Sulla Porta di Dite Collana dark in costante punto di morte È per questo motivo che a tutti, ma proprio a tutti (purché geniali), è esteso il fatale invito a partecipare (prima che sia troppo tardi), perché più si avvicina la morte, più si sente la vita. Se sei un'attrice, una dark lady, o semplicemente "un donnone", e vuoi interpretare un racconto della Collana, o se vuoi scriverlo (prima che sia troppo tardi): la lettura è vietata ai minori di anni 90 avviso importante: il narratore non riflette il punto di vista dei rispettivi autori, il narratore ha un proprio punto di vista, che - talvolta - può essere quello di Dite. AVVERTENZA ULTERIORE I fatti narrati in questi racconti sono di pura fantasia, frutto dell’immaginazione e della libera espressione artistica degli autori. Ogni riferimento a eventi realmente accaduti, a persone realmente esistite o esistenti, e a luoghi reali, è puramente casuale. Eventuali somiglianze o impliciti riferimenti con fatti o avvenimenti reali, o con persone, associazioni, organizzazioni, movimenti o partiti realmente esistenti, sono puramente casuali e non intenzionali, o, se intenzionali, da intendersi solamente quale fonte di suggestione e ispirazione per un’opera di fantasia, dovendosi escludere, perentoriamente, ogni eventuale identificazione oggettiva e soggettiva, come da presente espressa statuizione, e men che meno qualsiasi intento offensivo, denigratorio o sovversivo nei confronti dei singoli individui, gruppi o associazioni di persone, o della società in generale. In ogni caso, anche rispetto ai personaggi di fantasia, in specie quelli femminili, i racconti della presente Collana rappresentano un tributo alla loro bellezza, carisma, personalità; gli eventuali aspetti negativi sono introdotti per mere esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico; la devozione ai personaggi femminili in questione, da parte degli autori, è implicita e assoluta. a Stampa ordinabile presso le migliori librerie: il Manifesto la Porta di Dite al cinema Lainie Kazan sta per incassare 6 pallottole di piombo caldo in "Lust in the Dust" : sono abbastanza per lei? Scoprilo in "Lust never Dies" !
Le sensazionali dipartite di Femi Benussi, Ingrid Pitt, Isela Vega, Jacqueline Scott,
Lainie Kazan, Marie
Gomez, Rossana Yanni, Sarah Douglas, Scilla
Gabel, Shannon Tweed, Stella Stevens e Sylva Koscina hanno fatto la storia del
cinema. Marie Gomez "The Professionals" (1966) Scilla Gabel "Tiro a segno per uccidere" (1966) Isela Vega "Dente per dente" (1971) Rossana Yanni "Un omicidio perfetto a termine di legge" (1971) Sylva Koscina "Rivelazioni di un maniaco sessuale al capo della squadra mobile" (1972) Jacqueline Scott "Charley Varrick" (1973) Femi Benussi "L'assassino è costretto ad uccidere ancora" (1975) Stella Stevens "Cleopatra Jones and the Casino of Gold" (1975) Sarah Douglas "Conan the Destroyer" (1984) Ingrid Pitt "Wild Geese II" (1985) Lainie Kazan "Lust in the Dust" (1985) Shannon Tweed "Possessed by the Night" (1994)
Menzione a parte merita l'iconica, lunghissima sequenza di Gioia Pascal ne "Il Terzo Occhio (1966)":
La Pascal, sorpresa da numerose coltellate, sembra aver ceduto.
Tuttavia viene ridestata dagli squilli del telefono e - ringalluzzita, intravedendo la salvezza - cerca con ferrea ostinazione di raggiungere l'apparecchio.
Il telefono continua a squillare, mentre lei avanza lentamente, convinta di potersi salvare.
Purtroppo per lei, però, il telefono sembra irraggiungibile...
La Pascal ce l'ha fatta... finalmente ha raggiunto la cornetta e chiede aiuto, il più è fatto...
Tuttavia il destino si accanisce contro di lei: i soccorsi arrivano, ma c'è poco da fare... La Pascal, carica di rabbia di fronte a quel prete menagramo, scarica tutte le colpe su Franco Nero, mentre ha paura che la fine possa sorprenderla da un momento all'altro: quelli intorno non aspettano altro che lei ceda. Cialtroni, voglio provarci... sono arrivata al telefono... posso arrivare dappertutto... Ma l'ospedale è più lontano del telefono: occorre un altro squillo che la risvegli su un comodo letto, con abbondanza di plasma e ossigeno. La Pascal, sorprendendo tutti, sta trattenendo l'ultimo rantolo con ostinata convinzione, sapendo di avere i minuti contati, quando finalmente si decidono a portarla via da lì, cadavere o non. Lei torna a crederci, a ringalluzzirsi, a convincersi di potersi salvare. Però continua a sembrarle tutto dannatamente lento, al cospetto di una morte che le arriva veloce addosso... L'ospedale è ormai troppo lontano per la sfortunata Gioia Pascal... Aspetta... non adesso... adesso c'è la parte più importante... prima eri sicura di salvarti, adesso ti vedi stendere in faccia un lenzuolo...
L'obitorio spalanca le porte a Gioia Pascal. Accoltellata a morte con furia selvaggia, scriveranno i giornali. Solo il blu le dà conforto, mentre stira gli ultimi rantoli...
aDOTTA IL FATTORE "PORTA DI DITE"
"Spartacus"
è una recentissima serie tv di successo, di produzione anglofona.
La donna torna in scena poco dopo, quando crolla al fianco del marito, che sta per essere barbaramente sgozzato da Spartaco in persona:
Negli ultimi fotogrammi è ripresa agonizzante, se non già
cadavere, in un bagno di sangue.
Nel primo episodio della seconda stagione, andato in onda il
27 gennaio 2012, Lucretia ricompare in scena, inopinatamente sopravvissuta
all’eccidio. La ferita inferta dal gladio, ormai cicatrizzata, viene espressamente evidenziata allo spettatore con grande efficacia drammatica e significanza concettuale:
Il momento più suggestivo e vibrante viene raggiunto allorché
Lucretia ricompare agli occhi del suo assassino, mischiato tra la folla del
mercato di Capua. In aperta citazione di "Didone Liberata", Lucretia si passa la mano sul ventre, come a risentire la ferita aprirsi dentro di sé, in un momento di sublime intensità, sconosciuto alla sensibilità moderna: Questa inversione
giunge con assoluta chiarezza allo spettatore: è il punto di vista della
produzione, è l’esito di una guerra vinta e molto veloce. A memoria dei posteri. S.C. (Marzo 2012) Dal passato al presente: forme mutevoli, stesso destino. Zothique: L'Impero di Vevrisha Zothique: La Regina Megera di Sha-Karag di Salvatore Conte (2011-2017)
Si erano conosciute tre mesi prima. Lei, Chiquita Muñoz, la cameriera spacciatrice di un lussuoso albergo di Mexico City; l'altra, una turista americana. Chiquita si pensava una big, e per certi versi lo era davvero. Ma solo nel fisico. Girava per le camere con la camicia d'ordinanza ampiamente sbottonata, per irretire i clienti e farseli amici, e ci riusciva quasi sempre. Era una morona trentenne, con un petto gigantesco e una stazza impressionante; con lei l'opulenza della terra madre messicana aveva decisamente esagerato. Nonostante il sovrappeso, vi era un'armonia complessiva nelle sue forme possenti; lo sguardo metteva allegria e i fluenti capelli corvini, sparpagliati sulle spalle, sembravano sottili tentacoli pronti a ghermire la preda. Per raccogliere tutto questo in una parola, era detta la Bodrilla, un simpatico termine italiano, anzi romanesco - affibbiatole da un turista innamorato - e ormai assurto a patrimonio universale, un po' come il nipponico Godzilla, con cui marca un'assonanza tuttaltro che casuale. D'altra parte, anche Chiquita sembrava venire da un passato ancestrale ed era certamente in grado di schiacciare con grande facilità un uomo tanto incauto da finirle sotto i piedi.
Forse un'altra donna non avrebbe digerito tanto volentieri
l'ambiguo soprannome, ma lei se lo era tenuto, non la spaventava.
Sullo sfondo la radio sparava alto un pezzo dei Beatles,
che sembrava il Bodrilla theme.
«Fanculo, troia, sarai tu a farti male…!», replicò secca
Hilary.
Era esploso un colpo e se l'era beccato la Bodrilla!
Grande e grossa, eppure vulnerabile come tutti. Anzi i corpi
pesanti rotolano bene in discesa, e lei era diretta all'inferno.
Tutto era avvenuto molto in
fretta. A lei quella troiona lardellosa piaceva da morire... se solo non le avesse chiesto altri soldi...
Adesso, poi, era più languida del solito.
Non poteva mollare così. La Bodrilla era una che non mollava mai. Improvvisamente si chiese come mai nessuno fosse ancora intervenuto.
E poi la massa corporea della messicana aveva attutito il rumore dello sparo. Colse l'occasione per correre verso la porta ed espose all'esterno il classico "do not disturb". Anche se la cameriera era ormai dentro. Batteva la fiacca più del solito e non avrebbe più disturbato nessuno.
Quindi tornò a fissare Chiquita. L'eccitante frenesia del
momento le aveva fatto dimenticare la voglia di bucarsi.
Lo sguardo perso nel vuoto, carico di indicibile paura, la bocca rimasta
dischiusa, cristallizzata in un’espressione di incredula rassegnazione, la
chiazza di sangue sulla camicia bianca abilmente sbottonata, il contrasto tra
la massa possente del corpo e il colpo secco che l'aveva stroncata senza
lasciarle scampo, tutto questo rendeva la fatale postura della Bodrilla la visione più tragicamente sensuale
su cui Hilary avesse mai posto gli occhi.
«Tu non puoi morire così,
bastarda d'una messicana...», recriminò furiosa l'americana, che provò a soffiare aria nella
gola di Chiquita e poi a pomparne selvaggiamente il petto.
«Forza, forza… non volevo fotterti…». Una. Due.
Tre volte.
La fine di Chiquita le aveva perfino fatto dimenticare la
voglia di bucarsi. E poi di nuovo tre colpi al cuore. Uno. Due.
Tre.
Quando Hilary mollò d’improvviso la presa, la testa di Chiquita
cadde di sasso all’indietro, sulla moquette del pavimento. Forse a causa del
contraccolpo, un grumo di sangue eruttò
dalla bocca della Bodrilla, seguito - in una frazione di secondo - da un grugnito animalesco. Era Chiquita... Era proprio lei. Stavolta non c’erano dubbi. Stava gemendo.
Gli occhi ancora vaghi e confusi, ma con un timido riflesso di
vita. Completamente assorbita da quella visione irripetibile, non si accorse che la porta si apriva. Era entrato un uomo e le stava spianando contro un revolver. «Che cosa è successo qui?», chiese freddamente. Era il boss di Chiquita. Stava controllando il suo lavoro e aveva il passepartout dell'albergo.
«Che le hai fatto? L'hai ammazzata?!». «Pedro... aiutami…». «Mi dispiace, bella mia…», afferrò un cuscino e glielo piazzò sulla faccia. E cominciò a soffocarla! Poi avrebbe pensato alla drogata. La Bodrilla si dimenava, era ancora possente. Ma Pedro insisteva, l'avrebbe tolta di mezzo a ogni costo, sapeva troppo; e senza usare il revolver. La Muñoz stava allargando le braccia e stirando i piedi in dentro! Ne aveva per poco.
Il boss l'aveva liquidata.
Il baccano dei Beatles non era stato sufficiente.
Il turista innamorato non aveva dimenticato le condizioni in cui ritrovava la camera. Un giorno modificò il cartellino dell'albergo, cancellando "do not" e aggiungendo "me, please". Chiquita chiese a una collega di rifargli la stanza. Per una volta la ebbe pulita, ma per il resto ritrovò subito la voglia di uscire. Sarà che gli innamorati sono strani, ma quando lesse il televideo gli venne il dubbio che la Bodrilla stesse rischiando il posto. Lettore, se vuoi conoscere l'attrice che ha ispirato questo racconto, clicca qui. Il racconto è un tributo alla sua bellezza, carisma, personalità. Gli aspetti negativi sono introdotti per mere esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico. Il ruolo della protagonista va assimilato a quello dell'attrice rispetto a un film. La devozione alla persona in questione, da parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta. di Salvatore Conte (2011-2020)
La sua taglia, però, aveva raggiunto i quattro zeri e la platea
dei cacciatori si era allargata.
Kleo Madison decise allora di farlo fuori. «Mettiamoci insieme, John… voglio un compagno forte accanto a me... Non dirmi che non ti piaccio…», e si protese in avanti, quasi sfiorandolo con le labbra, più che mai bella e sensuale.
Kleo Madison era un pezzo raro: oltre i 50, ma ben conservata, formosa, affascinante, con la camicetta da vaccara sbottonata aggressivamente fino all'ombelico e i grossi seni che ci ballavano dentro cadendo a penzoloni sul cinturone e la colt. Fredda, autoritaria, agli incontri decisivi si presentava con i bottoni allentati, per allungare la scollatura e mettere in soggezione il pistolero o lo sceriffo di turno. Era quasi impossibile che cercassero di colpirla: nel West erano poche le donne che sapevano sparare e quelle poche creavano imbarazzo. C'era quindi la possibilità di approfittarne e l’ascesa della figlia, infatti, era dipesa da questo fattore. «Non che tu non mi piaccia, Kleo... Ma per mantenere un pezzo di donna come te, ci vogliono soldi, molti soldi... E tua figlia è arrivata a valere 10.000 dollari: una bella somma, almeno per me… Tu, invece, sei stata più prudente, sei rimasta nell'ombra, nessuno va in giro con la tua faccia in tasca».
«John... io e te, insieme... valiamo molto più di 10.000 dollari...».
«Ma tu da sola quanto vali?», fu la
sferzante domanda di John Walker.
Dai tavoli limitrofi, due banditi si mossero per aprire il fuoco... BANG
CRASH Se l’aspettava, la madre di Janet girava armata e lui le piazzò una palla in corpo prima che a farlo fosse lei.
Una macchia scura - all'altezza
del fegato -
imbrattò la camicetta a
quadri. Aveva sistemato anche lei. «Chiamate un dottore!».
Le concesse solo questo.
Era stato un bel repulisti, ma ora lo attendevano
10.000 dollari e non voleva farli aspettare troppo.
Adesso era sazia di piombo.
«Cristo!».
Quattro morti erano tanti, anche per una città di frontiera
come Tucson. Ma c'era anche dell'altro in fondo agli occhi chiari: proprio adesso l'aveva fottuto? L'avesse capito prima, si sarebbe fatta sparare a salve da qualcuno.
Era come se le pallottole che
avrebbe voluto indirizzargli fossero infine
giunte a segno. «Ti porto su, Kleo...», la sollevò da terra, trasportandola al piano superiore. Il segaossa scosse subito la testa. «Sono solo dei dannati menagrami, dovresti saperlo». Kleo, ansimando, si girò a pancia sotto. Sapeva il che dottore aveva ragione, ma voleva spuntare un po' di tempo.
Scalciava con gli stivali sul terminale del letto; gli speroni
facevano scintille pizzicando l'ottone. Non era illeso, l'avrebbe pagata cara. Intanto, per le strade di Tucson circolava molta apprensione. La sorte di Kleo Madison, la bella pistolera bionda, teneva la città con il fiato sospeso. Alla notizia del suo mortale ferimento, serrati conciliaboli si erano diffusi lungo tutta la Main Street.
Si attendeva con ansia febbrile
qualsiasi novità sulle sue condizioni: i più, conoscendola, si aspettavano una
certa resistenza, poi l'aggravamento e la concitazione finale, condita con qualche
disperata invocazione dei
sodali più intimi, all'approssimarsi dei momenti culminanti. Lei era una carogna con un proprio senso della giustizia. Lui un bandito travisato da giustiziere. Alla fine qualcosa era scattato. Kleo gli fece vedere la lingua, John le succhiò le labbra impastate di sangue, con la mano che scattò sul seno ansante. A questo punto lei si aspettò le sue scuse. «Mi dispiace, Kleo. Io non volevo farlo». Giunsero puntuali. L'aveva ingabbiato. Troppo tardi, certo. Ma c'era riuscita. «Non volevi... eliminarmi... lo so... Ma l'hai... fatto... Adesso... però... ti voglio con me... fino alla fine... Non devi giudicarmi... ho fatto molti soldi… ma non bastavano mai… volevo di più... non potevo fermarmi... è vero... ci sono io... dietro mia figlia... lei è niente... senza di me...». «Non ti giudico. Anch'io sono qui per soldi. Ma c'è una cosa che devo chiederti». «Spara...», l'animo non era ancora fiaccato.
«C’eri anche tu con Janet, a Moctezuma, due settimane fa?». «Ne sei certa?».
«John... non ci sono... mai... stata...». La donna si avvicinò.
«Ci sei andato pesante… », riferendosi alle
condizioni di Kleo. Quindi non è compito mio toglierle la vita.
Ma ci hai pensato
tu, da quel che vedo…».
Non puoi fare niente per lei?». Le medicò le ferite con degli unguenti che portava alla cinta.
La Madison la lasciò fare, non aveva molto da perdere. «Kleo...!», la Madison aveva gli occhi sbarrati.
«Calmati... e ascolta... Il cuore pulsa una volta ogni largo giro d'uccello: quel tanto che basta.
Il resto lo fanno i freni della tua donna, tirati al massimo», concluse Mitla. «Non la muovere e non chiamare stregoni bianchi. Tornerò domani. E forse pure lei». «Se anche tornasse, non avrebbe più una figlia, e sarei io ad averla uccisa». «Ti prenderebbe lo stesso. Ha bisogno di te e molto da farsi perdonare. È madre ma ama soprattutto sé stessa. Credo sappia che la vita va pagata con la morte. Le vipere sono a contatto con l'inferno». «Tornerai a Moctezuma con 10.000 dollari, Mitla. Anche tu sei a contatto con l'inferno». «Domani lo sapremo...». Detto questo, la strega lo lasciò solo con i rimasugli di Kleo, mentre fuori la gente - ossessionata dalla fine della Madison - premeva per sapere, entrare e vedere il cadavere della gran donna. Lettore, se vuoi conoscere l'attrice che ha ispirato questo racconto, clicca qui. Il racconto è un tributo alla sua bellezza, carisma, personalità. Gli aspetti negativi sono introdotti per mere esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico. Il ruolo della protagonista va assimilato a quello dell'attrice rispetto a un film. La devozione alla persona in questione, da parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta. L'ULTIMA AMAZZONE di Salvatore Conte (2010-2016) Altri due guerrieri, entrambi in carne e ossa, erano pronti a combattere, i Giochi di Miraab non conoscevano soste.
La sessione dedicata agli scheletri gladiatori si era già
conclusa, ma presto sarebbero cominciati i combattimenti misti, quelli più
attesi. Ottanta soli di regno - di cui la stragrande maggioranza da “self-widowed” - non erano certo pochi, specie in quei tempi.
Vestiva tutta di bianco, ma rimaneva molto più nera che bianca.
Corrotta e capricciosa che fosse, aveva dato stabilità al Regno, quasi
arrestandone il declino.
Non aveva alcuna intenzione di abdicare. Nonostante il peso
degli anni minacciasse di schiacciarla, non avrebbe ceduto il suo potere a
nessun altro: magia nera e incantesimi tasaidici l'avrebbero conservata come una
mummia vivente e resa quasi immortale.
Publokh corroborò le sue pretese con un lancio di monete. Bochra era famosa perché talmente potente da esultare con una daga ancora immersa in pancia.
Entrambe estrassero il gladio.
Le due amazzoni si ritrovavano nei panni del secutor,
tradizionale avversario del retiarius, che sull'arena cerca il corpo a corpo
senza farsi sorprendere dal lungo tridente: il pesce combatte con i denti, il
pescatore deve mantenere le distanze o è destinato a perdere. Lungi dal contenersi il seno - mastodontico, come la sua arroganza - ne aveva fatto un'arma supplementare.
La secutrix - ostentando la sua avvenenza, stirandosi addosso
la tunica bianca -
cercò di colpire a morte Publokh.
Sei sicura di voler soffrire fino alla fine? Non sarà piacevole».
Quando sorse la luna, pallida e funerea, specchio di un sole
morente, il giovane la scrutò intensamente, cercando di coglierne i presagi.
L'ultima amazzone stava ancora combattendo. Lettore, se vuoi conoscere l'attrice che ha ispirato questo racconto, clicca qui. Il racconto è un tributo alla sua bellezza, carisma, personalità. Gli aspetti negativi sono introdotti per mere esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico. Il ruolo della protagonista va assimilato a quello dell'attrice rispetto a un film. La devozione alla persona in questione, da parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta. SCIACALLI di Salvatore Conte (2012-2019)
Lontano dalle ultime rotte di comunicazione che percorrevano Zothique, incavato nelle profonde gole dei Monti Mykrasian, era sempre più spopolato.
La Sceriffa aveva al suo comando soltanto due uomini. E tanto meno abitare luoghi destinati alla morte. Ci si stringeva nelle ultime città rimaste. Bochra, la possente guerriera, entrò nella taverna e sparse voce; cercava un ingaggio, perché non c’è epoca che non abbia i suoi avventurieri, almeno per risultati a breve termine.
L'imponente ragazzona girava con la mazza
ferrata e si dava da fare; in alcuni posti di Zothique, i giocatori di carte la chiamavano la Regina di
Bastoni. Era stata sorpresa tra la piccola folla del mercato.
E ora veniva trasportata presso l’abitazione di Galeor, poeta e alchimista di
Cith.
Restava il fatto, comunque, che
Chana era stata portata via dal
mercato con un coltellaccio affondato per intero nella pancia, e ciò aveva
lasciato interdetta la plebaglia di Cith.
La
Sceriffa di Cith, l'esperta Anafra,
stava ricostruendo le ultime ore di Chana.
Avida, decisa, provocante, sognava di affrancarsi una volta per tutte da quella vita infame,
consumata lungo le fetide viuzze di Cith.
«Sulla Culla perderai il tuo spirito…
Nel frattempo la costernazione dilagava
tra la gente radunata sotto la casa
dell’alchimista.
«Qui comando io!», la Sceriffa di Cith si avventò contro Bochra col pugnale alzato, scattando come una vipera.
La Regina di Bastoni scartò sul fianco, estrasse lesta il suo
- lungo e affilato - e restituì la gentilezza. Finirono avvinghiate l’una all’altra, rotolando insieme a terra.
Le assi marcescenti del pavimento scricchiolarono sinistramente sotto il loro
peso, torturate senza tregua dall'acerrima lotta tra le due massicce figure.
Una delle due spiccò un
involontario tuffo nel Lete. Il pugnale, affondato nel fianco fino al manico, stava bevendo il suo sangue.
Ciò voleva dire che la lama era tutta dentro la pancia della
Sceriffa; ed era una bella lama. Ancora incrudelita, Bochra glielo rigirò dentro, per devastarla completamente. Occhi di donna impazziti strabuzzarono ancora... SWISH
Infine tirò fuori la lama, e
vari pezzetti di budella...
La Regina di Bastoni, che se
la cavava bene anche
con le Spade, fissò per un attimo l'avversaria: era davvero patetica, ma tosta;
molto tosta.
O non aveva capito, o voleva illudersi. LA FINE DI ANAFRA
Combatteva da ore con un’emorragia fatale, sostenuta dal
fisico e dalla disperazione. «Il pugnale è andato in profondità, Anafra», l'alchimista gliel'aveva spiegato cento volte. «Ed è stato rivoltato nella piaga. Voleva ucciderti e farti soffrire, sapendo che non molli facilmente». «Non mi ha... ucciso... Acqua... acqua... subito...», aveva paura; e la bocca secca, come tutti i moribondi.
Non voleva proprio capire cosa significasse un
lungo coltello rigirato su sé stesso nelle sue budella. Anafra era insomma una statua vivente che rimaneva uccisa.
Non era facile per lei farsene una ragione, accettare la fine, dopo
aver
finalmente assaporato la ricchezza.
Durante un controllo notturno,
un criminale l’aveva sopraffatta e pugnalata a morte.
Non c'erano dubbi sul quarto,
ma il quinto dava molta ansia.
Dove camminava ricresceva l'erba, la fronte illuminava il
giorno, il corpo massiccio e materno riportava a Cith un'ancestrale allegria. Acqua... acqua... ti prego...». Anafra cercava disperatamente di muovere qualche passo verso la salvezza, ma erano di più quelli che faceva all’indietro, verso la Porta Fatale che conduce alla Casa di Thasaidon. La Sceriffa di Cith tentava ancora di apparecchiarsi la salvezza, ma stava per scomparire dalla scena, tra molti rimpianti. Per salvarla sarebbe servito un capolavoro.
Il coltello... ha bevuto... molto...», a bocca spalancata, sconcertata, consapevole di tutto, ormai. Bochra, che l'assisteva senza trattenere la propria eccitazione, cercò di compiacerla. Le passò una mano dentro la camicetta allentata, palpeggiandole il seno flaccido; con l'altra, fece lo stesso sulla pancia gonfia. La risposta non si fece attendere. La voce era ancora frizzante. Anafra era infatti compiaciuta. E riusciva tuttora a gestirsi, malgrado la fatale coltellata al fianco la stesse consumando. Bochra, d'altronde, l'aveva colpita sotto l'impeto dell'ira, ma in realtà non avrebbe voluto ucciderla; tuttavia, quando combatteva, la Regina di Bastoni non faceva sconti a nessuno, neanche a una bella vacca. «Bochra... cosa ne pensi... della negromanzia...». «Capisco cosa intendi: in tanti ci provano; si accontentano di una vita dimessa, piuttosto che scomparire del tutto».
Ho combinato... un bel guaio... Devo rimediare... in qualche modo...
Ma intanto... gioca ancora... con le mie
brutture...», e rise come una stupida, malgrado le budella sottosopra; cercava
in tutti i modi di distrarsi. Le spiegò che l'avrebbe strangolata dolcemente con una sciarpa di seta e che lei non doveva opporre resistenza. Anafra assentì distrattamente, non era più lucida, l'emorragia l'aveva sfiancata. L'operazione ebbe inizio. Il grande momento era arrivato. Anafra pagava con la vita la sua scellerata ambizione. Era finita. La Sceriffa, però, reagì con veemenza quando si sentì stringere il collo. Bochra sospese tutto. Il tempo, d'altra parte, stringeva. Il negromante si stufò di aspettare e se ne andò stizzito. «Non ho... il coraggio... di farla finita... Voglio... andare avanti... Posso... farcela... Mi chiamo Anafra... non sono... una qualunque...», voleva illudersi ancora, tentare fino all'ultimo. La folla in strada era inferocita, perché le notizie scarseggiavano. Vedendolo uscire, si arrabbiò ancora di più: che ci faceva lì? Prima era entrato di nascosto, ora l'avevano riconosciuto. Fu circondato e minacciato. Spiegò loro che non aveva fatto niente, che la donna ci aveva ripensato, che preferiva aspettare la fine. I popolani volevano vederla a tutti i costi, sapevano ormai che Anafra stava per spirare. Bochra ne fece entrare qualcuno, purché stessero zitti e non si avvicinassero troppo. Gli occhi della Sceriffa vagavano spaventati sul soffitto della camera. La bocca semiaperta, in un'espressione stanca e sconcertata. Un rivolo di sangue le colava da labbro. C'era una palpabile apprensione tra i presenti. La situazione non era migliore di quella che avevano immaginato. Anafra piaceva sempre da morire. Ma ormai era giunta alla stretta finale. La sua avidità l'aveva tradita. Avrebbe potuto dividere il malloppo, ma non si era accontentata; e adesso ne pagava le conseguenze. La tragedia di Anafra era già scritta. E sarebbe rimasta nelle memorie di Cith. Allungò la testa all'indietro e allargò sfinita il braccio, che cadde a penzoloni dal bordo del letto. Gli astanti si strinsero - come una sola persona - intorno al suo capezzale, ansiosi di aiutarla in qualche modo, oppure vergognosamente bramosi di vederla morire da più vicino. Neanche Bochra riuscì a frenarli. Comunque le rimisero a posto il braccio. Anafra, dal canto suo, boccheggiava disperata, ancora incredula di dover morire, nonostante l'ampio consenso e il convinto sostegno che molti le offrivano. Mentre crepava, sembrava assorta in qualche remoto pensiero. Aveva cercato di afferrare la salvezza, ma le era sfuggita; nonostante - in certi momenti - le fosse sembrata vicina, a portata di mano. Poi le gambe si mossero da sole, in un sussulto involontario. Stava perdendo il controllo. Era uno spasmo di morte, forse l'ultimo avvertimento. La paura aumentava e il sudore freddo con questa. I popolani di Cith lanciarono grida a quelli rimasti fuori. Era il momento! Anafra non si teneva più. Anche se a parole continuavano a incoraggiarla, tutti sapevano che era finita. Gli sguardi scartavano tra la ferita nel fianco, quella che l'aveva uccisa, e gli occhi della morente, che si stavano fissando nel vuoto, carichi di paura. Evidentemente il coltello - entrato molto in profondità e forse rigirato dentro - le aveva maciullato le budella, e neppure una come lei, dura e ambiziosa di vivere, riusciva a prendere altro tempo, in quelle condizioni. Ebbe un altro spasmo, anche peggiore. Si contorse sul letto come una biscia. I quattro magneti cilindrici sembrarono vibrare. I presenti gridarono allarmati. Anafra stava per essere cancellata sotto i loro occhi e nessuno poteva fare niente. La incoraggiarono in tutte le maniere. Cercarono di illuderla. La toccarono da tutte le parti, per farle sentire calore. «Nooo...», sussurrò fragile, ormai in bocca a Thasaidon. Un attimo dopo rimase con la bocca spalancata e gli occhi fissi sul nulla, infine stroncata dalla fatale pugnalata di Bochra. La Regina di Bastoni provò a stringerle la mano, ma ormai era flaccida, come le tette. Le prese anche il seno, come fatto in precedenza, ma non giunsero risposte spiritose. L'incredulità attanagliò i presenti, che aspettavano altri spasmi. La notizia attraversò come un fulmine il borgo: la bella Anafra, Sceriffa di Cith, aveva trovato la morte fatale pugnalata della notte precedente. Aveva provato fino all'ultimo ad agguantare la salvezza, rifiutando una precoce negromanzia, e affrontando una crudele agonia; ma alla fine era uscita di scena, lasciando molte persone incredule intorno a sé, nonostante la morte ormai annunciata da ore. Chana - quasi fuori dall'incubo, grazie all'aiuto di Galeor e della Sorte benigna - fu condotta accanto al corpo di Anafra. La prostituta le soffiò in gola, cercando di rianimarla; l'aveva vendicata, dopotutto.
Chissà se dietro i suoi occhi vitrei sognasse ancora di apparecchiarsi la salvezza. Tuttavia spasmi e sussulti erano finiti, a parte una torsione della gamba che suscitò un clamore esagerato e un breve entusiasmo; ma la notizia di una disperata reazione della Sceriffa fu presto smentita: gli occhi fissi al soffitto della camera parlavano chiaro; non c'era più niente da fare per lei; doveva essersi trattato di un tardivo assestamento indotto dal rigor mortis. L'energia vitale di Anafra, comunque, rimaneva all'interno della piramide. «È rimasta fottuta», il commento prevalente, che passava di bocca in bocca, non privo di incredulità, come la faccia morta della Sceriffa. C'era disperazione al suo capezzale, fra chi tentava - inutilmente - di rianimarla. E c'era perfino chi giurava di seguirla nella tomba, per tenere lontano il verme.
Stavolta era proprio andata. Illusorio e imbarazzante lo scatto improvviso della gamba. Il verme l'aspettava.
La lotta era stata disperata fino all'ultimo respiro; tra ambizioni di salvezza e scenari di morte.
E con tanti sciacalli ad aspettare l'ultimo spasmo di Anafra, potente donnone ucciso dall'avidità. Mentre vi erano altri che non si arrendevano neppure di fronte all'evidenza: con le lacrime pensavano di annegare il verme. Si sarebbero accontentati di un piccolo spasmo. Ma la bocca spalancata e gli occhi invariabilmente fissi sul nulla non lasciavano speranze: Anafra aveva pagato un prezzo altissimo, forse esagerato; aveva provato a rimanere in gioco, ma la salvezza le era scivolata via; nelle ultime due-tre ore aveva perso il controllo, non c'erano più stati dubbi, tutti avevano capito; solo lei aveva continuato a illudersi. Giunta agli spasmi finali, ha avuto paura, ha cominciato a capire, ma ha provato ancora, fino all'ultimo. È morta senza mai rassegnarsi, da donna che si considerava invincibile. E anche adesso, cadavere, aveva un'espressione incredula sul volto. Lei, uccisa. Assurdo. Eppure non c'era più nulla fare, non le rimaneva che sparecchiare.
Il cadavere sarebbe rimasto sotto osservazione per alcune ore, tra saltuari tentativi di stimolazione; poi messo all'asta. Difficile che andasse al verme. «È rimasta lì, cadavere, con la bocca spalancata e gli occhi fissi. Non so che ne faranno, ma Anafra è rimasta fottuta. È stato bello quando le stringevamo la mano a turno; lei ci guardava eccitata, convinta di salvarsi. Poi, però, ha perso il controllo. Non c'è stato più niente da fare». Era il racconto di chi tornava a casa. L'AVVENTO DI KLEO
La fine di Anafra aveva fatto rumore. L'inedia regnava su tutta la terra di Zothique e le poche notizie sconvolgenti attiravano la morbosa curiosità della plebaglia. Da Yethlyreom, capitale di Cincor, fu inviata una sceriffa di nome Kleo: una bionda molto dura, dai grossi seni cadenti come il mondo. Avrebbe condotto le indagini e stabilito se si fosse davvero trattato di un incidente notturno, visto che non si rigirava un coltello nella piaga, se non per un odio molto profondo. Qualcuno aveva voluto eliminarla, senza lasciarle scampo; ma lei, Anafra - molto stupidamente - non rassegnandosi, lottando per ore, aveva reso tragica e famosa la sua fine. Si era portata dietro mezza dozzina di uomini, per torchiare a dovere i popolani del borgo. Qualcosa di grosso sarebbe venuto fuori. Se lo sentiva. Lettore, se vuoi conoscere l'attrice che ha ispirato questo racconto, clicca qui. Il racconto è un tributo alla sua bellezza, carisma, personalità. Gli aspetti negativi sono introdotti per mere esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico. Il ruolo della protagonista va assimilato a quello dell'attrice rispetto a un film. La devozione alla persona in questione, da parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta. L'IMPERO DI VEVRISHA di Salvatore Conte (2016-2023)
Da lungo
tempo era insorta un'incomprensibile ostilità tra due meschini villaggi di Yoros. Il suo nome era Vevrisha.
Disinvolta cameriera nelle taverne di Lask, aveva acquisito importanza, forte della sua perversa prestanza. Matura, ma non vecchia, gestiva molto bene i suoi cinque decasoli. Vevrisha tentava in tutti i modi di imporsi, sicura di poter dominare la scena con i suoi modi aggressivi e le zinne grasse. Donne come lei - nello spento mondo di Zothique - erano rare: pertanto le spettava di diritto il sommo potere. Dandosi da fare in vario modo, aveva ottenuto il possesso di una bella casa sita nel bosco che divideva i due villaggi in lotta, Lask e Melk, e da qui dirigeva un manipolo di giovani lavativi, sognando di diventare sempre più potente.
Con le sue grosse zinne e i camicioni sbottonati fino all'ombelico, aveva acquisito i favori di Lask; quasi per riflesso, era
detestata a Melk. E per far questo istigava gli abitanti di Lask contro quelli di Melk,
affinché poi -
una volta impostasi su entrambi - potesse proclamarsi imperatrice. Tuttavia la paura, fino a quel momento, scoraggiò ogni iniziativa. Era dunque Vevrisha, Vevrisha Berdicev, a uccidere (!), spinta da una bestiale follia e dall'odio verso i villici di Melk. Una potente donnaccia aveva avvelenato i pozzi di quelle squallide contrade. Ora, però, si trovava alla loro mercé, sfinita da calci, bastonate e soprattutto efferati colpi di forcone, affondati impietosamente nel suo grasso ventre (!!), che l'avevano tumefatta, infilzata, sventrata e sbudellata; oltre a ciò, ancora aggrappata con le unghie alla vita, per finirla e umiliarla - senza pietà né ripensamenti per quella che comunque era una donna, maciullata e agonizzante - l'avevano legata per i piedi a un cavallo, con lo scopo di trascinarla come una carogna lungo la squallida pista. L'avrebbero portata fino a Lask, dove sarebbe giunta cadavere. Vevrisha conosceva il suo destino; però non voleva arrendersi; avrebbe lottato; le forme grasse l'avevano in qualche modo protetta e le davano forza; prima di morire voleva trascinare i suoi nemici con sé, offrendoli a Thasaidon. Aveva le budella di fuori, ma il cuore era illeso: la fortuna non l'aveva abbandonata del tutto, non era ancora crepata, poteva cercare di gestirsi. La sua stazza la proteggeva, conservandole una parvenza di vita; era una fortezza che al momento - pur presentando diverse brecce - neppure la morte riusciva a espugnare. La procace bambinaia teneva alta la testa e confidava nella complicità dell'oscurità e delle brusche curve che obbligavano il cavallo a rallentare. Lungo una di queste, presso il ciglio, riuscì ad afferrare un grosso ramo frondoso, caduto da poco. Con tasaidica furbizia, se lo passò sotto la schiena, per proteggere il corpo dall'attrito sul terreno, cercando di salvare il salvabile. Aveva capito che la stavano portando a Lask. Se riusciva ad arrivarci viva, sarebbe spirata fra le braccia dei suoi uomini. L'orgoglio di essere ancora in vita le metteva l'argento vivo addosso. Fu così, infatti, che giunse al villaggio dove era molto popolare. Il villico in groppa al cavallo non ci badò nemmeno, la grossa puttana non aveva alcuna possibilità di salvarsi. L'umiliazione era completa. Tagliò di netto la corda e se ne ritornò indietro. Lo strepitio del cavallo destò dal sonno gli abitanti di Lask. Subito accorsero intorno al corpo martoriato di Vevrisha, con grida di allarme e disperazione. Si accorsero con stupore che respirava ancora e cercava di parlare. «Ven...di...ca...te...mi...», sussurrò a stento, con la bava alla bocca. I villici di Lask non sapevano che lei stessa era stata l'orso furioso che uccideva i viandanti nel bosco. Perciò pensarono subito a un atto premeditato di Melk. D'altra parte, Melk stesso aveva dato per scontato che lei avesse agito per conto di Lask. Alla fine, Vevrisha aveva raggiunto il suo scopo. La rabbia dilagò come un'alluvione di follia. I più accesi, vistola ormai perduta, la caricarono su un carro, mettendola seduta a cassetta. Avrebbe guidato lei stessa, anche cadavere, l'assalto a Melk. Non ci fu nemmeno il tempo di ricomporle le budella. L'unica accortezza fu di vestirla come piaceva a lei e a tutto il villaggio di Lask: da grossa, invincibile puttana, con una camicetta allentata fino allo stomaco, che le ricopriva le budella maciullate fuoriuscite dalla pancia, in modo che il grasso seno la gonfiasse prorompente, rimanendo bene in vista, ricadendo a penzoloni sul ventre spanzato, quasi a tamponare le orrende ferite, ballonzolando morbido a ogni giro di ruota. Era una fine eccellente. Era un segno di potenza che Melk non aveva accettato, ma che ora li avrebbe distrutti. Vevrisha era legata saldamente contro lo schienale del carro, con una corda che le passava obliqua sul petto, pronta a combattere la sua ultima battaglia. La sua vista esaltò gli animi. Era sempre bella e il pallore mortale dell'agonia la rendeva ancora più intensa e struggente. Come prevedibile, vedendo la loro regina ormai cadavere, i popolani si
scatenarono, infuriando al seguito del carro lanciato sulla pista per Melk.
La sua guardia personale impediva a chiunque di avvicinarsi, prevenendo altri
colpi, nel caso avessero cercato di saldarle il conto; era fragile, un'altra
ferita l'avrebbe uccisa. Tuttavia, anche sul
letto di morte, benché stravolta dallo sforzo, continuò a
dare ordini.
Voi... siete un
esercito...». «Uomini di Lask...
io... non voglio crepare... la vostra regina... non accetta di morire...
per me... non... non è ancora finita… io... voglio... salvarmi…
io... ci credo... io... non rimarrò uccisa...», Vevrisha cercava di
infondere coraggio a quelli che ormai - dopo lo storico trionfo - considerava di
diritto suoi sudditi.
«Stavolta... dovrete farcela da soli...». Quando Vevrisha, avvicinandosi alla fine, andò definitivamente in crisi, cadendo con il capo all’indietro, gli occhi vuoti e fissi al cielo, dilagò il panico. Era pallida come un
cadavere, gli occhi marmorizzati, le labbra viola. Si diffuse la voce incontrollata che Vevrisha fosse spirata.
Ma non era
del tutto vero. Non ancora, almeno.
Era tenuta in fin di vita dalla sua ferrea volontà e dagli occulti rimedi di uno
stregone giunto dalle montagne circostanti. Provò ancora a parlare, a dare nuovi ordini.
«Non sono finita...», si ostinava a dire.
«E se anche crepo... mi mangio il
verme...». Mentre lei moriva, nasceva il suo mito. La spaventosa agonia di Vevrisha teneva tutti col fiato sospeso: sia i suoi seguaci che i suoi nemici. I primi sapevano di non valere nulla senza di lei, i secondi di non poterla sottovalutare. Vevrisha cercava in tutte le maniere di differire la morte. Se avesse trovato il modo di farla franca, ancora bella com'era, avrebbe potuto regnare per molti soli. Ma le orrende ferite erano mortali, lei lo sapeva: avrebbe fatto meglio a prepararsi, piuttosto che cullare stupide illusioni. Con i loro forconi, i villici infuriati l'avevano sbudellata, senza lasciarle scampo. Non c'erano chirurghi, se non a Faraad, e lo stregone delle montagne non poteva fare molto di più. La sua vendetta, però, intanto, l'aveva ottenuta. Il Re di Yoros non dormiva sonni tranquilli, chiedendo di continuo rassicurazioni sulla morte della tasaidica scrofa, della gran vacca di Lask, immaginandola lasciva Imperatrice di lungo corso nei suoi ricorrenti incubi. Oppure dominatrice per mari e per monti, con le grosse tette che gli scoppiavano in faccia. Vevrisha, invece, navigava a vista. I suoi l'alimentavano con cibi semplici, liquidi, assimilabili direttamente dallo stomaco, visto che le budella non c'erano praticamente più, o peggio erano sparse a caso nella sua grossa pancia da bagascia. «Il verme... è buono... è grasso... io... me lo mangio... e poi... io... mi mangio... anche... il Re... di Yoros...». LA REGINA MEGERA DI SHA-KARAG di Salvatore Conte (2017-2023) A forza di fare la puttana era diventata regina.
Si era lavorata con cura i notabili di Sha-Karag, li aveva convinti a dichiarare
l’indipendenza dalla capitale di Ustaim, Aramoam, e poi si era accordata con il
capo della milizia popolare. La città era divenuta indipendente, la città era la capitale di un nuovo Regno, Cavagna - la puttana maledetta - era la Regina di Sha-Karag. Qualche notabile si era adattato al cambiamento, altri erano stati liquidati col ferro! Il tempo - si sa - non fa prigionieri, e con il tempo la Regina Puttana era divenuta la Regina Megera!
Nonostante i tanti giri del sole che ormai si portava in fronte, Cavagna non riusciva a staccarsi dal potere, anzi era fermamente decisa a rimanere in sella al trono. In molti le avevano consigliato di abdicare, stava perdendo la presa, sia sui sudditi che sugli ambasciatori stranieri. Rischiava di essere fatta fuori. La tradizione imponeva alle regine di lasciare il potere - al più tardi - entro i 69 soli, ma Cavagna aveva estorto proroghe una dopo l'altra, con minacce e omicidi, arrivando così a ottenere ben 19 rinvii unisolari... Non poteva certo andare avanti su questa strada, ma non sembrava rendersene conto. Cavagna non ascoltava nessuno. Era convinta che il suo fascino sinistro facesse ancora effetto, sebbene portasse quasi 9 decasoli in fronte. Sostenuta dal suo fisico possente, Cavagna continuava a mostrarsi con scollature aggressive, assumeva filtri, utilizzava la migliore cosmesi, consultava maghi, faceva di tutto per non apparire decrepita, e in fondo ci riusciva abbastanza bene... C'era ormai chi fantasticava, attribuendole più di 10 decasoli; una cifra esagerata, ma rimaneva vero che la Regina dominasse su Sha-Karag, e sui vasti territori circostanti, da oltre 6; la maggior parte dei sui sudditi era nata sotto di lei, in moltissimi erano nati e morti sotto la sua corona, e praticamente nessuno aveva memoria d'altro potere supremo che non fosse il suo. Cavagna non si sentiva finita. Corteggiava assiduamente Thasaidon, si prostituiva oscenamente al Dio, per prolungare la sua malsana esistenza e apparire ancora bella, nonostante l'età da megera. Per dimostrare la sua potenza, a sé stessa e ai sudditi, perseverava nei suoi banchetti e nelle sue orge thasaidiche con giovani amanti, anche fanciulli; e continuava a compiacersi del suo perverso potere, della sua immortalità, e della sua bellezza rugosa, eterna, mummificata, imbalsamata, destinata a preservarsi con l'aiuto di Thasaidon. Era ancora potentissima. Eppure doveva rassegnarsi: a Zothique era considerata la Regina Megera!
Fu così che la vendetta
di Aramoam - benché impacciata, rallentata dalla corruzione - cominciò a
prendere forma. Vista l'ampiezza del passaggio, una vecchia cloaca in disuso, Cavagna non aveva rinunciato alla sua lettiga. Era scortata da un manipolo di guardie, tutte sessualmente devote. Un mulo trasportava un pesante carico d’oro e gemme preziose.
All’uscita del condotto, però, si rese conto che il passaggio non era poi tanto
segreto. Gli assalitori non erano molti. La Regina si illuse di poter avere partita vinta, di salvare sia la pelle che l'oro. Ma quando la tendina si aprì senza il suo permesso, capì che non tutto filava per il verso giusto. «No! Che fai...?».
Un
mercenario nemico la minacciava senza ritegno con una rozza daga. Provò a bloccargli il braccio, ma quello le assestò un colpo fatale, spingendo a fondo la lama nel ventre molle e senile.
Cavagna trattenne il fiato, attonita. Le era rimasto addosso un linguaggio da puttana. Eccitato da quella superbia, dallo sguardo allucinato della vecchia megera morente, il mercenario rimase ipnotizzato a fissarla. Il volto sbiancato all’istante, per il terrore di morire. «Mi dispiace, Regina... io... io... non volevo... perdonatemi...». Cavagna annuì col capo, come a esprimere il suo consenso. SWISH Il giovane soldato, eccitato da morire, estrasse la daga con gesto rapidissimo, per non farla soffrire. Avrebbe voluto aiutarla, ma per lei non c'era più nulla da fare. Cavagna crollò sulla schiena. «La Regina è morta! È stata uccisa!», urlò il mercenario, in stato confusionale, esibendo la daga grondante sangue marcio di megera. Le poche guardie superstiti, ormai demoralizzate, furono rapidamente sopraffatte e massacrate. Uno degli schiavi al seguito espose il petto al mercenario che aveva giustiziato Cavagna, considerata un'usurpatrice dalla legge di Ustaim: voleva morire con la stessa daga. «Sei un valoroso...». SZOCK Quello capì subito e lo accontentò. «Padrona...». Era un antico gesto di devozione. Lo schiavo, agonizzante, crollò addosso alla lettiga. «Idiota...», mormorò la Regina morente; per lei era inconcepibile buttarsi via così. Era rimasta una puttana, anche da megera. I mercenari di Aramoam, tranne quello che aveva ucciso Cavagna, si volatilizzarono con il mulo; in fondo, il loro lavoro l’avevano fatto. Gli schiavi non sapevano cosa fare. Si guardarono. Nel dubbio, fecero quello che facevano di solito: trasportare la lettiga della Regina. Il posto dello schiavo ucciso fu preso dall'assassino. E come se niente fosse, tornarono in città dalla porta principale.
Sha-Karag era caduta insieme a Cavagna. Una folla disordinata si ammassò intorno alla lettiga. Il comandante di Aramoam raggiunse il posto. Aprì le tendine e trovò la Regina accasciata a pancia sotto, sventrata e annegata nel proprio sangue. Lasciò aperto e tornò dai suoi uomini, che stavano reprimendo gli ultimi focolai di resistenza. La notizia dilagò in un attimo. La massa premeva sulla lettiga per vedere la Regina da vicino. Aveva ancora degli spasmi. Ma
nessuno aveva il coraggio di toccarla.
«Zitti! Zitti!». «Bastardi...», tremava. «Sono morta... per darvi potere...». Non le uscì altro. Ansimava gutturale, in fin di vita. Gli occhi spenti si stavano fissando sul nulla. Quella visione funesta sembrò agghiacciare la folla. Si fecero strada due popolane, animate da sentimenti opposti. «È fottuta, è fottuta!», gridò una di quelle, mentre l'altra
si chinava sul corpo, intenta a portare conforto alla morente, tamponandole il
sudore freddo dell'agonia. Era pur sempre la Regina ed era finita scannata. Un colpo profondo, per ucciderla senza lasciarle scampo.
Era la Megera che li aveva spremuti fino
all'ultima moneta, ma la crudeltà dell'esecuzione aveva passato il limite:
Cavagna era una bella
mummia, una vera Regina sotto questo aspetto, e intravederla
con le budella di fuori aveva impressionato la folla.
Sconcerto e rimpianto si facevano sempre più
palpabili. di Salvatore Conte (2010-2020) La fisso dritto negli occhi...
Dai più raffinati è detta Chana Efesina, perché - indossando reggiseni molto più piccoli delle sue tettone - sembra avere quattro mammelle. A cinquant'anni, comunque, è ancora una bella donna. Vorrei continuasse a portarli bene anche alla fine della serata. La sua azienda e la sua pancia si allargano sempre più; adesso pappa pure sulla tratta di giovani esseri umani.
Questa sera sono venuto a trovarla nel suo losco night-club, attaccato ai docks, per proporle un buon affare: la sua vita in cambio di Chloe,
una bambina di dodici anni che devo riportare ai
genitori. Sono nel suo ufficio, sul retro del locale, nei bassifondi del porto. E so che in uno dei container in attesa sul molo è nascosta la ragazzina. Deve dirmi quale. Lavoro in proprio, devo restituire un favore, stasera non faccio buone azioni per il cattivo nome della Compagnia. Chana è seduta arrogante dietro la sua scrivania: indosso soltanto il costumino da troione inadatto alle grosse tette. Non nascondo di essere un suo fan, ma se necessario, questa sera le faccio esplodere la pancia. Alla mia sinistra - su uno sgabello - c’è uno dei luogotenenti del boss: Romina Lopez. È una gran sgualdrina, già sformata benché giovane, ma con grosse zinne e occhi infuocati; si tiene una glock con silenziatore tra le cosce, a mo' di fallo dritto, e un cappello da poliziotto in testa; alcolizzata, eroinomane, psicopatica, se non la uccido io stasera, difficile comunque che arrivi a compiere trent'anni. Alla mia destra - appoggiata col culo alla scrivania del boss - c'è l'altra sgualdrina-killer della Welch: Nada Giansanti, italiana doc. È un grosso puttanone, non certo di primo pelo; la magliettina verdognola è talmente attillata che le bombe sembrano sul punto di scoppiare; si tiene una uzi in mostra sulle cosce, con l'aria di avere una gran voglia di usarla contro di me. Gran puttane tutte e due. Anzi tutte e tre. Difficile scegliere chi ammazzare per prima. Sta di fatto che mi ritrovo nel bel mezzo di un gineceo criminale. Ma un'eccezione c'è. Quasi di spalle, a guardia della porta, c’è uno scagnozzo con il revolver infilato nei pantaloni. «Sei ancora una grandissima puttana», cerco di essere diplomatico. «Lo prendo per un complimento».
«Lo era.
Comincia a ridere.
«Mr. Jameson è proprio un cazzone…», la
Lopez pure. POW Il primo colpo - con un gesto minimo, la mano in tasca - finisce nella pancia del boss, passando sotto la scrivania. Nessuno finora aveva avuto il coraggio di farle esplodere la pancia! Chana è letteralmente sbigottita.
L'ho sfondata. La Welch rovescia la testa sulla scrivania: cazzo, ci sono andato giù parecchio duro! Spiace trattare così una signora, ma se l'è voluta.
Nada afferra la uzi e me la spiana contro, pronta a colpire... RAT-RAT-RAT Lo scagnozzo viene sbalzato contro la parete dalla violenza della raffica. È rimasta solo la messicana, ma devo cercare di non ammazzarla, perché di sicuro sa dove sia tenuta la bambina. La Lopez, però, non sembra preoccuparsi troppo della puttana che mi fa da scudo, anzi... sembra intenzionata a regolare qualche vecchio conto. «No!», la Giansanti fa bene a preoccuparsi. FLOP La bruna infatti fa fuoco, bucando per la seconda volta la pancia di Nada: la ciccia dell'italiana assorbe il colpo e mi lascia illeso. POW Romina, così facendo, mi costringe a spararle. Un colpo all'addome: la ristretta porzione visibile, non ricoperta dalle tettone, grasse e cedenti, che le spiovono sul ventre. Può bastare: avrà tempo di parlare. È tutto finito. La sgualdrina-killer spalanca la bocca e incrocia le braccia sulla pancia: il colpo è arrivato, e anche una bestia matta come lei l'ha sentito. L'ufficio è isolato, i regolamenti di conti frequenti: nessuno verrà a ficcanasare. Avrebbero dovuto prendermi sul serio.
Ora, prima di morire, qualcuna dovrà parlare. Lancio uno sguardo al boss e ho come l'impressione che, adesso, gli anni non se li porti più tanto bene. «Sei impazzito... potevamo metterci d'accordo...». «C'ho provato». «Forse mi hai ucciso...». «Forse farai in tempo ad arrivare in ospedale, se mi dici quello che voglio sapere». «Non voglio... finire dentro...». «Penserò anche a quello, se mi dici...». «Quello che vuoi sapere...». «Ecco, brava». «Avvicinati...
La bambina... si trova... nel
container... numero...». Sul manico è scolpita una maschera africana. È tanta roba anche per una come lei.
Romina accusa il colpo e strabuzza gli occhi. «Mi dispiace, te la sei voluta». La bruna tiene la bocca spalancata, in cerca d'aria, per assestarsi. «Non te lo toccare, o sarà peggio: lo estrarranno all'ospedale». Annuisce con un breve cenno del capo, il volto tirato, un rivolo di sangue dal labbro. È una bella ragazza, peccato sia una drogata psicopatica. È il momento di provare con Nada. Ma stavolta senza perdere tempo. Anche lei deve conoscere il posto.
Aggrappandosi all'esperienza e al fisico, sta gestendo le due pallottole.
«Avanti… portami dalla bambina, adesso.
L'italiana riga dritto, ho già in macchina la
ragazzina.
SKREEK...
La tengo sotto mira con il mio revolver. È Romina! Stavolta l'ammazzo! POW FLOP CRASH L'anticipo di un niente, il suo colpo parte per la tangente e manda in frantumi il suo stesso parabrezza. Una pallottola nel fianco le raffredda i bollenti spiriti. Mentre mi avvicino, il petto va giù pesante. Stavolta la drogata è fottuta sul serio. Ha ancora il fermacarte in pancia, sacrificata a chissà quale dio.
Tiene gli occhi fissi sul parabrezza mancante, ma respira ancora. È commovente: si preoccupa per il boss, più che di sé stessa. «Ragazza... l'hai vista tu per ultima, ma ho paura che...».
«È stata buona con me...
baciami…». «Niente coltelli?». È troppo tesa per sorridere. Sta aspettando il bacio. Niente da fare, le vecchie scene vanno cambiate. «Bacia questa», le appoggio alle labbra la fiaschetta del whisky; un classico anche questo, ma sempre efficace; soprattutto con un'alcolizzata.
Le ambulanze diventano due, andrà a morire in ospedale.
«Jameson... portarsi con massima urgenza in sito X9. Tale Chana Welch, confidente di fiducia, è rimasta uccisa. È stata rinvenuta cadavere da personale medico a seguito di sparatoria, presumibile regolamento di conti. I responsabili dovranno essere eliminati. La stiamo trasferendo nel sito per attivare la procedura di rianimazione forzata. Le coordinate stanno arrivando. Tu segui il corpo e assicurati che nessun elemento esterno peggiori la situazione». Peggiorare le condizioni di una morta... «Ricevuto». È fatta, ho pestato una cagata d'elefante.
Ecco perché rideva sguaiata. Ne sapeva più lei di me che io di lei. Ma non volevo ammazzarla, lo giuro. Le circostanze sono state fatali. Davvero era ancora una grandissima puttana. Non si aspettava di rimanere uccisa, si è fatta cogliere impreparata. Ma ora sono io quello che rischia: dovrò chiederle scusa. Lettore, se vuoi conoscere l'attrice che ha ispirato questo racconto, clicca qui. Il racconto è un tributo alla sua bellezza, carisma, personalità. Gli aspetti negativi sono introdotti per mere esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico. Il ruolo della protagonista va assimilato a quello dell'attrice rispetto a un film. La devozione alla persona in questione, da parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta. di Salvatore Conte (2017-2020) Julia Lopez è una grossa puttana.
Mi sono rivolto a lei perché è un’inserviente tutto-fare: sesso, droga e rock
'n' roll; ha due grosse tette e tanta voglia di fare. Nel giro è detta Piranha per la sua avidità.
«Sei una bella puttana, ma domani parto. È lavoro». A missione conclusa, mentre sto tornando dalla mia Bella per farle una sorpresa, la sorpresa la fanno a me: con un biglietto mi avvisano che avrei ritrovato il corpo di Julia nel bosco dell'albergo.
Una vendetta. O una trappola. O entrambe le cose. Lettore, se vuoi conoscere l'attrice che ha ispirato questo racconto, clicca qui. Il racconto è un tributo alla sua bellezza, carisma, personalità. Gli aspetti negativi sono introdotti per mere esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico. Il ruolo della protagonista va assimilato a quello dell'attrice rispetto a un film. La devozione alla persona in questione, da parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta. di Salvatore Conte (2012-2017)
Non vedeva l’ora di fare un bagno caldo.
Kelly Maddox, l’incommensurabile biondona baciata dalla sorte,
è sorpresa nella vasca da bagno da uno spietato killer.
Ma non basta: il killer punta ancora.
Non c'è ancora tregua per Kelly: il killer non è soddisfatto.
La Maddox si agita come un'anguilla, ma ormai la vasca si è tinta di rosso... Lo vede anche lei.
Le pallottole fanno tutte male, ma quella in pancia, nell'utero, è insopportabile...
Kelly comincia a rilassarsi.
Le forze scemano.
Ma anche queste se ne vanno, purtroppo per Kelly.
Poi la destra… che va alla deriva come la stessa Maddox...
Ma le sorprese non sono finite: con un colpo di coda, Kelly si
scuote e riporta le mani sull'estrema linea di difesa…!
Il killer, che era rimasto a osservarla, a questo punto si
infuria. Il piombo non gli manca.
La Maddox sta per affogare nel suo stesso sangue, ma il killer non ha ancora udito l'ultimo rantolo e la testa della biondona rimane sopra la linea dell'acqua...
Benché per lei sia chiaramente finita, il killer non è
soddisfatto...
La povera Kelly Maddox è morta ammazzata nel suo stesso
sangue.
Scossa da un estremo spasmo, la biondona è riemersa dall'acqua!
La ritrova con la nuca appoggiata al bordo, gli occhi vaghi, le braccia abbandonate, e tanta merda di sangue che le è uscita dalla bocca. Ancora non capisce se è stata la pressione dell’acqua a rovesciarla faccia in su. Ma sembra cosciente. Il killer non sa più cosa fare per sopprimerla, non ha più il coraggio di infierire. È superstizioso, l’inferno non la vuole. E lui non ama contraddire il demonio. D'altra parte, la biondona non ha scampo. La troveranno dissanguata nella sua vasca, imbottita di piombo. Alla bella Maddox vuole concedere un ultimo atto di galanteria. Le ricompone alla meglio la camicetta, le allaccia le mani sul ventre, e le soffia aria in gola. È un codice della malavita, riservato alle belle donne. Hai sofferto abbastanza, Kelly. Può bastare. La doccia fredda è finita. Ti basta, Kelly? Per provarci ancora? Dal colore della tua faccia si direbbe che è troppo tardi, ma a una come te - che tiene per le palle il diavolo - conviene provarci. Lui sa che non te lo farai ripetere. Adesso può andare. Forse partirà anche una telefonata. Per vedere se il committente vuole ripensarci, spiegata la situazione. «Le ho messo dentro sei pallottole! Tre o quattro sono mortali! E la testa sott'acqua... Ma tira ancora avanti, è qui, in fin di vita. Il nostro codice prevede che...». E poi un'altra per capire se si fa in tempo a mandare qualcuno. Ma se la lascia sola, sa che verrà ritrovata cadavere. È costretto a rimanere. Quando vede che le mani si allentano, va su di lei a rimetterle insieme, fino a quando non reagisce. Lo sforzo della Maddox è sovrumano, ma fa di tutto per tenersi una parvenza di vita addosso, lusingata dal bonus concessole dal killer. Non chiede niente. Sa già tutto. Perché è stata uccisa e perché ora si cerca ora di farla sognare un po'. Sa anche, però, che possibilità vere non ce ne sono. Il killer ha avuto la mano pesante, nonostante la sua galanteria. E neanche una come lei può farcela. Ma almeno crepa sperando in qualcosa. La doccia è meno fredda. E se il diavolo, perché no, ci mettesse lo zampino... Di certo Kelly Maddox non rinuncia al bonus. Spalanca la bocca e cerca aria. Morirà solo così.
Lettore, se vuoi conoscere l'attrice che ha ispirato questo racconto, clicca qui. Il racconto è un tributo alla sua bellezza, carisma, personalità. Gli aspetti negativi sono introdotti per mere esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico. Il ruolo della protagonista va assimilato a quello dell'attrice rispetto a un film. La devozione alla persona in questione, da parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta. MORTE SUL CONGO di Salvatore Conte (2017-2018)
Nessuno è mai veramente vissuto nel Primo Secolo. Non i romani, non i cristiani. Roma non si è fatta in un giorno, all'inizio non era così importante, ci sono voluti secoli affinché avesse un primo secolo, col senno di poi. Cristo è divenuto importante nel quarto secolo dalla sua invenzione e ha avuto un primo secolo solo nel sesto. Oggi, invece, dopo quello che è successo, siamo davvero nel Primo Secolo.
Nel
Ventunesimo Secolo dall'invenzione di Cristo e nel Ventottesimo dalla nascita
mitica di Roma, il conflitto mediorientale è
degenerato in una rappresaglia nucleare tra le grandi potenze mondiali.
Sono messe al bando
tutte le armi di distruzione indiscriminata; in sostanza, tutte le bombe,
missili e cannoni. I massoni sono impalati sulla punta di un grosso compasso.
È
in mezzo a tutto questo che naviga - tra i
molti altri - un certo Mark Robson.
La bandiera della Repubblica sventola per mera
nostalgia.
Robson non è stato colpito, ma la sua socia bulgara, Margot Berdicev, ex prostituta, si è ammalata di brutto; un aggressivo tumore maligno si è allargato per i suoi intestini; una bomba a orologeria sta per esploderle in mezzo alle budella; l'ascite le è finita in bocca.
Invecchiata ma non finita, scavata ma non smagrita dal cancro, la bulgara prova a rimanere operativa, anche se la
situazione si è fatta critica. La Berdicev non si rassegna, vuole tentare ancora, salvarsi a tutti i costi, ma non nasconde di avere paura; il tumore può darle il colpo di grazia raggiungendo il pancreas; ed è per questo che - con un ecografo portatile - si controlla due volte a settimana.
Detesta
la prospettiva di finire nelle grinfie di qualche negromante, ultima
spiaggia per tenersi addosso una parvenza di vita.
Non aveva
la tua energia, Margot. Siamo nel Primo Secolo.
Dobbiamo farci forza
insieme, non possiamo fuggire da nessuna parte». Ci sta.
«Dicono tutti così», un po' di veleno in coda. «Fatti anche tu un controllo, potrebbe esserti utile...».
Margot è sempre combattiva, anche se adesso è vulnerabile,
e deve stare attenta. Il contatto presenta Chana Godrich, una biondona lardellosa, strizzata in una camicetta che è poco più di un succinto corpetto.
Deve raggiungere
l’interno. Probabilmente servirà ad esaltare gli uomini di qualche capo-tribù,
mandandoli a morire per lui.
Nel Primo Secolo non esistono monete
ufficiali. Tuttavia alle tribù dell’interno non fanno difetto oggetti preziosi
di vario tipo. C’è la possibilità di fare un bel colpo. Di solito rispettano i
patti e pagano bene.
Sulla Congo Star si imbarcano in sette, dunque.
I morti potrebbero vegliare tutta la notte, ma
non devono rammentarsene.
Tu stata mai con uomo venuto da Lete», il linguaggio dei cadaveri è
semplice, come quello parlato da uno straniero; in effetti, nella tomba si parla il
silenzio, il Lete cancella tutto, i morti ricordano poco della loro vecchia
lingua e non hanno più la mente per apprenderla di nuovo.
Ma quando Locusta le fa notare che non bisogna essere scortesi con i cadaveri, perché sanno cose agli altri ignote e sono apprezzati anche per questo, allora torna subito da lui. Preferisce chiederlo a un estraneo, piuttosto che a Wilker. «Scusa se sono stata un po' brusca...», lo riaggancia così.
E gli chiede ciò che la ossessiona.
Voglio solo sapere se sono fottuta,
e quanto manca». Ciò li rende lenti nei movimenti, ma sicuri di sé. Watson si avvicina, le va incontro. Sembra non abbia capito niente.
E invece... «Hai qualche dolore, Chana?», la negromante ha notato che si tocca lo stomaco. «Niente... solo una sensazione», sembra quasi infastidita dalla domanda. «Non farci caso». Ma una maga come Locusta non sottovaluta niente. La fissa e trae il responso: in quel punto Chana si beccherà una brutta pallottola. Potrebbe costarle la vita.
La Star incrocia
il Lulonga, affluente di sinistra del Congo, e fa rotta per
risalirlo.
BANG
BANG «Io devo curarmi, non prendere piombo per una troia», mormora tra sé la bulgara. Margot ingrana la retromarcia e cerca di arrivare alla Congo Star per mettersi al riparo. Salta dentro e si sente quasi al sicuro. BANG BANG Un belga ha abbordato la barca a nuoto e si è ritrovato faccia a faccia con Margot. E prima di essere centrato in fronte dalla procace bulgara, le ha sparato un colpo in pancia!
La
bellona strabuzza gli occhi, incredula, e - sentendosi mancare per lo shock -
barcolla malferma, prima di stramazzare in avanti. La raccoglie e la trasporta sotto coperta.
Da lì a poco lo scontro ha termine. Botor chiama subito Robson. La bulgara annaspa disperata, con la bocca spalancata e la lingua di fuori. È ancora sotto schok. Lui le mette un ventilatore a pale in faccia, per smuoverle l'aria.
Si riprende leggermente.
E le fa vedere i messaggi su IChat, la chat
globale del Primo Secolo.
Ma tu
hai avuto
paura... ormai non ragioni più».
Mi rimpiangerai... Mark...». «Non è cinese, e tantomeno una cinesina». «Lo era, prima di rifarsi le tette. Le mie sono okay..», e gliele fa sentire, spingendolo col petto. «Un duro come te potrebbe farmi comodo. Sono io che comando qui: te ne sei accorto?».
In
effetti
Chana Godrich non è una semplice mercenaria-sexy. Sa che è venuta per lei.
«Calmati,
Margot.
Non vedo altre soluzioni».
Può bastare, quindi?». Le notifiche sono attive, si parte.
Si riprende il
Lulonga in direzione Basankusu.
Il dialogo a distanza tra
Margot-proxy e
Lee Chan prosegue serrato.
Intendeva raggiungere Basankusu, ma poi è
scoppiato il finimondo.
Per chiudere drasticamente con il passato, è punito con
la morte chi presta cure, anche efficaci, dietro promessa o versamento di
utilità economiche. Dopo uno scossone del genere, attaccherà di sicuro il pancreas, uccidendola in pochi giorni. Quando arriva al pancreas, lo sai, è fulminante... Inoltre l'età era quella di una baldracca, ormai.
Non penso tu debba avere rimpianti,
Mark». E l’amaro è quello. L'ex operativo CIA sente che sta lottando con tutte le sue ultime forze. «Io vado da Lee e me la riprendo». «Il cinese non te la ridarà nemmeno morta. E poi c'è Chana che ha chiesto di te: è stata ferita gravemente nella battaglia. Ha preso una brutta pallottola nello stomaco». Ma Robson ha scelto. E la Congo Star corre sul Grande Fiume. Lettore, se vuoi conoscere l'attrice che ha ispirato questo racconto, clicca qui. Il racconto è un tributo alla sua bellezza, carisma, personalità. Gli aspetti negativi sono introdotti per mere esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico. Il ruolo della protagonista va assimilato a quello dell'attrice rispetto a un film. La devozione alla persona in questione, da parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta. AMISTAD EXPRESS di Salvatore Conte (2017-2018)
Dopo l’ultima avventura sul Congo, l'ex operativo CIA Mark Robson ha deciso di rimpatriare. Ha quindi costretto il suo malridotto cargo ad attraversare l’Atlantico per raggiungere la foce del Rio Grande, ribattezzandolo Amistad Express, come il grande lago di cui il Rio Bravo è tributario. Attraverso IChat si è accordato con una potente ranchera del Texas, una certa Lola Ramos, che con i suoi uomini controlla una sponda dell’Amistad; è una giovane vacca dal sangue caliente, almeno a giudicare dalle foto.
Locusta, la sua socia negromante, può fornirle i cadaveri di cui ha bisogno, da pescare soprattutto nei cimiteri del Vecchio West. Nel Primo Secolo l’America è il continente che è cambiato di più, tornando un po’ sé stesso. Lo shock della Rappresaglia Nucleare tra grandi potenze ha cambiato il mondo. L’accordo segreto per limitarsi a uno scambio di bombe tattiche è sfuggito di mano, la rappresaglia - sia pur fulminea - è stata devastante. I fumi radioattivi hanno coperto l’intero pianeta, nessuna zona è andata esente da contaminazioni. Un senso diffuso di morte ha ammantato il mondo, la negromanzia è divenuta la principale disciplina scientifica. Non avendo più molto da perdere, la massa globale si è sollevata, scrollandosi di dosso le autorità costituite. Un po’ per i limiti imposti dalle nuove norme convenzionali, che vietano l’uso di qualsiasi tipo di bomba, un po’ per il rifiuto della modernità e la riscoperta delle tradizioni, la vecchia colt 45 detta ancora legge, specie in Texas. D'altra parte, gli stregoni indianinativi, che hanno sempre avuto confidenza con i misteri della morte, hanno assunto un ruolo di grande importanza, dopo la diffusione della negromanzia su scala mondiale.
Inoltre, appartenendo a popoli che hanno sofferto genocidio, possono vantare enormi riserve di morti incazzati. Ucciderli non è servito a niente. Anzi ha peggiorato le cose. Nel Primo Secolo le banche e le strutture pubbliche non esistono più. I gruppi organizzati hanno come obiettivo il dominio del territorio. Robson risale il fiume fino al lago, trasferisce la barca e la ormeggia presso il porticciolo di Box Canyon, sulla sponda nord, dove incontra di persona la Ramos. È davvero una giovane vacca dal sangue caliente: le foto erano oneste. «Qui se non si diventa amici, si diventa nemici», spiega la messicana. Regna infatti sul Lago dell’Amicizia, l’intero Texas vuol dire la stessa cosa. La bella Lola - sfruttando il caos non preordinato seguito alla Rappresaglia Nucleare - è riuscita facilmente ad imporsi; d'altronde, nel Primo Secolo, la sessualità femminile è divenuta immensamente carismatica, quasi indispensabile, in quanto necessaria a compensare l’aura tenebrosa di morte che aleggia ovunque. Il Primo Secolo per Lola Ramos è stato un buon affare. Se si eccettua, naturalmente, il tumore all'utero che la consuma da mesi. Ha scritto a Robson che riesce a tirare avanti, e vedendola - malgrado un pallore funesto in faccia - si può dire che non abbia esagerato. Il mostro è però in agguato, pronto ad esplodere e a scatenare un parto malato e orripilante che può sorprenderla ormai da un giorno all'altro. D’altronde, nel Primo Secolo dalla Rappresaglia Nucleare, oltre il 90% della popolazione mondiale è affetto da cancro. Lola Ramos è un donnone che non vuole mollare la presa. Balla ancora la vaccona messicana, in bilico sul precipizio della morte, nemica fatale e invincibile, che lei, però, riesce tuttora a controllare. Nel Primo Secolo si vive alla giornata: la prospettiva di avere altri tre mesi a disposizione è considerata un successo. «Ehi, Lola…». «Che vuoi, Robson…». «Questo è un ecografo portatile, e so come usarlo. Mi sembra opportuno controllare il tumore. Non vorrei che la nostra società si sfaldasse subito…». «Perché no? Verifichiamo che il pancreas sia pulito». «Che problemi ti dà?». «Giramenti di testa, vomito, emorragie, il solito…». «È bello grosso… dovresti star peggio di come stai…». «Perché, come sto?». «Stai bene, Lola… stai molto bene… Il pancreas è pulito. Se fossi un medico della vecchia era, ti darei altri tre mesi, salvo complicazioni». «Ma non lo sei, perciò stai zitto». Nel Primo Secolo il tumore è talmente comune da essere considerato come uno stato influenzale: tutti o quasi sono obbligati a conviverci, perciò l’impatto psicologico della malattia è meno devastante. La morte incombe su tutto, fa meno paura di una volta, anche se i malati, come sempre, lottano fino all’ultimo, cercando di sfuggire al loro destino. Se una volta i più previdenti si preparavano la tomba, oggi si sceglie un negromante di fiducia e si paga un’assicurazione sulla morte: all’atto del decesso i famigliari non potranno opporsi al ritorno dal Lete. Le suocere sono ormai immortali, neanche la morte scioglie i matrimoni, nessuno uccide più per l’eredità, in pochi lavorano per vivere, il curriculum mortis dev’essere sempre aggiornato e attraente, se si vuole trovare un’occupazione a eternità indeterminata. «Appena avrò gli uomini che mi hai promesso, ci daremo da fare: voglio il controllo dell’intero lago…», lo avverte la Ramos. «E la storia dell’amicizia, che fine ha fatto?». «Quella? Te l'ho raccontata: chi non mi sarà amico, mi sarà nemico».
Nella squadra di Robson ci sono sempre Botor, il possente congolese non più indigeno, il vecchio amico Fred, deceduto dopo una lunga malattia, la bella negromante Locusta, che fa rivivere i morti e morire i vivi, e naturalmente la sua maledetta ossessione: la bulgara Margot Berdicev, ex prostituta con un male incurabile, fuori controllo, che la sta scavando e uccidendo, dopo averla immobilizzata in una cabina dell'Amistad Express. Ha capito di amarla quando l'aveva ormai persa. L'ha così strappata al cinese Lee Chan e ne ha dilatato la morte, aiutandola a tirare avanti e a sopravvivere a una pallottola in pancia. Adesso, però, sembra arrivata alla stretta finale: Robson passa molto tempo con lei, cercando di farle intravedere qualche possibilità. La cura in tutti i modi, imboccandola con frutta fresca, alimentando insieme a lei la sua malata ossessione. E quando non c'è lui, c'è Botor. Margot non rimane mai sola con il suo mostro.
L'ex operativo CIA le ha messo a disposizione, oltre a comuni cadaveri di vecchi pistoleri, una strepitosa testa calda: il Generale Custer! «Non era un colonnello?». «Ha fatto carriera nella morte». «Spiegami una cosa... sei arrivato fino a West Point, Robson?». «Non ce n’è stato bisogno. Da quelle parti riposa un semplice caporale: hanno preso uno scheletro a caso e gli hanno messo addosso i gradi da generale. Locusta ha invocato i Mani di Custer e lui stesso ci ha rivelato il luogo della sua sepoltura». «Preziosa questa tua socia... ma ricordati che il peso ha la sua importanza...». L'allusione alle proprie tette, rispetto a quelle della negromante, è esplicita e rafforzata da un breve gesto. «George… non sappiamo con esattezza quanti nemici troveremo sull’altra sponda del lago. Tu non farti fregare un’altra volta, claro?». «Anche tu?! Bada, ragazza. Io sapevo bene quanti musi rossi avrei trovato! Avete scritto un mucchio di stronzate! Se quei codardi dei miei colleghi avessero colto l’occasione, li avremmo spazzati via. Volevo tenerli impegnati per un po’ e ci sono riuscito! Nonostante fossimo uno contro cinquanta!». «Non scaldarti tanto, gringo. Avrai presto l'occasione per riscrivere la storia».
La cosmesi mortuale ha di gran lunga superato, per importanza, quella tradizionale. L’età attorno alla quale si assesta il cadavere è quella della più compiuta maturità, anche se non raggiunta in vita, oppure abbondantemente oltrepassata; ciò avviene allo stesso modo di una comune canna, che sia pure sbattuta dal vento - da una parte o dall’altra - ritrova sempre la sua posizione ideale, nello stato di quiete. «Sei pronto, dunque?». L’attacco è imminente. L’obiettivo è Playa Tlaloc, sulla riva sud, quella che nella vecchia epoca era la sponda messicana. La Ramos sbarcherà un centinaio di uomini, tra cavaderi e viventi, e coglierà di sorpresa la banda del Puerco. L’Amistad Express sarà l’ammiraglia della flottiglia e avrà l’onore di vederla a bordo. «Lo sono sempre…». «Bene, lo vedremo».
Ti tratti bene, Lola…». La bella vacca messicana si fa pungere senza battere ciglio. «Credi che voglia crepare? Ma non è quel che si dice uno stallone. Non ce n’è per tutti. Schizza il suo sperma solo una volta al giorno. E serve tutto a me… me lo succhio io…», lo fissa con occhi malati, nella chiara volontà di soggiogarlo. «Quanto mi rimane, secondo te?», sbloccandosi. «Dipende tutto dal pancreas. Se rimane pulito, puoi lottare ancora». «Altrimenti...». «Altrimenti è finita in pochi giorni...». «Anche per una come me?». Si avvicina, ma non la guarda con compassione. «No, certo... una come te... anche se il tumore è molto grosso… e arriva al pancreas... ma mai grosso... quanto me lo fai venire tu, Lola…», i grossi seni le spiovono penduli, gonfiando bene la blusa attillata. È una gran puttana. «Sporcaccione». «L’importante è tirare avanti, lo sai come funziona. È un problema che hanno tutti». «Tu, no…». Si tocca per scaramanzia nelle parti intime. «Ormai manca poco... lo sento... è grosso, mi ha invaso, sto morendo... attaccherà anche il pancreas... e rimarrò fulminata... Sono nervosa... ho bisogno di scaricarmi…», lo guarda allusivamente e si avvicina anche lei. «Una come te non può essere spaventata da un banale tumore», le stringe i fianchi e si fa strusciare dalle grosse zinne. «Mi piace sentire paura, non me ne vergogno. Mi eccita, come tante altre cose… Ascolta, Mark... non mi rimane molto... ma non è detto che sia finita...», sembra alludere alla negromanzia. «Tu mi capisci, vero? Io e te, insieme, possiamo dominare il mondo... per sempre...». «Tu tieni a bada il tumore; al resto penso io, Lola...», e abbassa il capo - in mezzo ai seni - in segno di sottomissione. C'è riuscita, l'ha soggiogato. La gran vacca messicana non perde un colpo. Adesso è il turno del Generale. «Ti offendi se ti chiamo zombi?». «Mi chiamo George Armstrong Custer… e non sento nostalgia del Lete… sono più vivo di tanti vivi». A parte la temperatura più fredda e un leggero lezzo di tomba, quando il processo di rigenerazione dei tessuti si completa, i morti ben tenuti non sono molto diversi dai vivi. Rimanere morti, però, non è così facile come può credersi. Anche per loro non mancano le insidie. A parte il vecchio rimedio del sangue - che li attira e conserva su questa terra, ma che è sempre difficile da trovare - gli è necessario rimanere costantemente attaccati alla nuova vita, o la nostalgia del Lete può prendere il sopravvento in qualunque momento. Perciò i morti non si frequentano volentieri tra loro e stringono spesso matrimoni misti. Devono mangiare anche se non ne hanno bisogno, giocare, ridere e mantenersi impegnati. Ma soprattutto devono scopare ossessivamente, trovandosi uno stallone da cavalcare o una vacca da mungere. Sta di fatto che Custer la guarda fisso. In genere farlo con un morto non è percepito come un tradimento dal partner vivente, perché questa funzione dello scopare - umanitaria, sociale e taumaturgica - rende l'atto più un dovere che un piacere, un po’ come ai tempi della prostituzione sacra. «Sei pronto a darmi una grande vittoria, George?». «Ho voglia di rifarmi». «A ovest potrai vendicarti sugli indiani, ma intanto ti rifarai su una banda di fottuti messicani, claro? Attento, però, ai ricorsi della storia: non farti accerchiare, non sottovalutare il nemico…». «Allora non hai capito, bambina: io non li ho sottovalutati! Sapevo quanti erano!». «Non scaldarti tanto, George. Ricordati che sei morto. Non me ne frega un cazzo della tua reputazione. Distruggili e basta. O provvederò io a seppellirti per sempre», e lo minaccia, intingendo la mano in un catino d’acqua nera. È acqua del Lete, ossia acqua infernale, densa, oscura, melmosa. È acqua dell'Amistad in cui Locusta ha sciolto gli umori maledetti dell’Averno. Innocua per un vivo, ma mortale per un cadavere. «Va bene, va bene… avrai il tuo impero… ma stai attenta al tuo tumore…», restituisce subito la minaccia, insinuandole il dubbio di aver attinto al potere profetico dei morti, benché sia una pratica vietata nell’etica dei cadaveri: mai rivelare a un vivo il suo destino. «Tu pensa a loro, io penserò a lui. Ah… George…». «Sì…?». «Hai un verme sul collo». «Oh… grazie… Imperatrice». I cadaveri, anche se riavutisi dal sonno leteo, sono attaccati dai vermi come i vivi dalle zanzare. La Ramos sembra Washington sul Delaware, con Custer al comando del Settimo Cadaverici. Fregare la banda del Puerco, però, non è tanto semplice. E se ne accorgono subito. La novella Washington non trova la strada spianata dai fratelli massoni. Le vedette hanno dato l’allarme in tempo: l’armata di Lola Ramos viene ricevuta da una fragorosa grandinata di piombo. «Lurido maiale!», urla stizzita la vacca messicana, dall’Amistad Express. «Cagna rabbiosa!», risponde subito il bandito, dalle dune che circondano la spiaggia. El Puerco ha il controllo di tutti i villaggi a sud del Lago Amistad e sogna di espandersi a nord. Si aspettava un attacco improvvisato e vuole trasformarlo in una carneficina. Custer ha già fatto una brutta fine. E non vuole ricascarci. «Tutti avanti!». Il Settimo Cadaverici va alla carica. «Fottiamo quel bastardo!», anche l'ambiziosa vaccaccia - con i grossi seni ballonzolanti nella morbida blusa - lancia i suoi uomini all'attacco. Francisco Ramos vuole sempre più potere. E ha fretta. Sa di avere poco tempo, e vuole incoronarsi Imperatrice dei Due Golfi il prima possibile.
BANG Due spari fra tanti. «ARGHH…!!». Un urlo strozzato di donna; di vacca, per la precisione. Raggiunta al cuore e al fegato, barcolla obliqua per due o tre passi. I compagni la raggiungono e la spingono a terra. Ma anche Custer cade. Forse un colpo alla testa, o al cuore. Tutto sembra girare storto per la Ramos. BANG Stavolta, però, il Generale si è fatto prudente e ha preso la mira. Morendo s'impara. Il Puerco crolla in avanti con un terzo occhio nella fronte, ma è talmente grasso che la testa rimane sollevata da terra. Ciò che non si aspettava era un attacco improvvisato di cadaveri. I suoi uomini si disperdono in fretta. La strada è spianata. Adesso sono tutti intorno alla Ramos. Respira ancora, perché il cuore è stato sfiorato, ma è in fin di vita. «Sei stato bravo... George... Anche tu hai dato una bella spinta, Francy. Se ci fossi stata tu, al posto di quei cazzoni di Benteen e Reno, col cavolo che avrebbero scritto tutte queste cazzate su di me». «Hai riscritto la storia... George...». «A proposito di storie, Lola, vorrei dare un finale non troppo tragico alla tua. O hai dimenticato la faccenda dei Due Golfi?». Gli occhi della puttanissima vacca s'infiammano.
«C'è una cosa... da fare prima... Robson... Portami... a Seminole Canyon... Anche se è zona indiana... c'è un bravo stregone... da quelle parti... Siamo amici...». L'Amistad Express torna subito in azione. A bordo ci sono due cadaveri di donna ancora caldi. Lettore, se vuoi conoscere l'attrice che ha ispirato questo racconto, clicca qui. Il racconto è un tributo alla sua bellezza, carisma, personalità. Gli aspetti negativi sono introdotti per mere esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico. Il ruolo della protagonista va assimilato a quello dell'attrice rispetto a un film. La devozione alla persona in questione, da parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta. |
|