Non ci sono soltanto loro: i Signori della Guerra.
In Congo, Anna Frazer è la Signora della Guerra.
Da
semplice casalinga sexy dalle forme perfette, si è trasformata in pochi anni in
una cessa ambiziosa e supponente.
Ingrassata in maniera bestiale, ha tirato fuori tutta la sua puttanaggine e ha
fatto presa perfino su 007, che l'ha chiesta in moglie per mettersi a posto.
Dai suoi uomini pretende una cosa in particolare:
reggere e gestire il piombo, e tornare alla base sempre e
comunque, non importa quanto piombo si sia mangiato.
Verrebbe da chiedersi, però, se anche lei sappia davvero incassare.
E se lo chiedono anche loro: i suoi uomini.
«Abbastanza, non dico che
sia una corazzata, ma - quantomeno - non crolla come una puttana qualunque al
primo o secondo colpo», questa una delle tante opinioni sussurrate
intorno al bivacco.
L'occasione buona giunge presto.
La giungla è un brutto posto, non c'è rispetto per nessuno,
nemmeno per una bella puttana come Anna Frazer.
Ma ce ne vuole un altro paio per metterla col culo a terra.
È fatta, Anna Frazer è fatta.
Isolata dai suoi uomini in fuga, con tanto piombo in corpo e qualcuno che la
cerca per saldarle il conto.
Adesso bisognerà vedere se almeno
si useranno modi da gentleman per affondarla.
Un killer di buone maniere le siederebbe accanto e le offrirebbe una sigaretta, prima di finirla con due colpi al petto.
Ma dovrebbe meritarseli.
Perché altrimenti la farebbe sudare fino in fondo.
Anna annaspa: sente la fine. Almeno un paio di colpi devono
essere mortali.
C'è il rischio che la situazione precipiti in fretta.
Giusto il tempo di un'ultima sigaretta...
E se invece facesse storie,
cercando di salvarsi? Se provasse a farsi tamponare i buchi e a chiedere pietà
come una vecchia troia?
Forse per Matthew Tusk sarebbe anche meglio, Anna Frazer sarebbe infatti in suo
dominio.
Sarebbe stato in grado di illuderla in
merito a un possibile accordo.
Sebbene lei, in cuor suo, avrebbe dovuto capire la situazione,
trattandosi solo di una questione di tempo, non le sarebbe costato nulla
provarci.
L'illusione di salvarsi è troppo forte per chiunque. Lo è
anche per la Signora della Guerra.
L'ha riconosciuto in mezzo alle raffiche; si conoscono.
Un signorino della guerra, per certi versi. Ma forte e
palestrato, con gusti ambivalenti.
«Ehi... Matty... che ti sei messo in
testa...? Di fottermi...?
Ci sei andato vicino...
Ma non sono finita... posso ancora
tentare...».
Lei è appoggiata con la schiena a un tronco
d'albero, la testa piegata sul petto.
Lui spunta fuori dalla macchia, con il mitra
spianato.
Appena lo vede si allenta altri due bottoni della
camicetta, ormai zuppa di sangue.
Preferisce questo a un altro tipo di
reazione: ha i riflessi allentati, toccare la pistola servirebbe solo a farsi
sparare addosso, e a schizzare all'inferno.
Preferisce tirar fuori le sue armi più
pericolose, senza correre altri rischi.
«Ascolta, Anna... hai bisogno di cure. Dimmi dove si trova il
carico d'armi e ti tampono per bene tutte le ferite. Ho della morfina con me: ti
sentirai subito meglio...».
«Il gioco... lo comandi tu... Matt...», affanna.
«Quelle armi... all'inferno... non mi servono più...».
Anna Frazer parla. E di corsa.
Lui, intanto, le infila le mani nella camicetta allentata e le tampona
le zinne pulsanti voglia di vivere.
Quando ha finito di parlare, le tampona come promesso anche il
resto e le fa una siringa di morfina.
«Che vuoi fare... di me... eh...?»,
gli chiede, senza riuscire a nascondere la sua ansia mortale.
«Adesso ti faccio vedere», si allenta i pantaloni e se
la prende.
Lei ci sta. Resistere servirebbe a poco.
Ma soprattutto vuole convincerlo a non freddarla.
Anna non è mai stata molto umile in vita sua.
Si sente sempre una gran fica ed è convinta di potersi ancora salvare.
Ma è anche molto furba. Lui sembra aspettare il momento topico
per concederle il colpo di grazia.
Lei non sembra molto interessata.
Anna inventa una fitta terribile di dolore e si rovescia su un
fianco, spezzandogli il ritmo.
Matt rimane piuttosto deluso: potrebbe facilmente imporsi,
palestrato com'è, ma ha capito il messaggio.
Vuole proprio salvarsi, a tutti i costi. Le prova tutte.
Non le interessa scopare, ma tenerlo sulla corda, evitando di
mandarlo troppo in estasi.
D'altronde le donne leggono negli
uomini, i moribondi nel futuro: perciò una donna moribonda è davvero una
veggente in questi casi...
Intanto si fa desiderare, cerca di commuoverlo, poi tenterà anche di strappargli
una chiamata d'emergenza all'elicottero nero: è una sorta di eliambulanza
mercenaria, anonima, che svolge questo servizio dietro pagamento a qualunque
milizia lo richieda.
«E va bene, Anna... ho capito quello che
hai in mente». Esce un attimo e depone
il telefono satellitare a qualche metro di distanza. «Adesso fammi venire, poi
diventerà tuo. Chiamati l'elicottero», la voce è fredda, ma la Signora della
Guerra intravede la salvezza: è questo ciò che conta per lei.
Adesso è lei che ha fretta.
Lui esce di nuovo e la Frazer comincia
disperatamente a strisciare come una grossa biscia verso l'apparecchio.
Per una nelle sue condizioni non è facile coprire
quei metri.
Matt si gode tranquillo la scena:
la scia si sangue che le fa da ombra mentre struscia e ancheggia.
Una volta, una mercenaria morente usò gli ultimi attimi per
chiamare la figlia...
È curioso di vedere cosa farà Anna: anche lei ha
una figlia. Lui si informa sempre molto bene sui suoi obiettivi, prima di
colpire...
La Frazer mormora qualcosa.
Ha paura di non farcela: di certo è un'imprecazione ed è
facile capire chi ne sia il destinatario...
Improvvisamente lo schermo del telefono si illumina, ma non è
facile per lei - con gli occhi appannati dalla morte - leggere cosa dica.
Matt si avvicina velocemente, un occhio sull'apparecchio per
controllare chi stia chiamando, un orecchio sulle labbra della stronza:
«Hai qualcosa da dirmi? Parla forte, non ho sentito
bene...», la prende anche in giro.
Ma Anna Frazer è una vigliacca, in fondo: vuole salvarsi a tutti i costi, non
osa ripetere le sue maledizioni a un orecchio tanto vicino.
«Forza, dillo!», diventa minaccioso.
Ma poi col piede avvicina il telefono.
«Aspetta...»,
sussurra Anna. Ha paura, capisce che fa sul serio e che non deve farlo
incazzare troppo.
Per un attimo gli occhi della Signora
si rianimano, la Frazer cerca di leggere sul piccolo schermo.
Forse è il nome del suo assassino, anche se è un termine
improprio nella giungla: cacciatore è più adatto.
«Ebbene... era tutta una trappola. Sei stata giocata,
hai fatto troppo rumore ultimamente».
«Aspetta...»,
ancora quella parola: la mente è annebbiata, pensare le costa un dolore fisico.
«Aspetta...
digli che...».
La fissa, divertito.
La sua agonia lo eccita.
«Che... sono morta... ma non farlo...»,
le parole sono sconnesse: la buona sintassi è un lusso che non può più
permettersi. «Rispondi... dammi una prova... che... mi
ami... che... sei stato... obbligato... a farlo...»,
non ha più fiato. «Ti ricordi... mia figlia...? La conoscesti... a
Kinshasa...». Matt si siede dietro di lei, così può farla sdraiare sul
petto. «Fallo per lei...».
L'uomo si accende una sigaretta.
«Cosa vuoi che faccia per lei?».
«Non uccidere... sua madre...
Se ti piace... avrai anche lei...
Mia figlia... farebbe qualunque cosa... per la
madre... sarà tua... è una pollastrella... squisita...».
Matt avvicina la sigaretta alle labbra della Frazer.
Senza dire parola.
La Signora della Guerra tira una boccata: anche la tossicità del fumo non è più
un problema per lei...
Poi la sputacchia via insieme al sangue che ha in bocca: forse
quella sigaretta le fa paura; sa quanto Matt sia pericoloso, e che difficilmente
tradirà il suo committente.
Non vuole esprimere nessun ultimo desiderio.
Non vuole dargli alibi, anche ammesso che abbia una coscienza.
Vuole tentare ancora di persuaderlo.
Deve riprendere a parlare...
«Una foglia... ce l'hai... una foglia... di quelle
buone...».
Deve coinvolgerlo.
Spingerlo a investire su di lei.
Matt, però, non appare minimamente interessato in quello che
dice; tuttavia - per una sorta di estremo rispetto - le consegna quello che ha
chiesto. Inoltre le ritampona per bene il seno nudo, colpito da una pallottola.
Anna sembra l'amazzone ferita di Fidia.
La Frazer è lusingata, forse è riuscito a giocarlo, forse si
riporta a casa la pelle: un paio di pallottole possono ucciderla, ma è lucida,
c'è ancora un po' di tempo.
Lui, però,continua a non esprimersi, a ogni boccata che dà alla sigaretta ne
offre una anche a lei.
La Signora della Guerra si ricopre il seno con la camicetta.
Un gesto strano.
Quasi pudico.
Mastica la foglia, ma rifiuta la sigaretta.
«Non ho... molto tempo... cosa... hai risposto... al...
al tuo... committente...».
«Niente, non gli ho risposto niente. Sai benissimo
qual è il destino che ti attende.
Adesso vedi di crepare con un briciolo di dignità, mi hai
stancato».
Matt fa scorrere la sua pistola sul fianco sinistro di Anna, premendo la canna
appena sotto la mammella.
«No... aspetta...! Non farlo...!».
«Fai in fretta, il tempo è denaro».
«Mi... avevi promesso... di aiutarmi...».
«Ti ho promesso di tamponarti i
buchi e l'ho fatto.
Non di risparmiarti».
«Dammi il telefono... ti prego...».
Matt le mette in mano l'apparecchio.
Ma lei mangia subito la foglia. Un'altra.
«Fai presto e non fare scherzi, altrimenti farò in
modo che tua figlia a Natale riceva in dono la tua testa».
«Chiama tu... ti prego...
Ho le mani sporche...
Ma non lei... chiamami... un'ambulanza...». Anna è
costretta a rilanciare, cerca di imporsi in qualche modo. Ancora non vuole
pensare che lui osi premere quel dannato grilletto. «L'elicottero
nero...».
«Sì, ho capito».
«Chiama tu...».
Matt scorre tra i contatti e avvia la chiamata.
E le appoggia il telefono
all'orecchio.
Con la mano, intanto, lei cerca delicatamente di spostare la canna della pistola
dal proprio fianco.
«Parlaci tu...».
Ma l'uomo gliela preme addosso con ancora maggior forza, è irremovibile.
Anna sente una voce rispondere.
Poi un boato, proveniente dall'arma di Matt.
«Col cazzo, puttana!».
E contemporaneamente, con gesto trionfante e
rabbioso, le strappa dal collo una delle piastrine gemelle di riconoscimento.
«No...», ha ancora la forza
di sussurrare... delusa, mortalmente delusa...
Matt si rialza di colpo, facendola rovesciare a terra.
Anna scalcia disperata a vuoto, quasi una reazione automatica: anche una come
lei deve predisporsi rapidamente a morire.
«Per...ché....», balbetta,
con gli occhi ormai fissi. «Muoio...
rimango uccisa...», sussurra Anna, scuotendo il bacino
per l'ultima volta, rimanendo a bocca spalancata dopo l'ultimo concetto.
Sa che la sta ascoltando.
Sa che la chiamata è partita.
La posizione viene acquisita in automatico.
L'elicottero nero partirà subito.
Il protocollo d'intervento non prevede l'annullamento della
chiamata; spesso il telefono cade in mani sbagliate; l'elicottero parte e va: è
la legge della giungla.
E gode anche di una certa immunità: è vietato sparargli
addosso, perché un giorno potrebbe servire a chiunque.
Troverà il suo cadavere, almeno?
Non sa se vada consegnato al committente come prova.
O se basteranno delle foto.
Se arrivano a meno di un'ora dalla sua morte, l'ambulanza cercherà di
rianimarla: applicano infatti protocolli segreti ancora sperimentali.
I risultati vanno a finire ad Area 51.
Anna è conciata male, ma è fortunata (forse).
Matt ha l'obbligo di scattare soltanto delle fotografie al suo corpo; tuttavia
il committente è una persona d'esperienza: vuole che vengano fatte in condizioni
di luce più che buona per affermare oltre ogni ragionevole dubbio che si tratti
della persona in questione; inoltre Matt realizza un primo piano del buco nel
fianco: è evidente come debba trattarsi del colpo di grazia.
Tutto questo è sufficiente, le fa una dozzina di foto e - prima di andarsene - le
imprime la suola dello scarpone in faccia, facendola girare dall'altra parte,
benché ormai rigida.
Il suo addio alla bella puttana, perché lo guardava fisso con occhi di
rimprovero.
La puttana che voleva scambiare la figlia per la propria
vita...
Non ci sono più le madri di una volta.
Però era davvero una bella puttana.
Peccato averla fritta, sembra pensare Matt, mentre si
allontana.
Si volta indietro un'ultima volta e gli sembra di vedere ancora un sussulto
provenire dal corpo.
In ogni caso la testa è tornata nella posizione di prima, come
rispondesse al comando di una molla.
Matt scuote il capo, scettico.
Missione compiuta: è questo ciò che conta.
Poteva farle scoppiare il cervello, se avesse fatto la brava,
e fumato tranquilla l'ultima sigaretta; ma ha preferito lottare fino alla fine.
Doveva sapere che sarebbe comunque morta in meno di due ore:
dove pensava di andare con quel piombo in corpo?
A piangere da chi?
Certo, due ore sono tante quando stai per morire. Pensi di
fare ancora tante cose.
Sorride.
Una mezzoretta, comunque, tra gemiti e colpi d'anca, se l'è
presa.
Il cacciatore continua a marciare solitario, quando le pale di
un elicottero cominciano a frullare in lontananza, molto oltre la sua testa.
A questo punto la curiosità quasi lo uccide più delle
pallottole che Anna avrebbe voluto piazzargli addosso.
Matt decide di rimanere nascosto
nei paraggi e vedere cosa fanno i paramedici.
Non perché siano semplici infermieri, ma perché medici radiati dall'albo,
invischiati negli azzardati esperimenti di Area 51.
È come se volesse veder stilare il certificato di morte della
Signora, che ha fritto su commissione.
Ma rischia di rimanere deluso.
Perché questa è gente che non emette certificati di morte.
Perché per loro non esiste.
Non c'è una reale differenza tra vita e morte.
Atterrano nella radura vicino e compaiono sul posto con svariati macchinari.
Procedono senza alcuna esitazione o conciliabolo tra loro.
La circondano e le mettono addosso di tutto.
Poi una scarica fortissima.
E lui che pensava di averla
fritta...
Loro sanno che qualcuno è lì, che li sta spiando, hanno
strumenti molto sofisticati.
Ma non ha importanza, se quel qualcuno non interferisce.
Matt la vede portare via, ma non capisce se le
gambe hanno avuto un sussulto, se è stata una reazione meccanica
alle scariche elettriche.
«Rassegnati, puttana... non ti salverai...»,
mormora con freddezza, ma anche un pizzico di ammirazione, quasi un
augurio a provarci ancora, e un po' di rammarico per non esserci.
I paramedici di Area 51 sono altamente professionali.
Nessuno conosce con esattezza i loro metodi, ma è ipotizzabile
che Anna Frazer sia stata rianimata e sospesa in un coma profondissimo.
Cosa rimarrà di lei non è dato saperlo.
Ma la sua pelle non è ancora
appesa alla parete.
E un compromesso più stretto di
questo, tra vittima e cacciatore, non si è davvero mai visto.
Lettore, se vuoi conoscere l'attrice che ha
ispirato questo racconto, clicca qui.
Il racconto è un tributo alla sua bellezza,
carisma, personalità.
Gli aspetti negativi sono introdotti per mere
esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico.
Il ruolo della protagonista va assimilato a
quello dell'attrice rispetto a un film.
La devozione alla persona in questione, da
parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta.
PER QUALCHE BACIO IN PIÙ
di Salvatore Conte (2020-2021)
I vecchi sdentati che vivono fra i cactus
saguaro all’ombra delle rocce rosse, giurano che al di là del confine
trasformano l’acqua in vino e che un giorno non troppo lontano potranno berne
anche loro fino a sbronzarsi, ma non sanno che sono solamente miraggi, come le
oasi di acqua che s’illudono di vedere in fondo all’orizzonte.
Qui, ai piedi delle Superstition Mountains, non c’è niente che appare com’è
veramente, anche le croci sono diverse, ne sa qualcosa Tom Mullen, un rapinatore
di banche venuto apposta dalla vecchia Europa per morire nel Far West, una
scelta discutibile anche per un irlandese bevitore di birre e dal grilletto
troppo nervoso per non trovare prima o poi qualcuno più irrequieto di lui.
La sua di croce difatti non odora di legno marcio ma puzza di terra rovente, e
quattro lacci stretti ai polsi e alle caviglie sono i chiodi che ce lo piantano
sopra, fosse nato in Arizona Gesù Cristo sarebbe morto così.
La pelle inizia presto a puzzargli di bruciato, con la bocca che cerca
disperatamente liquidi e la gola infuocata che deglutisce polvere calda,
basterebbe solo che qualche goccia di sudore gli colasse fino alla bocca, ma
invece gli scivolano sul viso senza neanche avvicinarsi alle labbra.
Il calore gli ha già cucito le palpebre sugli occhi, ma è solo un vantaggio che
gli risparmia di guardare le coreografie svolazzanti che i corvi stanno
iniziando ad allestire sopra di lui.
Può sentirli gracchiare, ma questo sa sopportarlo, le urla della guerra erano di
gran lunga peggiori.
C’è un rumore però che pare non c’entrare nulla con il casino che fanno quei
maledetti uccellacci, un rumore che puzza di zoccoli ferrati, l’essere
crocefisso a terra lo rende percettivo come gli indiani che auscultano il
terreno per leggere l’arrivo del nemico.
«Un cavallo…», le parole sussurrate gli aprono dolorosamente i lati della bocca.
Lo scalpiccio degli zoccoli scuote sempre più il terreno finché pare entrargli
direttamente negli orecchi.
Il nitrito dell’animale adesso è sopra di lui e nell’aria si sente la puzza del
suo fiato, qualcuno scende dalla sella.
«Aiutatemi…», un’ombra si frappone fra lui e il sole, mentre una colata d’acqua
fresca gli finisce subito sul viso.
«Ti hanno proprio conciato male, irlandese…», una mano gli alza la testa. «Su,
bevi», il povero Cristo scola la borraccia con un’unica sorsata, senza prendere
fiato. «Vacci piano, non è una pinta di birra», gliela stacca a fatica dalla
bocca. «Potresti prendere una sbronza».
«Peggy…?», la donna lo fa scendere dalla croce, tagliando con un coltellaccio i
quattro lacci che lo legavano a terra.
BANG!
BANG!
Mentre un paio di corvi finiscono i loro voli coreografici in mezzo ai cactus
saguaro.
«Li ho sempre odiati questi maledetti uccellacci».
«Peggy Sue… certo che sei te…», prova a mettersi seduto. «Solamente tu potresti
odiare gli uccelli al punto di sprecare un paio di pallottole per loro.
Eppure... i tuoi capelli... non li hai
strappati ai corvi?».
«Il senso dell’umorismo è l’unica cosa che mi è sempre piaciuta di te», gli
passa un pezzo di stoffa bagnato sulle palpebre. «Insieme alla tua taglia».
«Piano, maledizione… non stai lucidando gli zoccoli del tuo cavallo!», riesce a
riaprire dolorosamente gli occhi.
«Mi vedi adesso, dannato irlandese?».
«Sei sempre la più bella di tutto il Selvaggio West, Peggy Sue…».
«Ti ho appena schiodato dalla croce e ridato la vista, dannazione oggi sono
proprio in vena di miracoli», si rimette in piedi davanti, lasciandosi guardare
in tutta la sua cadente imponenza.
Quasi cinquantanni, occhi neri e capelli corvini sotto le spalle, un corpo
massiccio con tutte le forme al posto giusto.
Vent’anni passati a fare la cacciatrice di taglie l’hanno inevitabilmente
mantenuta in forma.
«Vedo che qualcuno voleva darti in pasto ai corvi».
«Già, ma la mia pellaccia è troppo dura per i loro beccacci».
«Chi voleva farti redimere nel Gesù Cristo dell’Arizona?».
«Janet…la Vacca di Tucson», risponde deciso, mentre si rialza aggrappandosi alla
sua mano. «Dovevo fare un colpo insieme alla sua banda, giù in città. Invece mi
ha accoppato», abbassa la testa, il sole dà ancora troppa noia per incrociare il
suo sguardo giallo. «L’ultima cosa che mi ricordo è che mi sono svegliato già
legato a terra, e poi le parole di quella maledetta pistolera: quando ripasserò
di qui sarai solamente carne irlandese grigliata. Ha riso sguaiata ed è risalita
a cavallo andandosene in una nuvola di polvere che mi ha fatto mangiare fino
all’ultimo granello… che possa crepare all’inferno.
Piuttosto, come mai passavi da queste parti? Ho avuto solo un gran colpo di culo
o cosa?».
«Forse sei solamente un uomo fortunato».
«Non direi», allarga le braccia mostrando i pochi lembi di stoffa rimasti
addosso. «Escludendo quando incontro te, ovviamente», le lancia uno sguardo
rovente, approfittando dell'abbondante calore immagazzinato nel corpo.
«Raffredda i bollenti spiriti, irlandese, non sono più una birra scura alla tua
portata», la vanità di una donna spesso è
pari alla sua insensibilità. «Comunque la tua botta di culo è un biglietto che
ho trovato nella sacca del mio cavallo, mentre era legato fuori da un saloon».
«Sarebbe a dire?», distoglie lo sguardo da lei, per non incorrere in altre
docce fredde.
«C’era scritto che se volevo incassare la tua taglia, oggi avrei solamente
dovuto fare una cavalcata fino qui», tira fuori la pistola dalla fondina,
guardandosi intorno. «Ma adesso muovi il culo, questa situazione non mi piace
per niente, scommetto un bottone della mia giubba che Janet non è
lontana».
«Ma se voleva fregarmi, perché non mi ha portato dal primo sceriffo incassando
la taglia, invece di lasciarmi crepare nel deserto?».
«Sa che una cacciatrice di taglie segue sempre ogni traccia, ha fatto in modo di
attirarmi volutamente qui», infila il piede nella staffa.
«Ma perché proprio tu? E per quale dannato motivo dovrebbe lasciarti riscuotere
la mia taglia al posto suo?».
«Per prendere due piccioni con una fava, idiota di un irlandese», lo aiuta a
salire dietro di lei. «Io e Janet abbiamo un vecchio conto in sospeso e credo si
sia finalmente decisa a regolarlo.
Prendi questa, io ho il mio fucile», gli passa la colt. «Di certo non tarderà a
farsi viva», picchia entrambi gli speroni contro la carne dell’animale facendolo
partire al galoppo.
«La prima cittadina è a una ventina di miglia, arrivati lì saremo al sicuro»,
oltre al bere, Tom ha anche il vizio dell’illusione.
«Venti miglia sono troppo distanti quando c’è in giro una tipa come Janet», si
sistema il cappello. «C’è solo da sperare che sbagli il primo colpo».
Il cavallo galoppa veloce, una macchia nera su un quadro giallo che occupa tutta
la parete del deserto; sbuffa, sbava, nitrisce al dolore degli speroni, ma sa
che è impossibile correre più veloce del destino, specialmente se ti insegue da
cinque anni.
«Sento il suo profumo», Peggy Sue annusa l’aria che le sbatte sul viso.
«È
vicina, forse ci tiene già sotto tiro».
«Sembra che la conosci bene quella maledetta».
«Quello che basta per sapere che ha già il fucile carico».
«Dobbiamo arrivare al canyon, lì avremo più possibilità di riparo!», urla più
forte del vento, con le mani saldate ai suoi fianchi arrotondati.
«Bisogna solo sperare che sbagli almeno il primo colpo».
BANG!
Ma Janet ha sempre avuto una mira infallibile, fin da quando si divertiva da
bambina a seccare i serpenti a sonagli a più di cinquanta metri di distanza.
«Ahhh!!», il proiettile arriva da lontano, invisibile, a tradimento, e scaraventa Peggy Sue giù dal cavallo con la forza di una spinta a dieci mani, e lei rotola
nella polvere, avvolgendosi su sé stessa, come quei serpenti velenosi.
«Maledizione!», Tom prova a prendere le redini, ma l’animale imbizzarrito dallo
sparo si impenna e lo disarciona facendolo cadere una ventina di metri più
avanti.
Si rimetti in piedi vedendo in lontananza una figura a cavallo.
«Che tu sia dannata!», non è difficile riconoscere la Vacca di Tucson. «Vai
all’inferno!».
BANG!
Quando un uomo con la pistola incontra una donna col fucile, l'uomo con la
pistola è un uomo morto.
Tom ritorna fra la polvere, con una pallottola in pancia.
«Mia dolce cacciatrice di taglie…», sfila gli stivali dalle staffe scivolando
dal cavallo. «È passato tanto tempo», adesso è Peggy Sue ad avere un’ombra che
si sovrappone fra lei e il sole. «Ma sapevi che prima o poi ci saremmo
incontrate di nuovo».
Janet, la Vacca di Tucson, cinquantanni portati eroticamente a spasso per
tutta l’Arizona, pantaloni dentro gli stivali neri e una camicetta rosa che
lascia sempre aperta (sbottonata in maniera incredibile) per mostrare il suo grasso fisico da ex ballerina di saloon
e di camera a ore, con
un seno flaccido e sfruttato che balla anche senza l'aiuto di un carillon.
«Janet… mi hai beccato in pieno… maledizione…», la pallottola le ha fatto
saltare preciso il bottone della giubba che le avrebbe aperto Tom, il modo più doloroso per
improvvisare uno striptease nel deserto.
«Non volevo beccarti così bene», si accuccia accanto a lei. «Ma purtroppo faccio
centro anche quando cerco di sbagliare mira».
«Perché... Janet…?», si morde il labbro superiore per cercare di contenere il
bruciore della ferita.
«Ricordi quella sgualdrinella, a Durango? Betty, mi pare si chiamasse», si toglie
il fazzoletto dal collo mettendoglielo a coprire il buco. «Mi lasciasti in quel
lurido hotel scappando con lei in Messico».
«È una lunga storia... Janet… non volevo… fui costretta…».
«Siamo costrette solo a morire», la guarda, facendole capire che questa
costrizione adesso sta toccando a lei. «Avevamo i soldi, tutto, l’Arizona era ai
nostri piedi», la voce si fa malinconica. «Ma soprattutto avevamo noi».
«Non volevo… io…», volta il viso di lato.
«Tu, cosa, Peggy…?».
«Io… ho sempre amato solamente te…», gira lo sguardo nuovamente verso di lei,
cercandole gli occhi.
«Anche io ti ho sempre amato», le passa dolcemente una mano fra i capelli
sudati. «Ma hai rovinato tutto».
«Forse posso ancora cavarmela… riscuotiamo la taglia dell’irlandese… e andiamo
in Messico…», ci prova fino all’ultimo respiro, l’amore in fondo dovrebbe
vincere su tutto, anche sulle pallottole roventi che bruciano più della
passione.
«L’irlandese?», l’ombra di un sorriso sulle labbra. «Non sporco il mio cavallo
per metterci sopra il suo cadavere, sai bene che mi è solo servito per arrivare
a te, adesso è affare loro», fa un cenno con il capo verso il cielo.
«Anche io… uhhh… mi lascerai… a quegli uccellacci…?».
«No, Peggy… la tua pelle è troppo profumata e morbida per essere lasciata ai
corvi, ti porterò con me per poi seppellirti lungo il sentiero che porta alle
creste delle Superstition Mountains, in un punto che conosco solo io, così ogni
tanto saprò dove portarti qualche fiore. Magari delle rose gialle, sono ancora i
tuoi fiori preferiti, vero?», si rialza in piedi, mettendo il dito sul grilletto
del fucile.
«Janet… non farlo… ti supplico…», si para con una mano, vedere la morte in
faccia non è mai un bello spettacolo.
«Ti amo troppo per vederti soffrire».
BANG!
BANG!
Due spari scuotono il silenzio del deserto, inaspettati e senza preavviso, come
due tuoni esplosi in un cielo assolato e arido di pioggia.
«Tu…! Maledetto irlandese…», Janet si porta entrambe le mani sull’addome. «Ti
avevo ucciso…».
«Ti sbagli, Vacca…», Tom è appoggiato alle rocce, diversi metri più avanti. «Una
pallottola non basta per ammazzare un irlandese, dovresti saperlo».
«Crepa all’inferno!», alza il fucile, prendendolo in parola, ma le due pallottole
che si è beccata la rallentano troppo per vincere il duello.
BANG!
«Uhhh!».
Quando un uomo con la pistola incontra una donna col fucile, l'uomo con la
pistola è un uomo morto.
Eccezioni a parte.
«Janet… no!», Peggy Sue allunga una mano verso di lei, in un disperato tentativo di protezione, ma è troppo tardi, il piombo
dell’irlandese l’ha già scaldata più del sole dell’Arizona.
E stavolta l'ha centrata allo stomaco, come
lei aveva centrato Peggy Sue.
«Peggy…», cade in ginocchio in mezzo alle sue gambe allargate. «Non ti avrei…
mai…sparato…», il tempo di un sussurro per poi finire precisamente sopra di lei,
due corpi che combaciano alla perfezione in ogni punto, gambe su gambe, seno su
seno, viso su viso.
«Baciami…», e labbra su labbra.
«Sì… per sempre…», e le bocche cominciano a baciarsi freneticamente,
convulsamente, furiosamente, selvagge e disperatamente passionali.
Quando un uomo ama una donna, spesso nasce la vita.
Ma quando una grande donna ama un’altra grande donna, la vita quasi sempre diventa
immortalità.
PARECCHI ANNI DOPO
I vecchi sdentati continuano a vivere fra i
cactus saguaro sotto l’ombra delle rocce rosse, e spergiurano sempre che un
giorno ormai vicino andranno al di là del confine dove sanno come si fa a
trasformare l’acqua in vino.
«Dammene un altro, e stavolta lo voglio pieno il bicchiere, dannato spilorcio!»,
la richiesta gliela sputa in faccia.
«Per oggi il tuo credito è terminato, ubriacone di un irlandese».
«Se sai raccontarmi qualche vecchia storia, te li offro io un paio di bicchieri
belli pieni», un tipo seduto sullo sgabello accanto si rivolge a lui parlando da
sotto il cappello.
«Dove ci siamo visti, straniero?», si gira per guardarlo bene in faccia. «Il tuo
brutto muso l’ho già incontrato da qualche parte».
«Non credo, vecchio; sto andando oltre il confine, qui sono solamente di
passaggio».
«Qui siamo tutti di passaggio… eh-eh-eh…», ride sdentato. «E la maggior parte
sono già passati, anzi trapassati…».
«Sei spiritoso, vecchio, ma ti ho chiesto se hai una storia abbastanza
interessante per me», alza la tesa del cappello da cowboy per vederlo meglio.
«Eppure ti ho già visto da qualche parte», continua a fissarlo.
«Ti ho detto che non è possibile», lo guarda duro, facendogli capire che è meglio
non insistere.
«Ho capito, mi devo sbagliare», si rigira verso il bancone. «E comunque per un
paio di giri gratis racconterei la mia vita da quando sono nato a quando tirerò
le cuoia, perbacco!».
«Non m’interessa ascoltare tutta la tua vita, me ne basta solo un pezzetto».
«Cosa sei, una specie di scribacchino venuto dalla grande città per scrivere
come si crepa qui ai confini del mondo?», l’oste ridacchia asciugando i
bicchieri.
«Forse.
Allora, vecchio? Ce l’hai o no una storia interessante da raccontarmi?».
«Hai sentito, Sal?
Lo straniero continua a chiedermi se ho una storia abbastanza
interessante da raccontare», sputa aria in terra. «Beh, cowboy, drizza bene le
orecchie e stammi a sentire, per tutti i diavoli dell’Arizona! Di storie
interessanti da raccontare ne avrei quante ne vuoi», si pulisce la bocca con il
dorso della mano. «Storie di sporchi nordisti contro sudici sudisti, storie di
rapine alle banche quando per farlo bisognava avere le palle grosse come i
cactus saguaro e dure come le rocce rosse, storie di pallottole prese e
restituite», guarda verso l’oste. «Restituite sempre con gli interessi, giusto,
Sal? Potrei raccontartene una a caso, straniero, e ci farei comunque bella
figura», si fa serio. «Ma oggi voglio essere generoso e ti racconterò l’unica
storia che non potrò mai scordarmi, neanche diventassi rimbambito come Jack il
maniscalco».
«Allora comincia», lo straniero tira su i gomiti dal bancone e si volta verso
di lui.
«Bene, cowboy», biascica un po’ per schiarirsi la voce. «La storia che ti
racconto mi capitò un bel po’ di anni fa, quando ero giovane, perché per tutti i
diavoli sono stato giovane anch’io! Rapinavo banche a quel tempo, a volte in
proprio e a volte in società, diciamo così. Un bel giorno bussò alla mia porta Janet,
la Vacca di Tucson, una sventola di donna che faceva il mio stesso
mestiere…
Mi propose di rapinare insieme una piccola banca in una cittadina dove lo
sceriffo si girava dall’altra parte se vedeva tipi come me, un colpo facile come
bere una pinta di birra tutta d’un sorso.
Accettai subito, pensando che dopo magari avremmo anche festeggiato insieme, e
di solito dove c’era la Vacca di Tucson le feste erano sempre indimenticabili, non
so se rendo l’idea, straniero».
«La rendi, vecchio», tira giù un sorso di tequila.
«Ma quella maledetta non aveva nessuna intenzione di rapinare una banca insieme
e la festa voleva farla a me e basta, mi usò solamente per compiere una vendetta
personale, io ero il verme attaccato al suo amo. Così mi accoppò a tradimento e
mi ritrovai legato nel bel mezzo del deserto, con i corvi che litigavano tra
loro per
occupare il posto migliore al tavolo del mio banchetto. Messo a essiccare al
sole, con le palpebre già chiuse sugli occhi e la carne che cominciava a
puzzarmi di stufato, pregai Iddio per farmi crepare più alla svelta possibile»,
si tocca il crocefisso attaccato al collo. «Ma per quale dannato motivo avrebbe
dovuto accontentare le suppliche di un bandito come me? Infatti non lo fece,
così non solo non crepai alla svelta, ma per dirla tutta, non crepai per niente, eh-eh-eh…», si pulisce gli occhi come li sentisse ancora bruciare. «Magari lo
fece solo perché potessi raccontare questa fottuta storia».
«Poteva essere una buona motivazione».
«L’unica, straniero. Ad ogni modo prima che il sole finisse la mia cottura, una
bambola ebbe la bella idea di farsi un giretto da quelle parti e dato che c’era
di tagliare le corde che mi legavano a terra», alza il bicchiere come a
brindare. «Peggy Sue, una mia vecchia fiamma, più bollente delle rocce attaccate
alle Superstition Mountains, la mia cacciatrice di taglie preferita, un corpo
con più curve di un sentiero di montagna, che io sia dannato se non era così!».
«Doveva essere anche sensitiva per trovarti nel bel mezzo del deserto…».
«Sei impaziente, straniero… buon segno, significa che la storia è interessante
sul serio. Peggy comunque non era affatto una medium, era solamente stata
indirizzata lì da un biglietto anonimo: se voleva intascare la mia taglia, non
doveva fare altro che venire nel punto indicato. Ma era appunto una trappola
della Vacca, e lei lo capì subito. Salimmo a cavallo per levarci alla svelta di
torno, ma non riuscimmo nel nostro buon proposito di arrivare nella cittadina
più vicina, perché un paio di colpi di fucile ci disarcionarono entrambi, prima
lei e subito dopo io. Ero ferito gravemente, ma quella maledetta non mi aveva
ammazzato», batte un pugno sul bancone. «Peggy era a terra, una ventina di metri
distante da me, con un grosso buco nello stomaco, e con Janet in piedi a farle
ombra. Ascoltai tutto, parola per parola, e stentavo a credere quello che
sentivo, la cacciatrice di taglie e la Vacca di Tucson, due delle più belle
sventole di tutto il West, erano amanti! Capisci, cowboy? Quelle due se la
intendevano insieme! Quanto spreco, per tutti i diavoli e i satanassi
dell’inferno!», butta giù un'altra sorsata di whisky. «E c’era dell’altro: Peggy
aveva piantato in asso Janet per una puttanella, questo era il motivo del suo
desiderio di vendetta, e io appunto ero il vermicello infilzato nell’amo che
dimenandosi aveva attirato il pesce», muove il mignolo per rendere bene l’idea.
«La pallottola mi bruciava dentro la pancia come l’inferno, ma la Vacca non
poteva passarla liscia; non so come, ma riuscii a rimettermi in piedi e con le
ultime forze rimaste le sparai un paio di colpi; la pupa, però, era dura, tentò di
rispondere al fuoco e mi toccò sparare un’altra volta per accopparla».
«Tutti a bersaglio, vero, irlandese?», l’oste sorride, sapendo a memoria la
risposta.
«Certo che sì! A quel tempo avevo una discreta mira. Ricordo che la Vacca di
Tucson cadde
in avanti e finì pari pari addosso a Peggy Sue, neanche il sarto del Diavolo
avrebbe saputo cucirle una sopra all’altra con così tanta precisione», fa una
pausa guardando improvvisamente nel vuoto. «E sai anziché crepare cosa si misero
a fare quelle due?».
«Dimmelo tu, vecchio».
«Cominciarono a baciarsi… in un modo che non avevo mai visto», lo guarda fisso.
«Freneticamente, convulsamente, furiosamente, selvagge e disperatamente
passionali, ecco come si baciarono quel giorno, Janet, la Vacca di Tucson, e
Peggy Sue, la cacciatrice di taglie», si passa la mano sugli occhi. «E sai
un’altra cosa, straniero? Appoggiato alle rocce, mentre le guardavo, mi pentii
di avere ammazzato Janet», talvolta i rimorsi inumidiscono lo sguardo più del
whisky. «Potevo
risparmiarle l'ultimo colpo o piazzarlo in modo diverso: se la sarebbe cavata,
era tosta. Ma le bucai lo stomaco.
In quel momento avevo ucciso la Vacca di
Tucson...», tira un lungo respiro e ricomincia.
«Ma non morì subito. Proseguirono a baciarsi, fregandosene di tutto, anche delle pallottole che
avevano in corpo, e che io sia dannato se non fui costretto a svenire per non
continuare a vedere quella scena».
Sta per piangere, ma lo straniero non gli dà il tempo di farlo.
«Bravo, vecchio, sei stato di parola», si infila la mano in una delle tante
tasche del suo trench marrone. «Hai raccontato una storia davvero originale»,
lascia cadere sul bancone una manciata di monete. «I due bicchieri di whisky te
li sei meritati tutti».
«Ti ringrazio, straniero», il tintinnio del metallo sembra averlo ridestato dai rimorsi. «Ma la storia non è ancora finita…», biascica un po’ di saliva per
raschiarsi via il pianto che gli stava salendo dalla gola. «Prepara la
bottiglia, dannato oste, adesso arriva la parte migliore», gli occhi tornano
vivi e pronti per terminare il racconto. «Rimasi svenuto per meno di
un’ora, difatti quando rinvenni il sole era sempre alto e bruciava ancora
maledettamente, come la mia ferita che cercai subito di tamponare con un pezzo
di stoffa strappato da quello che era rimasto della mia camicia. Rimessomi in
piedi, guardai in direzione di Peggy Sue e Janet, e sai cosa diavolo vidi,
straniero? Niente, non vidi assolutamente niente. Allora feci qualche passo,
fermandomi esattamente nel punto dove avrei dovuto trovarle morte, una sopra
all’altra, ma di loro non c’era nessuna traccia, sparite! Se non avessi visto il
sangue rimasto in terra, avrei perfino messo in dubbio che quelle due maledette
fossero mai esistite», fa una pausa per riprendere fiato. «Invece la ferita mi
confermava che c’era stata una bella sparatoria e che soprattutto avevo bisogno
di un dottore, così in qualche modo riuscii a salire in groppa al cavallo di Peggy, mentre quello di Janet ci seguì, restando sempre qualche metro dietro. Fu
un’altra discreta fortuna che i due cavalli fossero rimasti nelle vicinanze».
«La fortuna non esiste, stavano solamente aspettando le loro padrone», lo
straniero lo interrompe. «I cavalli sono bestie fedeli, al contrario dell’uomo».
«Può essere, amico mio, comunque mi misi in marcia lentamente, e che io bruci
all’inferno se non è così, lungo tutte le venti miglia che mi separarono dalla
prima cittadina, delle due donne non vidi nessuna traccia, niente di niente, due
cadaveri dissolti fra la polvere del deserto».
«Magari non erano due cadaveri», il cowboy lo fissa.
«Con tutto quel piombo addosso, cos’altro potevano essere?», l’oste finisce di
asciugare un bicchiere.
«Due fantasmi», il vecchio guarda entrambi, dando l’impressione di non vedere
nessuno dei due. «In fondo è quello che penso da oltre trent’anni».
«E nessuno le ha più viste in giro?», l’uomo alza di nuovo la tesa del cappello
dagli occhi, vuole vedere bene la risposta.
«Nessuno, anche se in tanti giurano il contrario».
«Sarebbe a dire?».
«Che in certe giornate particolarmente roventi, quando il sole è a picco sulle
rocce, diversi cowboy che si sono trovati a cavalcare nei luoghi dove ci fu la
sparatoria, giurano sulle loro madri di avere visto due donne a cavallo baciarsi
in fondo all’orizzonte», guarda uno strano amuleto che indossa al polso. «Ma
questa è una terra di miraggi e di stregonerie».
«E te, vecchio? Le hai mai viste?».
«Io sono quello che l’ha viste più volte».
«Oste, dagli la migliore bottiglia di whisky che hai», gli mette in mano un
pugno di banconote. «Sono venuto dall’altra parte del mondo per ascoltare
proprio una storia così».
«Che intendi, straniero?».
«Che ti sei meritato una bella sbronza», prende da una tasca un piccolo
sacchetto e lo mette sul bancone. «E anche questo».
«Spero che dentro ci sia una bella manciata d’oro… eh-eh-eh…».
«C’è qualcosa di molto più prezioso, un antico portafortuna».
«E cosa diavolo dovrei farmene di un maledetto portafortuna?».
«Portarlo con te dentro la bara, ti servirà».
«Che sia maledetto, quando sei sotto tre metri di terra significa che la fortuna
ti ha già abbandonato», mostra i pochi denti rimasti. «E poi una volta di là non
servono certo più i portafortuna».
«Sbagli, vecchio, questo dipende da chi incontri nell’aldilà», si alza dallo
sgabello avviandosi verso l’uscita. «A volte sono più pericolosi gli incontri
con i morti che quelli con i vivi».
«Sentito, Sal…? Questo straniero deve avere qualche rotella fuori posto, per
tutti i diavoli!».
«Tom Mullen, ho paura che nel tuo aldilà incontrerai almeno un paio di persone
molto pericolose», apre le porte del saloon lasciando entrare una spada di sole
che taglia precisa la faccia del vecchio.
«Ma come diavolo…?», il vecchio irlandese sobbalza sullo sgabello. «Mi ha
chiamato per nome… come fa a sapere come mi chiamo…?».
«Forse gliel’ho detto io».
«No, dannato oste! Non gli hai detto un bel niente! E nemmeno io», si alza in
piedi. «Aspetta, maledetto straniero! Dimmi come accidenti fai a sapere il mio
nome!», prova a correre verso l’uscita, ma ha le gambe di un vecchio. «Ehi! Dico
a te!! Perché mi hai chiamato Tom Mullen?!», ma lo straniero è già oltre la
nuvola di polvere alzata dagli zoccoli del suo cavallo.
«Sal… aiutami a tornare al bancone…», si aggrappa con entrambe le mani al legno
delle porte basculanti.
«Vieni qua, vecchio, prima che ti stecchisca un infarto», lo riaccompagna al
bancone.
«Un po’ d’acqua… dammi un bicchiere d’acqua…».
«Un bicchiere d’acqua? Maledetto vecchiaccio, ci sono voluti dieci anni di
whisky e tequila per sentirti chiedere un po’ d’acqua!». «Dammi questo dannato bicchiere d’acqua, stupido di un oste», si sbottona
nervosamente la camicia. «Fammi vedere cosa diamine c’è qui dentro», apre il
sacchetto lasciato dallo straniero e tira fuori un orologio da taschino legato a
una catenella d'oro.
«Per tutti i diavoli…», lo apre e sbianca più della luna quando risplende piena
sopra la creste dentellate delle Superstition Mountains. «Lei?! Ma allora lo
straniero è…», sembra vedere l’inferno, con le fiamme che gli salgono in faccia
dall’orologio. «Capito, dannato oste?», beve l’acqua tutta d’un fiato, seppur la
mano tremolante e senza più controllo gliene faccia rovesciare metà addosso. «Lo
ricordo bene… si diceva che prima di cambiare gusti quella maledetta avesse
lasciato in giro un dannato marmocchio…».
«Cosa stai farneticando, Tom?».
«Farneticando?», lo sguardo è diventato improvvisamente alienato, folle, con gli
occhi che guizzano da ogni parte. «Ecco dove avevo già visto la sua faccia! È
suo figlio, per tutti i diavoli! Capisci, stupido oste?!».
«Calmati, o stavolta ci lasci la pelle davvero!», va al di là del bancone
tentando di tranquillizzarlo.
«Quella dannata sgualdrina… è da quel giorno che vuole regolare i conti con
me…», suda, mentre il viso diventa improvvisamente cianotico. «Aria… mi manca
l’aria, Sal…», scivola sul pavimento con le mani a tenersi il petto che si alza
e abbassa convulsamente.
«Ehi, vecchio irlandese!», si accuccia su di lui. «Non avrai mica intenzione di
crepare nel mio saloon?!».
«Janet… sei riuscita ad ammazzarmi anche da morta…», gli occhi fissano l’oste,
scambiandolo per una grossa vacca che gli sorride soddisfatta.
«Qualcuno corra a chiamare Doc, maledizione!», ma il dottore è sempre troppo
lontano quando un uomo è già morto.
Sei riuscita ad ammazzarmi anche da morta...
Sì, Tom, l’ha appena fatto, ma lo
sapevi da trentanni che sarebbe finita così.
Avrebbe preferito metterti un paio di pallottole in corpo, ma all’inferno non è
permesso sparare, i colpi avrebbero rimbombato troppo, per questo si è dovuta
accontentare di farti crepare così.
La vendetta è un piatto da servire freddo, ma a volte bisogna persino congelarlo
per farlo resistere alle temperature dell’Arizona.
«Dovevi crepare proprio nel mio saloon, dannato irlandese».
E Janet ha sempre conosciuto perfettamente l’arte della conservazione.
EPILOGO
Lo straniero si ferma in mezzo ai cactus
saguaro, in un punto preciso.
«Buono, Spark!», il cavallo si impenna impaurito, una paura invisibile che solo
un animale sa vedere. «Calmati!», tira con forza le redini, riuscendo a fatica a
rabbonirlo. «Su, da bravo!», gli liscia il muso e scende dalla sella.
Si inginocchia sul terreno e come gli antichi sciamani inizia una cantilena che
lo porta in uno stato di trance, uno spazio onirico dove il corpo diventa un
rozzo contenitore di sangue, ossa e pelle, lasciando solamente l’anima a
vegliare sull’universo dell’ignoto e dell’irreale.
Vola sopra le creste dentellate delle Superstition Mountains e guarda oltre la
storia della magia, scrutando le sue origini nelle caverne millenarie nate prima
dell’uomo stesso, e vede tutto, ogni albero, ogni roccia, ogni animale, ogni
piccola e singola essenza dello spirito.
In mezzo alla sua cantilena sa riconoscere la voce del deserto che gli sussurra
di tempi lontani, d’amore, di morte, di pallottole e di baci, quasi dei
bisbigli, ma così nitidi e vicini da farlo rabbrividire.
AGENTE DOUG JAMESON
LA "DOTTRINA ASIATICA" È TUA
di Gérard de Villiers e Salvatore Conte
(1980-2022)
Avevo un nuovo fascicolo.
Abu Dhabi era inquieta. Non era più un tranquillo feudo di periferia.
La “Dottrina Asiatica” della Cina non l’aveva risparmiata.
23 marzo 2008, domenica. Partii
con un colloquio alla nostra Ambasciata. I cugini inglesi avevano perso due
agenti, due giovani donne infiltrate fra le cortigiane di uno sceicco cadetto,
cugino dello Sceicco al trono.
Erano state individuate ed eliminate.
Chiesi al Capo operazioni dell’ MI5 come fosse avvenuto l’inserimento.
«Noi ci eravamo dati da fare perché una delle ruffiane abituali dello Sceicco,
una libanese di nome Layla, sapesse che c’erano sul mercato due ragazze pronte a
partire per il Medio Oriente, purché ci fosse da guadagnare molto».
«Come avete fatto?».
«Oh, il sistema classico», continuò il cugino. «Tramite una ragazza che aveva
già lavorato con quella Layla e con la quale noi avevamo dei rapporti. Quando
Layla è venuta a Londra per il “reclutamento”, quella ragazza le ha presentato
Vera e Julie, le nostre agenti. Il resto è stato facile. Layla le ha fatte
venire ad Abu Dhabi. Hanno conosciuto Khalid Bin Rashid, il cugino dello
Sceicco, a una festa in casa della libanese. Poi lui le ha invitate a passare un
po’ di tempo nel suo palazzo. Credo che avessero conquistato una posizione
privilegiata nella sua intimità».
Mentre l’inglese aggiungeva qualche dettaglio, la mia mente aveva ormai ottenuto
quello che cercava: una pista che portasse diretta al cuore del problema. E
quella pista si chiamava Layla. Una donna
che sfruttava altre donne, che era la cerniera delle bassezze indigene, non
poteva non sapere ciò che stava avvenendo. Probabilmente non era affatto un
personaggio di spicco nella recita, ma doveva conoscerne gran parte del copione.
D’altronde quale agente inglese avrebbe rincorso una puttana libanese? Se
all’Agenzia davano a me i fascicoli marroni, era perché scavavo bene nella merda.
Ora il rischio era che la merda sparisse troppo presto nelle fogne, perché se un
inglese non avrebbe capito cosa fare, i cinesi lo avrebbero capito presto.
«Mi ascolta, Mr. Nolan?», il cugino aveva capito che non lo stavo ascoltando.
«Sì, certo, Mr. Phoenix. Parlare con lei mi è stato utile. Ora se permette…».
Non fui molto anglosassone, ma lui comprese lo stesso.
Quando rimasi solo con il mio Capo operazioni, un tale di nome Ralph Nader, che
forse pensava di essere in vacanza, gli dissi che per un po’ non mi sarei fatto
vedere, salvo emergenze. Ma prima doveva organizzarmi un aggancio con la Layla
di cui si era parlato.
E
subito. Perché rischiavo di arrivare tardi sulla preda, più tardi di altri.
Rimase
a riflettere. E poi scelse la pedina da cui partire.
Non persi tempo nel recarmi al Golden Falcon, un ristorante indiano nel cuore di
Abu Dhabi.
Infatti mi venne incontro un indiano col turbante, dagli occhi di bragia e dai
denti bianchissimi: «Ha prenotato, signore?».
Il
ristorante, decorato con vetri e miniature indiane, era completamente vuoto.
«Vorrei vedere il signor Mufti. Per organizzare una cena».
«Vado a vedere se c’è», mi rispose il cameriere.
Qualche secondo dopo fece la sua comparsa un uomo che poteva essere l’egiziano
di Nader. Gli strinsi la mano: «Vengo da parte di Pete», era la parola in codice
della rete di Nader.
«Mi segua», e mi condusse sul retro del locale, fino alla cantina.
Maneggiando fittiziamente una bottiglia, mi chiese cosa avrei preferito per una
buona cena.
«Vino libanese. Non l’hanno inventato loro? Il classico Tanit. O il nuovo Nadat...
ne ho sentito parlare: che gusto ha?».
«È una donna molto attraente, ma ha imboccato la china
discendente», l’egiziano non aveva retto la metafora, però era bravo con le
rime. «Pare sia stata Miss Libano, qualche tempo fa. Ma attento!
È dinamite. Farebbe qualunque cosa per il denaro.
Inoltre, è certo manipolata da uno o più servizi segreti. Riceve un mucchio di
gente, del posto e stranieri. Ci sono sempre belle ragazze a casa sua. Organizza
incontri con gli sceicchi e gli emiri, ed è in contatto con le reti europee
della prostituzione di lusso».
«La conosce personalmente?».
«Chi non la conosce? E poi qui bisogna conoscere tutti».
«Potrebbe presentarmela?». L’egiziano sorrise imbarazzato.
«Non è facile. Potrebbe insospettirsi. Finora la mia copertura è stata perfetta,
non devo commettere imprudenze».
«E se io fossi con una bella ragazza…?».
«Sarebbe diverso», ammise l’egiziano. «Si potrebbe organizzare la faccenda. Ma
le serate da Layla sono talvolta un po’ particolari. La sua amica non deve
scandalizzarsi se qualcuno le chiede chiaro e tondo di stendersi su un letto».
«A questo
ci penso io».
«Allora telefonerò a Layla dicendole che c’è una ragazza da mettere nel suo
giro. Poi sarà lei stessa a mettersi in contatto con lei. È
più sicuro così.
Come si chiama la ragazza?».
«Kelly. Ma bisogna far presto, capito?».
L’egiziano annuì.
Il colloquio era finito e la bottiglia tornò al suo posto.
Quella sera stessa, in albergo, abbordai una ragazzona bionda che viaggiava in
comitiva con altri giovani. Una connazionale, formosa e svitata. Il fruscio dei
dollari mi rese affascinante come George Clooney e una mazzetta da 5.000
convinse la ragazza a mollare la comitiva.
La ribattezzai
Kelly e le spiegai
cosa mi aspettavo da lei. Doveva solo accompagnarmi a una festa e tirarsela un
po’. Ma prima era probabile che dovesse incontrare la padrona di casa ed essere
gentile con lei, dicendole che in cambio di molti soldi l’avrebbe seguita anche
nel deserto. Le mostrai il mio tesserino da dirigente bancario, per rassicurarla
sul mio status sociale. Volevo solo divertirmi un po’. Uscire dal tetro grigiore
della banca.
Con il poco tempo a disposizione non si poteva fare di più.
24 marzo 2008, lunedì.
Aspettavo che Layla si facesse viva, trastullandomi con la biondona nella
piscina dell’albergo.
Finalmente una donna si sistemò su una sdraio a bordo piscina. Ancora non sapevo
se fosse libanese, ma poteva essere la bandiera un po' ingiallita del Libano.
La sconosciuta indossava un copricostume bianco, aveva un seno più che abbondante, i fianchi piuttosto pesanti e le
gambe abbronzate, polpose e lunghe. Il suo modo di pavoneggiarsi era compatibile con una ruffiana di lungo corso. La donna si muoveva con gesti studiati,
sentendosi osservata. Accese con cura una sigaretta e si immerse nella lettura
di una rivista francese.
Ero
abbastanza indeciso: per certi versi,
sembrava proprio una ex puttana; per altri, il volto da principessa mi lasciava perplesso.
Era imbolsita, ma con gusto, e prometteva di invecchiare abbastanza bene.
Speravo comunque che fosse
Layla.
Mandai
Kelly a tastare il terreno. La
ragazzona si sdraiò accanto alla
sconosciuta, che cominciò a osservarla con la coda dell’occhio.
Mi avvicinai.
La presunta libanese puntò la sigaretta verso i
capelli di Kelly ed esclamò con voce calda: «Bel colore! È il suo?».
«Al 100%», rispose la bionda.
«Non ci sono molte ragazze carine e bionde come lei, in questo paese», disse la
sconosciuta. «Rischia di farsi rapire».
«Oh, ma io non sono sola», ribatté Kelly.
L’altra sfoderò il suo caldo sorriso.
«Mi chiamo Layla. Vivo qui da molto tempo e forse potrei esserle utile, se ha
qualche problema. Conosco molta gente».
«Io mi chiamo Kelly. Lei è molto gentile».
Era fatta. Era lei. Salvo che non fosse un abboccamento. Ma una così non era
facile da imitare. Ex Miss Libano o no, emanava una sensualità bestiale.
Le lasciai parlare un po’. Poi decisi di entrare in scena.
«Ti presento Layla», disse Kelly, non appena mi vide accanto a lei. «È la mia
nuova amica».
Layla mi porse la mano.
«Buongiorno», lo disse con voce così sensuale da far bestemmiare un arcivescovo.
Splendida creatura. Anche se stava sformando. Il seno era cadente, il collo
gonfio, le gambe più che paffute. Ma gli occhi caldi e profondi non sembravano
quelli di una puttana.
«Layla, lei è davvero affascinante. Io sono Mike».
La
libanese mi fulminò indurendo lo sguardo, che solo un attimo prima sembrava
quello di una sempliciotta giocherellona.
«Credo che Kelly e io ci intenderemo molto bene. L’ho invitata, se lei
permette, a una cena in cui mancano le belle ragazze. Domani sera».
Kelly fece una smorfietta da bambina offesa: «Ma io non posso lasciare solo
Mike. Non sarebbe carino», recitava bene la sua parte.
«Si vede subito che è una brava ragazza», disse Layla, con formula di
circostanza.
Le cose andavano fin troppo bene.
La
libanese
attese qualche secondo prima di
abbozzare il suo accattivante sorriso e accettare le condizioni: «Comunque, lei
è il benvenuto. Ma non intendevo imporle una cena in cui non conosce nessuno.
Sono miei amici. Ci sono molte persone del luogo, e so che gli stranieri si
trovano spesso a disagio con loro».
«Mi piace molto conoscere gente nuova».
Layla si alzò, conscia del fascino non troppo latente che si sprigionava dal suo corpo,
sebbene decisamente appesantito rispetto al passato.
«In tal caso, appuntamento a domani sera», disse. «Ho già spiegato alla sua
amica dove abito».
«È gentile a invitarci», disse Kelly.
Layla sorrise di nuovo.
«Mi piace avere intorno facce nuove».
Mi rivolse uno sguardo languido e si allontanò con uno studiatissimo passo
ancheggiante, forse non più molto adatto per lei.
«Ben fatto, Kelly».
La ragazza fece una smorfia: «Mi chiedo se non sia lesbica. Sapessi quanti
complimenti mi ha fatto! In ogni caso, non le piacciono molto gli uomini.
Se è sesso che cerchi, non preferisci farlo con me…? A me sembra sorpassata. Si
porta appresso un bel po’ di cellulite…».
«Che cosa fa nella vita?».
«Oh, ha molti soldi… credo che nella sua vita ci siano un paio di uomini
ricchissimi. Dev’essere stata molto bella. Ma mi sembra che tu sia arrivato
tardi…», accompagnò le parole con un risolino malizioso.
«Meglio tardi che mai, okay? Ora rilassati…».
Il piano era partito bene, ma potevano ancora infilarvisi parecchi granelli di
sabbia.
25 marzo 2008, martedì. Layla
avvolse Kelly in uno sguardo goloso, poi si voltò verso di me, col suo sorriso
luminoso.
«La sua amica è davvero bellissima! Non si vedono spesso ragazze così, ad Abu
Dhabi».
«La sua modestia è degna del suo inimitabile fascino», ribattei in tono galante,
chinandomi a baciare la mano alla libanese.
L’appartamento era piccolo, arredato in modo molto moderno, con piante verdi
dappertutto, tappezzerie cangianti e comodi divani. L’impianto stereo diffondeva
una musica dolce.
C’erano già una mezza dozzina di uomini baffuti, tra i quali
il direttore delle Middle East Airlines e un arabo in dishdasha. Più tre
ragazze, evidentemente indigene, vestite piuttosto male, ma spudoratamente
truccate.
Layla era, con Kelly, la più eccitante. L’arabo in dishdasha si mangiava
letteralmente con gli occhi la ragazzona bionda.
Improvvisamente
una musica araba sostituì gli Spandau Ballet.
Poco dopo, Layla inscenò da sola
una specie di raffinata danza del ventre. La libanese si dondolava con estrema lentezza, le braccia alzate, le mani che si
toccavano dietro la nuca. Molto eretta, petto in fuori. La cosa più sensuale era
il movimento delle anche. Scatti laterali, smorzati, inframmezzati da improvvise
ondulazioni in avanti e indietro, come se la danzatrice non riuscisse a
controllare i muscoli.
Layla girava lentamente su sé stessa, come una statua
sulla base. Con il suo sorriso caldo e rassicurante fisso sulle labbra vellutate. Seguiva
perfettamente la musica, dondolando al ritmo del tamburello.
A poco a poco tutti
gli invitati le si strinsero intorno, sedendosi sul tappeto.
Layla cominciò
lentamente ad allargare i piedi, come se una gamba invisibile divaricasse le
sue, aprendo lo spacco del vestito fino alle cosce.
Il suo corpo continuava a
essere agitato da fremiti, ma le anche non si muovevano più. Il ventre scattava
in avanti a ogni colpo di tamburello.
La libanese aveva assunto ora
un’espressione estatica, quasi dolorosa. Il ritmo dei tamburelli accelerava. A
poco a poco, Layla cominciò a piegarsi all’indietro, come se non avesse colonna
vertebrale. I seni le spuntavano dal décolleté, il tessuto sottolineava ogni muscolo
del suo ventre e le procaci rotondità dei suoi fianchi. Tutti trattenevano il
respiro. Con un’ultima scossa e una specie di gemito, Layla si immobilizzò
nell’attimo stesso in cui finiva la musica.
Gli applausi scrosciavano, mentre
lei si rialzava lentamente.
Non avevo mai visto mimare l’amore in quel modo.
E
pensare che avrei dovuto ammazzarla, se non mi avesse dato quello che volevo.
Layla pareva spossata, un sorriso stranamente spento le tirava i lineamenti sensuali.
I seni le si sollevavano ancora tumultuosamente.
All’improvviso, vidi il suo
sguardo rianimarsi. Senza nemmeno rimettersi le scarpe, Layla si avviò alla
porta. Era entrato un arabo con una lunga dishdasha bianca. La kefiah copriva in
parte un viso molle, dai tratti regolari e gli occhi sporgenti. Giovanissimo.
Layla abbracciò il nuovo venuto, lo prese per mano e lo condusse in mezzo alla
stanza.
«Siamo molto onorati della visita del mio amico, lo sceicco Khalid Bin Rashid»,
disse.
Il cugino dello Sceicco regnante sugli Emirati. Un beota manipolato dai gialli.
Era arrivato. Per lui erano morte due agenti inglesi. Layla lo conosceva bene.
Era usata o complice, con la speranza di salire posizioni a corte.
Entro quella sera avrebbe vuotato il sacco.
Il giovane sceicco si guardava intorno, sorridendo timidamente. Poi posò lo
sguardo su Kelly e non lo distolse più. Layla continuava a sorridergli. Infine
lo riprese per mano e me lo portò vicino: «Un mio amico, Mr. Mike Nolan,
dirigente di banca. Con la sua affascinante amica, Kelly».
Lo sceicco mi guardò appena, ma prese nella sua la mano della bionda e la tenne
stretta: «Lei è davvero stupenda. Posso invitarla a danzare?».
A illuminare la stanza era rimasto un candeliere posato sul tavolo. Le coppie
che danzavano erano sagome confuse. Lo sceicco non si era praticamente mai
staccato da Kelly. In piedi, accanto alle tende, fingevano di ballare.
Per ora tutto filava liscio.
Stavo bevendo qualcosa, quando si avvicinò Layla. La libanese mi tese una mano,
costringendomi ad alzarmi dal divano: «Mi faccia ballare», disse con la sua voce
sensuale.
Ci ritrovammo all’angolo opposto a quello dello sceicco. Layla era piuttosto
alta. I tamburelli continuavano, lancinanti, accompagnando canti arabi
sincopati. La libanese mi passò le braccia intorno al collo, dicendo: «Si lasci
guidare, è una danza per donne». Un’altra danza estremamente sensuale. Solo i
ventri si toccavano. Il tessuto leggero di Layla frusciava contro l’alpaca.
Era il fruscio della vipera, ma l’aquila stava per piombare su di lei.
«Le piace?», mormorò la vipera.
A poco a poco ci allontanammo nel corridoio. Vidi una coperta di zebra su un
grande letto, in una camera debolmente illuminata. Layla sollevò il viso verso
di me. La baciai.
Allacciati l’uno all’altra entrammo nella camera.
Layla si
lasciò cadere sul letto e disse con voce roca: «Presto, prima che il disco
finisca».
Una vera puttana.
Fu un amplesso breve e selvaggio.
Con una vera puttana.
Layla si rialzò, dicendo: «È stato meraviglioso».
Mi chiesi con quanti uomini avesse fatto la stessa cosa così, tra due porte,
pensando ad altro. Ma perché me lo chiedevo?
Tornammo nel soggiorno, abbracciati come se avessimo appena terminato di
ballare.
Nessuno danzava più. Cercai con lo sguardo Kelly. Era sparita, e con lei era
sparito lo sceicco Khalid Bin Rashid.
La vecchia puttana libanese m’aveva fregato, ma le avrei messo in conto anche
questo.
Layla scoppiò in una risata nervosa e, forzando un po’ troppo il tono divertito,
disse: «Se non tornerà, le permetto di venire da me a lamentarsene. Sarò felice
di rivederla».
«Mi accompagna in albergo?».
Il volto della donna si irrigidì: «Mi dispiace, devo mettere in ordine
l’appartamento: attendo altre visite.
Ma se non ricorda la strada, posso aiutarla».
«Non mi sembra così difficile».
«E invece lo è, perché ci sono dei lavori in corso. Abu Dhabi è sempre un enorme
cantiere. Uscendo da qui dovrà girare a sinistra in Schikal Square, poi in
Sheikh Khalifa Street, di fronte al Nihal. Là dovrà attraversare un cantiere, ma
eviterà così di fare un lungo giro».
Sembrava un vigile del traffico, ma era solo una vecchia puttana libanese.
Qualcosa non tornava.
«Motivo in più perché lei mi accompagni. La prego, non ci vorrà molto. La farò
tornare in taxi».
«Non insista, per favore. Se farà come le ho detto, tornerà in albergo senza
alcun problema».
Mi guardai intorno. Eravamo soli. Il colpo era stato organizzato bene. Gli
invitati se n’erano andati contemporaneamente allo sceicco e alla sua bionda
conquista. E questo rappresentava per me la migliore delle opportunità.
«Non dimentichi di chiamarmi se dovesse sentirsi troppo solo…».
Quando la donna si mosse verso la porta d’ingresso, la brutalizzai sbattendola
con le spalle al muro; un attimo dopo le puntai alla gola il coltellino nascosto nel tacco della scarpa: «Ascolta,
Layla…
hai superato i 45 anni dopo
una vita di merda: cerca di non farti ammazzare come una stupida in meno di un
secondo…», e le feci sentire il morso dell’acciaio sulla base del collo.
Era sbiancata. Con le pupille contorte cercava di individuare l’arma che sentiva
premere contro di sé.
«Non fare un movimento, non parlare. Non sono qui per ucciderti, altrimenti
l’avrei già fatto. Tu sei comunque una donna morta. Se farai ciò che ti dico, ne
uscirai pulita, senza un secondo graffio. Altrimenti la tua carriera di puttana
finisce con la nostra bella scopata».
Era troppo tesa per ascoltare il senso delle mie parole.
«Sto sprecando tutte queste parole perché in fondo mi sei piaciuta e spero tu
non sia tanto stupida da farti ammazzare».
Era terrorizzata.
Sudava freddo.
Le lasciai qualche secondo di respiro, per farla calare nella situazione,
tenendole sempre il coltello premuto contro il collo, di piatto.
«Lo sai per chi lavoro?».
Allontanai leggermente il coltello per darle modo di parlare.
«Ti prego… ti prego…», mi supplicava, con gli occhi eccitati di paura.
«Lo sai per chi lavoro?», ripetei la domanda.
Lei scosse la testa. Una lacrima di disperazione le rigò il volto.
«Hai mandato a morire due ragazze inglesi.
Lo sai per chi lavoro?
Ma tu sei solo una puttana. Se vuoti il sacco e non fai cazzate, ti metto sotto
protezione. Se mi fai incazzare, ti squarto, hai capito?», le strinsi forte il
collo con la mano libera dal coltello. Le feci mancare il respiro per una decina
di secondi.
Mi
ripugnò farlo, non mi piaceva mettere le mani addosso a una donna.
Ma
dovevo metterle paura
sul serio.
Poi l'afferrai per il braccio e la trascinai fuori dall’appartamento.
Non c’era quasi nessuno in giro. La spinsi nella mia Mercedes, sul posto di
guida. Io salii dietro. Le feci subito indossare la cintura di sicurezza. Poi
recuperai la Beretta, innestai il silenziatore e portai il colpo in canna.
Quindi le
passai le chiavi dell’auto.
«Guida tu. Vai piano. Se cerchi di fregarmi, non ti accorgerai neppure di
morire».
«Ti prego, abbassa la pistola. Non voglio farmi ammazzare...», sussurrò, con
ritrovato controllo.
«Riga dritto e non ti succederà niente». Abbassai la pistola.
Mise in moto e raggiunse la strada principale. «Dove devo andare?», mi chiese.
«Al mio albergo. Lo conosci. Taglia per il cantiere di cui mi hai parlato».
«Ma…».
«Niente “ma”. Fa' come ti dico e non superare i 50».
Layla stava sudando mentre guidava. Perle di sudore le costellavano il collo e
il petto fino a scomparire nel décolleté.
Quella non era più la paura di me.
Una puttana come lei, esperta di vita e di uomini, doveva aver capito che non
ero un assassino.
Quella era un’altra paura.
Era la paura di finire nella stessa trappola in cui voleva far cadere me.
Rallentò e accostò sulla destra, senza alcun preavviso.
«Chi ti ha detto di fermarti?».
«Ascoltami, Mike… io sono sola qui ad Abu Dhabi… la mia vita non vale niente per
loro.
Se parlo, sono morta. Lo capisci?».
Stava ritrovando lucidità.
Se
non altro, era in gamba, questa Layla.
Si voltò verso di me, tirandosi su il vestitino e scoprendo le cosce.
Una vera puttana.
«Quanto manca al cantiere?».
«È a 200 metri, dietro l’angolo».
«Come pensano di eliminarmi? In quanti sono?».
«Non lo so. Ti giuro, non lo so. Io dovevo solo suggerirti di tagliare per il
cantiere», cercò di addolcire le parole con uno sguardo languido e una
sensuale, animalesca vibrazione del ventre.
Lo spionaggio giallo funzionava sempre meglio.
Mi avevano già individuato. Kelly era in pericolo, ma essendo un’ochetta,
autentica, avrebbero scoperto che era pulita, che l’avevo soltanto usata. Non
avrebbero sparso altro sangue per nulla.
Invece Layla l’avrebbero ammazzata senza neanche pensarci mezza volta.
Musi gialli e sceicchi degli Emirati non avrebbero mai permesso a una puttana straniera di
giocare alcun ruolo. L’avevano semplicemente usata, come io avevo fatto con la
bionda.
Se
ora l’aveva capito davvero, non mi avrebbe creato problemi. Se era intelligente
quanto puttana, non solo non avrebbe cercato di fuggire, ma avrebbe dovuto
preoccuparsi che non fossi io ad abbandonare lei.
«Andiamo a bere qualcosa, Layla.
Un pub all’inglese. Ce ne sarà uno, no?».
La vidi tirare un sospiro di sollievo e riprendere la marcia con un'inversione a
U.
In un locale pubblico l’avrei definitivamente compromessa, da quel momento
sarebbe stata in mio potere, e se il mio fiuto non mi ingannava, mi avrebbe
portato sull’obiettivo. «Ha aperto da poco», mi disse, prima di entrare.
Le coprii le spalle con la mia giacca e la condussi a un tavolo isolato, perché
i segni sul collo erano piuttosto visibili.
La Beretta era in un borsello da uomo.
«Mi dispiace, Layla», non volevo scoprire le carte,
né tranquillizzarla troppo, ma rivedere quei segni, sul suo bel collo, mi fece
sentire dannatamente in colpa; anche se, in fondo, sarebbe stata complice del
mio omicidio.
«Non è niente...», lo disse abbassando gli occhi.
Probabilmente non aveva mai conosciuto la vera gentilezza da parte di un uomo.
Me lo confessò così, in quella strana occasione,
benché le avessi fatto del male. Paradossi di una vita di merda.
Ordinammo un paio di birre. Lei vuotò il suo boccale in pochi secondi.
«Veramente non dovrei bere. Sono ingrassata.
Tu che dici, Mike?», mi guardò come solo una navigata ruffiana poteva fare.
«Diciamo che non morirai di anoressia.
Il mio compito è cercare di evitarti altre morti spiacevoli.
Il tuo, quello di vuotare il sacco.
E
di scusarmi per quei segni», ancora non riuscii a
mordermi la lingua.
Di
nuovo lo sguardo di Layla si fece meno professionale, per così dire.
«Conosci una morte piacevole?».
«Quando abbiamo scopato, non mi sarei accorto di morire».
«Se è il tuo modo di essere galante con una donna, sei un fenomeno…».
«Sapevi che avrebbero ammazzato le ragazze inglesi?».
«No, te lo giuro».
«Rispondi, evitando di giurare. Chi ha ordinato la loro morte?».
«Posso solo sospettarlo, certe cose non le vengono di sicuro a dire a una
puttana libanese come me: lo sai anche tu, vero?», si stava facendo scudo della
sua stessa professione.
«Ma tu sei anche molto furba. E avida. Ti sei prestata senza ritegno».
«Mike, non sono più una ragazzina. Non manca molto alla mia pensione, se riesco
ad arrivarci, e devo sfruttare gli ultimi anni che mi restano».
«Stasera non sembravi tanto arrugginita.
Chi ha ordinato la loro morte?».
«Voglio sapere come pensi di tirarmi fuori.
E voglio vedere dei soldi. Tanti soldi».
Aveva ripreso coraggio. Anche troppo.
Col collo libero, aveva ripreso a sprizzare veleno.
Era inutile farne una questione di principio. Dovevo tirarla dalla mia parte.
Senza perdere tempo o andare troppo per il sottile. Il gioco valeva
l’investimento. Il colpo dei gialli poteva essere vicino. E lei doveva toccare
con mano che non mi muovevo per mio conto.
Mi ripresi la giacca, ormai si era seduta, e le mostrai fugacemente una mazzetta
da 5.000 dollari; spiccioli per una come lei. E le mollai sul tavolo una carta
di credito amex gold special, per poi riprendermela: «Stasera sei senza tasche,
quindi li terrò io per te. Ma sono tuoi. Resti con me finché non ho finito, poi
ti puoi rifare una vita in un centinaio di Stati, Vaticano e Cuba esclusi;
oppure puoi rimanere nel giro, una puttana avida come te potrebbe ancora
servirmi in futuro».
«Chi pagherebbe la mia nuova vita?».
«Il mio datore di lavoro, ma tutto dipenderà dal mio rapporto».
Estrassi dalla tasca dei pantaloni quello che sembrava un comune telefono
cellulare e composi davanti a lei quello che sembrava un comune messaggio.
«La tua condanna a morte è già firmata. Solo io posso salvarti dai tuoi amici e
dai tuoi nemici. Quindi non fare cazzate; te l’ho detto: ho provato gusto a
scoparti. Di sicuro non rimarrai disoccupata, la tua carriera sarà ancora lunga,
se vivrai abbastanza».
«Sono ancora la migliore, Mike».
La paura la rendeva ancora più sfrenata.
Mi si appiccicò addosso e prese a toccarmi il sesso. Per fortuna i tavoli
dell'Ally Pally Corner poggiavano su grosse botticelle oblunghe che garantivano
uno schermo perfetto; e lei era molto botticelliana.
«Non voglio morire… capisci?
Aiutami... e sarò tua. Soltanto tua…», sussurrò con tono pressante.
Ormai era compromessa ed era costretta a puntare su di me.
Ma dovevo stare in guardia: non avrebbe esitato a tradirmi, se poteva trarne un
profitto maggiore.
«Non mi fido di donne come te.
Perciò niente rapporti impegnati, okay?».
Mi
squadrò negli occhi: sapeva che stavo mentendo. Mi rimproverò seria.
Era
dannatamente seria. O così mi parve. Stavo perdendo delle certezze.
Da
vicino gli occhi erano nocciola profondo, un brutto colore.
«Come vuoi».
Lasciò in pace il mio sesso e tornò al suo posto.
«Chi ha ordinato la loro morte?».
«Lo sceicco è manipolato».
«Quale sceicco?».
«Lo sceicco Khalid Bin Rashid».
«Perché è manipolato? E da chi?».
«Una ragazza egiziana si è infilata nella sua corte. Ha preso in mano quasi
tutto. Le lascia far tutto. Lui è un debole, capisci?».
«Come si chiama questa ragazza?».
«Amina».
«Chi c’è dietro Amina?».
«Non lo so».
Ma lo sapevo io.
«Lo sceicco Rashid è ambizioso? Vuole il trono del cugino?».
«Certo che lo vuole. Lo vuole con tutte le sue forze. Ma è troppo stupido per
riuscirci da solo…».
Era verissimo.
«Avanti, tira fuori il resto».
«Una sera, a una festa…»
«Sì, c'era una volta...», la interruppi.
Lei sorrise di quel sorriso rassicurante e caldo.
Distolsi lo sguardo e sbuffai. La cosa evolveva negativamente.
Non
c'era più panico nella sua voce.
«Il capitano Numeiry, il capo della sicurezza personale dello Sceicco al potere,
si è lasciato scappare qualcosa con una delle mie ragazze. Era ubriaco. Ha
vagheggiato di nuovi orizzonti, di un nuovo inizio. Ha mormorato “Umm Shaif”.
Non mi chiedere come, ma ho collegato quell’informazione a degli strani
movimenti nel porto di Dubai. Forse lo sai, ma quando io mi sbottono… in molti
perdono la testa… e si sbottonano a loro volta…».
«Ma non gli riesce di essere belli come te…
Vai avanti».
«Pare insomma che fra tre giorni, il 28 marzo, lo Sceicco che comanda questo
paese di citrulli sarà a Umm Shaif, per il fastoso Cinquantennale del primo
schizzo di petrolio da quella fottuta piattaforma; e da Dubai potrebbero
arrivare degli ospiti indesiderati, magari su una piccola barca…».
«Cazzo...».
La baciai in bocca. Mi aveva convinto.
Scrissi un altro messaggio, del tutto speciale.
Poi
tornai a concentrarmi su di lei.
Questa Layla era dannatamente in gamba. Anche troppo.
Cominciai a guardarla sotto un'altra ottica.
Ma
ora era tempo di andarsene.
Benché una Mercedes super lusso come quella che usavo fosse ad Abu Dhabi quello
che una Ford T era a New York cento anni prima, feci mettere in moto da un
cameriere, dicendogli di sgassare un bel po', perché faceva bene agli iniettori.
In realtà faceva bene alla mia salute.
C'erano tanti modi di farlo, ma era meglio evitare i più comuni. I gialli
usavano manovalanza locale, non degli artisti. Infatti odiavano tutto quello che
esprimesse qualcosa di originale o un barlume di individualità.
In fondo anche Layla era una puttana speciale, e speravo che questo alla fine
costasse loro molto caro. Giunti
in albergo per la strada più lunga, sprangai la porta della camera con un
mobiletto, e apposi del plastico, dosato per eliminare eventuali intrusi, sul
bordo interno della stessa porta.
«Se devi fuggire, non passare per la porta, Layla. O non faresti molta strada».
Era utile farle capire che non lavoravo per mio conto, che c’era un metodo nella
mia azienda.
Lei non tardò a entrare in azione. Mi fece sdraiare e si mise in ginocchio
sopra di me. Non trascurava di mettere a punto le ultime clausole della sua
assicurazione sulla vita, benché avesse ancora i segni della mia mano sul collo.
Fu in quel momento che la fermai.
Prima di salire mi ero fatto dare della crema lenitiva.
La
feci distendere e gliela spalmai sul collo.
«Mi dispiace... non avrei dovuto».
«Sembrano parole strane, dette da un duro come te».
«Non lo sono, Layla. È solo lavoro. Non mi sento
certo migliore quando faccio del male a una donna».
«Una donna? Una donna qualunque, Mike?».
La vipera alzava la testa e diventava un cobra.
«Non ho detto qualunque».
«Comunque mi hai commosso, agente Mike.
Sappilo, se dovesse accadermi qualcosa».
«Non ti succederà niente. Andrà tutto bene.
Adesso a nanna, tesoro».
Senza farglielo capire fino all’ultimo, le ammanettai un polso alla spalliera
del letto.
Lei rimase costernata, ma non protestò esplicitamente.
Era troppo stanca. Si addormentò in pochi minuti.
La mia Beretta dormiva sul lato opposto, sotto il cuscino.
Dopo un paio d’ore, mi svegliò: «Mike, posso andare in bagno?».
Accesi l'abatjour, avviandomi pigramente a toglierle le manette,
quando mi accorsi che il letto era vuoto e che la luce in bagno era accesa…
Controllai l’impulso d’ira.
Mi aveva svegliato lei. In fondo mi aveva chiesto il permesso. La porta della
camera era chiusa. Il bagno non aveva finestre. La chiave delle manette era al
mio polso. La Beretta al suo posto. Non c’era ostilità. Rimasi fermo. Dal bagno giungevano rumori
rituali. Aspettai che ricomparisse. Mi guardò appena. Tornò a letto e si rimise
le manette!
Oltre ad essere una splendida sgualdrina, possedeva una certa vena di ironia, e
questo rischiava di peggiorare le cose.
Fui
tentato di lasciarla così.
In effetti spensi la luce e tornai a dormire.
Ma
solo per dieci secondi.
Accesi la luce e la liberai.
Era stato meglio di una scopata.
26 marzo 2008, mercoledì.
«Colazione in camera, per favore. Stanza 49».
Avevo disinnescato il plastico, riponendolo in cassaforte, e liberato la porta.
«Veramente io non ho ordinato nessuna colazione, deve esserci un errore», il mio
vicino di stanza si stava lamentando con il cameriere.
Aveva ragione: c’era un errore.
Aprii la porta e uscii sul corridoio, dopo un’occhiatina curiosa alle due
estremità.
«Sono spiacente, ho sbagliato nel dare il numero di stanza. La colazione è per
la 47».
Chiarito l’equivoco, posai il vassoio sul letto e assaggiai per primo.
Layla mi strappò dalla bocca il croissant e mi guardò incuriosita.
«Tutto bene?».
«Ci sono veleni che agiscono dopo molte ore», le dissi.
Finì lei il cornetto e poi si ingozzò con tutto il resto. Aveva una fame del
diavolo.
«Insomma, se ho ben capito sei un agente segreto», disse, sussurrando, con moine
da Bond-girl ben stagionata, «quindi avrai un modo per valutare i rischi, no?
Altrimenti nelle mani di chi mi sono messa?».
«Tutto dipende dai nemici del nostro simpatico vicino di stanza: spero siano
preferibili ai nostri…
Adesso che hai finito, però, dobbiamo andare, Layla».
«E dove? Io non mi muovo da qui!».
«Andiamo in ufficio. Quando sei in gioco, non devi avere paura. Gli altri devono
averne».
«Parli come se fossi sotto addestramento…
Ma a me interessa solo salvare la pelle.
Dopo ti mollo e torno alla mia vecchia vita, capito?».
Stava calcando i toni. Voleva provocarmi.
«Adesso sei sotto la mia protezione, dopo farai quello che vorrai».
Non avevo tempo per giocare con una vecchia puttana libanese.
Le lanciai una delle mie camicie e una tuta da ginnastica.
Le stava bene tutto.
La camicia era deliziosamente increspata dal suo pesante seno.
Io non l’avevo mai portata così bene.
«D'accordo, facciamo un salto in piscina, okay?».
A bordo vasca feci la conoscenza di una bella
puttana: Romina Lopez.
Faceva la rappresentante di gioielli e teneva sempre con sé, legata al polso da
una manetta d’acciaio, una valigetta rigida contenente il suo campionario.
Layla ne era molto incuriosita. Le due scambiarono qualche parola. Per certi
versi erano più che somiglianti.
«A me non sembra tanto esperta di gioielli. Forse dovrei cambiare mestiere,
credo di saperne molto più di lei…», mi disse la libanese, in disparte. Ma a me
la cosa non interessava. Stavo aspettando reazioni dalla base.
Ero stranamente teso, cercai di rilassarmi sulla sdraio.
Layla faceva il bagno. Era dentro fino al collo.
Romina si piazzò accanto a me.
La conversazione andava a rilento, poi ebbe un’impennata: «Oh, cavolo! Ho un
appuntamento. Può farmi un favore?», e prima ancora che me ne rendessi conto, mi
aveva allacciato la valigetta al polso.
«Solo il tempo di andare un minuto al bagno, non ho nessun altro di cui fidarmi.
Lei è un angelo!», e filò via.
Non mi andava che non avesse aspettato il mio assenso. E se fosse stata una
pistola? Avevo abbassato la guardia. Improvvisamente sentii la mancanza della
mia Beretta, che avevo lasciato nella cassaforte della camera.
Ma ormai era andata.
In quel momento, Layla uscì dall’acqua. Era entrata fino al collo, forse per
non bagnarsi i capelli, che aveva raccolto sopra le spalle.
Aveva uno sguardo cattivo negli occhi. «Dove è andata quella tipa?», mi domandò,
come fosse lei il capo.
«Di là, al bagno».
«Mike, i bagni delle donne sono dall’altra parte…».
Una lampadina rossa, grande più o meno come il New Jersey, si accese nella mia
testa: «Cristo!».
Layla aveva capito prima di me e magari l'aveva pure lasciata fare.
Si
sfiorò allusivamente il collo.
Ci
guardammo fissi. Il tempo si fermò. Il mio ultimo tempo.
Controllai il panico.
Forse avrei potuto afferrarle il braccio; o forse no, mi sarebbe sfuggita.
E
obbligarla a mostrarmi la sua tecnica, costringendola a salvarmi insieme a sé
stessa.
Ma
non lo feci.
Volevo una risposta.
Ci
sono cose per cui vale la pena morire.
Cose che bisogna sapere subito.
«Stai fermo, stronzo...»
Si passò una mano in testa e tirò fuori una forcina di metallo.
Era fredda e concentrata.
Intanto, con la coda dell’occhio, vidi che la Lopez era tornata e si era
tuffata in piscina, come niente fosse.
La notò anche Layla.
«Stai fermo, è qui per vederci crepare, in acqua non corre rischi».
L’espressione estasiata della libanese anticipò di una frazione di secondo il
click liberatorio: era fatta.
«Buttati a terra, presto», dissi a Layla, poi mi mossi verso il bordo della
piscina: «Signora Lopez, qui c’è qualcosa che le appartiene», e lanciai la
valigetta in acqua a qualche metro da lei.
Gli occhi della donna si caricarono di orrore. Era la conferma che cercavo.
Romina Lopez non cercò
affatto di recuperare i preziosi gioielli, ma al contrario cominciò disperatamente
a nuotare verso il bordo della vasca, per uscire il più in fretta
possibile dalla piscina, mentre la valigetta continuava a galleggiare sulla
superficie dell'acqua.
«Tutti fuori! Via! Buttatevi a terra! Sta per esplodere una
bomba!», provai a salvare qualcuno, mentre tornavo su Layla, allontanandomi con
lei.
Un’esplosione pazzesca fece tremare il suolo.
L’onda d’urto infranse i vetri dei piani bassi.
Era
un casino mai visto da quelle parti.
Urla di panico si alzavano ovunque, ma nella zona della bomba non si vedevano
corpi.
Neanche quello, non certo esile, di Romina Lopez...
Forse stava scappando in questo momento, ma non avevo tempo per lei.
«Mi hai salvato il culo, Cristo!».
«Solo per interesse, cosa credi...».
Il
suo sorriso, però, rassicurante e luminoso come non mai finora, raccontava
altro.
Aveva temperamento, Layla. Non era una donna comune.
Anche di più: sembrava addestrata.
«Lavori per qualcuno?».
«No. Libera professionista...»,
ma ancora i suoi occhi si beffavano di me.
«Te l’avevo detto o no che quella donnaccia puzzava di marcio lontano un miglio?
Dovresti avere più fiducia in me…».
«Vuoi dire che aspiri a una carriera nella mia azienda?».
«Non ci penso proprio...
Voglio solo evitare di finire ammazzata».
Stavolta fui io a guardarla serio.
«Okay, Mike, non ho paura...».
«Chi è Mike? Uno che ti sbava addosso?».
Le strinsi i fianchi e aspettai la sua reazione.
Niente violenza, stavolta. Era qualcosa di
personale.
«Stronzo... mi hai fatto male...».
«Sei un boccone molto grosso, Layla.
E non potevo farti scappare...».
Dopo quel bacio l'adrenalina m'era schizzata alle
stelle.
«Ragioni come un uomo di queste parti...».
Mi stava facendo sentire come fossi io il puttaniere.
Layla era una grossa sorpresa.
«Era un modo di dire... le circostanze... il
lavoro... il dovere...».
Mi fissava, non se la beveva.
«Andiamo... sei una donna, Layla... non c'è nessun
addestramento per questo».
«Basta così, Mike. Non mi devi alcuna spiegazione.
Penso tu debba passare in ufficio, adesso».
«Sì, è così. Andiamo a vestirci, Layla».
Ormai si era abituata alle mie camicie.
La
feci arrivare fino a Nader.
La
riconobbe subito. Non era difficile.
Mi
guardò perplesso.
«Mi ha salvato la vita.
In ogni caso andrà protetta», l'adrenalina mi
giocava brutti scherzi.
Il Capo operazioni mandò giù il boccone, perché
aveva troppo bisogno di me in quel momento.
Con Nader intendevo mettere a punto un piano, dal momento che non avevo ricevuto
istruzioni.
Lui infatti era indeciso sul da farsi. La patata era troppo bollente per un tipo
che evidentemente si era abituato a scrivere rapporti filigranati, senza avere
il polso della situazione reale. Non era certo il solo. D’altra parte, se era
finito negli Emirati, non doveva essere un talento.
La questione centrale era data dal fatto che non sapevamo se i gialli avrebbero
sospeso il colpo.
Tuttavia, ormai, ne sapevamo abbastanza.
Nader, alla fine, concordò sul da farsi.
L’Ambasciatore avrebbe chiesto un colloquio urgentissimo e top secret con lo
Sceicco regnante. Il Capo operazioni lo avrebbe accompagnato.
L’idea era quella di mandare un sosia dello Sceicco sulla piattaforma. In ogni
caso, però, occorreva prevenire l’attentato.
Squadre di artificieri avrebbero ispezionato in segreto la grande installazione
petrolifera, nel caso i gialli avessero altre carte oltre a quella
dell’imbarcazione carica di esplosivo.
Per bloccare quest’ultima, sarebbe entrata in azione la portaerei Saratoga, che
incrociava al largo degli Emirati.
Elicotteri d’assalto, con espressa autorizzazione dello Sceicco, avrebbero
intercettato tutte le imbarcazioni sospette e non sospette. Naturalmente i
gialli avrebbero utilizzato manovalanza araba.
Se nessun pesciolino fosse caduto nella rete, gli artificieri
avrebbero rinvenuto delle cariche “made in China” sui piloni della struttura.
Non potevamo far brutta figura con lo Sceicco. Era già pronta una rivendicazione
via Al Jazeera e un leak controllato sulla “Dottrina Asiatica” dell’Impero
giallo.
Il giorno stesso lo Sceicco avrebbe fatto piazza pulita del suo entourage, a
cominciare dal cugino, passando per il suo infedele capitano della sicurezza.
In genere venivano decapitati dopo un processo sommario che durava meno di una
partita a tennis in tre set.
Ricordai a Nader che c’era da recuperare la nostra connazionale, soprannominata
Kelly, e da mettere il sale sulla coda a quella Romina Lopez.
Mangiammo un boccone per strada e ritornammo all'albergo.
Era difficile che riprovassero a farmi fuori, perché ormai avevo passato la
palla. Layla invece rimaneva una bocca da tappare.
28 marzo 2008, venerdì. Il “fine operazioni” giunse
tempestivo sul mio ricevitore criptato, simile a un
cellulare.
Il resto lo avrei appreso direttamente dai giornali, o in un briefing
d’aggiornamento a Langley.
Quel che contava era che l’azienda mi aveva messo in libertà.
Quando si arrivava alla fine, era meglio sparire il più in fretta possibile
dalla scena, e tenersi puliti per nuovi fascicoli.
Il resto lo gestiva il Capo operazioni locale, con il braccio
diplomatico.
Salvo urgenze, seguiva un periodo di riposo. Poi si riprendeva con un po’ di
addestramento, salvo urgenze. E infine arrivava un nuovo fascicolo, salvo
passare dietro a una scrivania.
La piscina era ancora inagibile.
Layla si accontentava di prendere il sole.
Sarei rientrato con altri manager della banca di copertura.
Il "fine operazioni" non poneva condizioni. Anche la libanese era libera.
Evidentemente l’operazione era andata bene e i riscontri erano stati più che
sufficienti a convincere lo Sceicco regnante che stava per perdere vita e potere
a causa di suo cugino, manovrato da potenze straniere, di colore giallo e
bandiera rossa.
Sarebbe seguita una veloce decapitazione.
Layla poteva quindi scegliere un qualunque paese civile.
Al suo arrivo avrebbe trovato un mio collega e una nuova identità.
Anche quella sera, a cena, continuammo a servirci al buffet, non prendendo mai
le stesse cose.
Il problema non era più attuale, ma esisteva un movente che non passa mai di
moda e che si chiama vendetta. In Cina ne sono dei cultori.
«Domani rientro», le dissi.
Seguì un lungo silenzio.
Layla continuò a mangiare come non le avessi neppure parlato..
«Tu puoi scegliere qualunque paese in cui l’azienda abbia una filiale ben avviata».
Poco dopo, con studiata indifferenza, si alzò dal tavolo e si diresse verso
l’uscita della sala ristorante.
La seguii immediatamente. Avevo la Beretta nell’ascellare, sotto la giacca.
La libanese raggiunse il bar dell’albergo e ordinò uno scotch.
Il barman era un tipo che non avevo mai visto prima.
«Mi dispiace, Layla. Io…», nel protendermi verso di lei, rovesciai il bicchiere.
Il barman fu solerte nel servirne un altro. Forse troppo.
Afferrai il bicchiere e glielo misi davanti agli occhi.
«Vuole bere con noi, amico?», dissi al giovane.
«Io non bevo, signore», rispose con un inglese stentato. Un po’ troppo stentato
per un albergo di quella categoria.
«Quante marche di scotch avete? Perché ha scelto proprio questo?».
Non rispondeva. Esitava.
Lo presi per il bavero della giacca. Ero nervoso.
«Rispondi…».
«Io... non so…».
«Bevi…», gli portai il bicchiere alle labbra, lui si ritrasse di scatto, io
gli gettai il liquido sulla faccia, la sua bocca era semi aperta.
La sua reazione fu tale da togliermi ogni dubbio.
Era sbiancato dal panico, gli occhi erano pieni di terrore.
Gli lasciai libero il bavero.
Cominciò a sputare per terra; il liquido gli aveva bagnato le labbra,
forse era entrato in bocca.
Dopo mezzo minuto cominciò a barcollare.
Attirai l’attenzione di un altro inserviente: «Il suo collega sta male, chiami
un medico».
Ma il barman era ormai paonazzo. Si era portato le mani alla gola. Un muco
biancastro gli colava dal labbro.
Poco dopo stramazzò a terra.
Era la fine che avrebbe fatto Layla.
La guardai. Lei guardò me.
Il
seguito lo lasciai al Direttore dell'albergo.
«Ti va se torniamo in quel pub inglese?».
Annuì appena, non era scossa più di tanto.
Intorno alla botticella, gli occhi nocciola mi fissarono. «Alla
tua vittoria, Mike...», alzò il boccale di birra per
festeggiarmi. «A che ora parte il tuo aereo?».
«Nel pomeriggio».
«Io ho scelto l’Italia, se non hai altri consigli».
«Ti troverai bene».
«Posso fidarmi dei tuoi colleghi?».
«Ciecamente. Però non abbassare mai la guardia, specie i primi tempi».
«Mi hai salvato la vita stasera, te ne sei accorto?».
«Anche tu l'hai fatto. Da queste parti sembra diventata ordinaria
amministrazione.
I
segni sul collo stanno andando via», cambiai repentinamente
argomento.
«Quelli sì.
Questa camicia me la lasci?».
«Certo. Ti sta troppo bene per togliertela».
«Dunque, Mike, sei disposto a scaricarmi così...».
«Non so di chi parli. Mi chiamo Doug».
«Doug o Mike, che differenza fa?».
«Fa molta differenza.
Per chi lavori, Layla?».
«Lavoro per rendermi indipendente».
«Qualche volta ci si innamora di una donna e poi si
scopre che è una puttana. Oppure ci si avvantaggia sin dall'inizio e poi si
scopre che invece è una donna».
«Oppure di un uomo e si scopre che è un bastardo».
«C'è niente che io possa fare per farti perdere il
tuo volo, Layla?».
«Potresti chiedermi di perderlo».
«Vorrei che tu lo perdessi e ne prendessi un altro
per... non so...».
«Sempre che tu perda il tuo».
«Mai pensato di prendere quell'aereo, Layla. Ti ho
conosciuto con questo nome e mi piace».
«Hai temperamento, Doug. Lasciamo perdere il
bastardo che ho conosciuto...», allungò la mano verso di me. E mi sorrise.
Era impossibile resistere a quel sorriso.
«Una libanese indipendente... lo sai chi è stata
l'ultima?».
«No. Tu lo sai?».
«Ne ha di anni... si chiamava Didone...».
Sorrise ancora, ma in maniera diversa.
«Prima o Seconda?».
Non c'era nessuno specchio. Solo i suoi occhi
nocciola.
Affinché vedessi io stesso la mia espressione
basita.
Per la storia si era trattato di un breve viaggio d’affari di un bancario
americano negli Emirati, ripartito poi in compagnia di una bella donna libanese,
conosciuta sul posto.
Niente di straordinario. Nessun legame, nemmeno lontano, con la decapitazione
per cospirazione del cugino dello Sceicco regnante e dei suoi complici nella
congiura.
E tanto meno nessun legame con la “Dottrina Asiatica” dell’Impero cinese.
IL BUONO, IL BRUTTO, LA BRUCA
di Salvatore Conte (2017-2022)
Cynthia Stark
s’era beccata una pallottola nello stomaco; in attesa che facesse il suo corso,
uccidendola, aveva strisciato - pancia sotto - lungo la main street, cercando di
raggiungere un obiettivo qualunque; il saloon della ghost town, ad esempio.
Prima d'allora aveva collaudato quella posizione
su altre scene; ma stavolta la faceva gratis.
Cynthia aveva ceduto a pochi passi dal defunto stabile,
piegando sfinita la testa, senza però toccare terra, nemmeno con la fronte o il
naso.
La formosa pistolera rimasta colpita a morte nella
famosa sfida finale con il Buono - detto il Biondo - e il Brutto - detto Tuco -
era infatti tanto formosa da poggiarsi a terra sui propri seni e di riuscire a
muoversi facendo leva su questi, come un gigantesco bruco.
Pertanto, pur cedendo e chinando il capo sconfitta,
la faccia era rimasta sollevata da terra, sfiorando la polvere solo con i
capelli biondi.
La bella Cynthia si considerava invincibile, ma la pallottola era entrata
nello stomaco e non le aveva lasciato scampo.
BANG
A sparare era stato il Buono; anche perché il Brutto
si era ritrovato con la pistola scarica.
Le sue condizioni erano apparse subito gravi.
Aveva strabuzzato gli occhi e compreso di essere
alla fine.
D’altronde la bellona voleva l’oro della ghost town
tutto per sé; e adesso paga un prezzo altissimo per la sua ambizione.
La gambe fremono nervosamente, ma ormai la grossa
bionda ha ceduto, la testa piegata in giù, a 90 gradi rispetto al tronco, a sua
volta poggiato a terra sui grandi seni; le mani strette sulla pancia, a cercare
disperatamente di tappare il buco fatale aperto dal Biondo.
Ormai cinquantenne, era sempre uscita indenne, o con
ferite rimediabili, dalle sue sfide.
Stavolta, però, Cynthia ha trovato la pallottola
giusta.
Lo stomaco non perdona nemmeno una pistolera di
grosso calibro come lei.
«Ehi, Cynthia… non ti tocco, altrimenti mi sa che è
peggio…», le dice il Brutto. «Il Biondo è stato proprio cattivo a bucarti la
pancia… l'ho visto, sai, dove ti ha preso...
Ehi, Cynthia... non dirmi che sei già morta...».
«T…u…c…o…», sussurra disperata, cercando di rialzare
la testa.
L’aiuta lui, prendendola per lo scalpo biondo; senza
tanti complimenti.
Quella che vede è una faccia sconfitta, che cerca di
suscitare compassione.
«Cynthia… tu sai dove ti ha preso quel bastardo…».
«Lo… so... lo... sto…ma…co…», la gran puttana
risponde con un filo funereo di voce.
«Hai preso una brutta pallottola, allora… ma non si
può mai dire fino alla fine…», la incoraggia, anche se sa che c’ha rimesso la
pellaccia.
C'è poco da fare.
Tuco molla la presa, un po' alla volta, e la testa
si affloscia tragicamente in giù, come prima.
«Cynthia… ascolta… il Biondo è stato onesto: mi ha
lasciato metà dell'oro; e anche tu avrai delle monete… eh… sei contenta?».
«S…t…o… m…a…l…e…».
«Avanti, Bruca… se molli adesso… è finita!
Non rimarrai a bocca asciutta, te lo prometto: c’è
un po’ d’oro anche per te, brucona bella…».
Cynthia è inchiodata lì: muove ancora gli stivali
d'oro, sfregando il terriccio secco, ma non riesce a spostarsi.
«Ne hai ammazzati tanti, ma stavolta è toccato a
te…», mormora fra sé il Brutto, rialzandosi in piedi, consapevole dell’amaro
destino della gran puttana, bucata a morte dal Biondo.
È la Bruca, detta Cynthia.
«Su... bevi… non darla vinta a quel cattivo del
Biondo…».
Tuco ha trovato una vecchia bottiglia all’interno
del saloon e ha versato il whisky dentro una ciotola, affinché la gran puttana
possa bere a testa in giù, come una cavalla.
E Cynthia beve…
«T…u…c…o…», sussurra disperata, cercando di non
farsi sorprendere dalla fine.
«Hai bevuto, brava», controllando la ciotola.
«Adesso mando qualche segnale, così ti fai vedere il buco.
E fai fesso il Biondo…».
«S...b...r...i…g...a…t...i…».
«Sì, certo che mi sbrigo… tu, però, devi tirare i
freni… o schizzi dritta all'inferno, cattivona bella...».
Cynthia ne ha per poco, ma Tuco ci prova lo stesso.
La Bruca combatte a terra, piantata sui grossi seni,
con i freni disperatamente tirati. Il Brutto ha preferito non muoverla.
La tragedia di Cynthia sta per compiersi.
La bellona è stata uccisa da una pallottola nello
stomaco, sparata dal Biondo.
«Ehi, Cynthia! Non ti basta la mia cartuccia?».
«Biondo!», esclama il Brutto. «Sapevo che saresti
tornato…».
«E io che avrebbe lottato, prima di cedere.
Ma è troppo tardi per gli stregoni, Tuco…
L’ho presa piena».
«Hai sparato per ucciderla?!».
«Era pericolosa».
«Potevi lasciarle una possibilità… è solo una grossa
puttana…».
«B…i…o…n…d…o…», il gutturale mormorio della
pistolera morente.
«Cynthia! Sei sempre un gran spettacolo… anche in
punta di tette!».
«M…a…l…d…i…t…o…», la gran puttana ricambia il
complimento.
«L’hai fatta bere?».
«S’è scolata una ciotola di whisky…».
«Bueno: scenderà allegra all’inferno».
In lontananza appare una nuvola di polvere.
Sono i musi rossi.
Cynthia si aggrappa a Manitù.
La Bruca lotta fino alla fine, piantata sui propri
seni, con i freni tirati a morte.
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Il racconto è un tributo alla sua bellezza, carisma, personalità.
Gli aspetti negativi sono introdotti per mere esigenze di ordine drammatico,
narrativo, teleologico.
Il ruolo della protagonista va assimilato a quello dell'attrice rispetto a un
film.
La devozione alla persona in questione, da parte dell'autore empirico, è
implicita e assoluta.
007: LICENZA DI NON UCCIDERE
di Salvatore Conte (2020-2022)
Il bambino, bendato, estrae la carte.
Una dal mazzo rosso per lei, l'altra da quello blu per lui.
L'arbitro le fa volare sulla scena.
La carta rossa rimane coperta, quella blu mostra il Jack di Cuori.
Il bambino, non più bendato, va a scoprirla.
È l'Asso di Picche!
Lei tira per prima.
«Sei fottuto, Bill...
Anna Frentzen adesso ti fotte...
hai qualcosa da dire?».
«Puttana... ti faccio esplodere
al primo colpo...».
Le battute fanno parte dello spettacolo.
Le telecamere riprendono tutto, i microfoni amplificano tutto.
Si umetta il labbro, lo guarda negli occhi e preme il grilletto...!
CLICK!
Delusione fra i suoi tifosi.
Adesso tocca a lui.
Preme per bene la canna del grosso revolver contro lo stomaco di lei: praticamente in mezzo alle tette
penzolanti, la camicetta sbottonata in maniera aggressiva, come sempre.
L'arbitro verifica attentamente la regolarità del puntamento.
Se parte il colpo, per lei è finita, non
troverebbe scampo, neanche con tutto lo staff medico pronto a intervenire.
«Mi dispiace, Anna... te l'avevo detto...».
«Vaffanculo, stronzo... premi e falla finita...».
Un sordo clamore si alza dagli spalti.
Anna Frentzen potrebbe rimanere uccisa! Sarebbe un evento clamoroso!
A nulla servirebbero gli immediati soccorsi, pronti a bordo
scena con
maschera dell'ossigeno, tamponi e plasma. È scontato che la Frentzen avrebbe subito
dalla sua parte un mecenate che alzerebbe il braccio per pagarle le spese
mediche,
come in una battuta all'asta.
CLICK!
Un clamore liberatorio si diffonde sulla scena.
Senza Stomaco va avanti.
Si riparte con le carte.
Il gioco va per le lunghe.
Gli spettatori sono in apnea da molti minuti.
POW!
Lo schienale di gioco da bianco diventa rosso.
«Puttana...».
È l'ultima parola scelta da Bill.
Nessuno alza il braccio per lui.
Sei primi e 23 secondi il suo tempo prima del rantolo finale.
Non male, ma poteva fare di meglio.
E un'ombra, soddisfatta, svanisce nel nulla.
TRE MESI DOPO
«Allora, Rashid: quanto ci vorrà per
finire il tuo cocktail?
Hai a disposizione le migliori essenze del mondo, ma bada di
non farmi saltare in aria le tette...».
«Stai tranquilla, Akana... la mia
accuratezza è ben nota.
Le tue tette sono al sicuro.
Ho bisogno di almeno tre giorni per stabilizzare tutte le
componenti».
«Non mi riguarda dove intendi
colpire, certo lo saprò dai giornali, ma non dirmi che a Beirut non sei stato
tu...».
Non c'è risposta, infatti.
James
è a bordo
«E chi cazzo è James?».
«A me viene in mente James Bond», risponde Milena
Velba, una delle luogotenenti di Akana DiChan, capo del commando Spectre
sulla chimichiera Bow Orion.
«Può essere...
Perché no? Il famoso James Bond... l'Agente
007...», conferma l'altra, Anna Frentzen.
Tutte e tre sono intorno al cadavere di un loro
uomo, rinvenuto con un biglietto infilato in bocca.
«Questo lo dobbiamo scoprire subito: Milena, con
la tua squadra, perlustra a poppa.
Tu, Anna, vai verso prua.
Voglio un costante contatto radio.
E non fatevi fregare».
E così tu saresti la famosa Anna Frentzen...
«Stronzo...».
L'agente speciale della Spectre legge il
biglietto e se lo mette in tasca.
«Dobbiamo trovarlo, forza...».
La Frentzen avanza guardinga lungo gli immensi
corridoi della chimichiera, preceduta dai suoi uomini; tuttavia sa benissimo che
se James Bond fosse davvero sulla nave, sarebbe in grado di eludere qualunque tattica
e formazione d'attacco.
Un brivido gelido le corre lungo la schiena. Se è
lui, è un avversario letale. Potrebbe farla fuori.
Però c'è una possibilità: che quel biglietto non
sia uno scherzo.
«Ehi... James... sono convinta che tu mi senta...
Non pensavo di essere così famosa, sai?
Magari divento come te...
Lo sai che ho superato una prova a Senza Stomaco?
Alludi a questo?
Comunque vuol dire che io e te ci
rispettiamo, vero, James?
Tu non pensi di darmi una coltellata come al
povero Joe, vero?
Uccideresti anche Anna Frentzen, James?
Chissà come dev'essere
una fredda lama che ti penetra nella carne…
E che sollievo dev'essere quando
te la tirano fuori...
E poi il check…
Tu sai cos'è un check, James?
No, penso di no, uno come te
non lo sa.
A me l'ha spiegato un'attrice…
molto particolare…
Il check è quando controlli
quanto ti manca da vivere, e il tuo sguardo si perde per un attimo nel vuoto, ad
aspettare ansioso la risposta.
Perché uno se la sente in quei
momenti…
Ma
io voglio vivere, James...!», a denti digrignati.
«Non me la sento di crepare. Rimarrei molto delusa nel
sapere di avere poco da vivere. Farei di tutto per salvarmi.
E alla
Frentzen nessuno dice no...
No, non sono
soltanto una vacca... in molti hanno fatto questo errore…
E pensare che a quarant'anni ero un fiorellino
leggero, una pin-up, una principessa sexy bella in tiro, non quello che sono adesso...
Qualcuno mi considera ormai una vecchia cessa. Tu sei tra questi, James?».
Mentre continua l'ispezione, la Frentzen continua a
parlare, stirandosi addosso la camicetta sbottonata, e rivolgendosi a James Bond come se lui potesse ascoltarla e
vederla.
«Guarda quanta carne che ho... James...!
Lo sai in quanti mi leccano la fica?
Avanti... fatti trovare...
Finirai in gabbia... niente di più...
Sei troppo famoso per essere liquidato...
E io? Pensi che io potrei fare una brutta fine?
Una come me non la trovi più... non penserai di spararmi addosso, vero?
Magari in mezzo alle tette...
Ne saresti capace, James?
Io, Anna Frentzen, rimarrei uccisa per mano del famoso James Bond... l'uomo che
non perdona...
Diventerei ancora più famosa...
Ci sarebbe la folla intorno al mio cadavere...
Ma anche adesso, da viva, c'è la folla... ah-ah...
E potresti esserci anche tu, James... se smettessi di fare il bambino troppo
buono...».
Intanto, però, sulla sua strada trova un altro
cadavere.
Le sono rimasti due uomini.
«No, James... da te non me l'aspettavo...
Ammazzare uno dei miei uomini...
Vuoi liquidare anche me, vero?
Perché invece non troviamo un accordo?
Qui dentro gli spazi sono stretti e basta un colpo di rimbalzo per lasciarci la
pelle...».
Un altro sibilo metallico e un altro cadavere.
L'ultimo uomo rimasto mangia la foglia e comincia
a fuggire.
STUMP!
Ma non va molto lontano.
«Okay, James...
Adesso verrò avanti a mani alzate e tu farai lo stesso.
E parleremo... okay?
Sto avanzando, James...
Sono sicura che mi vedi e che mi sbirci le tette...
Tu non sparerai a sangue freddo contro di me, vero, James?
Me la rischio, lo so, ma a me una pallottola nello stomaco mi fa bagnare...
Sarebbe eccitante crepare fra le tue braccia...
Tu ti fermeresti accanto a me, mentre muoio, vero?
Bisogna pensarci a queste cose.
Il nostro è un mestiere pericoloso.
Adesso abbasso le braccia, James.
Ma non ho armi in mano, lo vedi, no?
Devo stare attenta, perché tu spari per uccidere, quando
spari…
E io sono troppo giovane e bella per crepare…
Sono ancora una strafiga, James. E te ne sei accorto anche tu... Ti
confesso che sentirmi sotto il tuo tiro mi fa bagnare…
La sai una cosa? Mi hanno proposto lo Shanghai Lady Remix...
È una versione più raffinata del Senza Stomaco.
Da dieci metri si ha qualche possibilità di salvarsi, anche se rimane molto
dura.
Non credo che ce la farei, devo essere sincera...
Ma almeno me la potrei stirare un po'... a me piacerebbe essere soccorsa e
crepare provandoci, nella vaga illusione di potermi stabilizzare...
Allora te lo spiego, come lo hanno spiegato a me...
Ci si mette dietro un vetro per riprodurre la famosa scena.
Il vetro è blindato, eccetto nella parte che corrisponde a stomaco e addome.
Qui il gioco richiede una certa precisione. Per
simulare la fine di Elsa, o di Arthur, chi viene colpito deve strisciare fino a
un modellino d'ambulanza per avere diritto ai soccorsi, nel caso trovi un
mecenate.
Io ne avrei talmente tanti...
Ma sarebbe tardi, penso... come nel film.
Anche se il cadavere di Elsa non l'ha visto nessuno...
Rita Hayworth era bellissima e mi somigliava molto, quando avevo quarant'anni.
È una bella idea, comunque, più interessante di Senza Stomaco.
Verrai a vedermi? Potrei rimanere uccisa... Anna Frentzen uccisa...
Nessuno sa come sarà la propria morte, ma a me piacerebbe stirarmela un po', con
un bel ragazzo che mi tiene la mano.
Non un colpo in fronte, quindi: troppo rapido. Un colpo nello stomaco,
all'utero, nelle budella: quello sarebbe un colpo giusto per me. Anche più
d'uno, se mi sentissi in forma.
Te lo ricorderai, James? Perché prima o poi potrebbe capitare di spararci
addosso...
Comunque non mi fermo qui: fra tre settimane do il bis a Senza Stomaco.
Incasso un milione di dollari.
Verrai a vedermi, mentre crepo senza stomaco?
In genere rimangono al massimo una decina di minuti da vivere, ma si può essere
freddati sul colpo, se non si reagisce allo shock. Chissà io come me la caverò,
quando toccherà a me...
Ce n'è uno, però, che si è addirittura salvato.
Come ha fatto non lo so.
Si gioca con una calibro 357 magnum: nessuno scampo è possibile.
Solo quel tizio se l'è cavata, ma è stato un caso eccezionale.
E comunque, a quanto mi dicono, è ridotto a una larva umana.
Io farò bagnare tutto l'eccellente pubblico: nessuno vuole la mia morte.
Sono piuttosto famosa, l'hai scritto tu stesso, James...
E sono corteggiata da pezzi molto grossi. Sono ancora una bella ragazza, in
fondo.
Di sicuro proverebbero a salvarmi, ma ci sarebbe poco da fare.
Anna Frentzen verrebbe portata via cadavere, con un lenzuolo sulla faccia.
Una scena tragica, che tu non vuoi anticipare, vero, James?
Se mi ammazzi subito, con una pallottola in mezzo agli occhi, ti perdi lo
spettacolo di Anna senza stomaco, che boccheggia morente in mezzo a una folla di
vip rimasti con il fiato in sospeso per lei.
Sarebbe stupido, James.
Perché ora sono certa che tu sia davvero tu...
Un altro mi avrebbe già liquidata.
Solo il grande James Bond può riconoscere e rispettare una
donna altrettanto grande...», e si umetta il labbro, convinta
di aver fatto colpo e di essersi salvata la pelle.
Il Frentzen Show durerà troppe volte
l'ultimo dieci minuti
«Sì, James... io non mi fermo... sarò cadavere davanti a te... lottando
fino all'ultimo... perché io... non voglio morire...».
«Akana... una brutta notizia... Milena è rimasta
uccisa...».
«Bastardo... portate il corpo in infermeria».
La scena a poppa si è rivelata tragica.
Ora è tutto nelle mani di Herbert West IV.
Le materie prime non gli mancano di certo sulla
chimichiera Bow Orion.
«Hai
fatto un ottimo lavoro, Herbert. Migliori sempre di più.
Dunque è rimasta uccisa, ma non è morta...
Questo buco nello stomaco è molto sexy.
Dopo un video su YouTube, le ragazze faranno a gara per tatuarselo addosso».
Gli
occhi fissi e inespressivi riprendono vita.
Le
labbra di Milena Velba si muovono, ma senza emettere suoni.
Le
parole, oltretombali, giungono sfasate di qualche secondo, come in un doppiaggio
sincronizzato male, o una comunicazione da grande distanza.
(((Voglio potere...))).
«Finalmente svelata la sua vera natura...»,
commenta Akana DiChan, rivolta a Herbert West.
La
Velba porta al collo una catenella d'oro a cui è appesa una pietra nera a forma
di cuore.
La
pietra emette un sinistro bagliore, quando gli occhi riprendono a fissare
qualcosa di concreto, scuotendosi dal loro torpore.
Non
c'è respiro, l'ossigeno necessario è reso in forma liquida, nel sangue
arricchito che scorre dalla flebo.
È praticamente una macchina... ma non privata di un
contatto con sé stessa.
«E con James... come risolviamo, Anna?».
C'è troppo tempo per morire
«Che vuol dire?».
Anna Frentzen si umetta il labbro.
Ed è l'unica risposta.
Le parole, i modi, i tempi dell'amore sono stati
completamente sconvolti.
Lettore, se vuoi conoscere l'attrice che ha ispirato questo racconto, clicca
qui.
Il racconto è un tributo alla sua bellezza, carisma, personalità.
Gli aspetti negativi sono introdotti per mere esigenze di ordine drammatico,
narrativo, teleologico.
Il ruolo della protagonista va assimilato a quello dell'attrice rispetto a un
film.
La devozione alla persona in questione, da parte dell'autore empirico, è
implicita e assoluta.
THE SINKING LADY
di Salvatore Conte (2020)
«Che cosa cerca esattamente, Mr. Reed?».
«E me lo chiede, Signora?
Risposte a questo gran casino...
Lei non è preoccupata?».
«Perché dovrei?
Forse le cose andavano meglio, prima?».
A Charles Reed manca la risposta.
Oakmont affonda.
Ma chi rimane cerca di adeguarsi in fretta.
Venezia non è forse la città più invidiata al mondo?
Il potere è potere, sulla terraferma o sull'acqua.
E se qualche rivale batte in ritirata, tanto meglio.
È così che la pensa Joe Denton.
Anzi, bisogna approfittarne.
La polizia non ha tempo per i soliti controlli.
E se la città adesso rende meno, bisogna
aumentare la quota di controllo: dal 50% al 100%...
«Anna... ci sei?», Fred la chiama a gran voce.
«Che succede?».
Arriva tosta e aggressiva, con un tommy-gun
sottobraccio, sicura del fatto suo, sicura che nessuno oserebbe spararle
addosso, la camicetta sempre sbottonata fino allo stomaco, le tette bene in
vista (la sua assicurazione sulla vita): è Anna Frentzen, la gran fica di Oakmont.
Impiegata di successo all'archivio dei giornali, ma
soprattutto segretaria e amante di Joe Denton, uno dei due boss della città.
Forse non più avvenente come qualche anno prima, ma pur sempre la Frentzen...
«Ci hanno attaccato...!
Joe è morto... sono morti tutti...».
Nessuna reazione.
«Sei sicuro?».
Annuisce.
«Tu sai questo cosa significa, Fred?».
«Che sono morti tutti...».
Tanti muscoli, ma poco cervello.
«Che tra poco saremo morti anche io e te.
Perché Walker verrà qui ad aprire la cassaforte.
Ma c'è qualcosa che possiamo fare...
Aprirla, svuotarla e tagliare la corda...
Sei con me, Fred?
Sono io il capo, adesso.
Ricostruiremo la banda», lo fissa seria,
attendendosi la sua sudditanza; come alternativa, lancia un occhio al tommy-gun,
pronta a usarlo, se necessario.
«Non abbiamo altra scelta, Anna.
Ma io e te...».
«Niente vincoli, Fred. Sono una donna libera.
Vedremo.
Voglio sapere che intendi fare, non abbiamo molto
tempo...».
«Va bene, boss...», e le bacia la canna del
tommy-gun, come si usa in queste circostanze.
La Frentzen non perde tempo. Apre la cassaforte e
mette in una borsa le mazzette dei dollari.
È il tesoro della banda.
RAT-RAT-RAT
Fred rientra nella stanza crivellato di colpi.
La Frentzen capisce all'istante: «Dannazione, sono
già qui...».
«Anna, non voglio ammazzarti!
Vieni giù con le mani in alto.
Oppure vengo a prenderti!
E allora potresti beccarti qualche pallottola!
Sarebbe un peccato lasciarti qui cadavere!
Un peccato per tutta la città!».
«Ascolta, Fred... mi dispiace, ma ormai sei
fottuto.
Devi farmi un ultimo favore, o ci rimetto la
pelle anch'io...
Io me ne vado via dal cornicione, alla peggio mi
faccio un tuffo.
Tu devi cercare di trattenerli, okay?
Addio, Fred... e grazie...», lo bacia veloce sul
labbro e fa per andarsene, puntando la finestra.
È sicura, troppo sicura di sé...
Fred è in agonia, steso su una poltrona nello
studio di Joe Denton.
«Anna...».
Si volta, senza sospettare nulla.
«Tu... verrai con me...».
«No...!», ha capito.
POW
Un colpo di revolver nello stomaco, quasi in
mezzo alle tette!
Lo sguardo ghiacciato, scivola lungo la parete e finisce seduta a terra, lasciando un'incredibile scia di sangue sul muro...
È una vista che fa rabbrividire!
È assurdo, ma non ci sono dubbi...
È la fine di Anna Frentzen!
«Anna... che combini?
Sto venendo a prenderti!».
Poco dopo se la ritrova con la bocca spalancata,
il corpo che restituisce dei sussulti quasi meccanici, gli occhi sbarrati.
È morta quasi sul colpo.
La scena del delitto è chiara, Fred è crepato, ha sparato
sulla Frentzen insieme all'ultimo rantolo.
La voleva per sé, come tutti; e non potendola più
avere, se l'è portata dietro.
Walker torreggia sul donnone, cercando di
dominarsi.
Gli sembra assurdo pensarlo, ma Anna Frentzen è
rimasta uccisa; lo sa anche lui.
Chiamare un motoscafo-ambulanza servirà a poco.
Si abbassa e le prende la mano.
«Un asciugamano, presto...
E chiamate un'ambulanza... specificate che si
tratta di Anna Frentzen e che ha molta fretta...
Quel sacco di merda scaricatelo di sotto. Non è
degno di viaggiare con la Frentzen».
Non serve a molto, ma le tampona lo stomaco e le
blocca le cosce a terra, perché si scuotono convulsamente, con reazione
innaturale.
«John... volevo... il mio impero...
Ma tu... non avresti... mai... sparato...».
«È vero...».
«John... non so... come fare... non... nhh...
non voglio... morire... John...».
«Lo so, Anna... ma sei grande e grossa, puoi farcela...
Ho chiamato l'ambulanza, sarà qui a momenti...».
«Capo... l'acqua sta salendo... e anche piuttosto
in fretta...».
«Ho da fare con la Frentzen, non lo vedi? Mi sta
crepando in faccia...».
«Capo... è morta... è già dentro il sacco...», abbassando la voce per delicatezza.
Ma la Frentzen butta fuori un grosso fiotto di
sangue, insieme al fiato...
«John... è finita...».
«Non ancora, Anna».
«John...!», lo chiama con un'ansia
particolare nella voce.
«J...o...h...n...», ripete il nome, molto più
lentamente, come una conferma, e rimane a bocca aperta, a fissare non si sa
cosa.
Walker le passa la mano davanti agli occhi.
E smette di premerle l'asciugamano contro lo
stomaco bucato.
Si rialza e annuncia ai suoi: «Anna Frentzen è
morta, ragazzi. È morta adesso. Ha lottato qualche minuto, non voleva
arrendersi, ma non
ce l'ha fatta».
Ormai lo si era capito, ma giunge comunque un
brusio di stupore.
«Si è beccata una brutta pallottola, non poteva
salvarsi.
Meglio per lei se non c'ha messo molto, inutile
farsi sbudellare in ospedale, in questi casi.
Ma non siamo stati noi. Hanno fatto tutto fra
loro. Uno dei ragazzi di Denton ha sparato contro la Frentzen.
«Poco da fare per lei, stavolta le ha girato
tutto contro...».
«Però dallo sguardo pareva convinta di potersi
salvare: sembra ancora non capire quello che le è successo...».
Sono i commenti della banda.
«L'ambulanza è arrivata,
capo».
«Dite a quei ragazzi che
la Frentzen non ha più tanta fretta. Basta una lettiga da obitorio».
Uno dei paramedici controlla gli occhi della donna, poi
insieme all'altro la carica sulla barella e le stende addosso - fino in faccia - un
lenzuolo mortuario, che si adagia sulle grosse forme dello spettacolare
cadavere, e diventa subito rossastro nella zona dello stomaco.
Mentre la caricano sul piccolo motoscafo-ambulanza, un braccio si stacca dal corpo e
rimane a penzolare macabro dal bordo della lettiga.
Sembra il saluto di Anna Frentzen a quella platea silenziosa che
la vede sfilare via cadavere, senza il brivido di una disperata corsa in
ospedale, con la notizia fatale dilatata di un'oretta, tra smentite e conferme. Qui non ci sono rinvii:
la Frentzen, se non nel sacco, ha già il lenzuolo sulla faccia...
L'ambulanza riparte senza urgenza, diretta
all'obitorio di Oakmont.
«Addio, Anna. Hai tentato il grande colpo, hai
fatto il grande salto.
Fra un po' verrò a salutarti in privato...»,
mormora dalla finestra.
Prima di andarsene, il boss si infila nella tasca
il revolver di Fred, la pistola maledetta che ha esploso un colpo mortale
all'indirizzo di Anna Frentzen...
«E così la famosa Anna Frentzen è rimasta uccisa?».
«Sì, caricata morta sull'ambulanza... con un buco
nello stomaco grosso come una palla da baseball.
Il famoso corpo adesso sta all'obitorio».
«Strano che una del genere si sia fatta fregare
così».
«Nessuno è perfetto.
Ha tirato troppo la corda.
Ma era ancora viva quando è arrivato il capo,
anche se c'è
stato poco da fare.
Non voleva proprio crepare, stando a
quanto mi hanno raccontato.
Nonostante lo stomaco spalmato sulla parete... c'ha provato fino all'ultimo,
illudendosi di poter salire viva sull'ambulanza.
Era talmente disperata che le cosce rimbalzavano
sul pavimento.
Sentiva la morte. Si è fatta tamponare il buco, ma non è
servito a nulla.
Anna Frentzen è affondata... insieme a questa
città...
Stavolta ha trovato qualcuno che ha avuto il
coraggio di spararle addosso e che le ha fatto molto male...».
«Un peccato per Oakmont, ti confesso che quando
andavo all'archivio dei giornali mi bagnavo tutto nel vederla... sempre
sbottonata fino allo stomaco... che mignottona...».
«Non ti do certo torto... era una gran puttana; sempre in giro
allentata, senza reggiseno, con le tette a penzoloni...
Ma si era montata la testa e l'ha pagata cara».
«Ehi...!».
«Che c'è?».
«Un tentacolo...».
«Maledette bestiacce.
Teniamo gli occhi aperti...».
«Tu hai capito perché siamo qui?».
«Certo che l'ho capito.
Quello era il quartier generale di Denton: i suoi
uomini sono quasi tutti morti, compresa la Frentzen, ma qualcuno potrebbe farsi
vivo per portare via qualcosa.
Il capo vuole essere sicuro che nessuno riprenda
in mano le redini della banda».
«È rimasto poco, comunque. Lo stabile è mezzo
sommerso».
«Tutta la città è mezza sommersa...».
«Ehi...!».
«Ancora?».
«Ma...! Quello non è il cadavere della Frentzen?».
«Cristo Dio! Hai ragione, è lei...
L'hanno scaricata in mare, oppure l'ambulanza è
affondata?
La corrente lo sta portando in giro».
«Perché non lo tiriamo su?».
«E che ce ne facciamo?».
«Era una grossa troia, potrebbe interessare a qualche collezionista...».
«D'accordo...».
«Ehi!».
«Giù le zampe!».
RAT-RAT-RAT
«Questo meraviglioso cadavere può valere un bel
mucchio di dollari.
Maledette bestiacce...».
«Che fai?! Stai attento, l'hai colpita?».
«Che importanza ha? Comunque adesso
controlliamo...
No, ha solo il buco nello stomaco...».
«Povera donna... ridotta così non sembra più
tanto invincibile...».
«A chi possiamo portarla?».
«Non lo so ancora, ma intanto abbiamo evitato che
finisse nelle fauci di quei mostri...
Con il tommy-gun hai troncato di netto il
maledetto tentacolo.
Ma il pezzo rimasto non si stacca dal
braccio...».
«Lascialo così, non fa niente.
E tieni gli occhi aperti: quelle piovre sono
aggressive, possono attaccarci all'improvviso.
Se si cade in acqua, è finita!».
Cough!
«Hai la tosse, Bill?».
«No, perché?».
«Hai tossito...».
«Non ho tossito».
Cough!Cough!
«Ma...».
Jim rimane a bocca aperta.
Anna Frentzen ha tossito...!
«Oddio... la Frentzen...».
«Signora Frentzen... stia calma...».
«Cerchiamo noi di stare calmi...
Che succede? Non era morta?
Oppure...», lo sguardo si fissa sul tentacolo
troncato rimasto avvinghiato al braccio sinistro di Anna. «Non conosciamo queste
bestie: devono averla punta, e lo shock, anziché ucciderla, l'ha rianimata...».
«Il cadavere galleggiava a testa in su: per
fortuna non ha bevuto più di tanto, non è annegata.
Ma il buco nello stomaco rimane...
Ha freddo... portiamola dentro... il capo deciderà cosa farne».
«D'accordo, ma questa vicenda è molto strana, e
qualcosa mi dice che all'ospedale finirebbero di ammazzarla...».
«Jim...!
Chi cazzo è quello?
Sta puntando verso di noi».
«Sì... lo riconosco...
È un investigatore privato, un tipo strano».
«Un ficcanaso...».
«Ci penso io.
Scendo e lo mando via in maniera pulita.
Tu rimani nei paraggi».
«Mi chiamo Charles Reed e sto indagando
sull'omicidio di Anna Frentzen.
La polizia di Oakmont mi ha delegato le indagini,
poiché non hanno abbastanza uomini.
In seguito al regolamento di conti tra le bande
Denton e Walker, è emerso che la donna sia rimasta uccisa in questo stabile.
Faceva l'impiegata all'archivio dei giornali.
Voi ne sapete qualcosa?».
«No, mi dispiace, detective; ero fuori in quel
momento».
«La nomino assistente alle indagini.
Mi aiuterà nella mia ispezione.
Pare che la Frentzen sia rimasta uccisa da un colpo
d'arma da fuoco che l'ha raggiunta allo stomaco.
Io voglio sapere chi le ha sparato e perché.
54 anni, origini italiane, divorziata, molto
chiacchierata in città, sempre al centro di gossip e cronaca rosa e nera,
definita "l'amante del boss".
Il padre è stato avvertito con un telegramma.
Arriverà a Oakmont domani, per conoscere tutti i
dettagli sulla morte della figlia.
L'acqua si sta abbassando, è la marea.
Ecco... qui sulla parete c'è una grossa macchia
di sangue...
La Frentzen è stata colpita in questo punto: un
proiettile di grosso calibro l'ha trapassata.
Ecco il piombo, infatti...
Dev'essere morta nello stesso punto, perché non
ci sono altre scie di sangue.
Questo asciugamano... è intriso di sangue...
Qualcuno ha cercato di aiutare la Signora Frentzen.
Le hanno tamponato lo stomaco, ma non c'è stato
niente da fare.
Non è stata un'esecuzione, ma un'azione
personale, di cui ci sfugge il movente.
Domani il padre vorrà vedere il posto dove la
figlia ha trovato la morte.
«Sapevo che prima o poi avrebbe fatto questa
fine, era molto ambiziosa...
Ma era una brava donna, mia figlia...
Non meritava questo: possibile, detective, che
non c'è stato modo di salvarla?».
«Quando è arrivata l'ambulanza, era già morta.
Purtroppo il colpo è stato mortale: da questa
chiazza vediamo che il proiettile aveva la testa piatta, uno di quelli usati
contro i bisonti; nel passaggio, le ha portato via
lo stomaco e, uscendo, è letteralmente esploso dalla schiena.
Sono un esperto di balistica.
Sua figlia non è stata fortunata: non ha avuto il
tempo di raggiungere l'ospedale e comunque sarebbe servito a poco.
È stata soccorsa, non è morta sola, le hanno
tamponato lo stomaco, ma è stato subito chiaro che non si sarebbe salvata».
«Non è da Anna arrendersi», reagisce il padre.
«Di sicuro ha lottato, non è morta sul colpo».
«Certamente... ma non poteva farcela, mi dispiace».
«Ehi, Charles... vieni su... dobbiamo
parlare...», l'invito viene da John Walker in persona.
È uno di quegli inviti che è meglio non
rifiutare.
«Papà... rimani... vicino a me...».
«Sì, bambina mia... stai tranquilla... non ti
succederà niente...
Me lo sentivo che non t'eri arresa... brava...
fagli vedere chi sei....».
Occhi sbarrati rivolti al soffitto della
camera, volto cianotico, bocca aperta che rivela uno strano stupore.
E quella camicetta intrisa di sangue
coagulato.
C’è scetticismo intorno ad Anna Frentzen,
e non può essere altrimenti.
Si teme che la situazione possa
precipitare da un momento all’altro, o per meglio dire affondare…
Una marea infernale ha riportato a galla
la Frentzen, ma le sue condizioni rimangono drammatiche.
Walker viene costantemente aggiornato
via telefono, il padre non la lascia un momento.
Poi ci sono Bill e Joe, e l’anziana,
arcigna infermiera che caritatevolmente asciuga il sudore freddo della Frentzen,
come si trattasse di una statua di cera che rischia di sciogliersi.
E c'è anche Charles Reed, ormai sul
libro-paga di Walker.
«Su, Anna…», le dice il boss, come se
per la Frentzen fosse una cosa semplice sbattersi in giro senza uno stomaco.
Walker le ha messo a disposizione
ossigeno, plasma e flebo. Un medico di fiducia della banda la visita due volte
al giorno.
Il boss non bada a spese pur di
allungare l’agonia della Frentzen.
L’ospedale applica protocolli troppo
aggressivi: se la aprono, l’ammazzano, il rischio è troppo grande.
Il medico non le ha dato speranze, ma
così può stirarsela un altro po’.
L’obitorio è solo rinviato.
Anna lo capisce, ma non invoca
l’ospedale, perché non vuole morire scannata sotto i ferri.
«John… io ci provo…», ci tiene a dire,
rivolta al boss.
«Tu devi… provarci.
Se vai in crisi, c’è pronto l’ossigeno».
Non vuole demoralizzarla con le
previsioni funeste del medico.
«Io… non rimarrò… uccisa…».
«No… te la caverai…».
La asseconda.
Ma ai suoi uomini dice la verità.
Nessun futuro per Anna Frentzen. Il suo
destino non cambia.
Oakmont dovrà fare a meno di lei e
trovarsi un’altra gran puttana con la camicetta sbottonata fino allo stomaco e
le tette penzolanti.
«Anna... non stai tirando troppo la corda con il
boss...?».
«No, papà... lui è in pena
per me... dev'essere mio... prima che crepo...
Devo fargli dimenticare... la puttana meticcia... che si è messo vicino...
Chana Budak... maledetta...
Lui deve sposare me...».
«Anch'io sono in pena per te, figlia mia...».
«Ma tu... non hai potere... papà...».
«Anna... sei una creatura demoniaca...».
«Ma pur sempre... tua figlia...».
«Anna... hai un grosso buco sullo stomaco.. non vorrei
che tu rimanessi uccisa, figlia mia...».
«Non deve accadere... o avrò perso tutto...
Tu recita la tua parte... e bada che... non mi mettano... altro piombo in
corpo...».
«Certo che no... sarebbe assurdo... tu sei la
migliore...
Ora cerca di risparmiarti...».
«È morta?», la domanda ricorrente tra
gli uomini di Walker.
C’è molta attesa, molta apprensione per
la sorte di Anna.
Si spera quasi che la faccia finita
subito, così da non tenerli con il fiato sospeso.
«Ci saranno segnali, o morirà
all’improvviso?».
Si cerca di capire.
«Ci diranno che è morta e basta. Se il
padre non la lascia un attimo, vuol dire che la fine è imminente».
«Io pensavo che sarebbe morta per una
scarica di tommy-gun, insieme al suo boss, nel letto».
«No, un colpo solo, ma ben piazzato. Le
ha fatto saltare lo stomaco.
Nessuno scampo per lei. Niente di
romantico. Uno dei suoi che, morendo, se l’è portata dietro».
«Una fine da stupida, per certi versi.
Una fine non da Frentzen».
«Non ci si può scrivere la parte da
soli. Siamo attori, non sceneggiatori, sul palcoscenico del nostro destino:
dobbiamo accettare la parte, anche se non ci piace.
Lei non pensava certo di morire così».
«Ma secondo te, la Frentzen si sta
spremendo?».
«Certo. Le proverà tutte. Non vuole
morire, è ambiziosa.
Ma si troverà la strada sbarrata».
«La sua voglia di salvarsi quanto può
incidere?».
«Adesso tanto, poi, però, dovrà
arrendersi.
Senza stomaco, e con continue emorragie,
non si può vivere».
«Però al momento la situazione è sotto
controllo…».
«Diciamo di sì, in qualche modo si sa
gestire. Ha una fottuta paura di morire.
E l’adrenalina vuol dire tanto in queste
occasioni.
Tornata a sorpresa in gioco, non si farà
eliminare tanto facilmente, ha fatto esperienza, non perderà un'occasione così
grande di impressionare il suo pubblico...».
«Stai diventando ottimista…».
«Anna Frentzen la conoscono tutti: non è
facile toglierla di mezzo.
È una che non si arrende mai.
Altrimenti a 54 anni non sarebbe la più
grossa fica di Oakmont.
Si è fatta sorprendere una volta, non
credo ci caschi ancora, alla sua pelle ci tiene, la vecchia troia...».
«Ora la fai troppo facile…».
«Sono realista. Il boss la tiene sotto
stretto controllo.
Al suo capezzale ha un medico,
un’esperta infermiera e il padre, con apparecchiature e medicine: una macchina
da guerra per tenere a galla Anna Frentzen, mentre la città affonda...».
«Tanta attenzione per questa gran
puttana, poca per Oakmont: come si spiega?».
«La Frentzen non si spiega: si impone da
sé.
È il top, il massimo, non ce ne sono
altre.
Se ne accorgono tutti, quando la vedono.
C'è tanta preoccupazione intorno a lei.
Diverrebbe addirittura panico, se circolasse la notizia della sua morte...
Per Oakmont sarebbe la fine
definitiva...».
«I problemi di Anna Frentzen non sono finiti: come se
non bastassero il grosso buco nello stomaco e la cancrena al braccio, nel punto
in cui è stata avvinghiata dalla piovra, adesso la pupa del boss la vuole morta...
Le
ha promesso una scarica di tommy-gun tutta per lei. È
avvelenata.
In
alternativa, un coltellaccio da cucina, da spingersi in pancia da sola, se ne ha
il coraggio...».
«Però non ha tutti i torti... il boss sta
esagerando...», sussurrando appena. «La Frentzen come l'ha presa?».
«Non rimarrò uccisa, nessuno
mi toccherà, so incassare anche una raffica di tommy-gun: pare abbia risposto
così».
«La Frentzen si è montata la testa, ma potrebbe
addirittura essere vero.
Ha addosso talmente tanta adrenalina che non la
darei per morta nemmeno dopo una sventagliata di tommy-gun...».
«Tra Chana ed Anna, per chi tifi?».
«Noi dobbiamo tifare per Chana... però anche la Frentzen è
una superdonna».
«La Budak è puro fuoco, ma la Frentzen sembra immortale...».
«Lo sta dimostrando...
Che altro potrebbe accaderle?
Ha l'acqua fino al collo, come questa maledetta
città...».
Lettore, se vuoi conoscere l'attrice che ha ispirato questo racconto, clicca
qui.
Il racconto è un tributo alla sua bellezza, carisma, personalità.
Gli aspetti negativi sono introdotti per mere esigenze di ordine drammatico,
narrativo, teleologico.
Il ruolo della protagonista va assimilato a quello dell'attrice rispetto a un
film.
La devozione alla persona in questione, da parte dell'autore empirico, è
implicita e assoluta.
sfida mortale tra SUPER PUTTANE
di Salvatore Conte (2020)
Al
Deadly Talisman ci
sono solo le migliori, le specialiste.
Ma
sono ben presenti, in tutta la loro stazza, anche Europe DiChan e Leanne Crow, pornostar convertite
al deadly roleplay:
La Crow, in particolare, è reduce da un'esperienza quasi tragica
nelle Budella di Marianna, in cui è rimasta sbudellata da una baionetta.
Ha dovuto imparare a gestirsi per venirne fuori. E adesso
vuole ritentare la sorte.
James Bond è segretamente in tribuna per seguire la Frentzen, alla quale si è
legato strettamente: ormai tutti sanno che è la sua ragazza; i due stanno
insieme e formano una coppia super.
Spalti strapieni di vip e affiliati comuni, tifo caldo per tutte e tre.
Il
nuovo gioco è ispirato a un
famoso boardgame, un vero classico. Il tabellone è
riprodotto fedelmente sull'arena, in stile Giochi senza Frontiere, da cui il
concetto di Giochi senza Limiti.
Tutto è pronto, lo speaker annuncia:
La nostra storia comincia con un potente mago
che un tempo governava la terra di Talisman con il potere di una corona magica,
forgiata nella Valle del Fuoco da spiriti crudelmente intrappolati con arcani
incantesimi. Per molti secoli il mago regnò incontrastato finché, dopo una lunga
esistenza passata
in mezzo ai suoi libri e alle sue magie, sentì che i suoi giorni stavano
arrivando alla fine. Egli decise di nascondere la sua corona nel luogo più
ostile del suo regno, ponendo intorno ad essa i guardiani più spaventosi che i
suoi incantesimi furono in grado di evocare. Una volta fatto questo, egli morì,
dichiarando con le sue ultime parole che solo un campione dotato della forza,
saggezza e coraggio di recuperare la sua corona avrebbe potuto regnare al suo
posto.
Sono passati centinaia di anni e il reame, rimasto a lungo senza governo e
protezione, è diventato un posto sempre più pericoloso, infestato da mostri e
afflitto da innumerevoli mali.
Ad oggi, le antiche leggende hanno spinto valorosi eroi a mettersi alla ricerca
della Corona del Comando, e grazie ad essa a diventare i nuovi regnanti delle
terre di Talisman. Fino ad ora, però, nessuno si è dimostrato all’altezza. Le
loro ossa biancheggiano spezzate sulla Piana del Pericolo, oppure giacciono
abbandonate, cibo per mostri e bestie selvagge.
Ma adesso tre Super Puttane hanno deciso di
riprovarci...
Inizia la Frentzen, sbottonata come sempre; è armata di tridente e ha il
segnaposto porpora.
Le
portano il vassoio con il dado.
Viene tratto il numero 1.
Le
telecamere riprendono tutto, il display gigante ufficializza.
La Frentzen va per Campi Nord-Ovest e si fa portare il vassoio con le carte Avventura.
La
DiChan è armata di mazza ferrata e ha il segnaposto nero.
Realizza 3 e, avanzando possente, va in giro per la Pianura Nord, dove incontra uno
Straniero: l'Incantatore; tuttavia non ha mente sufficiente per ricorrere ai
suoi favori: è soprattutto una grossa puttana...
Lo
speaker si diverte, il pubblico (molto privato) pure.
La
Crow è armata di spadone ricurvo e ha il segnaposto verde.
Trae 1 ed esplora i Campi Ovest intorno alla Città, ove trova una borsa d'oro (_2_).
Si
ricomincia dalla Sbottonata: 3.
La
Frentzen entra nel Bosco, ove rinviene la Sfera della Sapienza, che le sarà utile
in futuro.
Con
1 la DiChan entra nella Città Morta e incontra un Wraith, uno spettro maligno e
aggressivo di forza mentale 5!
Si
alza un brusio dagli spalti: è la prima grave insidia della partita!
Gli
occhi dei suoi tifosi si spostano sulla Sentinella...
È la Sentinella, infatti, che esegue i colpi e lo fa
attraverso un'alabarda, la cui sola ombra impalerebbe senza scampo una qualsiasi donna
comune...
L'alabarda sembra brillare sinistramente quando l'esito dei dadi condanna la
DiChan:
(2+4) vs (5+5) = 6 vs 10!
Le vite residue, per quanto riguarda il gioco, diventano
_3_. Quando saranno finite,
sarà eliminata comunque, ma il peggio viene subito, perché adesso sarà colpita
dalla Sentinella!
SZOCK!
Viene incornata a sangue e il colpo si fa sentire: ma non rimane uccisa come una
puttana qualsiasi, la DiChan resta in piedi! Il gioco, però - tra il clamore generale - si fa
subito duro...
La
Crow fa 1 e visita le Colline
Ovest: trova un Bandito
estorsore; per evitare problemi, gli sgancia una borsa d'oro e se lo tiene buono
(_1_). I suoi tifosi applaudono.
Anna Frentzen ottiene 2 e torna alla Taverna, dove con 6 si farà sbarcare presso
il Tempio, nella Regione Intermedia (!), alla ricerca di fortuna.
La
DiChan
fa 1 e raggiunge, barcollante, i Campi Nord-Ovest, ove incontra uno squallido
Goblin, che può togliere di mezzo senza troppi
problemi.
Vediamo se è vero: (6+2) vs (2+5) = 8 vs 7.
È vero, ma con affanno! L'affondo nel ventre l'ha messa in
difficoltà.
Guadagna comunque Potenza (_7_).
Leanne Crow ottiene 1 e perlustra la Pianura, ove
rinviene un'Armatura, che però non le interessa, perché una Gran Puttana non
rinuncia a far vedere le sue tette!
La Frentzen è arrivata al Tempio e prega, rischiando
grosso: fa 8, vale una magia, ma lei - come Gran Puttana che crede solo in sé
stessa - non ne fa uso.
Europe
DiChan fa 6 e continua a cercare incontri
fortunati su altri Campi: infatti stavolta trova il
Talismano! Ne avrà bisogno, perché - malgrado la possanza - non si regge più
in piedi: la Sentinella ha menato forte. Il volto sofferente della Super Puttana
è ingigantito impietosamente dallo schermo.
La Crow fa 1 e raggiunge il Bosco, ove incontra la
Vergine, che diventa sua seguace, aggiungendo forza
mentale (_5_), sempre preziosa da queste parti.
Parte un altro giro, con la
Frentzen impegnata nella
pericolosa Regione Intermedia.
Un coro a lei intestato si alza dagli spalti. C'è
voglia di sostenerla, da parte dei suoi tanti tifosi.
Fa 3 e arriva al Castello, ma per sua fortuna non ha
bisogno di cure. Anna è ancora illesa.
James Bond la segue attentamente.
La
DiChan fa 3 e raggiunge il grande ponte sul
Fiume Profondo, ove monta di guardia la Sentinella, in questo momento inerte.
Cerca nei paraggi e trova un'Ascia,
utile all'occorrenza per costruire una zattera, ma non nel suo caso.
Quasi fatalmente, crolla ai piedi della Sentinella e
invoca la barella senza nemmeno provare a rialzarsi.
La DiChan è fuori: esce dal tabellone tra i fischi
del privato pubblico.
D'altra parte, con oltre 500.000 followers su
Twitter, se la DiChan
lasciasse la pelle in Deadly Talisman, scoppierebbe la Terza Guerra Mondiale...
Per quanto riguarda la
Crow, fa 5, raggiunge
l'Incantatore e si fa aumentare la Potenza (_6_).
Il gioco torna alla
Frentzen, che fa 2 e raggiunge il
Bosco: usa la Sfera della Sapienza per evitare un fastidioso Temporale e trova
una borsa d'oro (_4_). Applausi dai tifosi.
La Crow fa 5, raggiunge il Bosco e trova una borsa
d'oro (_2_).
La sbottonata
Frentzen realizza 3, esplora l'Oasi e trova
due
borse d'oro (_6_). Applausi.
Tuttavia ha rimandato l'ingresso nella
Piramide Maledetta: si dice,
però, che dalla piramide - con la potenza del Talismano - si possa arrivare fino alla
Corona del Comando!
Leanne Crow fa 2 e si reca alla Taverna, dove con 5
convince un mago a teletrasportarla in un posto di suo gradimento.
La Frentzen fa 4 e raggiunge le Rune Nord, dove - per un
maleficio - la zona si è trasformata in una Palude. Tuttavia la Super Puttana ha forza sufficiente per
non perdere troppo tempo e procedere oltre.
La Crow si fa teletrasportare in un Bosco, ai
margini del quale trova una Zattera, che però - in questo momento - non le
interessa.
Il giro riparte dalla
Frentzen, la quale fa 2 e
raggiunge il Portale del Potere, nei cui pressi rinviene due borse d'oro (_8_).
Ormai è ricca!
La Crow fa 3 e va per Campi, dove trova una
Spada,
che però lascia perdere, perché non rinuncerebbe mai al suo spadone ricurvo!
Anna Frentzen fa 5 e raggiunge le Rune, ove incontra
un Mercenario che assume al costo di una borsa
d'oro (_7_). Il Mercenario sarà un valido aiutante: aggiungerà 3
punti alla sua Potenza ogni volta che gli scucirà una borsa d'oro.
Leanne Crow fa 2 e perlustra la Pianura, ove
rinviene una borsa d'oro (_3_).
La Frentzen, prima del lancio, si rivolge ai tifosi:
incitatemi!
Gli occhi di James Bond brillano...
Fa 2 e raggiunge le Rune sul lato opposto della
Rupe, nei cui pressi trova la preziosa Chiave di Osiride!
La strada per la Piramide Maledetta è spianata!
La Crow fa 5 e raggiunge le Colline, dove ormai da
tempo spadroneggia un Bandito: (6+6=12) vs (4+3=7). La Super Puttana lo fa a pezzi! E guadagna Potenza (_7_).
Anna Frentzen fa 2 e torna dall'altra parte della
Rupe, alle Rune, dove incontra un Imp imbronciato, che
la spedisce nella Foresta: qui si perde per un turno. La Piramide si allontana!
La Crow fa 1 e va per Campi, mentre scoppia una
terribile Pestilenza, che colpisce tutta la
Regione Esterna e che costa una vita a entrambe le Super Puttane!
Frentzen:
_4_;
Crow:
_4_.
Si mette male!
Devono subire la legge della Sentinella!
L'alabarda torna in azione e non fa sconti, entra
dura con tutta la punta!
SZOCK!
SZOCK!
Le due Super Puttane si stringono disperate la
pancia, ma le budella sono già fuori!
La Frentzen proverà a reagire, ma intanto deve perdere
il turno.
Leanne Crow,
invece, non riparte: è scivolata a terra e non ha la forza nemmeno di chiamare
la barella.
La sua situazione è preoccupante. L'emorragia appare
fuori controllo.
La Super Puttana viene contata.
Ma non reagisce!
Nonostante la potenza e la mole della Super Puttana,
e la sua esperienza, il colpo deve averla sfondata, soprattutto a livello
mentale.
La Crow viene portata via, probabilmente già cadavere
(!),
con opposte reazioni del pubblico.
La Rivoluzione si è fatta dura...
C'è disperazione nel vederla così.
Ma se l'è cercata, commentano in tanti,
impietosamente.
Non rimane che sperare in uno spasmo, per gli altri.
D'altra parte, se per la Crow fosse davvero finita,
con un milione e 600.000 followers su Twitter, scoppierebbero
in successione la Terza e la Quarta Guerra Mondiale...
Non a caso, con estrema concitazione, si fa di tutto
per rianimarla.
Un applauso d'incoraggiamento con qualche fischio in
mezzo l'accompagnano fuori scena, dove proseguono a oltranza gli sforzi
disperati.
Per la Crow si sta muovendo l'intero mondo!
Gli sforzi proseguiranno per ore, se necessario.
Intanto la
Frentzen, barcollante in tutta la
sua mole, fa 4 e raggiunge la Taverna, dove è praticamente di casa; qui ottiene da un
mago di passaggio di farsi teletrasportare nel luogo desiderato.
La
Frentzen si fa teletrasportare nel Bosco, ove incontra un aggressivo
Gorilla; vista la sua situazione, si fa spalleggiare
dal Mercenario al costo di una borsa d'oro (_6_): (6+3+2=11) vs (3+1=4). Il Gorilla è fatto a pezzi e la Frentzen
guadagna Potenza (_7_).
Ma
è solo apparenza.
Perché la Super Puttana crolla sulle ginocchia.
E
poco dopo frana a terra, nello scompiglio generale.
Ma
la
Frentzen non molla e fa 5:
proverà a strisciare e a raggiungere i Campi vicini alla Città.
Deve portare a termine almeno tre turni successivamente all'uscita di scena
dell'ultima avversaria, per vincere la partita.
Lasciandosi alle spalle una lunga scia di sangue, la Sbottonata si aggrappa alla
sua potenza fisica per non fallire l'obiettivo.
Bond assiste impietrito allo sforzo della sua prediletta.
Un
boato accompagna l'ingresso nell'ultima casella!
Qui
la Frentzen viene a sapere che un
Eremita molto sapiente si è nascosto nella Foresta e
donerà il Talismano al primo visitatore...
Ma
ormai non serve più, l'importante è che non ci siano altre insidie: il turno è
finito.
La
barella arriva immediatamente, in un
trionfo di effetti speciali!
Anna Frentzen ha vinto la Super Sfida!
La Corona del Comando cinge la sua testa!
È sempre lei la Campionessa degli Snuff Sports!
Anche se stavolta c'ha rimesso le budella... ma è
proprio grazie a queste che ha fatto cagare lacrime giganti pure a James Bond...
un follower da 10 milioni di followers... inquadrato impietosamente... mentre i suoi amici più stretti provano a ritrovargli
il labbro...
GOLDRAKE: REQUIEM
PeR UNA DIRettrice CORROTTA
di Salvatore Conte (2020-2023)
Madame Brutal ha assunto il potere assoluto all'interno del carcere diretto
dalla grande cessa della sua amica Dolores.
I detenuti espongono le sue stesse foto sulle pareti delle celle, e lei ci
gode, dilettandosi in giochi erotici a manetta (nel vero senso della parola) con
i detenuti preferiti.
È un monumento, vale un patrimonio, e tutti ne sono
consapevoli, in primis la Direttrice, che ne ha subito il fascino e il carisma.
«Spiacente per lei, ma...», Goldrake
replica a Sheila, la spia infiltrata nel carcere,
«c'è una rivolta in corso, e
se la trovano i carcerati, la faranno a pezzi...».
«La
Direttrice sta morendo...!», urla una guardia
nella confusione generale.
«Dispiace per lei, ma l'avevo detto...
Madame Brutal le ha fatto esplodere lo stomaco, qui davanti a me.
È strisciata fuori, vuole salvarsi con feroce
determinazione, ma temo sia finita.
L'ha presa in pieno stomaco.
A caldo è riuscita a reagire, ma non poteva fare molta
strada, non le rimane molto tempo.
D'altronde, anche se mi ha aiutato, era una Direttrice corrotta. Forse è meglio che sia
andata così».
«Lo penso anch'io...
Però se riesci a cavarle qualcosa, prima che crepi,
è meglio...».
«Okay, ci provo...». Sheila intercetta subito una
guardia: «Dove si trova la Direttrice?».
«La stanno portando in
infermeria... strillano tutti come matti... ma secondo me ormai è morta...».
«Devo parlarle, prima che sia troppo tardi... portami da
lei...».
Non giudicarmi... Sheila... hhh... ghh... era... la mia ultima... possibilità...
uhhh... non sono più... tanto giovane... ohhh... ormai... uhh... faccio schifo... mi
sono gonfiata... ahh... ma un tempo... ohh... ero bona... ghh...
hh... da morire...», la Direttrice - tra un mancamento e un rantolo - vuole
parlare a tutti i costi.
Fatica enormemente a tenersi legata alla vita, ma
cerca di andare avanti, non vuole crepare.
«Sta arrivando un elicottero per portarti in
ospedale, Dolores...
Risparmia il fiato, non te ne rimane molto...».
«Lo so... io... io... ghh... sto morendo... come una
cagna... hhh...».
«Quella psicopatica di Madame Brutal ha sparato per
ucciderti; mi dispiace, Dolores.
Il danno che ha fatto è enorme.
Non te lo meritavi; hai sbagliato, è vero, ma hai
pagato un prezzo troppo alto...».
«Sì, è vero! Perdere Dolores è un danno enorme, ecco
perché sono qui...!».
«Madame Brutal...?!».
RAT-RAT-RAT
«Addio, Sheila.
Tu verrai con me, Dolores, sul mio elicottero.
Non puoi fallire, vecchia puttana... lavorerai per me...»,
e con una mano le preme dolcemente lo stomaco, aiutandola a tamponarsi.
La
Direttrice sente un po' di vita in corpo.
«Ghh...», e risponde con un
rantolo alle cure di Madame Brutal.
Dunque, infine,
ancora una volta, Goldrake è beffato!
SEXY-ZOMBI
di Salvatore Conte (2018-2020)
HAITI, 1970
HAITI, 1990/2000
HAITI, 2020
È cambiato, passato di tutto ad Haiti, tranne Pilar, che è
entrata pure nell'era dello smartphone.
Ormai ottantenne (di anni ne ha 78, per la precisione),
senile, decrepita, imbolsita, gravemente malata, ridotta su una carrozzina a
rotelle, però sempre iperattiva, la terribile nipote di Papa Doc ha perso il pelo ma non il
vizio, e benché invecchiata di mezzo secolo, è ancora un puttanone desiderabile,
per certi versi incorrotto.
Certo, non è più la rampante, invincibile
mercenaria degli anni '90, droga e alcol l'hanno gonfiata come una scrofa, ma è
ancora potente e fuori dalle sue stanze c’è sempre la fila per entrare,
vederla e trattare con lei.
E c’è chi la vorrebbe a capo di Haiti.
Però Pilar Duvalier ha gravi problemi, deve gestirsi, o ci rimane secca, e sarebbe
un peccato, una perdita difficile da colmare per la metà della grande isola caraibica.
Un infarto, da orge sessuali o droghe,
un'emorragia fatale, da tumore allo stomaco in fase molto avanzata, uno dei
tanti complotti di palazzo: non c'è che l'imbarazzo della scelta per farla crepare una
volta per tutte.
Certo, adesso ha molta più esperienza di
allora, e se non è morta quel giorno, impalata da una pallottola sparata nella
fica...
La Duvalier si è messa in testa di conservarsi in ottime condizioni ancora a lungo (nell'ultimo
mezzo secolo c'è riuscita bene), e poi, soltanto fra molto tempo, ritornare come zombi per ottenere il
definitivo potere.
Tutti, però, a Port-au-Prince sanno che ha vissuto
fin troppo, scampando più volte alla morte.
D'altra parte, questo status di moribonda
permanente, di zombi sexy, finisce per giovarle, allungandole la vita.
Nel resto del mondo la danno tutti per finita: ma è
davvero così?
Qualcuno dice che stia preparando un clamoroso ritorno
ai massimi livelli - lei, avida di potere e sempre decisa a tutto - prima che il
suo tenebroso fascino volga al termine, o il tumore, ormai fuori controllo, la
stronchi.
È una vecchia gloria, una zombi, e
questo - ad Haiti - significa potere eterno.
La nostalgia per Pilar Duvalier ha
ormai toccato l'apice e gli haitiani non sono più disposti a privarsi di lei
nemmeno per un giorno.
Non è una minestra riscaldata, la
gente di Haiti ci crede, fino in fondo: ha troppa nostalgia, la rivuole
protagonista, l'età non conta, anzi sa che i tumori nelle persone anziane vanno
avanti più lentamente.
«Sono io il vostro futuro!»,
annuncia dal Palazzo Presidenziale.
Lo dice un'ottantenne, malata
terminale di cancro.
Lo dice Pilar Duvalier!
In tanti nel mondo cercano di capire se sia crepata o meno.
Sulle sue condizioni c'è il massimo riserbo.
Pilar Duvalier è una vecchia gloria, una
zombi, e questo - ad Haiti - significa potere eterno.
LA VECCHIA SORCONA
E IL FUNERALE DEI TOPI
di Bram Stoker, Riccardo Reim e Salvatore Conte (1896-2023)
Lasciata Parigi per la strada di Orléans, ci si trova in una zona aspra e inospitale,
detta Montrouge.
Se ci si allontana di poco dalla strada, le cose peggiorano enormemente: a
destra e a sinistra, dinanzi e alle spalle, da ogni parte si ergono alti cumuli
di immondizie e rifiuti accumulatisi col passare degli anni.
D'altronde
le immondizie sono immondizie in tutto il mondo, e tutti i mucchi di immondizie
si assomigliano, e sembra che non cambi mai nulla intorno a loro.
Perciò i dintorni di
Montrouge, nella grande
Parigi del 1850, non sono molto diversi da alcune zone suburbane della Londra di
oggi, 10 anni più tardi.
In quell'anno soggiornai a lungo nella capitale di Francia: ero molto innamorato di una donna
che, pur ricambiando la mia passione, ubbidiva ai desideri dei genitori, cui
aveva promesso di non vedermi e non tenersi in corrispondenza con me per il
periodo di un anno. Io stesso mi ero visto costretto ad accettare tali
condizioni nella speranza di carpire, infine, il sospirato benestare.
Per tutto il periodo di prova avevo promesso di rimanere lontano
dall'Inghilterra e di non scrivere alla mia diletta fino allo scadere dell'anno.
Come tutti i turisti, esaurii i luoghi di maggiore interesse nel corso del mio
primo mese di soggiorno; durante il secondo mese mi impegnai nella ricerca di
nuovi spunti di divertimento.
Avendo fatto diverse puntate nei sobborghi più conosciuti, cominciai a prendere
in considerazione una zona incognita (almeno per le guide ufficiali), in quel deserto
sociale che si stendeva tra i vari punti di attrazione. Di conseguenza,
cominciai a organizzare sistematicamente le mie ricerche, e ogni giorno ricominciavo la mia
esplorazione là dove il giorno prima l'avevo interrotta.
Con l'andar del tempo i miei vagabondaggi mi condussero nei paraggi di Montrouge
e mi accorsi che quel luogo poteva considerarsi l'Ultima Thule delle
esplorazioni sociali: un paesaggio sconosciuto quasi quanto le sorgenti del Nilo
Bianco.
In
un tardo pomeriggio della fine di settembre varcai le porte della città dei
rifiuti.
Il
posto, infatti, sembrava il domicilio riconosciuto di un certo numero di
chiffoniers, e nella formazione dei cumuli di immondizie ai lati della strada si
notava una certa sistematicità.
Passai dunque tra questi cumuli, che sembravano posti lì a guardia, ben deciso
ad addentrarmi e a seguire quella pista di rifiuti fino in fondo.
Per tutto il cammino mi parve di scorgere dietro ai mucchi di immondizie alcune
sagome in continuo movimento: evidentemente spiavano con interesse l'avvento di
un estraneo in un simile posto.
Giunsi infine in quello che si sarebbe detto il quartiere centrale della città:
si trattava di un certo numero di baracche vicine tra loro, tirate su alla buona.
Dopo circa duecento passi, la stradina si allargò in uno spiazzo, coperto in
parte da una rudimentale tettoia.
Sotto questa, stava seduta una vecchia tutto sommato graziosa, nonostante gli
anni.
Mi
avvicinai per chiederle dove mi avrebbe portato quella strada, qualora avessi
scelto di proseguire.
Era
molto vecchia, molto più della Rivoluzione. Penso avesse non meno di 80 anni,
forse 85.
Probabilmente quando la Bastiglia
cadeva, lei era già una donna. Tuttavia, benché grinzosa, non era del tutto
avvizzita: appariva ancora solida nel fisico, e il volto, brunito dal sole
estivo e ravvivato da un leggero trucco, esprimeva una certa classe; anche i capelli, sebbene
completamente grigi, erano in ordine, folti e tagliati corti a caschetto.
Forse faceva ancora la puttana, perché indossava un camicione sbottonato fino
allo stomaco, senza niente sotto, con vista immediata sulle vecchie tette
ammiccanti. Sembrava una grossa oliva che si spremeva da sé per la terza o
quarta volta, ma ancora in grado di fare olio.
Come mi vide, si alzò e attaccò subito a chiacchierare;
sembrava stesse lì ad aspettarmi.
Mi balenò l'idea che quel
luogo, fulcro del regno dei rifiuti, fosse senz'altro il più adatto per
raccogliere notizie sulla storia degli
straccivendoli parigini, anche perché le
informazioni sarebbero scaturite dalle labbra di una delle più vecchie abitanti,
forse dalla Regina di Montrouge in persona, in un certo senso, vista l'età venerabile, una
certa classe, il fisico e il camicione rosso in buone condizioni e bene aperto.
Le
posi alcune domande e la vecchia mi fornì risposte molto interessanti.
Era una di quelle rivoluzionarie che giorno dopo giorno erano rimaste sedute
davanti alla ghigliottina, ed era stata segnalata per la sua violenza durante la
Rivoluzione.
«Oh, ma m'sieur deve essere stanco di stare in piedi»,
mi disse, e spolverò uno sgabello traballante perché mi sedessi.
La cosa, per vari motivi, non mi dispiaceva affatto; la vecchia era molto cortese e inoltre la conversazione
con qualcuno che aveva partecipato attivamente alla presa della Bastiglia era
talmente interessante che sedetti e riprendemmo a parlare.
Mentre stavamo
conversando spuntò da dietro la baracca un vecchio, ancora più in là con gli
anni e ancor più rugoso della donna. «Ecco Pierre», disse lei. «Ora
m'sieur potrà ascoltare tutte le storie che vorrà, perché Pierre è stato
dappertutto: dalla Bastiglia a Waterloo».
Il vecchio prese un altro sgabello e ci tuffammo nel mare dei
ricordi.
Mi
trovavo dunque seduto sotto la tettoia, con la vecchia bagascia alla mia
sinistra e l'uomo a destra, ma sistemati in modo tale che più o meno mi stavano
di fronte. Lo spazio intorno era ingombro dei più strani rifiuti, e di parecchie
altre cose che avrei preferito fossero mille miglia lontano da me.
In un angolo vi era un mucchio di stracci che sembravano camminare dal numero
dei vermi che contenevano, e nell'altro un mucchio di ossa il cui puzzo era a
dir poco nauseante. Di tanto in tanto, gettando lo sguardo verso qualche cumulo
di rifiuti, scorgevo lo scintillio degli occhi di un topo, fra i molti che
infestavano il posto. E se ciò era già abbastanza orripilante, più terribile
ancora era quel coltellaccio da macellaio dal ferro macchiato qua e là di sangue
rappreso, appeso alla parete...
Eppure non ero eccessivamente preoccupato. Il racconto dei due vecchi era così
affascinante che stavo ad ascoltarli senza più badare al tempo che passava,
finché calò la sera e spuntò la luna.
I
capelli della vecchia, e tutto il resto della figura, si illuminarono di
riflessi argentei. Le zinne pulsavano nel camicione, cercando disperatamente di
farsi notare.
A un certo punto, però, avvertii un senso di disagio; non saprei spiegare
esattamente il perché, ma sta di fatto che fui preso da una sensazione
spiacevole. L'inquietudine è dettata dall'istinto ed è sempre premonitrice.
Le facoltà psichiche sono spesso le sentinelle dell'intelletto, e quando esse
danno l'allarme interviene, sia pure inconsciamente, la ragione. Mi accadde
proprio questo. Cominciai a riflettere sul luogo in cui mi trovavo, su quello
che mi circondava e su come avrei potuto reagire nel caso fossi stato aggredito.
E
poi, all'improvviso, mi resi conto, pur senza una causa precisa, di essere in
pericolo. «Sta calmo e fai finta di nulla», mi
consigliò la prudenza; così mantenni la calma e non lasciai trapelare nessuna
emozione, ben sapendo di avere quattro occhi fissi su di me. Quattro occhi... se
non di più.
Dio
mio, che pensiero tremendo! La piazzetta poteva essere accerchiata da delinquenti.
Potevo trovarmi nel bel mezzo di una banda di disperati, creati da un mezzo
secolo di rivoluzioni periodiche.
Il senso del pericolo acutizzò il mio spirito d'osservazione, e divenni
istintivamente più guardingo. Notai, ad esempio, che lo sguardo della vecchia
tornava a fissarsi con insistenza sulle mie mani; seguendolo, scoprii il motivo
di tanta insistenza: gli anelli. Al mignolo della mano sinistra portavo un
sigillo, e alla destra un diamante, entrambi di notevole valore.
Pensai che se mi trovavo in pericolo la prima mossa doveva essere quella di
allontanare ogni sospetto. Così, dirottai la conversazione sulla raccolta dei
rifiuti, sulle fogne e su quel che vi si trova; insomma, pian piano arrivai a
parlare di gioielli. Poi, cogliendo al volo la prima occasione, chiesi alla
vecchia se se ne intendeva. Rispose di sì, un poco. Tesi la mano destra e
mostrandole il diamante chiesi cosa ne pensasse.
Rispose, chinandosi in avanti, che ormai la vista la tradiva.
«Prego», dissi io con la maggior disinvoltura
possibile. «Lo vedrete meglio così», e mi sfilai
l'anello, porgendoglielo.
Come lo ebbe in mano, una luce sinistra si accese su quel volto grinzoso, e mi
lanciò rapida uno sguardo acuto, quasi il lampeggiare della folgore.
Restò un momento china sull'anello, celando il viso, fingendo di stimarlo.
Il vecchio, intanto, lasciava vagare lo sguardo, armeggiando nelle tasche da cui
trasse una presa di tabacco e una pipa che cominciò a caricare.
Approfittando del vantaggio che quella pausa mi concedeva e del fatto di non
avere per il momento quegli occhi fissi su di me, volsi uno sguardo attento
intorno, nella luce incerta, sui mucchi di immondizie, sul terribile
coltellaccio sporco di sangue e sul sinistro lampeggiare degli occhi dei ratti,
visibile ovunque, pur nella semioscurità.
E
c'erano altre ombre ancora... e sussurri...
Ora avevo valutato il pericolo in tutta la sua vastità: ero circondato e tenuto
sotto sorveglianza da una banda di disperati. Non riuscivo neppure a immaginare quanti ve ne potevano essere accovacciati in
terra, dietro le baracche, in attesa del momento giusto per colpire. Sapevo, è
vero, di essere robusto, ma anche loro non lo ignoravano. E sapevano anche, al
pari di me, di avere a che fare con un inglese, e che dunque mi sarei venduto a
caro prezzo. Così, aspettavano.
Intuivo di aver guadagnato un certo vantaggio negli ultimi secondi, perché se
non altro avevo avuto coscienza del pericolo.
«Adesso», pensai, «è il
momento di mettere alla prova il mio coraggio».
La donna sollevò il capo e commentò con voce soddisfatta: «Un
anello stupendo, molto bello davvero!
Povera me...
ora sono vecchia e logora... ma un tempo anch'io
possedevo anelli così... tanti, anche... e bracciali, e orecchini...»,
la vecchia si stirò addosso il camicione, da
vecchia sorcona, evidenziando la pancia molle e le tette cedenti; senza paura,
come avesse ancora trentanni; la lingua fece capolino dal labbro; tutto questo
forse perché un paio di volte le avevo messo gli occhi nella profonda scollatura del
camicione. «Avevo mezza
Parigi ai miei piedi».
In
effetti non era difficile da credere.
«La classe non invecchia... non dovete commiserarvi,
tuttaltro...
Come vi chiamate?», il mio complimento era sincero;
e poi mi conveniva essere gentile.
«Annette... m'sieur...
Annette Frazeur...
Voi
siete molto gentile, ma
ora... quei tipi... se non sono morti... si sono scordati di me.
Mi hanno dimenticato.
Che
dico... non sanno neppure che sono ancora viva!».
Concluse con rabbia, rivendicando l'età venerabile.
«Viva... e ancora importante, e imponente...», la lusingai volentieri.
Poi devo confessare che mi stupì, perché mi ridiede l'anello con un certo
garbo che suggeriva una grazia d'altri tempi, non priva di un suo struggimento.
L'uomo la fissò con improvvisa acredine. Si levò a metà sullo sgabello.
«Fate vedere un po'», disse rivolto a me con voce
roca.
Stavo per accontentarlo, quando la vecchia intervenne: «No,
non dateglielo. Pierre perde tutto: è fatto così.
È un
anello talmente bello...».
«Oh, al diavolo!», proruppe l'uomo con rabbia.
E la donna, con un tono più alto di quanto fosse necessario, replicò:
«Aspettate! Vi voglio raccontare la storia di un
anello...».
Vi era qualcosa nella sua voce che mi colpì.
Ma
forse la causa andava ricercata unicamente nella mia ipersensibilità; sta di
fatto che mi sembrò di capire che l'esortazione non fosse diretta a me.
«Una volta persi un anello... un bel diamante, un
tempo di proprietà di una regina, che mi era stato donato da un esattore delle
tasse, il quale - in seguito - respinto da me, si tagliò la gola.
Pensai di essere stata derubata e mi feci sentire con quelli della mia banda, ma
senza nessun esito. Allora la polizia compì un sopralluogo e si pensò che dovesse
essere andato a finire giù per la fogna. Discendemmo: andai anch'io, con i miei
bei vestiti, perché non mi fidavo di loro.
Ho
imparato tante cose sulle fogne, da quel giorno, e sui topi, anche!
Non
scorderò mai quel posto vivo di occhi lucenti, un'intera parete che si ergeva là
dove finiva l'alone delle nostre torce...
Infine, arrivammo sotto la mia casa.
Frugammo nel punto giusto e lì, in mezzo alla porcheria, ritrovammo il mio
anello.
Ci stavamo dirigendo verso l'uscita, ma l'avventura non era ancora finita.
All'imbocco della fognatura ci si fece incontro un altro esercito di topi: di
razza umana, questa volta.
Spiegarono ai poliziotti che uno di loro era finito lì e non era tornato in
superficie; vi era entrato da poco e non poteva essere andato molto lontano. Gli
chiesero di dar loro una mano a cercarlo. Ritornammo quindi sui nostri passi.
Tentarono di impedirmi di seguirli, ma non ci riuscirono.
Era un divertimento che non volevo lasciarmi scappare; e poi, non avevo forse
ritrovato il mio anello? Comunque, non dovemmo camminare molto: ben presto ci
finimmo contro.
C'era poca acqua, e il fondale della fogna era ingombro di mattoni, detriti e
altre porcherie.
Doveva aver lottato, anche dopo aver perduto la torcia, ma erano in troppi per
lui. E non se l'erano certo presa comoda!
Le
ossa erano ancora tiepide, ma completamente spolpate. Si erano divorati perfino
i loro morti; accanto alle ossa umane si potevano distinguere infatti piccoli
scheletri di topo.
Gli altri non ne fecero una gran tragedia - gli umani,
intendo - e risero sul loro amico morto, anche se da vivo erano stati disposti
ad aiutarlo. Ma poi, vivo o morto, che differenza fa?».
«Non avete avuto paura?», le chiesi.
«Paura?», fece lei con una risata al chiar di luna.
«Paura io? Chiedetelo un po' a Pierre!
Certo, allora ero più giovane e in quell'orrenda fogna con il muro degli occhi
famelici che si spostava di continuo seguendo la luce delle fiaccole, non mi
sentivo a mio agio.
Volli che gli uomini mi stessero dietro, abitudine che ho
conservato. Mi piace stare in testa: tutto quello che chiedo è che mi si diano
possibilità e mezzi...», parlava da regina, in effetti; era
ancora ambiziosa.
Si stirò addosso il camicione, osservandomi per
constatare la mia reazione.
Cercai di non deluderla.
«Insomma, lo divorarono!
Fecero sparire dalla faccia della terra qualsiasi traccia, tranne le sue ossa, e
nessuno ne seppe nulla. Neppure un gemito si udì».
Con queste parole concluse il discorso, fissandomi duramente.
Mi
teneva in pugno.
Potevo leggere fra le righe di quella storia cruenta le
parole d'ordine per i suoi complici.
State calmi, sembrava dire, attendete il
momento giusto. Darò io il primo colpo. Trovatemi l'arma adatta e saprò cogliere
l'opportunità al volo: non ci sfuggirà. Basta condurre il gioco con calma e
nessuno ci darà meno noia di lui. Non si leverà di qui neppure un grido, e i
topi faranno il resto!
Lanciai uno sguardo intorno: tutto immobile! L'ascia insanguinata
nell'angolo, i cumuli di rifiuti e quegli occhi lucenti nel mucchio d'ossa.
Pierre stava ancora armeggiando con la sua pipa: in quel mentre accese un
fiammifero e riprese a soffiarci dentro. «Ma m'sieur... voi forse avete freddo...
La
vecchia Annette può scaldarvi meglio di quanto pensiate...», e trascinò lo
sgabello verso di me, quasi cadendomi addosso.
Le
passai un braccio intorno ai fianchi pesanti: la carne era flaccida, ma la
sensualità da vecchia troia era lungi dall'essere morta.
«Stavate per cadere...».
«Addosso a voi, m'sieur, non mi sarei certo fatta male...».
«Nemmeno io, d'altronde, madame...».
Stavo flirtando con una vecchia megera che poteva essere mia nonna, una lurida
bagascia di fogna consumata dagli anni e dagli stenti di una vita miserabile.
Stavo dimenticando il pericolo che mi circondava.
Tornai padrone di me stesso, intuendo che il momento dell'azione si stava avvicinando.
Non ero armato, ma presi una decisione su ciò che avrei potuto fare. Al primo
movimento avrei afferrato il coltellaccio da macellaio che si trovava appeso
alla parete, e mi sarei buttato in avanti per farmi strada. Se non altro, avrei
venduta cara la pelle.
Buon Dio, non c'era più...! Tutto l'orrore della situazione parve sopraffarmi.
Ma il pensiero più triste era quanto avrebbe sofferto la mia cara Alice se le
cose, come sembrava, si fossero messe al peggio.
La vecchia continuava a fissarmi come fa il gatto col topo, la mano
nascosta fra le pieghe del camicione, stringendo, lo sapevo bene, quel
coltellaccio
orrendo. Comprendevo che, se avesse scorto anche il minimo segno di paura sul
mio viso, sarebbe balzata avanti come una tigre, sicura di cogliermi
impreparato.
«Non sono finita... posso essere vostra... m'sieur..., la vecchia sorcona
cercava di sedurmi, trascinandomi la mano sulle zinne molli.
Ma
io non dovevo mollare, anzi ne approfittai.
Sapendo dove pescare, scattai sulla mano nascosta e mi impossessai del
coltellaccio!
Avrei potuto piantarglielo nella pancia da vecchia cessa, ma non ebbi il
coraggio di farlo.
La
spinsi però addosso a Pierre per creare confusione e cominciai a correre con in
pugno il coltello sottratto alla vecchia.
Nessuno ebbe il fegato di affrontarmi, ma ben presto cominciarono a inseguirmi
ben sapendo che non sapevo minimamente dove andare.
Stavo proseguendo lungo la strada che mi aveva condotto fino allo spiazzo dove
avevo incontrato la vecchia sorcona.
Dopo un certo tratto, mi fermai per riprendere fiato e studiare la situazione.
E
fu allora che la vidi!
Era
lei, nel suo camicione rosso!
Annette!
Viaggiava possente su una slitta a ruote, trainata da cani feroci!
Non
si fermava davanti a nulla...!
Cosa mai doveva essere stata nel pieno della gioventù!
Dietro di lei, molti uomini.
Ripresi a correre, ma la stradina ormai non si distingueva più, tra mucchi di
immondizia, paludi melmose e luridi canali di scolo.
Annette era scesa dalla slitta e con
indicazioni silenziose organizzava gli uomini, avanzando pesante a passo senile.
Da quel momento ebbe inizio una caccia veramente orribile.
Ero
in pericolo di vita, la mia salvezza dipendeva dalla rapidità con cui avrei
agito, praticamente a ogni passo mi si presentava un'alternativa che poteva
significare lo scampo o la morte... eppure l'unica cosa cui riuscissi a pensare
era la resistenza di quella donna e dei suoi uomini, tra cui di certo molti
vecchi.
Quella loro risolutezza
silenziosa, quella persistenza allucinante, anche in una simile circostanza, non
poteva non suscitare, assieme alla paura, un certo senso di rispetto.
Ora sì me la potevo immaginare mentre prendeva la Bastiglia! Sessantuno anni
prima!
Ripresi la corsa; il terreno si faceva sempre più accidentato e ogni volta
inciampavo, cadevo, mi rialzavo e riprendevo di nuovo a correre con l'angoscia
della preda braccata. E ancora una volta il pensiero di Alice mi diede coraggio.
Non potevo, no, non potevo lasciarmi catturare e rovinarle in tal modo la vita:
mi sarei battuto fino alla fine.
Con uno sforzo enorme riuscii a inerpicarmi lungo un muro di cinta.
«Alto là!».
Udii il risuonare dei moschetti, scorsi l'acciaio balenare davanti ai miei
occhi.
Istintivamente mi fermai, anche se alle spalle potevo sentire i passi dei miei
inseguitori.
Una, due parole e dal cancello si riversò, o almeno così mi parve, un fiume di
rosso e di blu, allorché le sentinelle uscirono fuori. Il posto si animò di
luce, dei bagliori delle baionette, del clangore del metallo, di alte voci di
comando.
Mentre cadevo in avanti, completamente esausto, un soldato mi prese al volo.
Guardai indietro in attesa di qualcosa di terribile e vidi la massa confusa di
forme scure, incluso un punto rosso, sparire nel buio della notte...
Poi devo essere svenuto. Quando rinvenni mi trovavo nella guardiola, mi avevano
dato del brandy e dopo pochi minuti ero in grado di raccontare quello che era
successo. Quindi fece la sua apparizione un commissario di polizia che sembrò
materializzarsi dal nulla, come è tipico dei poliziotti parigini.
Ascoltò con attenzione quel che dicevo e quindi si consultò animatamente con gli
ufficiali. A quanto mi parve, riuscirono a mettersi d'accordo, perché mi
chiesero se me la sentivo di seguirli.
«Dove?», chiesi alzandomi.
«Fino alla città dei rifiuti. Può darsi che riusciremo
ad acciuffarli! È ora di farla finita con quella vecchia
cagna!».
«Ci proverò», risposi.
«È imprudente suscitare incidenti, commissario!», Annette
doveva aver suggestionato anche il comandante della guarnigione, evidentemente.
Il commissario, invece, appariva risoluto.
Così uscimmo dalla guardiola, traversammo un passaggio a volta e fummo di nuovo
nella notte.
Gli uomini che ci facevano strada erano provvisti di lanterne molto
forti. Venne dato ordine di marciare a due a due, e i soldati si incamminarono
così in fila, procedendo con un'andatura che stava tra la corsa e la camminata
di buon passo.
Sentivo di aver riacquistato completamente le forze. Tale è la differenza tra il
cacciatore e la preda.
Con passo sempre più veloce raggiungemmo i primi cumuli di rifiuti.
Infine arrivammo nello spiazzo dove avevo parlato a lungo con Annette e Pierre.
Della vecchia, però, nessuna traccia.
Fu dato ordine agli uomini di sparpagliarsi lì intorno e di tenere gli occhi
bene aperti.
Fu
uno di loro a chiamarci.
Lo spettacolo era raccapricciante: a terra vi era lo scheletro di un uomo; tra
le ossa baluginava la lama di un coltello.
Riconobbi quegli stracci e infilando la mano nella tasche, ne ebbi conferma:
mostrai la pipa al commissario.
«Questo scheletro appartiene a un certo Pierre: era
amico della vecchia».
«Sì, lo conosciamo.
La vecchia deve essersi liberata di lui.
Come potete notare,
di topi qui ce ne sono parecchi, se ne possono vedere gli
occhi luccicare lì fra i mucchi di immondizie, e noterete anche...», l'uomo aveva appoggiato una mano
sullo scheletro, «che hanno perso davvero ben poco tempo: le ossa sono
ancora calde!
Il
funerale dei topi è rapido!».
Con ogni probabilità era proprio andata così. Annette non
aveva esitato a eliminare Pierre, pur di coprirsi la fuga.
Era
ancora lucida e solida come durante l'assalto alla Bastiglia di 60 anni prima.
Le piaceva uccidere, ma non rimanere uccisa. Metteva la sua vita davanti a
tutto; ed era sempre abile nel rimanere indenne.
«Ora dobbiamo trovare la vecchia!», esclamò il
commissario.
I soldati interrogavano gli straccioni, perquisivano
le baracche, rastrellavano la zona, ma senza troppa convinzione. La vecchia
sorcona doveva avere degli alleati nella guarnigione.
Stavolta, comunque, ero io il cacciatore e lei la preda.
Cominciai a riflettere: dove poteva nascondersi
Annette?
Doveva avere un covo segreto, dove si sentiva la Regina di Montrouge, la Regina degli
Straccioni di Francia...
E Pierre doveva conoscere quel posto...
Ripensai al putrido acquitrino in cui mi ero
casualmente cacciato.
Doveva essere alimentato da un canale di scolo,
proveniente dalla città.
Forse Annette stava fuggendo su una piccola imbarcazione a
remi, diretta all'imbocco delle fogne parigine, dove non avrebbe avuto
difficoltà a dileguarsi.
Il suo racconto lasciava immaginare questo.
Fingendo di partecipare al rastrellamento, tornai in
quella direzione e mi appostai attorno a un ponticello che scavalcava il canale,
poco prima dell'imbocco fognario.
Annette era molto anziana, non poteva remare
velocemente, forse ero riuscito a precederla.
Il camicione rosso emerse dall'oscurità, passando
sotto il ponte.
Si trattava di una piccola chiatta monoposto, il
livello del liquame appariva infatti piuttosto basso.
Saltai in acqua e bloccai con facilità la piccola
imbarcazione. Il liquame non superava di molto le ginocchia.
Annette non fu particolarmente stupita di vedermi.
«Ho visto come mi guardavate... m'sieur...
Vi piacciono le vecchie?».
«Non tutte sono belle come voi, madame...».
Tirai in secco la barchetta e l'aiutai a scendere.
«È ora che ti sistemi, Annette.
Prendiamo una carrozza...».
«Ma m'sieur... non conosco nemmeno il vostro
nome...».
«Abraham... Abraham Stoker...
Con una pelliccia addosso, nessuno ti chiederà
l'età.
Ungerai la pelle con olio cosmetico: sarai una donna matura, ma ancora piacente.
Io farò crescere la barba e sembreremo un coppia normale, prenderemo in giro
tutti...».
«Ma m'sieur... io non sono eterna come voi pensate...».
«Con me lo diventerai...».
Non mi feci più vivo con Alice.
Da allora sto bene con la mia donna, Annette Frazeur, l'Ancienne Déboutonnée;
l'ho fatta pure lavorare; piace sempre; il suo camicione sbottonato fino allo
stomaco e la pancia grassa, bella gonfia, da vecchia sorcona, sono trappole per topi;
spendono tanti soldi per averla.
Non mi sono mai troppo preoccupato dei suoi anni, anche se adesso sono diventati
veramente tanti, e comincio ad avere paura, perché è malandata e stanca.
Ma non sono sazio; e nemmeno lei.
Festeggiamo il nostro decennale con questo racconto
e tiriamo avanti fino all'ultimo, senza smettere di lavorare.
DIDONE LA SBOTTONATA
di Salvatore Conte (2023)
«Didone ha sempre avuto buona stampa, ne parlano bene tutti».
«Dido
inbotonutrix, l'Imbonitrice.
Ha
grazia, oltre alle grazie».
«Ma stavolta si è messa a fare la puttana, o per meglio dire il troione,
appresso a quello sciroccato».
«Non è solo lei, è tutto un insieme di cose.
C’è chi la spinge, lo sai».
«Non dare retta a certe teorie, gli dei esistono solo nella nostra testa, la
storia è cucita dal grande narratore».
«E chi sarebbe? Lo conosci?».
«Lo chiamano fato, destino».
«Allora siamo alle solite».
«No, c’è qualcuno che dirige il destino».
«Tu lo conosci?».
«È dietro tutto, crea drammi e tragedie».
«Tornando al concreto, pensi che si caccerà nei guai, la nostra bella regina?».
«Senza dubbio. E grossi, anche…».
«Finisce spanzata, per capirci?».
«Temo di sì».
«Ma il suo Capitano, non la difenderà?».
«Quello?
Se il Troiano apre la borsa, si volterà dall’altra parte».
«A forza di fare la prostituta a maghi ed esperidi, ne ha carpiti di segreti…
Ma la sua natura di troia sbottonata è uscita fuori con l’ariete senza corna…
colui che ha aperto il cavallo».
«Ha inventato i bottoni e nessuno sa allentarli meglio di
lei».
«Possono chiamarla l’Errante, l’Infelice, la Sidonia: tutti epiteti graziosi, ma
lontani dalla realtà.
Didone è la Sbottonata.
Chi la canta diversa non he le idee chiare, o non vuole chiarirle agli altri».
«Hai ragione, amico mio.
Tanto è vero che sempre vi sarà una Didone Sbottonata in ogni secolo a venire,
fino alla fine della Storia; e sarà riconosciuta da come si allenterà i
bottoncini».