealista estrasse la baionetta dal ventre molle della donna e
cercò disperatamente di trovare scampo, ma venne soverchiato dagli uomini di
Chana la Grande e trucidato sul posto.
«Non è niente… avanti…», si affrettò a dire Chana la Grande, sapendo di mentire a sé
stessa e agli altri.
La feroce battaglia volse infine all’epilogo: i forconi avevano vinto e si erano
trasformati in baionette.
La massa applaudiva ai lati delle strade, mentre le squadracce rivoluzionarie
marciavano verso il Municipio.
Chana la Grande era trasportata in barella, aggiungendo alla tragedia di
Francia un elemento scenico di
grande efficacia drammatica. Le mani rattrappite che uncinavano l'aria, la blusa
insanguinata, la coccarda ormai ridotta a un monocolore rosso: sembrava essersi
immolata sull'Altare della Rivoluzione. E in fondo lo era stata.
Il partito degli incerti cominciava a propendere per il nuovo che avanzava.
Quello degli opportunisti prendeva atto che il vento della storia stava
cambiando.
Il Municipio era deserto, i consiglieri in carica assenti, nessuno oppose
resistenza.
Era il trionfo di Chana la Grande, guastato da una brutta ferita, che però ne
esaltava, oltre i suoi stessi meriti, l’eroismo rivoluzionario.
Incoronata Sindaco della rivoluzionata città di Sainte-Chana, Chana la Grande
troneggiava imbambolata, lo sguardo annebbiato, sul seggio più alto del consiglio cittadino,
con ambo le mani pressate sullo stomaco.
Un’immagine autenticamente rivoluzionaria, che incarnava in pieno l'epica
violenza di quei giorni.
Per riuscire a farla stare seduta, l'avevano imbottita di
alcol, il suo amato alcol.
Ma la prima riunione della giunta rivoluzionaria venne presto interrotta dalla
ferale notizia di un imminente contrattacco delle forze lealiste.
Uno squadrone di cavalleria era giunto inaspettato a Saint-Malo.
La folla tornò nelle proprie case.
Gli incerti recuperarono i loro dubbi.
Gli opportunisti aggiornarono le previsioni del tempo.
Il Municipio era sotto assedio.
I realisti cominciarono a penetrare al suo interno.
Chana la Grande non aveva vie di fuga. Era fragile, non poteva muoversi, non poteva
fuggire, veniva abbandonata dai suoi stessi uomini.
Fu costretta ad attendere il destino al proprio posto, quello di Sindaco.
Benché fosse già agonizzante, fu deciso di fucilarla, per non
correre rischi e per rendere la punizione esemplare.
E venne fucilata su quello stesso seggio.
L'altalena del potere le era risultata fatale.
Un attimo prima della fine - con sei carabine puntate contro
- ebbe un sussulto e gridò: «NO!»,
con tutte le forze rimaste, guardando disperata negli occhi i suoi carnefici.
Chissà... forse sperava che quell'urlo potesse disturbare la
concentrazione di qualcuno dei fucilieri.
Fu falciata, infatti, dalle pallottole, ma non da tutte: un paio si persero nel
Municipio, una la raggiunse alla spalla, un'altra le pizzicò il fianco, un po' decentrate rispetto al bersaglio grosso;
un paio d'altre le
distrussero le budella, ma il cuore era di sicuro illeso.
Niente "Viva la Rivoluzione": un urlo ben poco eroico, dunque,
ma la realtà è quasi sempre altro rispetto alla retorica delle cose, specie quella di una puttana di questo genere.
Rimase sospesa a schiena dritta per un attimo che sembrò infinito…
Approfittò di quell'attimo per guardare ancora negli occhi i
giovani fucilieri.
Uno sguardo strano. Non di odio. Ma quasi di perdono. E
perfino di ringraziamento.
Poi - dopo un estenuante rantolo - si afflosciò su sé stessa, piegando la testa sul petto.
Il comandante del plotone d’esecuzione si avvicinò e le sollevò il capo, afferrandolo per i
capelli: gli occhi della rivoluzionaria erano schizzati fuori dalle orbite,
impossibile incrociarne lo sguardo.
L’ufficiale lasciò la presa e la testa tornò inerte al suo
posto, piegata sul petto.
Il colpo di grazia non serviva a nulla.
L’annuncio che la popolana rivoluzionaria, detta Chana la Grande, era stata giustiziata,
fu dato, però, con troppa fretta.
Gli animi erano accesi e l’intempestiva notizia scatenò l’ira dei cittadini, che
insorsero in massa, sobillati dai rivoluzionari superstiti.
Probabilmente ci si aspettava che l'esecuzione di Chana la
Grande,
colpita a morte in battaglia, venisse sospesa e la rivoluzionaria lasciata
morire della sua ferita.
Il Municipio fu circondato dalla folla e con il solo vantaggio del numero gli
insorti tornarono fulmineamente a occupare la sala del consiglio, abbandonata
dai realisti in ritirata.
L’attenzione fu subito rivolta al massiccio corpo di Chana la Grande, rimasta di sasso sul
seggio del Sindaco.
«Eccola…!
L’hanno fucilata sul posto…», constatò il primo rivoluzionario che le giunse vicino.
«Però hanno omesso di spararle il colpo di grazia. La testa è asciutta», osservò
il secondo. «Forse hanno commesso un errore, proviamo a chiamare un dottore…».
«Ma… è stata fucilata... è morta...».
«Sei forse un disfattista, compagno cittadino?
Dobbiamo provare… forse non è ancora morta».
Il dottore fu chiamato.
Intanto, però, all’interno del Municipio, veniva allestita la camera ardente: tutti i cittadini di Sainte-Milene avrebbero potuto vedere per
l’ultima volta il loro primo Sindaco.
«Il dottore dovrebbe muoversi, dannazione… ma dov’è finito?».
«Forse ha avuto paura, un medico non sa mai da che parte stare…».
«Eccolo… finalmente…
Dottore… non l’abbiamo ancora toccata…».
Il medico le ficcò due dita in gola, brutalmente.
Dal corpo di Chana la Grande eruttò un grumo di sangue.
Subito la curiosità dilagò per la sala: era stato uno spasmo involontario, uno
spasmo estremo, o uno spasmo e basta?
L'atmosfera si fece pesante.
Fu la volta dei sali.
La lingua della donna scattò come una molla sotto il palato.
Gli occhi al cielo, alla ricerca di un raggio di luce; le mani
rattrappite a morte, a grattare l'aria come fosse una parete di roccia.
Era viva. Sebbene più morta che viva. Non completamente morta.
L’esame del medico fu pesante: «A parte la ferita d'arma bianca, che le sarebbe
comunque fatale, due pallottole sono mortali: vedete qui che interessano fegato
e stomaco; le altre, invece, non sono immediatamente letali».
Più che una diagnosi, un'autopsia.
«Insomma, hanno sparato storto», concluse
il rivoluzionario; non tutti, ma una buona parte.
«Storto... in che senso?», il medico non aveva capito.
«Egregio dottore, il servilismo militare
ha una sua graduazione, come tutto del resto.
Anche la vista dicono abbia una
sua graduazione; in ogni caso, non tutti ci vedono bene; non tutti sparano bene; non tutti hanno voglia di sparare a
sangue freddo». Poi si rivolse
al compagno: «Sentito? Soltanto due pallottole mortali…».
«E ti sembrano poche?».
«Per una come lei, sì…
Si può ancora fare qualcosa, lo sento».
Ma il medico non era dello stesso avviso: cure compassionevoli e mezzora di vita
al massimo.
«Non c’è più niente da fare, sono spiacente», la sua sentenza finale.
Chana la Grande, però, tornata a respirare, stava assorbendo lo shock: gli occhi erano
tornati nelle orbite e - nonostante tutto - guardavano eccitati il mondo.
Certamente non pensava di risvegliarsi viva e poteva inoltre
sentirsi soddisfatta di aver impressionato più della metà del plotone di
esecuzione, inducendo diversi fucili a sbagliare la mira.
Insomma, da un punto di vista democratico, aveva vinto. Aveva
ipnotizzato anche gli elettori più estremi, era il Sindaco di tutti.
In fondo non aveva ancora ceduto l’ultimo respiro: quei
giovani, estremi elettori le avevano concesso una piccola possibilità, un
difficile mandato, e lei - per quanto piccola o difficile - l'avrebbe afferrata
oppure portato a termine. A tutti i costi.
Intanto la gente di Sainte-Milene sfilava, con alterni umori, ai piedi della
rivoluzionaria morente, rimasta aggrappata al seggio del Sindaco: chi la
incoraggiava, chi rimaneva intimorito nel vederla in fin di vita; Chana la
Grande era una maschera di cera su cui aleggiava un'ombra
oscura: si
teneva in vita grazie a una forza quasi sovrumana e forse allo smodato
compiacimento di godere del proprio trionfo, benché effimero.
Sembrava indemoniata, era feroce e faceva quasi paura.
A tratti si sforzava di sorridere, appalesando euforia per essere rimasta in
gioco a sfidare la sorte, dopo una baionetta davvero ben piazzata e un plotone d’esecuzione.
«Mesmer! C’è Mesmer qui a Saint-Ma… qui a Sainte-Milene…!», l’annuncio improvviso,
dall'ingresso della sala.
«Che significa?».
«È appena sbarcato dalle Americhe… una pattuglia popolare lo sta portando qui».
Franz Anton Mesmer, un po’ come tutti, non immaginava che la situazione
precipitasse tanto in fretta.
Per lui, però, cambiava poco: osservava gli eventi mondani da migliaia di
chilometri di
distanza, le illusioni della massa non lo riguardavano. Per lui si trattava soltanto
di una visita urgente.
Il miglior medico al mondo contro la peggior paziente al mondo.
«Ora ho bisogno del massimo silenzio, cittadine e cittadini: schiamazzi
improvvisi possono danneggiare l’inferma».
Si piegò su Chana la Grande, il pendolo che oscillava, i suoi occhi dietro al pendolo.
«Anima della Rivoluzione... rientra... rimani... riposa...
Tu stai bene qui, Chana la Grande. Con noi. Con me. Tu non partirai.
Se parti, il freddo ti ucciderà per sempre. Tu stai bene qui,
fa caldo fra di noi, fa caldo qui con me.
Tu stai bene qui, Chana la Grande. Tu non partirai.
Tu stai bene qui, Chana la Grande. Tu non partirai.
Tu stai bene qui, Chana la Grande. Tu non partirai, Anima della Rivoluzione».
Si rivolse infine ai suoi uomini: «Evitate i rumori, non deve
risvegliarsi».
«Ma… ce la farà…?».
«Non ho detto che ce la farà. Ma possiamo guadagnare
un po’ di tempo, intanto.
Rendere la caduta un po’ più lenta e attutire il colpo».
Franz Anton Mesmer si trattenne a Sainte-Milene per altri tre giorni.
A Parigi lo attendevano alcuni appuntamenti importanti, ma - ormai mesmerizzato
- decise di rinviarli e di riprendere il mare per tornare a casa attraverso la via più lunga.
Sebbene non si occupasse di masse, le masse avrebbe potuto occuparsi di lui.
Per la sua caduta c’era ancora tempo.
Tutti volevano sapere che ne era stato di Chana la Grande.
Il suo corpo, però, non venne più ritrovato.
La Rivoluzione, soffocata dal piombo e dalle baionette, era stata svenduta e
Mesmer aveva comprato sottocosto, al prezzo di un'esperienza ormai senza
speranze.
La Rivoluzione andava ricucita ed esportata, trasferita sul Lago di Costanza.
Ma non era per tutti.
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Il racconto è un tributo alla sua bellezza,
carisma, personalità.
Gli aspetti negativi sono introdotti per mere
esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico.
Il ruolo della protagonista va assimilato a
quello dell'attrice rispetto a un film.
La devozione alla persona in questione, da
parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta.
REQUIEM AL PIOMBO
IN SEI PALLOTTOLE
di Salvatore Conte (2011-2018)
Starmene
a terra in un angolo a sentire quel concerto era umiliante.
E anche molto
pericoloso.
Perché ero finito in quella scomoda posizione?
Per una donna,
naturalmente. Per Lola. Se fossi sopravvissuto, ne avrei
fatto un racconto. Era un voto.
Lola era la favorita del Puerco, una vaccaccia
vestita dal cinturone a tracolla più che da tutto il resto.
Dai covi segreti nei recessi della Sierra Madre alle ricche banche di
Arizona, Nuovo Messico e Texas, il passo non era così lungo.
Gli sceriffi non costituivano un pericolo: la gran parte puntava dritta alla
pensione, quella piccola sbatteva il muso contro delle pallottole e le
dimissioni erano implicite.
Il maggior pericolo per la banda del Puerco era rappresentato dal fiorire degli zeri sugli avvisi di taglia:
al principio
erano due, poi tre, quattro, e ora cinque per l’intero mucchio!
I banchieri non badavano a spese pur di assicurarsi le carcasse dei desperados che imperversavano lungo la frontiera.
Sulle sponde del Rio Grande non erano ancora approdate le sottigliezze della
Costa Orientale, ove un buon colpo in banca passava per un complice interno,
spesso piazzato molto in alto.
Nella polvere della frontiera si sparava e basta: niente sottigliezze.
Come nel bordello di El Paso, dove l’avevo conosciuta, e dove Lola arrotondava
le sue quote, tra una rapina e l’altra.
Era molto più
intelligente di quanto le sue fattezze bovine lasciassero supporre; non era la
solita puttana.
Dopo averne più volte goduto i servizi, ero sul punto di uscire allo scoperto,
quando giunsero al mio orecchio strane voci sul suo conto; qualcuno mormorava
che facesse addirittura parte della famigerata banda del Puerco.
Al momento mi sembrò una cosa assurda;
tuttavia, quando le sue colleghe mi informarono - la sera successiva al colpo messo a segno alla El Paso Western
Bank - che aveva cambiato città, cominciai a capire
che mi ero scopato una delle puttane del Puerco.
A quel punto il mio interesse cambiò. Diventava un fatto professionale, anche se
l’avrei gestito a modo mio.
Avrei
cercato di risparmiarla, se fosse stato possibile; e poi l'avrei presa per il
collo: o me o la corda; niente sottigliezze.
La
pelle di Lola non valeva nulla per i banchieri, ma per me sarebbe stato il
premio principale.
La faccenda era spinosa e mi accordai con un collega per spartire i soldi in due
parti: 50.000 dollari a testa.
Frequentavamo
le
cantine a sud
del Rio Grande e
facevamo sciogliere la lingua attraverso
un miracoloso sciroppo verde-argento della farmacia George Washington.
Stavo sorseggiando tequila nella migliore cantina di Lucero, quando il problema
di trovare il Puerco fu risolto.
La bevuta fu
disturbata dallo strepito di numerosi cavalli
che irrompevano in paese.
Non ci fu molto tempo per reagire: un nugolo di bandoleros, con il fazzoletto sul
volto, fece irruzione nella cantina. Hamilton tentò di far cantare la colt, ma
venne fulminato.
Io alzai le mani in aria.
Era il Puerco che aveva trovato noi e le inconfondibili curve della donna
al suo fianco me ne diedero la conferma: non poteva non essere Lola, benché a
volto coperto.
Indossava la solita
blusa scollata, gonfiata meravigliosamente bene dal pesante seno. Non aveva molta fantasia, aveva aggiunto
solamente il sombrero, la bandoliera e il cinturone. Faceva la puttana e la pistolera senza cambiarsi nemmeno
l'abito. Chissà cosa sapeva fare meglio. Forse l'avrei scoperto.
Anche lei non ebbe difficoltà a riconoscermi, i suoi occhi indugiarono su di me per
farmelo intendere.
Fui disarmato e sbattuto rudemente da una parte.
Ecco come ero finito in quella
scomoda posizione. E mi era andata bene. Per fortuna i desperados del Puerco non avevano
capito chi fossi.
Solo
Lola lo
sapeva.
Non le avevo detto
niente, ma si era sicuramente informata sul suo cliente fisso.
Le puttane sanno
sempre tutto.
Per il momento,
comunque, non mi tradì.
Nella polvere della
frontiera conveniva sempre tenersi qualche pallottola da parte.
Sapeva che non le
avrei sparato per primo: per lei non ero una minaccia.
El Puerco, da parte
sua, aveva altro a cui
pensare. Stava dando ordini alla banda. Si preparava a qualcosa.
Qualche minuto dopo altri
cavalli fecero irruzione in paese: un concerto di fucili, accompagnato da
pistole calibro 45, rimbombò infernale per le strette vie di Lucero.
Da quel che riuscivo a capire, si trattava di rurales. Il Puerco era stato
intercettato e si era rintanato in quello schifo di paese per difendersi meglio.
La faccia d’argento di Washington aveva scosso anche i soporiferi rurales. E
dovevano essere almeno il doppio dei bandoleros per spaventare un criminale del
genere, forse erano un intero squadrone.
Anche Lola, da una finestra della cantina, si dava da fare.
Pareva strano che fosse la stessa donna che mi ero tanto sbattuto a El Paso, ma
evidentemente era così: anche il posteriore corrispondeva.
Se i rurales avessero perso la battaglia, per me sarebbero stati grossi guai.
Se pure non m'avesse
tradito, le attenzioni del Puerco si sarebbero spostate su di me: due gringos
bene armati non erano tanto comuni in un posto come Lucero.
Per fortuna i difensori della legge erano ancora numerosi, perché mentre i
banditi
cadevano, la loro musica non perdeva colpi.
Rimanevano in piedi il Puerco, Lola e un altro paio di desperados.
Il Capo era furente.
All’improvviso si portò alle spalle di Lola, la abbrancò e la trascinò fino
alla porta,
facendosi scudo della sua figura femminile.
Era pur sempre una
donna, infatti.
Le tolse il sombrero,
per far vedere i capelli.
Forse intendeva aprirsi un varco per tentare la fuga.
Fece cenno agli altri due di provare una sortita.
I due banditi, appena usciti allo scoperto, furono crivellati di
colpi, mentre una fucilata raggiunse il Puerco alla spalla, facendolo sobbalzare
indietro; Lola ne approfittò per mettersi al riparo.
Ma la rabbia del Puerco stava per esplodere.
Le puntò contro la pistola e le vomitò addosso il suo rancore: «Scrofa
puzzolente, anche tu sei condannata…», e la fissò con occhi sbarrati,
accompagnati da una risata ingorda e bestiale.
Sembrava un maiale.
Gli occhi di Lola erano increduli.
«Aspetta...», protendendo le mani in
avanti, si portò verso il centro della cantina,
forse nel tentativo di prendere tempo. «Non voglio
arrendermi... combatteremo insieme... fino alla fine...», anzi voleva
dimostrargli di non approfittarsi della situazione.
Si era
allontanata dalla porta e dalle finestre.
Ben
giocata, Lola.
Ma quello
ormai aveva deciso.
L'aiuto
della sua puttana non avrebbe cambiato le cose.
Era in
trappola.
Voleva portarla con sé; lo capivo molto bene, d'altronde.
Altrimenti si sarebbe salvata.
I
desperados c'avrebbero giocato un po' e l'avrebbero mollata.
In
Messico c'era ancora un certo timore reverenziale per le donne.
Si
evitava di ammazzarle, in genere.
Ancora quella risata
da porco...
Lei sapeva molto bene
cosa voleva dire.
«No...
tu non lo farai...
No! Non voglio morire!
No! Aspetta...!»
Io ero a terra e disarmato.
Non potevo fare niente per lei.
L’improvviso spegnersi dell'aberrante risata sembrò preludere allo
sparo.
BANG
Il Puerco le piazzò
una pallottola nella pancia.
Incassato il colpo,
la messicana - d'istinto - voltò le spalle al
bandito.
BANG
Quello non perse l’occasione di infierire con un proiettile nelle reni.
Lola inarcò la schiena e allargò le braccia; sfiorò quasi per caso il palo
di sostegno che sorgeva al centro della cantina, e vi si aggrappò con la forza
della disperazione, ruotando su sé stessa.
Non era finita. Il Puerco manteneva spianata la colt.
BANG
Un’altra pallottola, la terza, la raggiunse al petto, sotto la spalla destra.
Lola si avvitò intorno
al palo della cantina e tornò a offrire la schiena al suo assassino.
BANG
Il Puerco esplose il quarto colpo, ancora nelle
reni della puttana-pistolera.
Stava infierendo e non sembrava
intenzionato a smettere.
Lola continuava a rimanere in piedi, aggrappata al palo della cantina, come
il naufrago a un rottame della nave.
BANG
Impietoso, il Puerco le sparò addosso per la quinta volta, aprendole un altro buco nella pancia.
Si stava divertendo.
Lola perdeva sangue dalla bocca, gli occhi sbigottiti e sbarrati dalla paura;
tratta in quella fine spietata come in un incubo, mi lanciò uno sguardo
implorante, pur sapendo che non ero nella condizione di poter fare qualcosa per lei. Le donne non si
rassegnano mai.
Nonostante tutto, forte della sua stazza, aiutata dal sostegno del palo, riusciva ancora a rimanere in piedi.
Forse quella
circostanza esasperò il rancore del Puerco.
BANG
Quella resistenza non gli piaceva e così le piazzò il sesto colpo dritto nello
stomaco.
Le aveva saldato il conto.
Gli occhi delusi di Lola schizzarono fuori dalle orbite: sembrò
ammettere la fine, il requiem era concluso.
Il Puerco le aveva scaricato addosso
tutto il tamburo.
Nella maggior parte
dei casi i requiem di quell'infernale pomeriggio
messicano erano stati rapidi, al più toccata e fuga, ma quello di Lola era
durato sei colpi: il requiem più lungo.
La sua stazza
le consentiva di incassare piombo meglio di parecchi uomini. Ma anche la sua lussuria di
puttana c'entrava qualcosa: si piaceva, sapeva di piacere e non voleva saperne
di crepare.
Finora l'aveva sempre
fatta franca, e anche quel giorno, fino a un certo momento del pomeriggio, le
era andata bene. Perciò si era ormai convinta di essere praticamente
invulnerabile, troppo piacente per essere uccisa.
La messicana che si credeva di fatto quasi intoccabile, era rimasta con la bocca spalancata, ancora sbigottita per l'ultima
sorpresa calibro 45.
Stavolta era troppo
anche per lei.
Le ginocchia
cedettero.
Franò pesante
in avanti
e rotolò floscia sul pavimento, finendo supina a braccia larghe.
Aveva la bocca piena di sangue e un’espressione indefinibile sul volto; la testa
oscillava molle da una parte all’altra, seguendo gli spasmi del corpo.
«Puttana…», il Puerco ricaricò la colt, si avvicinò alla finestra e riprese a sparare.
Poco dopo, dalla parte opposta, fece capolino la canna di un fucile.
BANG
BANG
Toccata e fuga.
Il Puerco crollò sulla schiena.
Sentendosi perduto, ebbe l’istinto di allungarsi,
strisciando, verso Lola.
«Chiquita… moriremo insieme...».
«Perché... lo hai fatto...», biascicò Lola.
«Perché
amore... è morte...», rispose il bandito.
«Io...
non ti ho... mai amato... maledetto porco...», alla fine le carte erano sul
tavolo.
Anche le
pallottole di Lola facevano male.
«Tu sei
mia...».
L'aveva
quasi raggiunta.
BANG
La questione fu chiusa da un ufficiale dei rurales, che bloccò il bandito e
gli esplose un colpo in bocca.
Gli mostrai la mia licenza di privato cittadino cacciatore di criminali, mi
rivolse un sorriso beffardo, e la cosa finì così.
Intanto i suoi uomini
cominciarono a portar via i cadaveri dei banditi.
Avevano afferrato per
gli stivali anche Lola, benché sembrasse ancora in vita.
«Solo un
attimo, per favore...», bloccai i soldati. «Capitano...
l'intera banda vale 100.000 dollari; la donna quanto può valere?».
Un altro
sorriso beffardo.
«Te la
regalo, yankee... almeno tornerai con qualcosa...».
Fece un cenno e
disimpegnò i soldati che tenevano per gli stivali la messicana.
I rurales sarebbero
ripartiti subiti. Per Hamilton non c'era nulla da fare.
Cercai di far bere un goccio a Lola.
«Non...
te l'aspettavi... vero...».
«Non
parlare».
«Ti
piacevo... vero...».
«Mi
piaci anche adesso, Lola.
È
il tuo vero nome?».
«Lola...
Ramos... Kit...».
Sentire
il mio nome fu come un colpo allo stomaco.
«Kit
Watson».
«Tu sei un gringo, signore. Perché ti occupi di una messicana?»,
l’oste era ricomparso dietro il banco.
«Lascia perdere le domande e chiama un
dottore; c’è un dottore in questo buco di paese?».
«C’è un prete, signore».
Lo afferrai per il bavero: «Il prete potrebbe servire a te».
«Ma signore… il monaco della missione è un bravo dottore…».
Sorrisi.
«Fallo chiamare subito, allora…», mollai la presa e gli acconciai il bavero.
«Avevo capito male, scusa…».
Il padrone della cantina lanciò delle urla verso un ragazzino.
«Intanto
mettiamola comoda... va bene, gringo?».
Mi fece strada verso una cameretta, dove l'adagiai
su una branda marcescente; di sicuro non c'era niente di meglio.
«È davvero bravo questo monaco?».
«È bravissimo».
«Porta
una bottiglia di tequila».
«Subito,
signore».
«Ehi...»,
gli passai una moneta.
«Niente
dinero, gringo», lo disse con un certa durezza; l'aria
da buontempone era scomparsa dalla faccia.
Nel toglierle la
bandoliera, notai qualcosa di strano.
«Questa
poi...»
Poteva
essere importante.
La feci
bere.
Intanto
controllavo sulla blusa.
«Che
fai... tu non sei... un porco...».
Non aveva
capito.
«Un paio
di colpi te li sei risparmiati.
Non te ne
sei nemmeno accorta».
«Che
dici...».
Li ha
fermati la bandoliera.
«Stai...
mentendo...».
«Ecco...
uno qui... e l'altro qui...
Datti da
fare, Lola.
Ma quanto ci mette il monaco? È tanto vecchio?»,
domandai all’oste, che si era riavvicinato.
Non fece in tempo a rispondere, perché l'attenzione si spostò su un giovane, in tonaca
marrone, che fece il suo trafelato ingresso nella stanza.
«Sono venuto di corsa,
il messo mi ha detto che si tratta di un caso grave…», e
incrociò gli occhi di Lola, deglutendo.
Aprì una borsa con dentro un gran numero di ampollette.
«Puoi fare qualcosa, fratello?».
«Vediamo... vediamo...
Preghiamo tutti la Santissima Vergine di Guadalupe, mentre il suo umile devoto
cerca di portare conforto a questa povera ragazza…».
Il giovane monaco non la conosceva molto bene.
«Che tipo
di conforto, fratello?», tirai fuori la colt e gliela puntai nel fianco.
«Il conforto della medicina, fratello... come
puoi vedere... pur se il caso rimane grave... come annunciato...», armeggiò con le ampollette,
era intelligente, aveva capito il sottinteso.
«Niente
scherzi, e niente cazzate da prete, o la tua missione finisce qui, claro?
Cerca di
tenerla su, non le serve molto, ha il fisico».
«Lo vedo,
Fratello. Lo vedo...».
Lola non aveva niente da perdere, arrivata a quel punto, e quel bizzarro
monaco era la sua ultima pallottola.
Non mi rimaneva che lasciarlo fare e pregare la Vergine.
Sono dunque sopravvissuto e
ho rispettato il mio voto. Ho raccontato questa storia.
Manca il finale, è
vero.
Ma questa è un'altra storia, e non sarò io a raccontarla.
Lettore, se vuoi conoscere l'attrice che ha
ispirato questo racconto, clicca qui.
Il racconto è un tributo alla sua bellezza,
carisma, personalità.
Gli aspetti negativi sono introdotti per mere
esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico.
Il ruolo della protagonista va assimilato a
quello dell'attrice rispetto a un film.
La devozione alla persona in questione, da
parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta.
LA DURA LEGGE DEL PIOMBO
di Salvatore Conte (2013-2018)
Lola Ramos, l’ex favorita del Puerco, dopo aver salvato la pelle grazie agli
sforzi di Kit Watson, si era messa in proprio e aveva iniziato a collezionare
avvisi di taglia.
Era singolare che in
Arizona una donna messicana fosse a capo di una banda di fuorilegge; ma la
Ramos c’era riuscita.
Imponente, massiccia,
provocante, Lola utilizzava le sue forme procaci, quasi animalesche, per
ottenere favori ed evitare il peggio nelle situazioni di pericolo.
Quel giorno, però, tutto questo non era bastato.
Quel giorno la procace
Lola aveva mangiato piombo…
Una sola pallottola, ma
letale, allo stomaco, in un regolamento di conti con la banda di Freddie Johnson.
La sua bandoliera,
stavolta, l'aveva tradita.
La pallottola aveva
centrato lo spazio tra una cartuccia e l'altra, centrando anche lo stomaco.
Una sola calibro 45
poteva sembrare, in fondo, poco cosa, se paragonata alle sei che le sparò contro
il Puerco, quando cercò di portarla con sé all'inferno.
In quell'occasione ne
mangiò quattro, due furono fermate dalla sua fedele bandoliera, inclusa quella
diretta allo stomaco.
La Ramos aveva capito
subito la differenza.
Tolti i colpi di tosse
che le ricordavano di avere un polmone malconcio, il piombo del Puerco non aveva
lasciato tracce, era riuscita ad assorbirlo.
Stavolta sarebbe stato
diverso.
Tra i pistoleri della
frontiera valeva un detto: lo stomaco non perdona.
Fatti prendere
dappertutto, ma non allo stomaco.
Era la dura legge del
piombo.
Inutile lottare o
cercare un dottore, la morte arrivava comunque, inesorabile.
In certi casi conveniva
rassegnarsi, o farla finita.
Un pallore mortale si
era già impadronito della sua pelle olivastra.
Adesso Lola voleva
solo tornare alla fazenda e crepare comoda sul proprio letto.
Aveva un po' di tempo,
ma non poteva sprecarlo.
Si era messa a cavallo,
scortata da alcuni dei suoi, e aveva lasciato gli altri a scannarsi con i
rivali.
La fretta, però, le
aveva suggerito una scorciatoia molto pericolosa.
Gli apache erano molto
gelosi dei propri territori.
Un grosso gruppo a
cavallo, formato da una ventina di guerrieri, aveva intercettato la piccola
pattuglia di banditi, capeggiata dalla Ramos.
Gli indiani si gettarono
subito all’attacco dei malcapitati; erano dotati di moderni winchester di
contrabbando, anche se avevano poca esperienza nell'usarli.
Per Lola fu un altro
colpo: non si sentiva bene, aveva un terribile mal di pancia e avrebbe fatto
volentieri a meno di quest'altro inconveniente.
Ciò nonostante dovette
rassegnarsi all’idea di trovare in fretta un punto sufficientemente difendibile.
Aveva preso una
scorciatoia per arrivare prima alla fazenda, non all'inferno.
Una collinetta con
speroni di roccia protundenti dal terreno era l’unico obiettivo raggiungibile
prima della collisione con gli indiani.
I suoi presero
posizione. Lei stava attenta a non esporsi.
Quel contegno
smaccatamente furbo esasperò uno dei suoi tagliagole, un certo Emiliano.
«Ehi, Lola… vuoi
salvarti solo tu?».
«Chiudi la bocca...
idiota... sto morendo... ho un buco allo stomaco...», glielo mostrò, scostando
la bandoliera.
«Potevi dirlo...
Per quanto ne hai?».
«Forse un'ora...».
Emiliano riprese a
sparare, anche se non c’erano molti dubbi che alla fine avrebbero prevalso gli
apache.
Ma quando tutto sembrava
ormai perduto…
PEEE-PEREPEE…
PEEE-PEREPEE…
Uno squillo insistito di tromba risuonò nelle menti degli assediati…
Gli uomini della
Ramos, usciti dallo scontro con la banda di Freddie Johnson, non avevano in
realtà alcuna tromba con loro, ma alla carica sembravano davvero il Settimo
Cavalleggeri.
Gli apache ripiegarono.
Ora i banditi erano
tutti intorno al loro Capo, Lola Ramos, la donna con 50.000 dollari di
taglia sulla testa.
L'avevano imbottita di
tequila.
Anche se si era opposta,
avevano chiamato il medico di Tucson, abile col bisturi quanto facile ai
dollari.
Sapevano che era
sopravvissuta a sei pallottole, volevano la conferma che fosse finita. Poi
avrebbe scelto il successore.
Intanto, come
trasportata dal vento, a Tucson si era diffusa la notizia secondo cui Lola Ramos, la pericolosa bandita messicana, aveva trovato la morte in uno scontro
a fuoco con la banda rivale di Freddie Johnson.
Il clamore fu notevole e
la ricerca dei particolari divenne subito ossessiva, coinvolgendo i principali
giornali dello Stato.
La notizia giunse anche
all’orecchio di Kit Watson, il bounty-killer che l'aveva prima conosciuta come
prostituta a El Paso e poi ritrovata in Messico al seguito del Puerco. E che
l'aveva salvata da morte certa.
Quantunque fosse stato
scaricato senza tanti riguardi, non l'aveva ancora dimenticata.
Anche lui voleva saperne
di più.
«Allora… Jack…», Jack
Milligan, il medico di Tucson, era arrivato alla fazenda. «Questi cani... hanno
voluto... farti perdere tempo... tanto vale... che me lo dici…».
«Mille anni all’inferno
e tornerai come nuova…
Ti fascio il buco prima
di andarmene».
Era la dura legge del
piombo.
La conoscevano anche i
dottori.
I suoi uomini, al piano
di sotto, si interrogavano sul da farsi.
Mentre il dibattito si
scaldava, per un Jack che usciva c’era un Kit che entrava.
Cacciava i 50.000
dollari della taglia, nient'altro.
Stavolta li avrebbe
incassati tutti, con gli interessi.
Entrò di soppiatto, chiudendosi la porta alle spalle.
La Ramos trasalì,
come avesse visto in anticipo il diavolo.
«Capiti… a proposito…
Kit…
Sto cercando… l’ultima
pallottola… e sarai tu… a darmela…
Tu… Kit… l’uomo… del mio
destino…
Amore... è morte...
disse... el Puerco... te lo ricordi...».
«Mi ricordo anche quello
che gli hai risposto.
Non contarci sulla
pallottola, ti consegnerò allo sceriffo nelle condizioni in cui sei».
A sorpresa, però, la
Ramos gli puntò contro la colt, sempre pronta alla mano. Era nascosta sotto
il lenzuolo.
«Estrai… oppure…
t’ammazzo come un cane... ».
«Se ti sparo, i tuoi
uomini mi faranno a pezzi…».
«È solo una scusa...
Senza di me… non sono
niente…».
«Almeno cerca di
difenderti…».
Il paradosso la fece
sorridere.
«Lo farò…», tornando
seria e guardandolo intensamente negli occhi.
Forse sarebbe stato...
amore è morte...
Sembrava il momento
culminante di un duello fatale.
Ma lei abbassò la colt.
«Sei uno stronzo...», e
si morse a sangue il labbro.
Forse una recita, forse
no.
Ma chi sta per morire
raramente recita.
L'aveva conquistata
proprio alla fine.
Alla sua maniera.
E lei, alla sua maniera,
aveva detto sì.
BANG BANG BANG
BANG BANG BANG
BANG BANG BANG
Se al piano di sopra
trionfava un magnifico stallo, da quello di sotto si scatenò una sarabanda di
colpi.
Watson rivolse
un’occhiata interrogativa a Lola.
«Si stanno... scannando
tra loro… per dividersi... il mio impero…».
Dopo non molto, infatti,
uno strepito di cavalli lanciati al galoppo rimbombò dall’esterno.
«Se ne stanno andando», annunciò Watson dalla finestra della camera. «Sono una
mezza dozzina».
«Ne avevo... molti di
più… andranno... a prendersi il bottino... è qui vicino... e saranno... ancora
di meno...».
«Già... dovrei andarci
anch'io, se qualcosa non mi trattenesse qui».
«Potevamo... essere
invincibili… insieme…».
«Andando in giro ad
ammazzare gente?».
«Non è quello… che
fai... anche tu…?».
«Ne abbiamo già parlato.
Vado a fumare, Lola…
Questa la prendo io», si
era lentamente avvicinato e ora le portava via la colt.
«Kit...!».
Non fece in tempo a
bruciarlo con lo sguardo, perché se n'era già andato.
BANG
Dopo un po' risuonò uno
sparo.
Watson ritornò trafelato
da Lola.
Aveva un'altra pistola e
l'aveva fatta finita.
«Sento puzza di
bruciato… che hai fumato…», aveva una colt fumante nella mano, ma non sembrava
essersi colpita. «Ne avevo un'altra... imbecille...», gli aveva dimostrato che
avrebbe potuto farlo, se avesse voluto.
«Hanno già risposto. Tra
poco saranno qui».
Lo bruciò con gli occhi.
Gli apache erano una
dozzina.
Lo stregone cominciò
subito a lavorare.
Lola era quasi
andata.
Intanto il capo dei
guerrieri di scorta esibì a Kit Watson una mezza dozzina di scalpi freschi,
ancora sanguinolenti: li teneva tutti in una mano, per i capelli.
Uno dei suoi, invece,
svuotò un sacco sul tavolino della camera, rimanendo in attesa di ordini: era un
bel malloppo.
Il capo alzò la mano che
reggeva gli scalpi e con un cenno degli occhi indicò prima la donna e poi l’uomo
bianco.
Il guerriero apache
divise il malloppo in otto parti, sei erano infatti gli scalpi nella mano del
suo capo.
Quindi fece cenno a
Watson di avvicinarsi, affinché contasse egli stesso, ma il viso pallido alzò la
mano a palmo aperto.
Allora l’indiano
reintrodusse nel sacco sei parti del malloppo.
Watson, delle due
rimaste sul tavolo, ne portò una allo stregone, ma questi rispose così: «Niente
dinero, gringo», come l'oste nella cantina di Lucero.
Sembrava leggergli nella
mente.
«Gli stregoni bianchi
guariscono in cambio di oro», insistette Watson.
«Loro essere stregoni,
io uomo della medicina, viso pallido», e si voltò verso Lola, per finire il
suo lavoro. «Avvoltoio andare via, quando pasto troppo difficile».
Watson, in un primo
momento, non riuscì a dare un senso a quelle parole.
Poi ripensò a Doc
Milligan, che aveva seguito fino alla fazenda.
La dura legge del piombo
fece un'altra vittima.
Una croce alla fazenda
ricordava Lola Ramos.
Due figure si
ritrovarono a pregare.
«La tua banda non esiste
più.
E neanche del tuo
bottino c’è rimasto molto».
«Quella che hai visto
era solo una piccola parte, idiota…
E poi avresti me, che da
sola valgo molto più di 50.000 dollari…».
Questa invece è la
dura legge di Lola Ramos.
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ispirato questo racconto, clicca qui.
Il racconto è un tributo alla sua bellezza,
carisma, personalità.
Gli aspetti negativi sono introdotti per mere
esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico.
Il ruolo della protagonista va assimilato a
quello dell'attrice rispetto a un film.
La devozione alla persona in questione, da
parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta.
Anche se c’è poco da fare.
Si è beccata un fallo d’acciaio dallo sperma di piombo.
FLOP
Uno sparo doppiamente silenziato.
La pallottola le è finita quasi in gola.
Però la bella vacca sospira ancora.
Viene tenuta ferma, non deve muoversi, se non vuole buttarsi via subito.
Due devoti le asciugano a turno il sangue che le cola dal labbro, e la
confortano.
«Potevi rimanere uccisa sul colpo».
«Invece respiri». E parla, anche.
«Non puoi morire».
L’hanno trovata così… sul letto, sfondata, in fin di vita.
Avevano un appuntamento con lei. La porta era aperta.
L’assassino era appena uscito.
L'ha spinta sul letto, poi l'ha
uccisa in questo modo barbaro.
Milena Velba - la bella vacca spremuta - è ormai
cadavere, massacrata da una pallottola sparata
dall’interno, da sotto a sopra.
Dopo una delle sue feste, l’hanno seguita fino a casa e le hanno tirato uno
scherzetto fatale.
Impalata col piombo.
Fuori è ancora lei, ma dentro è tutta rotta.
Anche se è difficile che l'ambulanza arrivi in
tempo.
Erano in tre, a volto coperto.
Non ci sono molti indizi.
Milena giace immobile, impalata, attenta a guadagnare qualche minuto.
È una maschera di cera.
È
finita come una strega dei tempi oscuri.
L’agonia poteva durare ore, anche giorni, se non venivano compromessi gli organi
vitali. E chi era bravo a impalare, riusciva a evitarlo, così da garantire al
pubblico estenuanti e spettacolari agonie, concedendo alla vittima il tempo di
suscitare compassione.
Una come Milena avrebbe forse ottenuto - dopo un paio di giorni - di essere
deposta; tolta da quella scomoda posizione; ma con grande e meticolosa
attenzione, perché sviscerarne il palo - giunti a quel punto - ne avrebbe
accelerato la morte.
Il primo passo sarebbe stato quello di metterla in posizione orizzontale, con
tutto il palo ancora conficcato dentro.
Quindi bisognava sviscerarlo centimetro dopo centimetro, dandole ogni volta il
tempo di assestarsi, per evitare che le emorragie interne dilagassero e la
uccidessero sul colpo.
Il suo destino era segnato, ma procedere con queste cautele poteva farle
guadagnare qualche ora.
Giunti alla fine, non si butta via niente.
Proprio come adesso, nei giorni dell'unica terra, nelle
stanze reali di Avandas, dove
Vellabel, la Regina impalata,
lotta per guadagnare altro tempo, mal rassegnata a cedere.
È stata colpita da una congiura
di palazzo; nel modo peggiore; ma secondo
precisi rituali.
Impalata sul suo letto con un'asta appuntita
di legno, da sotto a sopra, con il bastone fatto fuoriuscire dal torso, appena
sotto la spalla destra.
Chi rimane fedele alla vittima, o comunque chi
se ne fa impietosire, ha il diritto di assisterla con acqua e cibo, senza però
toccarne le ferite; e può anche incoraggiarla.
Non mancano infatti i messaggi di solidarietà
lasciati ai suoi piedi (ma non si può chiamarla Regina):
Non lasciarti andare, Vellabel!
Noi crediamo in te!
Tenta fino all'ultimo, noi ti preghiamo!
I magistrati controllano da vicino che
l'antico rituale sia rispettato.
L'asta è stata infilata con grande maestria, secondo precisi calcoli anatomici.
L'operazione, se eseguita correttamente, consente all'impalato di sopravvivere
per ore, se non addirittura per giorni.
La vittima viene tenuta ferma, immobilizzata,
all'atto dell'impalamento: per il suo stesso bene... se può dirsi così.
Lo shock è comunque enorme e di per sé letale: solo chi è dotato di un'estrema
forza di volontà e di profonda durezza può riuscire a sopportarlo.
La deposta Regina è tra questi pochissimi.
Vuole giocarsi le sue ultime possibilità, non si predispone a morire.
Nessun altra donna a Dooza Thom oserebbe tanto.
Ma
lei è speciale, una potenza, quasi indistruttibile.
E soprattutto è una vera strega.
Mormora infatti tra sé le formule arcane della tradizione, invocando la
protezione di oscuri demoni, che avrebbe ricompensato appena liberata e
ristabilita.
Dopo due lunghi giorni di agonia, ha ormai
impietosito mezza Avandas.
I più devoti le passano da bere porgendole un boccale alle labbra.
Se la vittima non si arrende, al tramonto del terzo giorno ottiene la grazia.
Il palo è stato introdotto con grande perizia:
il
cuore di Vellabel è illeso e il
polmone è stato appena sfiorato.
La deposta Regina è ancora in grado di lottare.
Potrebbe lasciarsi morire e farla finita, ma lei preferisce così.
Conosce la possanza e avvenenza del suo corpo, e vuole sfruttarle.
E i fatti le danno ragione, perché si fa trovare viva all'agognato tramonto.
Circondata dai suoi più stretti devoti, le stanno sviscerando il palo.
Molto lentamente. Con lentezza esasperata.
Poi - secondo gli usi - sarà portata a consumare la sua agonia in un luogo a ciò
preposto.
Ma per vederla cedere, bisognerà pagare caro.
L'oro finirà nelle casse della città.
Può reggere ancora diverse ore, cuore e polmoni funzionano, lo spettacolo sarà
lungo e costoso, per chi non potrà farne a meno.
Nessuno tra i congiurati pensa che la cosa possa diventare un fastidio.
Anche se sa lottare, Vellabel è fottuta.
La Regina impalata non è più un problema.
Vederla morire con tanta difficoltà ha riacceso una certa devozione, ma è poca cosa
rispetto alle brillanti prospettive che si aprono per Dooza Thom dopo la sua
caduta.
Una nuova prosperità, da troppo tempo attesa, pioverà su Avandas e l'intero
Regno.
Da adesso in poi lo governerà una casta di massoni. Così si fanno chiamare. Si
dice che già un tempo governarono su molti regni.
Il popolo sarà consultato spesso. Avrà i suoi rappresentanti. Parteciperà alle
decisioni più importanti.
I vecchi della città, però, sono perplessi. Sanno come vanno a finire certe cose.
Pur con tutti i suoi abusi, Vellabel rendeva orgogliosi di
appartenere a Dooza Thom.
Era una Regina famosa su tutta la terra di Zothique.
«Se fossi in voi, non mi lusingherei tanto», ammonisce un vecchio saggio,
rivolto a un gruppo di giovani, che festeggiano la nuova reggenza massonica.
«Non vorrei doveste rimpiangere le vessazioni di Vellabel, la giustizia sommaria e
le tasse esorbitanti. Prima vedevate chi comandava; ora potrete dire Ia stessa
cosa? Io sono vecchio, ho poco da dare, ma voi siete giovani, avete molte tasse
da pagare, e potrete sapere se oggi avete festeggiato con giudizio solo fra
qualche anno».
Le parole del saggio, sebbene appena sussurrate, sembrano rimbombare tra le mura
della città.
Sui giovani cala un'innaturale inquietudine.
Quelle parole sembrano un'ipoteca sul loro futuro.
Qualcuno di loro, magari con una scusa, si sfila dal gruppo.
Intanto Vellabel è stata trasportata nella camera d'aspetto, dove i condannati per
impalamento attendono la fine, una volta che gli è stato sviscerato il palo.
Le cronache della città annotano tutti i casi.
La camera è molto grande; in effetti è un teatro coperto con tribune a
semicerchio.
Sulla scena c’è il morituro da impalamento, disteso su un ampio letto.
Al capezzale della deposta Regina sono giunti maghi, curatori, incantatori e
streghe.
Ne sono ammessi dodici per volta, sei per ciascun lato del giaciglio.
I sostituti attendono il loro turno ai piedi del letto.
Prendono il posto di chi è congedato, secondo un cenno del morituro.
Questi può rimettersi in coda, se crede.
I dodici cercano di farle guadagnare un po' di tempo. E di non farsi scartare.
Ne va del loro prestigio, specie in un’occasione come questa.
Le condizioni di Vellabel si vanno via-via aggravando. La fine è pericolosamente vicina. Nel suo sguardo imperioso si è fatta strada la paura.
Anche lei deve cedere.
Tutti sono ormai pronti.
Dilaga la notizia per la città. Vellabel non riesce più a gestire la situazione.
Arriva altra gente. Si cerca di capire quanto davvero manchi, o se - addirittura
- sia già cadavere.
L'idea comincia a serpeggiare, perché vengono avvistati diversi negromanti.
Il morituro può chiedere di vivere oltre la morte. E Vellabel, si dice, ne ha tre intorno a lei.
L'ansia di notizie sempre aggiornate, e possibilmente anticipate, diventa sempre più febbrile da parte dei
tanti che non possono permettersi di accedere alla camera d'aspetto.
Deve uscire un portavoce dei devoti per comunicare alla folla che la cittadina
Vellabel - è infatti vietato chiamarla Regina - è viva ed è impegnata a
lottare.
Al momento dell'aggravamento fatale, verrà sventolato un drappo bianco.
Gli altri impalati, intanto, sono tutti morti.
Vengono deposti a terra già cadaveri.
Vellabel è l’unica a strisciare ancora per Zothique con uno straccio di pelle
addosso.
C’è chi dice che vivrà nella sua stessa tomba, cibandosi dei vermi che
si illuderanno di spolparla.
L’attesa si fa spasmodica, logorante.
Gli spettatori si fanno portare il cibo sulle tribune, perché la situazione
potrebbe precipitare da un momento all'altro.
Si rassegnano ad assentarsi solo per i bisogni indifferibili.
Ma c'è perfino chi non rinuncia per nulla al
mondo.
In mezzo a tutto questo, su Dooza Thom muove un terzo incomodo: l’ambizione di Ustaim,
che mira a riunificare sotto di sé l'intera regione nord-orientale di Zothique.
Approfittando del cambio di regime, i mercenari di Aramoam attaccano sia per
terra che per mare.
Erano pronti a intervenire e lo stanno facendo.
Si riunisce d’urgenza il collegio dei massoni.
Nonostante l’emergenza, però, l’attenzione della città rimane catalizzata sulla
sorte di Vellabel.
Cominciano a sbiadire - come fossero già passati diversi soli - le lamentele
popolari sull'aumento delle tasse e la riduzione dei giochi.
Di fronte a una minaccia esterna, la Regina avrebbe trattato un accordo, magari
pagando un tributo.
I massoni ordinano il reclutamento generale. La plebaglia va alla guerra.
E tuttavia, poiché nessuno li conosce, non si capisce dove siano e se
prenderanno parte alla difesa della città.
Mancano, inoltre, i più esperti comandanti.
Chi è finito impalato, chi si è nascosto, chi è fuggito, chi non combatterebbe
se non per Vellabel.
La guerra incombe, ma Avandas è impreparata.
Bisognerebbe portarla sugli spalti e farla vedere ai nemici.
Ma è ridotta troppo male.
E potrebbe arrendersi presto. Anche lei è sotto assedio.
I devoti all’esterno temono di veder sventolare da un momento all’altro il
drappo bianco, che ne segnalerebbe la fine.
Chi si trova - a caro prezzo - all’interno della camera d’aspetto, non trae
auspici migliori dall’osservarla direttamente.
È bianca come uno spettro, impalata come fosse infilzata a un tronco acuminato, ferma immobile come fosse
tuttora impalata. Solo le mani si muovono leggermente, strofinando tragicamente sulle lenzuola del
giaciglio.
È l’ultimo segnale di una lotta non appariscente, ma molto dura.
Intorno a lei si stagliano diverse figure, tutte impegnate in gesti rituali e
operazioni di vario genere.
Tanta scienza non la salverà dalla fine, ma servirà a farle guadagnare altro
tempo. «Combattete… cani…», mormora Vellabel, tra uno spasmo e
l'altro.
L’hanno avvertita che la città è sotto assedio.
Un evento che potrebbe giocare a suo favore.
Ma lei, invece che accontentarsi di aspettare e di essere vendicata, suggerisce
di combattere; circostanza che potrebbe favorire i suoi nemici massoni,
salvandoli dall’assedio.
È per questo che i suoi devoti non capiscono, almeno all’inizio.
L’agonia ne ha alterato la lucidità.
Però quando i mercenari di Ustaim cominciano a penetrare in
città, gridando alla vittoria senza incontrare resistenza, e trovano folla solo
nei pressi della camera d’aspetto, allora si capisce che la cittadina Vellabel non
è una cittadina qualunque.
Il potere sulla città è ancora suo.
Si organizzano barricate e gruppi armati.
Mentre lei muore, qualcuno morirà per lei.
Un destino amaro per Avandas, ma pur sempre migliore di una schiavitù
miserabile.
Asservirsi a Vellabel non è la stessa cosa che asservirsi ad altri, massoni o
mercenari che siano.
Almeno quattro volte a giro - quando il sole rosso fissa la storia nei cieli,
più in qualche occasione speciale - si offriva a tutti, plebaglia compresa.
Senza contare che è la più grossa puttana di Zothique.
E una così ce l’ha solo Dooza Thom.
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ispirato questo racconto, clicca qui.
Il racconto è un tributo alla sua bellezza,
carisma, personalità.
Gli aspetti negativi sono introdotti per mere
esigenze di ordine drammatico e narrativo.
Il ruolo della protagonista va assimilato a
quello dell'attrice rispetto a un film.
La devozione alla persona in questione, da
parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta.
«Ma dove… lo sai che
sto male… non ce la faccio…», si tocca l'addome.
«Andiamo… non fare la
stupida… se rimani qui, ti ritroverai con qualcosa di peggio nella pancia!».
«Peggio di quello che ho?».
«Esattamente».
«Che vuoi dire…».
«Che stanno per venire
qui, perché hanno deciso di saldarci il conto.
Dobbiamo sgommare, e
subito». Bravo, Jack, il termine
è indovinato.
«Non
dimenticare la pistola: se occorre, venderemo cara la pelle».
«Ho capito... anche se la mia non
vale molto...».
«Hai ancora un mese o due, non
buttarli via».
«Ma io non voglio crepare…!».
«Ne hai per poco, lo sai...».
«Forse... se mi bombardo di radio… posso guadagnare tempo…».
«Vedremo… adesso però il tempo non c’è!».
Neppure il cancro le ha
tolto il vizio di godersi la vita.
Ha deciso di lottare
fino all'ultimo, con la bava alla bocca, e tanti soldi in tasca.
Il pensiero di morire la
tormenta, ma lo addolcisce con quello del denaro.
«Hai
preso i pannolini?».
«Certo...».
Quando ha saputo di non
averne per molto, si è appoggiata al penultimo marito, uno stimato professionista, per
ricevere un po' di conforto.
E quello c'è cascato di
nuovo.
Subentrata negli affari dell'ultimo marito, morto ammazzato,
Leila Mazhamawi s’è vista diagnosticare un tumore
aggressivo al colon, poi giunto
rapidamente allo stadio 4.
C'è poco da fare in
questi casi.
Leila è andata nel
panico. Non ci sta a crepare.
È ancora bona.
D'altronde, il coraggio di farsi
sbudellare e impiantare pezzi di plastica non ce l'ha avuto. Ora, però, sarebbe
tardi pure per questo.
La potente libanese, toccati i 55, è ormai considerata quel che si dice un cesso, marcia dentro e allentata fuori,
anche se con tanta carne dalla sua.
E sta tirando avanti
più a lungo del previsto.
Adesso, però, la resa
dei conti è vicina.
Non fa che entrare e
uscire dall'ospedale, per il prelievo dell'ascite, il liquido tumorale prodotto
dalle budella marce, e per ecografie e ripetuti monitoraggi.
Con la radioterapia si è
cercato di contenere l'avanzata del cancro. Ma adesso è diventata inutile.
La
Mazhamawi vive nell'incubo di una metastasi al pancreas, che metterebbe fine ai
giochi; in ogni caso, la situazione volge al
peggio: talvolta espelle all'improvviso, talaltra va incontro a dolorosi blocchi
intestinali; l'apparato digerente non funziona più.
Neanche l'ex marito,
ancora innamorato di lei, ha potuto fare molto per lei. Ma almeno le ha
sconsigliato la chemioterapia.
Dovrà mesmerizzarla e
imbalsamarla, se vorrà tenersela vicino, ispirandosi al
caso di mister Valdemar.
Leila è
arrivata alla stretta finale. Guadagnare altro tempo le rimane sempre più
difficile.
Lo
sa lei, lo sa Jack, lo sanno pure i tanti followers di Spiffero, che
tiene regolarmente informati.
La eccita sapere che
oltre 66.000 utenti stiano lì ad aspettare una sua foto e a chiedere
ansiosamente notizie su una moribonda che neanche conoscono.
Per cercare di entrare
ad Area 51, dove si dice esistano terapie efficaci contro il cancro, Jack ha
trattenuto i 600.000 dollari dello spaccio di droga dell'ultimo mese, destinati ai
fornitori colombiani.
E con certa gente
sgarri simili si pagano cari.
Inizia il viaggio, e lei non fa molto per non attirare troppo l'attenzione.
Ma sono le sue ultime cartucce e vuole spararsele tutte, anche a costo di
rimanere uccisa imbottita di piombo.
Jack procede lungo la vecchia Route 66, la Strada-Madre d’America.
Leila ha già i suoi
problemi. Jack vuole evitarle un’indigestione di piombo.
Hanno con sé un bel po'
di soldi. Potrebbero nascondersi e
aspettare che la situazione precipiti senza pressioni esterne.
Non si sa con precisione quando
avverrà.
Ma potrebbe essere
prestissimo. Leila ha retto anche troppo.
Basterebbe
un'emorragia fulminante, o un blocco intestinale, per affossarla.
L'alternativa sarebbe
quella di tentare il tutto
per tutto in Svizzera: farla operare d'urgenza - a tutti gli effetti spolparla - per guadagnare un paio di mesi.
«Possibile
che non basti un milione di dollari per entrare ad Area 51?».
«Forse
basterà, stanno decidendo. Ma non sono i soldi il problema principale».
«Ah
no? E cosa, allora?
Beh... io non mi sento bene,
Jack... trova un posto e fermati», la voce è pressante.
«Qui
intorno non c’è niente.
Lo sai dove siamo?». Una
pausa retorica. «Siamo a Two Guns.
E non c’è rimasto
assolutamente niente. È una ghost town, infatti».
«Quella cos’è,
allora?».
«Una vecchia pompa della
benzina».
«Fermati lì...».
«Si può sapere che
hai?».
«Sto male… te l’ho
detto… cosa pretendi…».
«Dimmi che hai».
«Mi fa
male la pancia… ho bisogno di andare... dammi una pillola…».
Leila si è bloccata.
E il farmaco non riesce a stapparla.
La cosa è dannatamente seria.
Il tumore l’ha invasa,
ma il malato non si rassegna mai, spera sempre di avere altro tempo.
Ormai, però, basta poco per aggravare
un quadro critico come il suo.
«Ti faccio una siringa,
Leila».
«No... aspetta... qualcosa si muove...».
La conferma presenta il
suo lato sgradevole, ma è meglio così.
Si sistemano all'interno
della vecchia stazione di servizio.
E cala la sera.
Leila ha avuto
paura: un campanello
d’allarme ha squillato forte dentro la sua testa.
Vuole almeno crepare con
tutti i comfort.
«Ascolta, Jack… sei tu
adesso che gestisci gli affari... loro
vogliono te... non me...», c'è un lampo
di lucida follia negli occhi diabolici della Mazhamawi.
L'ex marito non ha nemmeno il tempo
di pensare al peggio che vede la canna della pistola puntata contro di lui.
Leila ha deciso di
fregarlo.
Si fa consegnare il
revolver e lo infila nella borsetta.
«Addio, bello.
Non ti ammazzo… ma non
cercare di seguirmi».
POW
Uno sparo che non fa
rumore, in un posto come quello.
Non lo ammazza, ma gli
fa saltare un ginocchio.
E adesso via... verso l'ultimo capitolo della sua vita.
Proseguirà da sola. Può farcela. Non si lascerà uccidere. Troverà una via di
scampo.
Prende la valigetta con
i soldi e se ne va.
BANG
BANG
I colpi esplodono improvvisi nell'oscurità del deserto.
Leila è raggiunta dal piombo (!), ha due buchi in pancia adesso (!!), barcolla ma rimane in piedi, e mantiene la presa
sulla valigetta.
La voglia di vivere è tale che la spinge ad andare avanti.
POW
POW
Spara due colpi alla cieca, solo per prendere tempo. Non vede nessuno, infatti.
Ma qualcuno c'è, perché le hanno sparato.
Si infila dentro la macchina e parte a razzo, bruciando le gomme.
BANG
BANG
Ancora spari, un’esplosione di vetri, ma i buchi rimangono quelli.
Due luci nel buio la inseguono. Le sono alle costole.
Deve affrontarli, non può sperare di fuggire.
Paralizzata dalla paura di esserci rimasta secca, sbanda e finisce contro una
staccionata diroccata.
Lo sportello di guida si apre e lei finisce con il busto fuori dall'abitacolo,
le gambe ancora dentro.
La valigetta è finita sul terreno e si è anche aperta.
«Ne aveva di birra in corpo questa gran puttana!», esclama uno dei killer.
«Beh, adesso l'ha finita...», gli risponde l'altro.
Lo dicono un paio di grossi buchi in corpo e gli occhi vitrei.
Il recupero crediti dell'organizzazione è piuttosto efficiente.
Leila giace supina a terra.
Sul volto, un'espressione esterrefatta: quella di chi è rimasto fottuto.
«I soldi ci sono... sembrano anche di più...».
«Quello che avanza lo prendiamo noi: conta
bene, amigo...».
Quando si seppellisce qualcuno, però, bisogna prima chiudere la fossa,
perché altrimenti qualcun altro può cascarci dentro.
POW
POW
Un colpo per ciascuno.
Leila ha sparato con due pistole contemporaneamente...
E ha sparato a Two Guns.
La borsetta era finita
sotto il braccio, le tettone e i fianchi da cessa, praticamente sotterrata.
I sicari cadono.
Non hanno la stessa capacità di assorbimento.
Ma si muovono ancora. Troppo.
POW
Improvvisamente le
torna un po' di spirito.
«Sei già qui...? Non ti fa male… il ginocchio...?».
Con fare rassegnato, senza presentare recriminazioni, Jack la carica
in auto e si pone alla guida.
Per sua fortuna la gamba sinistra non serve a molto sulla Route 66.
«Hai preso... i soldi...?»,
con l'acqua alla gola si preoccupa dei soldi.
«Ti ho giocato... un brutto scherzo… lo so… ma non voglio crepare…
No... non voglio morire...».
Jack non risponde.
Solo quando Leila gli frana addosso, accosta l'auto, e la rimette contro il
sedile.
Ha due grossi buchi nella pancia, oltre a tutto il resto.
Jack deve ammettere che la sua ex moglie è rimasta uccisa nello scontro a fuoco con i
sicari.
«Non va tutto male… mi sento libera…».
Sembra incredibile, ma in effetti dai buchi cola un muco marrone.
Più testarda di un mulo, la bella Leila non si rassegna,
si aggrappa a tutto.
«So... a cosa stai pensando... che sono fottuta... ma io... non voglio crepare... ho
lottato tanto… in questi mesi... non mi sono... mai... arresa...».
«Malgrado tutto, mi hai salvato, Leila».
«Sì... li ho fatti fuori... quei bastardi...
Ma adesso... prendi... il revolver...».
«Che vuoi fare? Spararmi all'altro ginocchio?».
«Lascia una pallottola... e infilalo... in mezzo alle tette...».
«Una spagnola alla russa... sei impazzita?».
«Da mesi... la mia vita... è una fuga... dalla morte...
Vediamo... se la morte… ha deciso... di prendermi...».
«Se
il colpo parte... sei finita...
lo sai, questo?».
«Lo
so.. fai presto...».
Il gioco la eccita. Leila cerca adrenalina.
L'ex marito fa
ruotare il tamburo.
La Mazhamawi ha un'espressione folle mentre aspetta che Jack prema il grilletto.
Sta dritta contro lo
schienale, con le braccia tese lungo i fianchi, preparandosi al peggio e a
resistere comunque...
«Sei
pronta?».
«Fallo...
adesso...!».
CLICK
È andata bene.
Anche perché Jack non ha lasciato nemmeno un proiettile.
Chissà se Leila lo
aveva intuito.
Però la Mazhamawi spalanca la
bocca e strabuzza gli occhi, come se il revolver avesse esploso un colpo.
Chissà se Jack lo
aveva intuito.
Leila è rimasta esterrefatta.
Forse pensava di guadagnare altro tempo.
E di salvarsi ancora una volta.
Soltanto una probabilità su sei di crepare; per la Bella della Route 66.
E invece le probabilità erano molte di più, praticamente tutte, sei su sei.
Bocca aperta, occhi fuori dalle orbite.
E un rivolo sensuale dal labbro.
Inimitabile, come
sempre.
Jack si abbandona sul sedile.
Il buio lo avvolge.
Si sente morto come lei.
Spuntano due luci e neppure se ne accorge.
Un'autovettura lo affianca.
Se sono altri uomini dell'organizzazione, lui è bello che fottuto.
Inutile tentare qualsiasi reazione. Anche perché il revolver che ha in mano è scarico.
Scende un tale, dà un'occhiata e si porta sul lato del passeggero.
Apre la portiera e adesso Jack può notare che lo sconosciuto ha una siringa
nella
mano e la sta accostando al braccio di Leila.
«Tu chi saresti?».
«Sono uno stalker.
Stalker 51.
Tu invece sei quello stronzo dell'ex marito...».
«Insomma, che cazzo stai facendo? È crepata!».
«Può darsi. Ma questa la terrà in vita un altro po'. È una scarica di
adrenalina che farebbe rimettere in forma una mummia rinsecchita. E nel nostro
caso la
decomposizione non è così avanzata.
Sono uno stalker, te
l'ho detto.
Uno dei suoi 66.000
followers.
Sono mesi che la incoraggiamo a non mollare, da quando ha rivelato di
essersi ammalata di cancro.
Doveva essere già crepata, ma ha retto ben oltre le previsioni.
Nell'imminenza di una crisi fatale, le
abbiamo chiesto di sapere tutto in tempo reale.
Io stesso le ho proposto la mia app.
Sottopelle la nostra Leila porta un microchip che misura i suoi indici vitali.
Sul suo profilo è scattato l'allarme rosso. I followers di Spiffero sono in preda al
panico».
«Non puoi essere serio...».
«Mai stato più serio di adesso: da bravo stalker vi stavo seguendo e sono intervenuto».
«Che altro le stai facendo?».
«Da questo braccio le sto iniettando un plasma di derivazione vegetale, una
resina compatibile; si solidifica in
corrispondenza dei buchi, come fa una pianta quando viene potata.
Il tempo di stabilizzarla, e poi potrai proseguire, seguendo la mia
auto.
Puntiamo Area 51, per
i ritocchi del caso.
Te l'ho detto, sono uno stalker».
«Stalker 51», aggiunge Jack.
«Esatto».
«Io ti seguo, ma dopo
ritorni tra i followers, okay...?».
Lettore, se vuoi conoscere l'attrice che ha
ispirato questo racconto, clicca qui.
Il racconto è un tributo alla sua bellezza,
carisma, personalità.
Gli aspetti negativi sono introdotti per mere
esigenze di ordine drammatico e narrativo.
Il ruolo della protagonista va assimilato a
quello dell'attrice rispetto a un film.
La devozione alla persona in questione, da
parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta.
LA BELLA
SBOTTONATA
NEL FOSSO
di Salvatore Conte (2017-2020)
«La
Porta di Roma, uno dei posti più belli al mondo, che inebriò Enea e lo
spinse a proseguire».
«Stai attenta, Anna,
sorella di Didone: guardati dagli Eneadi!».
«Tutte queste
cazzate per una pisciata?
La prossima volta andiamo al bar».
Ma il discorso prosegue in macchina.
«Mai in nessun luogo l'idea di grandezza e
sacralità ebbe una realizzazione così eloquente.
Nulla ha potuto la miseria moderna. Gli Dei
Latini esprimono il loro disegno sotto i nostri occhi».
«Stiamo lavorando,
Johnny».
«Giove ha condotto il carro
sull'Olimpo Albano».
«Ti ho detto di
piantarla...».
«Solo
chi è cieco non vede.
Tempo giungerà che nel corpo liquido del Dio il
popolo di Roma offrirà sacrifici di espiazione.
E allora non più biondo - ma rosso come il
Trasimeno - sarà
ricordato nella memoria degli uomini».
«Puoi fare una pausa,
Cristo?! Giusto per incassare i fottuti testoni che ci devono».
La Maddaluno - puteolana con
esperienza all'estero, detta "la Sbottonata" per i più ovvi motivi - scende dall'auto
infilandosi la beretta nei pantaloni, sotto il camicione rosa allentato fino
allo stomaco; il calcio
si intravede chiaramente, insieme ai rotoli di ciccia della panza.
La Sbottonata cerca di rimanere sulla breccia,
ma è in pieno declino.
Con le sue camicette allentate esprime la
frustrazione per l'età che avanza, i capelli grigi e la tanta cellulite fuori
controllo.
Soltanto che - anziché farsi da parte - si è fatta
ancora più bona.
Non annoia mai e la camicetta
sbottonata è sempre perfetta su di lei.
Nel quartiere la conoscono e rispettano tutti.
Qualche donnaccia, forse per invidia, ha provato a ribattezzarla "la
Cessa", perché si sarebbe allargata troppo e i nomignoli popolari sono impietosi
e non risparmiano nessuno; tuttavia la cosa non ha preso piede e alla Magliana,
Anna è ancora la Sbottonata.
L'hanno beccata lì proprio per farle dispetto,
perché qualche anno prima non osava sbottonarsi tanto.
Però sta seduta sulla poltroncina come nulla
fosse, in attesa che gli altri finiscano di discutere.
È una bestia. E anche loro lo
sanno.
Anna sta aspettando l'occasione giusta per
portarsi da un dottore e farsi dare un'occhiata al buco.
Per la legge della Mala non si deve pensare a
sé stessi... ma lei è sempre un gran pezzo di donna, in fondo; e sa di esserlo.
Le regole non valgono per una come lei.
Siccome
la discussione sulla rappresaglia da imbastire prosegue a oltranza (magari,
però, parlano anche di lei, dove portarla e a chi metterla in mano), la
Sbottonata pensa bene di guadagnarsi una via di
scampo.
Farà una cosa molto semplice: salirà in macchina e raggiungerà l'ospedale;
in barba alle regole.
«E Anna? Dove cazzo è
finita?».
L'assenza di una bestia del
genere non passa a lungo inosservata.
Non al Negro, almeno.
Mentre gli altri continuano,
compreso Johnny, lui si sfila e va a controllare.
Conosce la puteolana sin da quando
era rientrata da New York, dove aveva lavorato per i Gambino.
Vuole salvarsi.
Ma se uno della Banda ha paura e
ricorre all'ospedale, allora non merita rispetto.
E la pizzica, infatti, mentre si avvicina ingobbita all'auto.
«Anna!
Conosci le regole...».
«NO!
NON VOGLIO MORIRE!»,
urla, spaventata, voltata verso il Negro.
Ma la villa è isolata, oltre che
sequestrata per abuso edilizio, riciclaggio di denaro sporco e connessi reati di
stampo mafioso.
E comunque nessuno chiamerebbe la
polizia, a meno che non sia nuovo della zona. E la polizia non prenderebbe sul
serio la chiamata.
La bocca che si spalanca, il
corpo massiccio che sussulta, le gambe che si fanno molli.
Frana su sé stessa, striscia
d'impulso per un paio di metri, scarica la disperazione e si blocca di sasso.
Adesso il Negro sa che la Cessa
non andrà a morire in ospedale. Si è tolto il dubbio.
E torna dai compagni.
«Che cazzo è successo?
Dov'è Anna?».
Il silenzio del Negro è
eloquente.
Johnny e
la Sultana vanno a vedere.
Degli spari non devono
preoccuparsi.
Qui la polizia non entra.
«112, parli pure».
«Ho portato fuori il cane e ho sentito degli
spari da una villa qui vicino, credo sia sotto sequestro...».
«Mi
dà l'indirizzo?
Bene, stiamo controllando, rimanga in linea.
Esercitazioni di polizia, signora;
normale attività d'istituto, su terreno confiscato e quindi di proprietà
pubblica; la preghiamo di non allarmarsi».
«Ah... meno male. Però che paura!».
«Grazie per aver chiamato e non si
preoccupi».
Le coperture sono tali che nessuno verrebbe mai a ficcare il naso qui dentro.
Una festa privata con scoppio di petardi, esercitazioni, le riprese di un film:
tutto, fuorché un briciolo di verità.
Ma dei buchi che hanno fatto, sì. Di quelli
devono preoccuparsi.
«Portiamola dentro».
I due salgono al piano di
sopra.
La carcassa di Anna Maddaluno pesa
parecchio.
«Cerca dell'ovatta e prendi degli
asciugamani». La Sultana, bona pure lei come Anna, tampona i buchi della
Sbottonata. «Dannata stupida: guarda come ti
sei combinata...».
«Fanculo... troia...», vuole
dirglielo subito, così è sicura di fare in tempo.
«Johnny, stalle accanto: crepare
la rende nervosa.
Io avviso il capo che è finita».
Torna di sotto a concludere il vertice e
intanto telefona.
Il capo non lo intercetta nessuno.
Le coperture sono tali che nessuno trascriverebbe mai l'intera comunicazione.
Buchi, guasti, disfunzioni: la buccia senza la polpa e il succo. Come la sintesi
raccoglie l'essenziale, la trascrizione omissiva raccoglie il superfluo.
E il boss ne approfitta per dissertare sull'acqua marcia del Tevere con la sua
platea silenziosa; non disdegnando di offrire in pasto qualche pesciolino e
suggerire l'eliminazione di concorrenti troppo ambiziosi.
E qui i buchi sono tre e la polpa quasi un
quintale.
«Forse mezzora, un'ora al massimo; ma potrebbe accadere a momenti; è sfondata.
Accanto a lei è rimasto Johnny...».
«Sarò lì tra poco».
Il capo è una persona gentile. E poi quando si parla della Sbottonata scattano tutti
in piedi.
La trova stravaccata sul letto matrimoniale,
con gli occhi vitrei puntati contro il soffitto, la bocca
spalancata che cerca di trovare aria, e le braccia larghe e rassegnate di chi
ha incassato troppo piombo.
«Accidenti...
c'è rimasta proprio secca!».
Si siede accanto a lei e sposta
da una parte gli asciugamani impiastrati di sangue che Johnny le preme sulla
pancia e lo stomaco.
Il capo osserva attento i buchi, Johnny e la
Sultana hanno omesso di raccontargli i particolari, il Negro pure.
«I
bastardi che l'hanno uccisa sono due...
Bisognerà vendicarla.
Anna era una potenza...», c'è una
coda di sarcasmo nella sua voce.
È sottinteso che si era fatta
troppo ambiziosa.
Meglio così, dunque.
«Anna... mi senti?».
Finita l'ispezione, Johnny
rimette subito gli asciugamani a tamponare i buchi e ci preme sopra le mani.
Forse Anna non si è arresa.
«Capo...», lo intravede appena,
mantenendo gli occhi al soffitto.
«Acqua…».
Le bestie hanno sete
mentre muoiono.
«Anna... stai combattendo da un’ora e mezza...
La partita non è ancora finita?».
«Eh…?», non ha capito bene, è intontita, frastornata. «No... no... me la gioco…»,
afferra in extremis il concetto.
E per dimostrarglielo - con le dita tremanti
e sanguinolente - si allarga i lembi della camicia sbottonata... e geme
languida...
E pensa a vendicarsi,
sussurrandogli qualcosa, mentre il suo capo la palpeggia dove piace tanto a lei.
«È vero... mi
stavo... allontanando... ahh...
Ma... lui... non doveva... spararmi... in
corpo... ahh...
Così... mi ha quasi... ammazzata...
ahh...».
L'aspettativa di vita del Negro si riduce
drasticamente.
Anna era divenuta ormai scomoda e ingombrante,
ma a farle scoppiare le budella a sangue freddo c'avrebbe pensato lui.
Gustato l'ultimo show della Sbottonata, il boss si tira in disparte, rimanendo a guardarla dalla distanza.
«Di lei che ne facciamo? Solito fosso?
Ehi, capo! La
bella sbottonata nel fosso... pancia all'aria nella marrana... in caccia di un
bacio dal principe azzurro...», il Trilussa della Magliana colpisce ancora.
«Non fare l'idiota.
È la fine di Anna Maddaluno, la fine di una grande donna.
Merita il Tevere».
«D'accordo, capo.
Organizzo il movimento».
La Sbottonata, ormai incosciente, viene caricata
in auto e affidata con precise istruzioni a due scagnozzi.
Una stradina sterrata, chiusa al traffico, attraversa il canneto tiberino.
I due scagnozzi, con il cadavere ancora caldo
della Sbottonata, salgono su un piccolo motoscafo e si dirigono a valle.
Le istruzioni sono precise.
Per
i grandi della Banda c'è una sepoltura speciale.
In mezzo al Tevere.
Renatino è stato un caso a parte.
Chissà se gli archeologi del futuro si
stupiranno della freschezza di alcune salme.
Quelli del presente devono muoversi con
cautela, o rischiano un brutto incidente d'auto.
Sul molo intravedono la bestia di Cacciavite,
l'imbalsamatore della Banda.
Li sta aspettando di fronte all'Isola, con il
cofano aperto: sta regolando i carburatori del suo
GT 2000 anni '70.
Lo traghettano e si avviano alla
necropoli.
È l'Isola dei Morti voluta da
Traiano.
Ma la modernità ha dissacrato
anche questo sito.
Nemmeno la Fossa Traiana ha
potuto cingere il loro riposo. Le case dei vivi hanno invaso quelle dei morti.
Il
corpo della Sbottonata viene trasportato su una carrozzella per disabili: occhiali
scuri e cappello da signora completano il look; un asciugamano da spiaggia a coprire i
buchi.
Ma anche così raccoglie sguardi e
curiosità morbosi.
Decidono allora di abbottonarle
la camicetta fino al colletto; er Puzzola le asciuga il labbro che cola sangue;
la faccia cadaverica rimane quella.
Gli
inservienti chiudono al pubblico una parte della necropoli: lavori urgenti di
consolidamento delle strutture.
«Ahi! Ma chi cazzo...?».
Er Trippa si guarda intorno, ma
non vede nessuno, a parte la Sbottonata e il Puzzola.
Ha appena rimediato un calcio.
Attimi di perplessità.
Poi anche il braccio ha uno
spasmo.
«Ora la calmo io...»,
Cacciavite sta preparando una siringa: servirà a solidificarle il sangue.
Lo chiamano così perché provvede
da sé - con l'omonimo attrezzo e in maniera ossessiva - a regolare la carburazione del suo GT.
Tuttavia anche nelle tecniche di imbalsamazione, la precisione e
la perizia sono fondamentali. In fondo la sua Alfa Romeo ha conquistato l'immortalità
della forma e della potenza, e passa ora il tempo a irridere - sulle strade di
Roma - le comuni auto mortali.
Basta il rombo e una sgommata, e le altre
chinano la testa.
Se qualcuna insiste, un paio di curve a gomito
e il GT 2000 fa il vuoto: la potenza è tutto, se c'è anche il controllo. Opera d'arte,
oggetto di culto e bestia.
Un po' come la Sbottonata rapportata alle sgallettate
d'oggi: classe d'altri tempi comanda sempre.
«Buttala».
«Johnny!? Che cazzo ci fai
qui?», la voce è der Trippa.
«Conoscete la storia
di Orfeo?».
«Ehi, un momento... metti giù la
pistola», interviene er Puzzola.
«Adesso ve la racconto io: voi
tre lasciate il cadavere dov'è e ve ne tornate alla base.
Alla sepoltura ci penso io».
«Vaffanculo, stronzo!», er Trippa
s'incazza.
«Sì, stronzo!», er Puzzola lo
segue.
POW
POW
POW
Gli spari fioccano sull'Isola dei
Morti.
Er Puzzola frana sulla Sbottonata,
Cacciavite se la svigna, Johnny crolla sulle ginocchia.
Er Trippa ha vinto il piatto.
«Hai
fatto lo stronzo, Johnny!
E ora sei fottuto...
Ma non riposerai con questa troia.
Finirai in un fosso.
Addio...».
POW
POW
«Mi
ha sempre... fatto... incazzare... chi mi chiama... troia...».
Euridice ha avuto un sussulto.
Con la rivoltella der Puzzola,
finita tra le sue mani, ha dato il fatto suo ar Trippa.
«Anna... sei talmene bona... che... rischi... di risvegliare
tutti... su quest'isola...»,
Johnny è stato colpito all'addome: un solo colpo e sembra già moribondo, a
dispetto della Sbottonata, che si tiene in corpo tre colpi,
da diverso tempo, e cerca ancora di non crepare del tutto.
Sono bloccati a breve distanza l'uno
dall'altra: lei non è in grado di muovere la carrozzella, lui fatica a rimanere
sulle ginocchia.
«E meno male che ho capito
dove stavi andando...».
Atro colpo di scena: entra la Sultana.
Si avvicina alla Sbottonata.
«Facciamo pace, Anna.
Siamo donne d'altri tempi, noi
due».
La Maddaluno molla il revolver.
La Sultana le sfila gli occhiali
scuri e le allenta la camicetta come piace a lei.
«Sultana... non voglio... il cassamortaro...
Voglio Johnny... sulle ginocchia...»,
non rinuncia a fare la stronza, neanche in fin di vita. La Sbottonata ansima gutturale.
La Sultana spinge la carrozzina verso Johnny, e le afferra una
mano.
«Io... ho paura... del... cassa...mortaro...»,
la puteolana ha imparato il romanesco.
«Stai calma... una come te non l'ammazza nessuno.
Tu sei una bestia, Anna».
La Sbottonata, però, non si fa incantare dalle chiacchiere della Sultana.
Ha una cera pessima.
Sta per cedere.
Si spreme al massimo per trattenere la parte leggera che preme per uscire da
quella pesante.
Ma la bestia è esausta.
La prima è costretta a uscire perché la seconda
non funziona più.
La seconda mantiene in vita qualche servizio di fortuna solo grazie alla
pazienza della prima.
La mente della Sbottonata agisce sullo spirito dolente con veemente disperazione, così da
tenerlo avvinto alle spoglie.
È il fragile riciclo dell'agonia.
«Per te ci vuole un bacio dal dottor Morton,
Anna; quello che rianima anche i cadaveri; sarà lui il tuo principe azzurro; altro che Cacciavite o quest'Orfeo
con il buco...». La Maddaluno la guarda basita, nonostante le
palpebre pesanti, pressate dalla morte. «Avanti, Johnny, tirati su.
Dobbiamo andarcene.
O rimarrai qui per sempre.
Ma senza Anna. Lei viene con me».
La Sultana sa come rimetterlo in
moto, prima di farsi largo tra gli inservienti che tranquillizzano i visitatori: solo la scena di un
film, scusate il disagio e la chiusura anticipata per disinfestazione
straordinaria.
Tutto cambia il tempo, favole e
miti inclusi.
Lettore, se vuoi conoscere l'attrice che ha
ispirato questo racconto, clicca qui.
Il racconto è un tributo alla sua bellezza,
carisma, personalità.
Gli aspetti negativi sono introdotti per mere
esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico.
Il ruolo della protagonista va assimilato a
quello dell'attrice rispetto a un film.
La devozione alla persona in questione, da
parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta.
LA PISTOLERA È ATTESA DAL VERME
di Salvatore Conte (2017-2022)
La
famosa pistolera se la tira parecchio.
D’altronde, con i suoi argomenti, c’è poco da scherzare.
Bella e con tanta carne nei punti giusti.
Molto femminile, di sicuro, ma altrettanto
virile: la pistola con cui uccide è
il suo cazzo. E ce l'ha bello grosso.
La scena,
poi, è da manuale.
C’è lo Sceriffo di Tucson, Alan Wood; c’è Pedro Sanchez, 15.000 dollari di
taglia; e c’è lei, Romina Lopez,
4.000 dollari di taglia, nota come
l'Incassatrice
per una vecchia storia di pallottole gestite molto bene, col fisico; insieme
alla storia si è invecchiata anche lei, ma ne ha guadagnato in prestigio e
simpatia.
Il
Buono, il Brutto, la Bella.
Non che lei sia meno cattiva, ma si sa che le taglie femminili sono
più piccole.
BANG
La colt rimasta muta è quella di Romina!
Dopo averne seccati tanti, stavolta è proprio lei, la gran puttana, a incassare
un bel confetto nello stomaco!
Non se l’aspettava proprio… e il buco è grosso!
I
fantasmi del passato aleggiano su di lei come avvoltoi.
Impegnata a seccare lo Sceriffo, ha sottovalutato il rivale messicano, come quest’ultimo
la stella di latta, che l'ha stroncato con una pallottola ben mirata.
Benché piantata forte sugli stivali, l’impatto del colpo la fa ruotare su sé
stessa: lo Sceriffo non può godersi la bella faccia incredula, ma può
immaginarla...
Il sangue la sale in gola, la testa le gira:
la Lopez
perde la presa sulla colt, il cazzo si ammoscia e
la puttana crolla sulle ginocchia!
Si guarda intorno con lo sguardo allucinato - a mascella sbilenca
- e stramazza in avanti!
La situazione si fa imbarazzante!
D'improvviso si sente il verme addosso...
Colta dal panico, prende a strisciare ventre a terra senza uno scopo apparente.
Ha paura, vuole tenersi impegnata.
È rabbiosa, sa che il colpo l'ha uccisa, ma non vuole lasciarsi andare. Ha una
fama da difendere.
Riesce a macinare qualche metro, prima di fermarsi.
Spalanca la bocca, ha il fiato corto.
Stavolta è rimasta fottuta.
«Sceriffo…», lo vede, lo chiama, prova a rimanere in gioco.
Mentre aspetta una risposta, si porta anche la seconda mano sotto il corpo, a
tamponare il buco.
Prende tempo.
«Ehi, Sceriffo!».
Qualcun altro lo chiama: sulla scena sono spuntati tre uomini di Sanchez.
«Ci siamo anche noi...».
Quasi offesi di non essere
ancora cadaveri, sono giunti in ritardo alla resa dei conti.
«Mai visti 3.000 dollari sbattermi contro».
«Hai finito di fare il gradasso, Sceriffo.
Noi valiamo molto di più».
«Lo vediamo subito…».
La scena madre ha uno strascico.
Anzi due.
Romina, con il fiato corto, ritorna strisciando verso la pistola.
È in ansia per sé stessa,
vuole salvarsi anche stavolta, ha il cazzo duro per una vecchia puttana
che ci prova fino all'ultimo, sognando di vivere ancora.
L'eccitazione di poter trovare una via di scampo con la violenza, la voglia di uccidere,
sono più forti del semplice istinto di sopravvivenza.
Uccidere la farà sentire viva: sazierà il verme con la carne delle
sue vittime, distogliendolo dalla propria...
Sì,
è soddisfatta...
Con occhi allucinati - mentre i quattro rimasti in piedi si fronteggiano
minacciosi - raggiunge la colt e la impugna...
La volontà di uccidere la restituisce alla vita.
La
mitica Incassatrice non fa troppi calcoli, non ha molto da perdere. BANG
BANG
Stavolta, per farsi Bella con lo Sceriffo, ha puntato contro un messicano, ma
quello - prima di crepare - è riuscito a vendicarsi!
Wood
lo mette a tacere, ma è troppo tardi: la Lopez è stata colpita di nuovo!
L’impatto la fa rovesciare pancia all’aria...
Gli occhi sbarrati dalla delusione. E dal terrore...
Ora deve aggrapparsi allo Sceriffo...
«Il tuo aiuto non serviva.
Non valevano molto».
Alan Wood torreggia sulla pistolera.
«Gli ho… bucato… la carcassa…».
«E lui la tua…», replica cinico lo Sceriffo.
Mentre la Lopez raschia la polvere con le unghie, Wood carica le taglie e fa i
conti.
Il carretto è quasi stipato.
Manca solo lei.
Senza tanti riguardi, Wood afferra la Lopez
per gli stivali e la trascina sul terreno. Le braccia si allungano parallele
dietro la testa, gli occhi al cielo, la bocca aperta, due chiazze brune sulla
camicetta gonfiata dalla carne abbondante... la fine di una bella pistolera...
Giunto al carro, l’ammucchia sopra agli altri, monta a cassetta, e parte.
Per un po’ non succede niente.
«A...l...a...n…».
Wood si volta appena, ha già capito.
«Qui… puzza… di cada...ve...re…».
Romina Lopez, bava alla bocca e due grossi buchi nella carcassa,
non si sente ancora parte della categoria.
La bella pistolera se la vuole stirare fino
all’ultimo; senza farsi illusioni.
Troppo esperta per non capire che c’ha lasciato la pelle; ma da qui a mollare
tutto ce ne passa.
Lo Sceriffo ferma il carretto, la tira fuori dal mucchio e la mette seduta a
cassetta.
«Tampo...na...mi… i buchi… sii gentile…», e intanto gonfia il petto,
pompando le tette: un po' a tirar su aria, un po' a stuzzicarlo.
Wood si scioglie il fazzoletto, lo strappa in due parti e gliele piazza sui
buchi.
«Premi forte...»,
le porta sopra le mani.
Ma come la molla per riprendere le redini, Romina si accartoccia su sé
stessa, la testa piegata sul petto.
La faccia bianca come quelle dietro, gli occhi spaventati di chi si aspetta il
peggio da un momento all'altro.
Non può lasciarla così, franerebbe in avanti.
Wood le passa una corda sotto il petto e la lega a uno dei cadaveri: farà da
contrappeso.
La marcia può riprendere.
«Io… fottuta…», mormora dopo un po’.
Lui non interferisce, sa che deve sfogarsi, prima di crepare.
«Fottuta... fottuta…».
È rabbiosa, la vita le sfugge. Ha serrato le mascelle, come a non lasciarsi
scappare l'ultimo respiro.
«Due botte...
così... sono...
tanta roba... per una... signora...».
«Due botte così sono
tanta roba per chiunque».
«Non sei... mai...
carino... con me... ma... quando crepo... ci rimani
male...
Adesso... però... il verme... è impegnato...
con quelli dietro...».
«Ti conviene risparmiare il
fiato, se vuoi vivere un altro po'...».
«Viva... o morta... valgo più...
di... 4.000 dollari...
Da morta... puoi impagliarmi...
e avermi... sempre... con te... eh-eh...», ride da sola, sputando sangue.
«Così... tieni lontano... il verme...».
«Preferisco incassare, se non ti
dispiace».
«Ma... uno sceriffo... non incassa... le taglie...».
«No, se li prende
all'interno della propria giurisdizione.
Tuttavia qui mi trovo fuori dalla mia
giurisdizione...».
«Però... non hai...
testimoni...».
«Ci sei tu, no?».
«Io... non so se...
e poi... perché... dovrei farti... questo favore...».
«Non sarebbe un
favore, ma la semplice verità».
«La verità... ha... il suo
prezzo...».
«E va bene... vediamo di
trattarti un po' da conto».
Wood ferma
il carro e le offre della tequila.
La Lopez si fa sbrodolare, con esperto mestiere, un po’ di liquore sul petto, che si
infila inesorabile nello scollo della camicetta, turbando le sicurezze dello
Sceriffo.
C'è cascato.
«Io e te… in... un altro… momento…».
«Non ti arrendi mai, vero, Romina?».
Fa ancora le bizze.
«Io…», non sa che dire. «Io… non voglio... crepare…», si stringe le braccia
sull'addome.
«Sei rimasta uccisa, non lo capisci?».
«Cafone… non si dicono... certe cose... a una... si...gno...ra...», e accenna a cadergli
addosso, senza più forze, trattenuta solo dal
contrappeso.
Il verme sta per mangiarsi la pistolera!
Wood cerca di fare qualcosa, prima che sia troppo tardi.
C'è cascato davvero.
Le fa ingurgitare altra tequila.
«Romina... puoi
sentirmi...?».
La Lopez mette a fuoco - nella
nebbia - la stella di latta.
E biascica qualcosa.
{Speravo… di andare avanti…}, gli occhi attraversano
Wood e fissano la morte.
Forse sono le sue ultime parole.
«Romina…!», alla fine arriva un po’ di compassione.
ZACK
Taglia la corda e se la fa franare addosso.
{Alan…
è tardi... A...l...a...n...!}, mormora impazzita, rimanendo con la bocca spalancata:
sta morendo, cerca disperatamente di trovare gli ultimi respiri, scuotendosi col
busto.
«Forza, Romina, respira...!», lo Sceriffo vorrebbe salvarla, ma è davvero troppo
tardi. «Romina!», Wood grida il nome della bella pistolera.
Sta morendo sulla sua spalla.
«Romina!», cerca ancora di scuoterla.
{Alan… è tardi…}, biascica le parole come una vecchia rincitrullita; ma ha solo
quarant'anni.
Alza gli occhi su di lui, gli sguardi quasi si
toccano, lui si sente addosso i suoi ultimi, faticosi respiri.
«Il piombo è pesante, ma non è finita, Romina».
Lo fissa incredula.
Stavolta c'è cascata lei.
«Ti porto da un dottore.
No, da uno stregone.
Ne conosco uno... che fa miracoli.
Vive qua intorno. Faremo presto», l'abbranca - per non perdersela - e sprona i
cavalli.
Il carro si è messo a correre nella prateria
desolata.
THUD
THUD
Wood si è perso un paio di taglie.
Ogni tanto Romina alza gli occhi sulla pista, come se coltivasse ancora una speranza.
C'è cascata davvero.
Ma per il resto è assente, conscia della fine.
Wood la controlla spesso, sa che ha poco tempo.
A causa dei sussulti, la camicetta si allenta
ancora e i seni pesanti di
Romina ballonzolano impazziti, senza freni, nella loro ultima corsa!
«Forza, ragazza,
vai bene così! Anche i morti là dietro si stanno agitando...».
Non arriva nessuna reazione.
«Manca poco, Romina!».
Ma per lei manca ancor meno.
Quando torna a guardarla,
gli occhi della pistolera sono fissi nel vuoto!
Sul volto un’espressione gelata.
Sulla bocca un languido rigurgito di sangue!
Romina Lopez è rimasta uccisa!
Ma una parte di lei sussulta ancora.
Wood non si ferma.
Anche se ormai balla con il morto.
BANG
BANG
Si annuncia con la colt ed entra a tutta
velocità nel pueblo abbandonato.
«Diablo!
Sceriffo avere fretta!»
«Ce l'ha lei», indica al brujo
la pistolera.
Le sta buttando in gola altra tequila.
Come la pianta che sembra definitivamente
secca, ma che rialza le foglie dopo un po' d'acqua, Romina reagisce sbattendo le
palpebre.
«Tu mai chiedere cose
facili, ma questa superare tutte! Io ingannare verme, cosa credere tu?
Poi curare anche passeggeri
dietro carro?», chiede polemicamente lo stregone, mentre corre a prendere qualcosa.
«No, quelli vanno bene così!», è
anche un negromante, perciò meglio non fargli capire male.
Intanto Wood indica i cadaveri ai
pochi peones che abitano il pueblo: «Ce ne sono un paio che sono caduti lungo la
pista. Potete andare a riprenderli, prima che gli avvoltoi li rendano
irriconoscibili: ve li lascio, ci rifarete nuovo tutto il
pueblo».
«Noi vogliamo aiutare la bella
signora che avete portato qui, Sceriffo.
Non ci interessano i cadaveri».
Il brujo, salito a cassetta, le
sta somministrando una pozione.
Veramente è una
puttana-pistolera.
Il verme se la vuole fare, e
anche voi.
Tutti, insomma.
Ma a Romina ci penso io.
Al diavolo i fottuti 4.000.
Al diavolo tutto.
Lettore, se vuoi conoscere l'attrice che ha
ispirato questo racconto, clicca qui.
Il racconto è un tributo alla sua bellezza,
carisma, personalità.
Gli aspetti negativi sono introdotti per mere
esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico.
Il ruolo della protagonista va assimilato a
quello dell'attrice rispetto a un film.
La devozione alla persona in questione, da
parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta.
BAGNO TOMBALE
di Salvatore Conte (2017)
«Ma che cazzo?!».
SCREEKKK...
«Venga... l'aiuto...
Ma cosa le è successo?
Le metto addosso la mia giacca...
La porto subito all'ospedale, non si preoccupi».
«No... scrivi... Waterloo... Avenue...
Ma fai presto...».
«Come vuole, signora, spero che lei sappia cosa
stia facendo».
«20...».
«20, cosa?
Il civico, il numero civico, certo, mi scusi.
Sa... non capita tutti i giorni di... beh.
Dirò che una signora mi ha chiesto di
accompagnarla a questo indirizzo.
«Stava facendo il bagno all'aperto, nella vasca
termale, all'interno della sua villetta.
Ci sono volute tre raffiche belle pesanti per
mandarla giù».
«Per forza: Chana è un bisonte!
Se non l'hanno centrata al cuore, deve aver
lottato...».
«Cerca di avere pazienza e ascolta.
L'hanno avvolta, nuda com'era, in un telo di
plastica, caricata nel cofano e trasportata alla villa del boss.
Dicono che fosse ancora viva, quando è arrivata
al cospetto del capo».
«Incredibile...».
«Era un bisonte, l'hai detto tu stesso.
Il boss ha diffuso un comunicato ufficiale: ha
contato diciotto pallottole in corpo, di cui - confermate dal medico -
addirittura due al fegato e tre allo stomaco.
Poi l'hanno avvolta di nuovo nel telo e mollata
in una discarica abusiva.
Presto ritroveranno il corpo».
«Chana fottuta! Da non crederci...
S'è fatta ammazzare...
Non c'è stato nulla da fare, neanche per un bestione
come quello...
troppe pallottole...
È un colpo, non me l'aspettavo...».
«Nemmeno io, se è per questo.
Te la ricordi che vacca
bestiale alle feste del boss?».
«Me
la ricordo, eccome; sembrava invincibile.
Ero costretto a chiudermi in bagno e a tirarmi
una sega, quando la vedevo.
Ecco perché non capisco».
«È facile fare una mossa sbagliata,
ricordiamocelo anche noi...».
«Il boss è infuriato, Mike.
Il corpo di Chana non si trova».
«Ma come è possibile?».
«La discarica è abusiva, ma abbastanza
frequentata.
Ovvio che non si tratta di brave persone, ma
almeno una telefonata anonima l'avrebbero fatta».
«E quindi?».
«Forse un qualche necrofilo si è preso il corpo».
«Chiamalo pazzo...!
Comunque se non c'è il corpo, non c'è il delitto:
perché il capo dovrebbe prendersela?».
«Al boss non frega niente delle indagini, lui è
coperto.
Ma voleva dare un avvertimento.
Bella vacca ritrovata in discarica con una ventina
di
pallottole addosso: vuoi mettere?
Adesso invece gli amici penseranno che abbia
semplicemente cambiato aria.
Perciò vuole ritrovare il corpo.
E ha sguinzagliato i suoi uomini, compreso me e
te».
«Da dove partiamo?».
«Dalla discarica».
«Questo è sangue...
Parte dai margini della discarica e arriva fino
alla strada principale.
Tutto ciò è molto strano».
«Il maniaco l'ha trascinata, prima di
caricarla in auto».
«Ci sono due cose che non tornano: Chana è stata
abbandonata con l'involucro di plastica ancora addosso ed è strano che il
maniaco non se ne sia servito a sua volta; ma soprattutto è strano che abbia
corso il rischio di farsi notare: la strada qui sopra è piuttosto trafficata».
«Che cosa ne deduci?».
«Che qualcosa puzza.
Sembra come...
Lo so, è difficile da credere.
È come se Chana fosse sgusciata via dal
telo di plastica... e avesse strisciato fino alla strada, per fermare un'auto
di passaggio: la scia di sangue, in questa maniera, avrebbe un senso».
«Vuoi dire che poteva essere viva con
venti pallottole in corpo? E dopo essere stata avvolta in un telo di plastica?».
«Non dimenticare che Chana non è una donna normale. È un
bestione, un bisonte. E questi teli da trasporto, in genere, non vengono chiusi
ermeticamente. D'altronde sappiamo che al primo viaggio è sopravvissuta.
Una vaccona come lei, se si mette in testa di non
mollare, può reggere abbastanza a lungo da tentare l'impresa...».
«Già... un bisonte... ma non erano
estinti? Supponiamo che - grazie alla forza della disperazione - sia arrivata fino alla strada.
Poi cos'ha cercato di fare?».
«Un'auto l'ha vista e si è fermata.
Non poteva farsi portare in ospedale.
Il boss l'avrebbe terminata facilmente.
Quindi... ha chiesto di essere portata da
qualcuno che lei conosce e di cui si fida».
«A me il citofono ha suonato, hai ragione...
Era il vicino che si lamentava del mio cane,
però. Non una bella vacca con venti pallottole addosso...».
«Non fare l'idiota.
Due anni fa Chana ha scoperto di avere un tumore
all'utero: una brutta storia.
Però, non si sa come, è sopravvissuta fino a
oggi, senza mai farsi ricoverare».
«Peraltro in buona salute...».
«Andiamo a casa sua...».
«Waterloo Avenue #20: curioso, è lo stesso numero
di pallottole che si è ritrovata addosso.
Ed è anche la sua Waterloo...».
«Ma qui dice che è un veterinario...».
«Ti risulta che Chana avesse animali?
Passiamo a prendere il tuo cane e andiamo».
«Un veterinario per un bisonte... è perfetto!».
«Il suo cane gode ottima salute, signore.
Raramente ho ricevuto un padrone tanto
premuroso».
«Vede, dottore... noi vorremmo che anche lei
godesse ottima salute per almeno altri cinque minuti...».
Il medico sgrana gli occhi.
«Adesso lei manderà via gli altri clienti,
offrendo loro una visita gratuita, e poi farà quattro chiacchiere con noi. Pensi
alla sua salute, adesso, dottore».
«Come volete, temo di non avere scelta».
«Bene, è stato convincente.
Adesso vorremmo sapere come mai una nostra amica,
che non ha né cani né gatti, si ritrova il suo biglietto per tutta casa».
La faccia del veterinario è una conferma
esplicita.
«È deceduta? Vorremmo vedere il corpo, se non le
dispiace».
«Temo di non avere scelta.
Seguitemi».
«Per tutte le corna dei bisonti d'America prima
di Colombo!».
«Bingo!».
Chana giace sul lettino, in mezzo a una selva di
portaflebo come alberelli e apparecchiature mediche come cespugli.
Sembra abbastanza deceduta.
Ma il bisonte è vivo.
Indossa una camicia bianca del dottore, magistralmente gonfiata dalle zinne da vacca.
È sempre lei, fino all’ultimo.
«Quanto le rimane?».
«Non molto.
Anche se vorrebbe salvarsi».
«E se la portassimo in ospedale?».
«Diventerebbe la principale causa di morte».
«Il rancore per i suoi vecchi colleghi le offusca
il giudizio, dottore?».
Il medico lo fissa con aria perplessa.
«Lei è stato radiato dall'albo per le sue cure
sperimentali.
E così si è riciclato tra i veterinari, senza
perdere il vizio...».
«Non discuto più da parecchio tempo.
Se avete un'arma, potete fare come credete.
E se pensate di allungarle la vita portandola in
ospedale, fate pure...».
«Che si fa, Mike?».
«Non vorrai riportarla al capo, spero.
Chana è una bella donna, non ce ne sono tante così.
Chi è che non commette degli errori, dopotutto?».
«Ti ho chiesto se possiamo fidarci di un medico
radiato dall'albo».
«Ma scusa... ha preso venti pallottole e non è
ancora crepata del tutto.
Questo tizio ci sa fare, si vede. Se prendeva la
mazzetta, nessuno lo avrebbe radiato».
«Giusto.
Dottore, vorremmo farle qualche domanda», indica
Chana.
«D'accordo.
Ma solo pochi minuti, per favore».
«Promesso».
La libera da qualche impaccio ed è pronta.
«Che errore hai commesso?
Quanto gli hai fregato?».
{Venti...}, parla con difficoltà, ha la lingua
inceppata, il medico l'ha bombardata per tenerla a galla.
«E per 20.000 dollari ti ha fatto il servizio?
Tu ne vali di più».
{Venti... milioni...}.
I due si guardano basiti.
{Possiamo... dividere...}.
«Ma allora...», la cosa lo fa morire dal ridere,
«il capo ti ha sparato gli ultimi due colpi... non per ucciderti... ma per
fartela pagare... è fantastico...», sembra trasognato, ha perfino dimenticato
l'offerta di Chana.
La rabbia le fa sciogliere la lingua, è carica
come un bisonte.
«Sto morendo... non capisci... senza quei due colpi...
avrei potuto salvarmi...», chiude piangendo lacrime asciutte; le brucia da
morire sentire la fine addosso, un qualcosa che le scava dentro e che non può
controllare.
«Hai ragione, Chana. Scusami. E cerca di
riguardarti.
Un'ultima cosa...
Torneresti indietro?».
«No... muoio senza rimpianti... ho rischiato...
ho pagato...».
«Me l'immaginavo, Chana.
Avresti potuto morire sul colpo, lo sai, vero?
Il cuore, la testa, l'aorta: neanche una come te
avrebbe potuto farci niente».
«Lo so... ma non è successo... e allora... c'ho
provato...», con la delusione che le attanaglia la voce; adesso ha capito di
aver lottato per allungare un'illusione.
«Ma lui ti avrebbe comunque sparato addosso altri
due colpi: io lo trovo fantastico».
«Io... macabro... per due milioni... mi sono
strozzata... mi sono giocata la pelle...», Chana ha afferrato il concetto, è una
ragazza sveglia.
«A
proposito di quei soldi, Chana...».
«Li ho cambiati... con settemila bitcoins... le
chiavi... sono nel caveau di una banca... un direttore che mi scopo...
intoccabile...».
«Hai pensato a tutto, Chana. Sei la ragazza che
tutti vorrebbero sposare.
Se ripenso a quello che hai fatto...
Devi esserti spremuta tutta per trascinarti fino
alla strada... avrei pagato per esserci», la stuzzica ancora.
«Dovevo... riuscirci... a tutti i costi...
oppure... sarei rimasta lì... per sempre...».
«Mai temuto di non farcela?».
«Mai... avevo... ancora birra... e tanta
voglia...».
«Lo rifaresti?».
«Sì... mi eccitava da morire... darlo in culo... a
quello stronzo...».
«Anche adesso ti senti eccitata?».
Con la mano stringe forte il lenzuolo.
«Adesso... ho paura...», ha capito che è stato
tutto inutile.
Chana cerca disperatamente di agguantare la
salvezza, ma stavolta non c'arriva, le sfugge, anche se le dà la beffarda,
tragica
illusione di esserle arrivata vicino.
«Ho tentato... il tutto per tutto...
Sono arrivata sulla strada... e poi fino a qui...
Ma adesso… ho capito... che non posso sfuggire... al mio
destino...
Ne ho per poco...
Troppi buchi...
Il dottore... non può... tenermi in vita... a lungo...
Mi sono illusa...
Ma ne ho... per poco... ho paura...».
Sono le ultime parole di Chana.
Ha giocato un po' con lei, ne valeva la pena; non
la rivedrà viva, tutto tornerà al suo posto, il corpo nella discarica,
maneggiato da un necrofilo.
«Togliamo il disturbo, dottore. Buon lavoro.
E naturalmente... acqua in bocca...
Ah, un'ultima cosa», lo prende sottobraccio e
parla sottovoce, allungandogli un bigliettino, «quando arriverà il momento, ci
chiami... passeremo a salutarla e a ritirare il corpo...
Per lei ci sarà una bella mancia, dottore».
Sulla porta lo chiama.
«Fred... ripassa... non ne ho per molto... voglio
qualcuno... vicino a me...».
«Sistemo alcune cose e torno. Tu fatti trovare
viva».
«Quanto ci metti...».
«Un paio d'ore. Pensi di averle?».
{Sbrigati... Fred... mi sento strana...}, è
tornata a farfugliare.
«Tornerò in meno di due ore, Chana».
E sarà per vederla affogare tra i rimpianti, per
assistere alla sua fine; una fine di cui nessuno saprà niente.
Lettore, se vuoi conoscere l'attrice che ha
ispirato questo racconto, clicca qui.
Il racconto è un tributo alla sua bellezza,
carisma, personalità.
Gli aspetti negativi sono introdotti per mere
esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico.
Il ruolo della protagonista va assimilato a
quello dell'attrice rispetto a un film.
La devozione alla persona in questione, da
parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta.
L'ASSASSINATA
È ANCORA VIVA
di Giorgio Scerbanenco (1967-2017)
Strisciando centimetro per centimetro, continuando a pensare
in romanesco: nun vojo mica morì, Antonia Faenza, impiegata alla Nato, raggiunse
il guardrail e vi si aggrappò con le mani striate di sangue che le colava dalle
ferite. Il killer l’aveva spogliata e le aveva svuotato addosso
duecaricatori di
mitraglietta. Passò un camion carico di barbabietole e quando l’uomo al volante
vide quello scempio bloccò i freni di colpo. Poi, con le sue robuste braccia,
avvolse la donna in una coperta e corse verso Bologna, all’ospedale di Sant’Orsola.
«Voglio arrivare prima che muoia...».
A un certo momento capì che stava morendo, sentiva il sangue
che le usciva dalla bocca raffreddarsi subito, coagularsi, quasi ancora prima di
arrivare sui secchi fili d’erba brinati di gelo, tra i quali era distesa. Io
non voglio morire, pensò. Lo pensò in romanesco, nun vojo mica morì, stava
arrivando anche Natale, avevano combinato di andare, lei e Riccardetto, a Milano
e poi sul Breuil, erano due che sapevano sciare, soldi per la gita lei ne aveva
da regalare.
Un po’ perdendo sangue dalle ferite al collo, un po’ rabbrividendo, quel poco
che poteva rabbrividire date le pochissime forze ormai alla fine, strisciò tra
la bruna erba rigida di gelo, i lunghi capelli neri sciolti che s’impigliavano
appunto in quell’erba, segnando del suo sangue quell’erba, verso le luci delle
auto che in quella gelida notte di dicembre fiorivano sulla strada.
Strisciando centimetro per centimetro, continuando a pensare che non voleva
morire, continuando a pensare a Riccardetto che a Natale l’avrebbe portata a
sciare al Breuil, raggiunse il guardrail, vi si aggrappò, le mani striate di
rosso del suo sangue e, pensando che non voleva morire, tentò di scavalcare il
guardrail e di buttarsi oltre. Ma non ci riuscì, stava morendo e non aveva le
forze necessarie.
Una prima macchina schizzò via, in quell’ora balorda prima dell’alba invernale,
il guidatore vide distintamente le mani gocciolanti sangue, come appese al
guardrail bianco, e il fascio di lunghi capelli neri che fluivano, ondeggiavano,
sotto il soffio del vento polare, spazzando il nevischio della strada, ma alle
cinque del mattino di un giorno oltre metà dicembre quel guidatore pensò che era
più saggio fingere di non avere visto nulla. Dopo
quasi un minuto passò un camion con rimorchio, trasportavano barbabietole da
zucchero dal basso Ferrarese a Milano. L’uomo al volante era annoiato dal
russare del suo compagno nella cuccetta alle sue spalle, ma aveva quarant’anni,
una moglie che aveva tre anni più di lui e i suoi rapporti con lei erano
freddissimi, e quattro figli, tre femmine e, finalmente, il quarto era stato un
maschio, ed era uomo prudente e attento e, anche, nonostante il suo aspetto
forzuto e grossolano, molto sensibile, e appena vide quelle mani gocciolanti
sangue, quelle braccia nude, al di sopra del guardrail, quella massa di capelli
neri che spazzavano la strada frustati dal vento, tutto illuminato bestialmente
dalla violenza dei fari del suo camion, appena capì che si trattava di un essere
umano, una donna, bloccò il camion di colpo davanti al guardrail, e il suo
amico, per la frenata brusca, batté la testa contro la parete della cuccetta, si
svegliò e disse: «Cornuto».
Ma lui al volante disse quasi piangendo: «Oh, Piero, guarda quella poveretta».
Scesero e le andarono vicino. Sembravano due attori allo studio Mi 3 della tv,
illuminati dai fari del camion, che guardavano nel nevischio che imbeveva tutta
l’aria, lei che non voleva morire, che voleva andare con Riccardetto a sciare al
Breuil, aggrappata al guardrail con le sue ultime forze.
«Ma è nuda», disse il camionista forzuto.
L’altro disse, guardando quella che un tempo era stata una bella donna di
ventitré anni, e lo disse senza sapere di dirlo: «Mamma, mamma».
«È nuda», ripeté il forzuto, lui aveva i mutandoni di lana e aveva freddo e
immaginò che cosa doveva essere il freddo che quella provava tutta nuda.
«È viva?», disse l’altro camionista.
«La mano, guarda la mano», disse il forzuto, aveva gli occhi gonfi di lacrime,
gli erano sempre piaciute le donne nude, ma adesso no.
La mano di lei, la destra, spinta dall’energia dell’ultima stilla di sangue che
aveva nelle vene, grondante di sangue, si afferrava al terribilmente gelido
metallo del guardrail, mentre lei pensava, in quell’ultimo sforzo, nun vojo mica
morì, nun vojo mica morì, in romanesco, perché era una ex sciacquapiatti in una
trattoria di via Ottaviano, prima di fare la bella impiegatina all’Eur, negli
uffici della Nato, nun vojo mica morì, e la mano, la destra, si agitava nel
nevischio mentre i neri capelli, a un più brusco colpo di vento, quasi si
raddrizzarono, le stettero irti sul capo, e il camionista forzuto disse
all’altro: «Io la piglio su, tu porta una coperta». Con le sue robuste braccia,
sotto la luce dei fari del camion, come stesse provando una scena di film, in
quell’alba di mezzo dicembre sulla strada vuota, sollevò quella che continuava a
pensare nun vojo morì, e che era stata fino a poco prima una giovane e graziosa
ragazza, e che era adesso un’agonizzante, la sollevò e la tenne in braccio, così
nuda e sanguinolenta, come teneva in braccio le sue bambine, i capelli di lei
neri che per il vento violento e ghiacciato gli sbattevano sul viso.
«Oh, poveretta, oh, poveretta».
Arrivò il suo amico con la copertina che aveva preso dalla cuccetta, l’avvolsero
in quella copertina.
«Svelto, svelto».
Non passava nessun’altra macchina, era davvero l’ora più buia, si macchiarono
tutti e due di sangue per depositarla nella cuccetta nell’abitacolo di guida.
«Coprila bene, oh, poveretta, poveretta».
«Non ho più niente, solo quella copertina».
Il forzuto disse: «Aspetta, la paglia sopra le bietole, sta morendo anche di
freddo, prendiamo la paglia».
La coprirono di paglia, come se la imballassero, una bella bambola da imballare,
avevano tutti e due un po’ di vomito e un po’ di lacrime in gola.
«Meglio portarla a Bologna».
Il grosso autotrasporto schizzò via sullo stradone vuoto, con il forzuto che
guidava e quello esile che teneva quell’imballo di paglia.
«Respira», disse l’esile.
«La portiamo al Sant’Orsola, a Bologna».
«Sì, respira, respira ancora, ma perde sangue, dal collo, oh, mamma, guarda». Le
mani erano intrise di sangue, la paglia era rossa, anche i lunghi capelli neri
erano accesi da molte gocciole di sangue. «Però non devi correre così, non
voglio ammazzarmi io per salvare lei». Il
forzuto che guidava continuò a spingere l’acceleratore, Bologna era a meno di
venti chilometri. «Fra un minuto è morta, vorrei arrivare prima che morisse», ma
sapeva di dire una sciocchezza, perché non si possono fare venti chilometri in
un minuto, a meno di non essere la Gemini dodici, però lui tentava.
«Povera ragazza, tutto questo sangue, guarda», disse quello che teneva ferma,
imballata nella paglia delle barbabietole, l’infelice creatura nella cuccetta
dell’abitacolo perché le scosse del grosso camion, lanciato a centodieci
all’ora, non la buttassero giù.
«Respira?», disse quello che guidava.
«Non lo so, aspetta», disse l’altro, avvicinò la bocca alla bocca di lei fluente
sangue e sentì oltre il caldo del sangue il caldo del respiro.
«Respira», disse, «respira», ed ebbe un conato di vomito, «ma che cosa le hanno
fatto?».
«Respira?», disse il forzuto che guidava.
«Ma sì, te l’ho detto, respira», le mise una mano sul petto, sotto la paglia,
per sentire anche il battito del cuore, oltre il sollevamento del torace nel
respirare, e il cuore batteva, e mai avrebbe pensato di poter toccare così a
nudo una donna e così sconvolto. «Respira, le batte il cuore», ma il sangue
colava anche lì, sulla sua mano e a lui questo dava allo stomaco. «Mamma,
mamma», disse, contorcendosi, «ma che cosa le hanno fatto?».
Arrivarono a Bologna con la sirena ululante, entrarono in via Matteotti, uno
straccio pressappoco bianco che il forzuto aveva messo fuori della cabina di
guida, sotto una neve secca, petrigna, che sbatteva contro il parabrezza come
fosse grandine, svoltarono subito a sinistra in viale Masini e arrivarono in
piazza Mascarella.
«È viva?», disse quello che guidava.
L’altro, che teneva la ragazza, appoggiò l’orecchio alla bocca di lei. «Non lo
so, non sento quasi più niente».
Quello che guidava schiacciò allora ancora di più l’acceleratore, l’enorme
camion con rimorchio, una vera balena della strada, attraversò Porta San Donato,
si buttò per viale Filopanti come fosse una macchina da corsa, poi voltò a
sinistra in via Massarenti.
«Eccolo lì, l’ospedale di Sant’Orsola», disse quello che
guidava, fissando la lampadina rossa davanti all’ingresso dell’ospedale, e
bloccò poi di colpo. «È viva?».
«Non lo so», disse l’altro, «il respiro non lo sento più», mise la mano sotto lo
strato di paglia, sotto la copertina, toccò il petto nudo, per sentire il cuore,
con un aspro senso di vomito in gola. «Mi sembra che il cuore batta, non sento
molto bene, però».
I due autisti, tenendola bene avvolta nella coperta e nella paglia, nella
rabbiosa nevicata che rendeva l’aria un punteggio di aghi di neve taglienti, la
presero in braccio, trasportandola fuori dal camion, e suonando il campanello,
bestemmiando, urlando, fecero accorrere l’infermiere di turno, che disse subito
che non c’era posto, che dovevano andare al Traumatologico di via Boldrini, e
allora quello forzuto che si teneva sulle braccia quell’involto di paglia
odorosa di acido di barbabietole con dentro un alcunché che forse era vivo e
forse no, gli disse di aprire il cancello se no lo sfondava con il camion, e
disse: «Questa donna sta morendo, apri, brutto figlio di», e disse il termine
più energico, «se no ti mastico».
Forse, più che dagli insulti e le minacce, l’infermiere dietro il cancello fu
colpito da quell’essere umano avvolto nella paglia, tenuto in braccio come una
bambina dal grosso camionista, immersi nel nevischio. Aprì il cancello.
«Vai piano con le parole», disse però facendoli entrare.
«Scusa», disse il grosso che teneva in braccio la ragazza come fosse la sua
bambina, «ma chiama subito il dottore, forse è già morta».
Due dottori si buttarono giù dalla brandina sulla quale dormivano e scesero
nella sala di pronto soccorso e svolsero la giovane donna dalla paglia e dalla
coperta e osservarono per qualche decina di secondi cercando di rendersi conto
di che cosa avevano davanti. In apparenza si trattava di un essere umano di
sesso femminile, ma, come capirono dopo qualche altra decina di secondi, doveva
essere stata colpita da una lunga scarica di mitra, perché era tutta
sforacchiata, in tutto il corpo, perfino alle gambe, uno stinco spezzato da una
delle pallottole della raffica e che veniva fuori dalla pelle. Inoltre sarebbe
dovuta essere morta, più di una dozzina di proiettili le avevano attraversato il
corpo e gli organi più vitali: invece non era morta, il polso batteva, sentì il
medico anziano. «Plasma», disse, ma la suora lo aveva già pensato da sé e stava
già chiamando al telefono l’infermiera dell’emoteca.
«Ma non aveva più sangue», disse il medico anziano.
«Non ce la facciamo», disse il medico più giovane, che era pessimista.
La suora, con grandi batuffoli di ovatta fradici di disinfettante, puliva quel
povero corpo bucato.
«Bisogna levarle i proiettili che ha dentro, guarda questo», il medico anziano
indicò, vicino all’ombelico, il proiettile penetrato di striscio e che aveva
bruciato al di sopra dell’ombelico un tratto di pelle per quattro o cinque
centimetri, quindi era stato fermato dall’elasticità della pelle grassa
addominale e si era incastrato solo a metà nel tessuto epidermico: guardando da
vicino, sotto la violenta luce che pioveva sul lettino, si poteva anche leggere
sul piombino la nota iniziale C, che vuol dire Cecoslovacchia.
«Fosse solo questo», disse il medico più giovane, «i proiettili si levano, ma
l’assideramento non lo levi più, guardale le unghie dei piedi». Era giovane, ma
aveva passione per il suo lavoro.
Il medico anziano guardò: le unghie dei piedi della ragazza erano viola, proprio
viola, come le violette che nelle grandi città, in primavera, delle vecchie
signore vi offrono con cortese insistenza.
«Suora, chiami l’anestesista e faccia preparare la sala operatoria».
«Sì, dottore, ma faccia chiamare anche la polizia», disse la suora. I medici,
specialmente se giovani, come uno di quei due, erano dei poeti che dimenticavano
tutte le cose pratiche. Con una donna impallinata come quella, ci voleva la
questura, solo che loro se ne sarebbero dimenticati se lei non glielo avesse
detto.
Per quanto riguarda la sala operatoria, riuscirono a estrarle tre pallottole
tutte con la classica C, quella sopra l’ombelico, una che scoprirono proprio per
caso nell’ascella sinistra, e un’altra che si era incassata sotto il lobo
dell’orecchio sinistro, e l’anestesista che regolava la valvola dell’ossigeno e
assisteva disse: «Non riesco a capire come fa a essere viva».
Gonfia di plasma, avvolta in una termocoperta, venne messa sul lettino sotto la
tenda a ossigeno. E allora, al soffio vivificatore dell’ossigeno, lei cominciò
ad agitare le labbra, ma non ne veniva alcun suono, non vi era forza biologica
perché lei potesse produrre dei suoni con la voce, però pensava, sentiva,
riconfortata dal plasma sentiva benissimo di essere viva e continuava a pensare:
nun vojo mica morì, e continuava a pensare di sciare, vedeva tanta neve, tanta,
al Breuil e Riccardetto sciava accanto a lei e le gridava, sciando per la lunga,
estatica distesa bianca, nella gioia del sole di montagna: «Forza, bella, i
calzoni te stanno un po’ stretti, ma a me me piaci assai, mamma mia come sei
morbida».
E lei mosse le labbra e gli rispose anche se non le venne alcun suono: «Brutto
sudicione, pensi sempre la stessa cosa».
«E che voj che ha da pensà un omo?».
Il medico anziano disse: «Durerà per mezz’ora, facciamoci fare un caffè».
«Per me solo qualche minuto, guarda», il medico più giovane indicò l’ago dello
pneumometro, oscillava piano, stancamente, davvero alla fine.
Nell’infermeria, dove la suora del turno di notte stava preparando le iniezioni
del mattino, non era ancora mattino, anche se erano passate le sette: dalle
finestre veniva solo buio e i vetri erano bianchicci di nevischio, sul piccolo
fornello a gas c’era una grossa caffettiera di falso rame.
«È quasi pronto», disse la suora.
Il medico più giovane si accese una sigaretta. «Scusi, suora, ha un po’ di latte
freddo?», quello che non capiva era come quella ragazza potesse essere ancora
viva. Probabilmente era questione di minuti.
«Sì, dottore», disse la suora, sorvegliò la caffettiera che
cominciava a fumare. «È arrivata anche la polizia, ci sono i due camionisti che
aspettano», se non pensava lei a questi particolari i medici, che avevano un po’
del tonto, non si ricordavano di niente.
E, per quanto riguarda la polizia, i due agenti della questura di Bologna
seppero subito che non potevano sapere niente, escluso pochi particolari. La
ragazza era nuda perché i suoi assassini volevano togliere alla polizia ogni
possibile traccia per riconoscere la sua identità. Era stata colpita da almeno
un paio di raffiche di dodici colpi ciascuna di mitraglietta di fabbricazione
ceca: e questo era tutto. Non sapevano chi era e non avevano nessun indizio per
saperlo. I due camionisti dissero che l’avevano trovata sulla strada tra Ferrara
e Bologna, dopo Malalbergo, e non sapevano niente altro.
Alle otto, quando qualche cosa che rassomigliava alla luce schiarì la finestra
della stanza dove lei stava nell’involucro della tenda a ossigeno, senza sapere
se era giorno o notte, sentendo soltanto la mano di Riccardetto che le passava
sul petto e lei diceva, senza voce, solo nella sua mente: «Ma senti, tu devi
piantalla», alle otto, ecco, arrivò il fotografo del servizio controspionaggio,
e anche se la suora gli diceva: «Ma la lasci stare, poverina», fece un intero
rullo a colpi di flash, e a ogni lampo di flash lei sussultava, come quando
Riccardetto le passava la mano sul petto. «Ma senti, Riccardetto, tu devi
piantalla», perché per piacerle le piaceva, ma non si può mica dalla mattina
alla sera.
E dopo le fotografie, la suora guardò l’ago dello pneumometro e vide che stava
come fermandosi. È andata, pensò.
Bologna è piena di caffè, i bolognesi si trattano bene e quel
caffè era uno dei più nobili della città, era pieno di ombre e di buoni odori di
chiuso, nobili odori di caffè, di segatura, di caramelleria, e un poco anche di
cantina, e fuori la neve era già alta più di tre centimetri, e il caffè era
vuoto, escluso quei due, nell’angolo più buio, che parlavano a voce così bassa
che era come se non parlassero.
«All’ospedale di Sant’Orsola».
«Viva?».
«Viva».
«Non è possibile». Quello che parlava abbassò ancora di più la voce. «Ho
svuotato due caricatori addosso a lei».
«Invece è viva, e tu sei un cretino. Prima di lasciarla dovevi vedere se era
morta o no».
«Non ci credo. Non può essere viva».
«È viva. All’ospedale di Sant’Orsola, stanza 11. E adesso io ti spiego che cosa
può succedere. Forse lei non può parlare, e allora non ha ancora detto i nostri
nomi, e quegli altri, e tutta la storia. E siccome la polizia non ha nessun
indizio, neppure una calza, per sapere chi è, non sa ancora chi è. Questa è
l’ipotesi più ottimista, mi capisci, deficiente?».
«Sì, capisco».
«Però, anche in questo caso, sai che cosa fanno? Lei non è in grado di parlare,
non ne ha la forza, e loro, la polizia, non sanno chi è, ma sai che cosa
fanno?».
«Sì, lo so: la fotografia».
«Bravo, ecco: la fotografia di lei. Poi la fanno pubblicare dai giornali e dalle
riviste, per sapere chi è. A me importa poco che alla fine scoprano chi è,
perché alla fine lo scopriranno, quello che voglio è che non parli. È evidente
che finora non ha parlato, se no saremmo già al chiuso, ma se è una di quelle
gatte con sette anime che non muore mai, è questione di ore, ma parlerà, e
allora saltiamo noi e tutto il giro», nel vago odore di caramelleria, in quel
buissimo angolo, in quella buissima mattinata, l’uomo abbassò ancora la voce.
«Vai subito al Sant’Orsola, e finiscila: non deve parlare. Se parla sei morto,
non solo tu, anch’io e molti altri».
L’altro ascoltava a capo basso, e poi scosse il capo, sempre tenendolo
abbassato.
«Ancora viva». Scosse nuovamente il capo. «Impossibile. Due caricatori 7,65
bastano per uccidere un elefante».
«Eppure è sempre viva, e appena apre bocca noi siamo finiti». Si alzò. E sempre
a voce bassissima disse: «Stanza 11, ospedale Sant’Orsola, questa volta non
sbagliare. Devi finirla, e subito, ci saranno un paio di poliziotti vicino al
letto, che aspettano che riprenda coscienza e possa parlare, per chiederle chi
è, e sapere tutto. Vai prima che parli». Aggiunse: «Deficiente».
Si alzò anche quello che era stato chiamato deficiente. Non aveva mai sentito
dire che uno potesse sopravvivere con ventiquattro pallottole in corpo, e la
ragazza se le era beccate tutte o quasi, e poi era stata nuda sull’erba gelata
per ore, ed era ancora viva. «Stanza 11», disse. «Sant’Orsola».
«Sì, e ho detto subito, prima che parli».
«Subito». L’uomo, o ometto, perché era piccolo, uscì dal caffè nella gelida
mattina di dicembre, si buttò dentro l’auto e avviò, masticando furore. Ancora
viva. Era assurdo, eppure era viva, lì, all’ospedale di Sant’Orsola, alla stanza
11. Bene: fra pochi minuti non sarebbe stata più viva, a lui non piaceva
sbagliare due volte. Entrò
fumando di rabbia, perché pur così piccolo era molto rabbioso, nell’autorimessa
vicino all’albergo dove alloggiava, si fece fare il pieno, anche se non ne aveva
bisogno, poi disse al giovanotto mettendogli in mano un paio di biglietti da
mille: «Hai una tuta da prestarmi?».
Il ragazzo aveva delle lunghe basette, e lo guardò proprio come uno che non ha
capito niente.
«Voglio una tuta», disse il piccolo, «e una borsa di attrezzi, e queste sono
altre ventimila lire. Cerca di capire».
Le ventimila fecero capire tutto al giovane basettone. Le mise in una tasca
della sua tuta e disse: «Vado a vedere».
Tornò quasi subito, con in mano una tuta celeste e una grossa borsa con dentro
il trapano, varie chiavi inglesi, i cacciaviti.
«Domani ti riporto tutto».
«Sì, va bene», il ragazzo si passò una mano sulla basetta sinistra, conosceva
l’uomo e sapeva che bisognava ubbidire. «Va bene».
Il piccolo scattò via con la macchina e in piazza Aldrovandi fermò, si tolse la
giacca e si mise la tuta, piuttosto oleosa e puzzolente, poi rimise in moto,
percorse via San Vitale, entrò in via Massarenti e si fermò davanti all’ingresso
dell’ospedale. Scese dalla piccola auto, si mise a tracolla la borsa degli
attrezzi, ed entrò.
Quando volete entrare liberamente in qualsiasi posto, ospedale, cinema, teatro,
segreteria del ministro della Difesa, archivio segreto del Sim, servizio
informazioni militari, mettetevi una tuta e una borsa nera a tracolla, e andate
dove avete bisogno di andare e se qualcuno vi ferma dite: «Sono l’idraulico, mi
avete chiamato ieri», potete dire anche che siete l’elettricista, o il
tapparellista, le porte si spalancano davanti a voi e potete entrare dove
volete. Un operaio in tuta blu che viene ad accomodarvi il rubinetto nessuno ha
il coraggio di rimandarlo indietro o di fermarlo.
E il piccolo, in quella tuta un po’ larga e lunga per lui, e questo, però, lo
rendeva perfino più credibile come operaio vittima dell’avidità sociale, e più
simpatico, attraversò il largo atrio, domandò a una suora che vide vicino a uno
dei lunghi corridoi dove era la stanza numero 11, e s’inoltrò nel lungo
corridoio che la suora gli indicò, facendo ondeggiare nella camminata la nera
borsa in cui oltre agli attrezzi che conteneva aveva messo la mitraglietta.
Questa volta la gatta dalle sette anime sarebbe morta davvero, non gli importava
neppure di andare in galera, tanto i suoi capi lo avrebbero tirato fuori, e con
la borsa ondeggiante guardava i numeri sulle porte, quattro, cinque, sei, sette.
E l’11 era il suo numero, pensò preparandosi ad aprire la borsa degli attrezzi
per levarne la mitraglietta.
Lungo il corridoio vi erano delle panche. Su queste panche erano seduti quelli
che i medici chiamano pazienti e che attendevano di essere visitati dai vari
specialisti, passavano anche alcune suore con le loro non minigonne fruscianti
per terra, passò anche un chirurgo che si tolse camminando la mascherina davanti
al viso per accendersi la sigaretta, e il piccolo idraulico, elettricista o
tapparellista percorse la metà del lungo corridoio e si fermò davanti alla porta
della stanza numero 11. Abbassò la maniglia, la porta si aprì e lui entrò.
Entrò
nella stanza di lei che stava pensando a Riccardetto, pensava che stava facendo
le valigie, che Riccardetto aveva sistemato gli sci sull’auto, pensava, nel suo
stupore dolorante di corpo umano devastato, alla neve della piazzetta davanti
all’albergo Gran Baita, che non era bianca, ma aveva un leggero colore celeste,
quella neve, come fosse cielo. E ogni tanto pensava, anche: io nun vojo mica
morì, e quando l’uomo, il piccolo uomo in tuta entrò, lei non lo vide nemmeno,
perché non vedeva nulla, distesa sul lettino, il lettino avvolto nella plastica
della tenda a ossigeno, senza vista, senza udito, sola nella stanza coi suoi
sogni d’amore con Riccardetto, oh, lui, che la stringeva e le incombeva addosso,
un caldissimo peso di piacere, e allora l’uomo in tuta la guardò, aprì la borsa
degli attrezzi, e tirò fuori la mitraglietta.
Nessuno può fermare un idraulico, un elettricista, un tapparellista, ma fuori,
nel corridoio, su una delle panche dove erano seduti i pazienti in attesa degli
specialisti, era seduto anche un poliziotto, uno dei più duri agenti della
questura di Bologna, uno che non si fidava neppure degli idraulici, che era lì
apposta per quel lavoro, il numero uno del servizio di controspionaggio e che si
alzò dalla panca e scattò nella stanza prima che il preteso operaio avesse
tirato fuori l’arma dalla borsa degli attrezzi.
«Buono, buono, buono», gli disse, afferrandolo per i capelli e schiacciandogli
la faccia contro il muro, finché il naso di quello non si ruppe, colando sangue
rosso sulla parete giallina. E poi qualche pugno alla nuca finché il piccolo
scivolò miseramente a terra.
Il poliziotto lo sollevò e lo mise nella poltroncina vicino alla finestra,
ungendosi le mani dell’unto della tuta, mentre lei, sul lettino, chiusa
nell’involucro di plastica trasparente della tenda a ossigeno, stringeva i
denti, il poliziotto li sentì scricchiolare, pensando che non voleva morire, e
che voleva sentirsi vicino Riccardetto, così vicino da non distinguere il
proprio corpo da quello di lui, in quella stanza alla Gran Baita del Breuil, e
poi al mattino sciare nel sole e nel vento, e farsi arrostire dal sole tutto il
giorno e la sera ancora amore. E non voleva morire.
Intorno al suo letto c’erano quattro persone: un brigadiere, un agente in
divisa, uno in borghese con un registratore al collo e un microfono che teneva
vicino alle labbra di lei, e il dottore che carezzava la fronte di lei e le
diceva: «Se non se la sente di parlare, non parli».
Lei mosse il capo. Ora capiva, vedeva, sentiva, era farcita di proiettili, ma
era sempre viva, era ancora viva. Mosse il capo per dire di sì, che parlava.
«Il nome», disse il brigadiere, «il suo nome, signorina», era curvo vicino
all’orecchio di lei, le soffiava nell’orecchio la sua domanda.
«Antonia», fu un soffio.
«Antonia, e poi?», disse il brigadiere.
«Antonia Faenza».
«Chi la voleva uccidere?».
Chi l’aveva ridotta così?
Lei ora capiva, vedeva, sentiva. «Lavoro alla Nato», disse, «sono impiegata alla
Nato».
Il medico disse: «Basta, ha due o tre proiettili nei polmoni».
E lei invece soffiò, faticosamente: «No, dottore, devo parlare», e parlò,
ansimando, davanti al microfono del registratore, disse tutti i nomi che sapeva,
tutti gli indirizzi, i numeri di telefono, ansimando davanti al microfono,
l’avevano pagata bene, quella gente pagava sempre bene, si facevano consegnare
le copie di tutti i documenti che lei come impiegata alla Nato poteva conoscere,
la pagavano tanto bene che lei poteva portarsi il suo Riccardetto al Breuil,
però lei un giorno non aveva più voluto fare quel lavoro.
«Ah, ecco», disse il brigadiere, mentre l’agente in borghese teneva sempre il
microfono del registratore davanti alla bocca di lei. Antonia Faenza,
ragazzaccia romana capitata in un giro di cose davvero più grandi di lei. «Ecco
perché hanno cercato di ammazzarla, perché non voleva più lavorare per loro».
Fece una carezza sui capelli neri di lei. «Li piglieremo tutti, ti
vendicheremo».
Lei sorrise, felice. «Non voglio morire», disse in italiano, non in romanesco.
Il medico giovane, nella tasca del camice bianco, strinse la mano sinistra, a
pugno, per controllarsi, mentre con la destra carezzò lei sulla fronte, la
vivezza di quegli occhi castani gli disse, clinicamente, che non sarebbe morta.
«Non deve avere nessuna paura, è tutto passato».
«È tutto passato», disse il brigadiere, mentre l’agente spegneva il
registratore. Ora che lei aveva parlato li avrebbero presi tutti, lo spionaggio
ha bisogno anche di morti che parlano.
E lei disse, infatti, muovendo il capo in segno negativo: «Non è tutto passato.
Io sono morta. È tutto finito».
Il medico disse: «Sei viva. E resterai viva». Tirò la chiusura della tenda a
ossigeno.
E sotto la vampata di ossigeno vivificante lei ricominciò a sentirsi viva, vide
Riccardetto che le si avvicinava e le metteva una mano sulla spalla e le diceva:
«Oh, bella fata bruna», ghignando, forse sarebbero andati davvero alla Gran
Baita, a sciare, «oh, bella fata bruna, oh, bella fata bruna, oh, bella fata
bruna».
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Il racconto è un tributo alla sua bellezza,
carisma, personalità.
Gli aspetti negativi sono introdotti per mere
esigenze di ordine drammatico e narrativo.
Il ruolo della protagonista va assimilato a
quello dell'attrice rispetto a un film.
La devozione alla persona in questione, da
parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta.