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Porta di Dite A37

The world belongs to those who come (and die) the last

Assassinio sul Bermuda Express

Ferrum et Fulgur

Il grillo e la cicala

Un pompino al destino

La Ballata della vecchia Kleo

La vecchia Kleo balla ancora

Il rigurgito della fossa

La bella tamponata nel bosco

Una bara per Layla

Golden Cessa contro Sbottonata Rosa

THE WORLD BELONGS

TO THOSE
WHO COME

(AND DIE)

THE LAST

di Salvatore Conte (2012-2019)

Era a capo di una feroce banda di desesperados.

Li teneva in pugno senza tanti problemi.

Aveva potere e dinero.

Ma ora si era stufata.

Troppi rischi, troppo sudore.

Non era ancora tanto vecchia, o almeno tale non si sentiva e non appariva, benché avesse ormai 60 anni sul groppone.

Però era meglio non tirare troppo la corda.

Stava seriamente meditando di mollare tutto e di godersi la ricca pensione, accumulata in anni di sanguinose sparatorie.

Senza di lei, però, la sua banda non meritava di esistere.

D'altra parte non poteva piantarli in asso tanto facilmente.

Occorreva sfoltire i ranghi e l'occasione giunse presto.

Da tempo si era stancata degli uomini, l’avevano sempre delusa.
Perciò aveva scelto una vice.

Adesso era venuto il momento di lasciarle le redini.

Eravamo diretti a Longfellow.
Il capo era di buon umore, lo si capiva da quanto fosse allentata la giubba di pelle.
Faceva finta di niente, però io sapevo che intendeva smettere.

L'avevo sentita parlare con Romina, la puttanella che s'era presa per tenere a bada i suoi uomini.

La banda doveva andare a un uomo: lei si era invecchiata e non aveva più tanta voglia di sudare.

Sarebbe andata a vivere in un rancho, sarebbe diventata una ranchera matura e appetibile, per qualche vecchio notaio o banchiere.

Volente o nolente, la vecchia puttana - perché questo era - doveva passare le redini.
«Emiliano, vai avanti», intanto, però, continuava a dare ordini.

L’appuntamento era con gli uomini di Douglas Jones, un furfante che si era messo in testa di rapinare dei rapinatori.
Secondo lui la banda del Loco stava per mettere a segno un grosso colpo nella stazione di Longfellow.

Aperta nove anni prima - sulla linea Galveston-San Antonio-El Paso, tangente al confine con il Messico - era cresciuta a dismisura e rappresentava ormai una grossa tentazione, specie perché si poteva oltrepassare la frontiera mettendoci sopra poco più di 30 miglia.

Le voci non sbagliavano. El Loco non aveva resistito alla tentazione.
Fu così che una pioggia di piombo si abbatté sull’arida spianata attraversata dalla linea ferrata.

Il bandito si era impadronito dell’ufficio postale, da poco inaugurato, e aveva incassato le paghe di tutti i salariati della zona. El Loco si considerava un giusto: aveva privato molti individui della loro miseria, affinché altri - più fortunati - conoscessero un po' di ricchezza.
Il ritorno sulla Main Street, però, fu tuttaltro che trionfale: gli uomini di Douglas Jones e quelli di Kelly Madison presero a sputare piombo!
Finalmente potevano sparare e uccidere senza violare la legge.
Al Loco tanta reazione sembrò molto strana: non ci mise molto a capire che non poteva trattarsi della gente di Longfellow.
Che gente poteva essere quella che abitava in un posto del genere, con un nome preso in prestito da un poeta da strapazzo, morto da nemmeno dieci anni?
C’era dell’altro. Qualcuno intendeva giocarlo. Ma se ne sarebbe pentito molto presto.
«Il razzo!», ordinò secco.
Un candelotto segnalatore decollò verso il cielo di Longfellow.
Una dozzina di desesperados a cavallo partirono a razzo verso lo scalo ferroviario.
La sua scelta di non scoprire tutte le carte si stava rivelando preziosa. E così anche la soffiata giunta al suo orecchio.
«Bravi, sparate… sparate…!
Ahh-ahh-ahh…!», la folle risata del Loco sembrò sovrastare per qualche attimo il concerto di colt e winchester che rimbombava sulla Main Street di Longfellow.
«Quel pazzo vuole crepare ridendo: tanto meglio per lui! Accontentiamolo!», tuonò Douglas Jones, ormai convinto di potergli saldare il conto.
Ma i conti, con l’arrivo in paese della nuova dozzina di pendagli da forca, non tornavano più, né per lui, né per Kelly.
La Madison cominciò a sudare freddo.

Era il momento di far scattare il piano.
Diede ordine ai suoi di ripiegare all’interno del saloon.
Lei stessa era ansiosa di trovarvi rifugio, poi sarebbe fuggita dal retro.

Qualcosa, tuttavia, andò storto
BANG
Uno sparo fra i tanti. Eppure aveva qualcosa di speciale, perché aveva aperto un grosso buco nello stomaco della bella Kelly Madison…
Entrata a ritroso nel saloon, barcollò fino a un tavolo e prese paradossalmente posto davanti a una bottiglia, seduta come aspettasse di bere un goccio prima di scendere all’inferno, mentre tra i suoi uomini, intenti a barricarsi all’interno dello stabile, dilagava la notizia: il loro capo, l’invincibile Kelly, stavolta aveva raccolto piombo.
Se la banda Madison era sotto assedio, le cose non andavano meglio a quella di Douglas Jones.
El Loco, prima di tagliare la corda, voleva approfittarne per saldare il conto alle due bande rivali.

Ma anche Jones aveva una vice e sapeva il fatto suo.
Si chiamava Leila Dobbs: un grosso troione che lo stava manipolando da mesi; lo faceva attraverso occhi mesmerizzanti, mento marcato, duro, virile, scollatura facile e abbondante, e tanta esperienza nel volto da puttanone.

Leila era una cagna sfondata e priva di scrupoli, ma anche una pistolera veloce e micidiale, che si considerava immune alle pallottole: quella era l’occasione giusta per dimostrarlo…

La Dobbs era entrata pesantemente in azione, sputando fuoco in tutte le direzioni; camicetta allentata, forme grasse, colt e cinturone: chi avrebbe potuto fermarla?
Solo un pazzo.
Ma per sua sfortuna un pazzo c'era, a Longfellow.
E sapeva sparare molto bene.
La bella puttana al servizio di Jones era un obiettivo decisamente invitante per El Loco…
Voltandosi verso di lei, in mezzo a un picco assordante del concerto, Douglas notò che la sua vice si teneva una mano incrociata sulla pancia!
Increspò lievemente la bocca…
Era l’occasione giusta per sbarazzarsene e riprendere il pieno controllo della banda.
Intanto sparava ancora, come nulla fosse, pensando di essere immune alle pallottole.

Tanto meglio per lui: l’avrebbe servito fino alla fine...

Nel frattempo, all’interno del saloon, i desesperados si chiedevano cosa ci facesse Kelly seduta al tavolo, come in attesa del pranzo, mentre fuori impazzava la sparatoria.
La verità era che Kelly Madison aveva paura di schizzare all’inferno e si attaccava alla bottiglia per affrontarla con la migliore arma disponibile.

Esaltata dall'alcol, fece un cenno a Romina.
«Usiamo la dinamite…
Poi… voglio un carro... sulla porta del saloon…
Uhmmm…», e si piegò in due, tenendosi la grassa pancia con entrambe le mani.

Eccola… stava cedendo…
Stavolta era toccato a lei.
Evitai di guardarla negli occhi: stava cercando un capro espiatorio e non mi sentivo della taglia giusta.
Era una belva ferita a morte, mortalmente pericolosa.

Romina si rivolse subito a Pedro, l’artificiere della banda.
BOOOM
BOOOM
BOOOM
Il concerto fu rinforzato a colpi di grancassa.
La Madison, imbottita d’alcol, si tirò gagliardamente in piedi.
«Fino alla vittoria… hombres…!», digrignando i denti, sbavando sangue e reggendosi la pancia con ambo gli avambracci!

Era fregata, ma per buttarla giù ci voleva altro tempo, a meno che non beccasse altro piombo.

Kelly era ancora una gran vacca.
Intanto una diligenza della Wells Fargo si era fermata davanti al saloon.

Il concerto di piombo sulla Main Street di Longfellow andava adagio.

La dinamite aveva fatto effetto.
La vidi barcollare, sorretta da Romina e Lucho, e raggiungere la porta della diligenza: collegamento di linea per l'inferno...
Rotto l’assedio grazie alla dinamite del buon Pedro, ricongiunti agli uomini di Douglas Jones, partivamo alla caccia del Loco e del suo bottino...

«Quei pazzi ci inseguono…!», gridò il bandito messicano ai suoi, stupito e divertito insieme.
Li aspettò sulle sponde del Rio Bravo, a La Junta, dove veniva raggiunto dalle acque del Rio Concho, in un luogo di passaggio e trapasso.

Kelly si teneva su masticando droga in foglie tagliuzzate; l'aveva sempre con sé, per i momenti piacevoli e quelli difficili.

In quel momento poteva sembrare curioso che alcuni desesperados si muovessero con una diligenza della Wells Fargo, ma ciò sarebbe sembrato normale alcune generazioni più tardi, perché il mondo - diceva Longfellow - appartiene a coloro che vengono per ultimi; e ne fanno ciò che vogliono, senza pensare troppo a quelli che sono passati; un esercito di ombre passa di continuo sotto il sole.

Lo scontro a fuoco divampò nell'isola de La Junta, tra la macchia che cresceva lungo i due fiumi, mentre Kelly Madison lottava per protrarre la sua permanenza tra gli ultimi.

Ero rimasto vicino alla diligenza.

Dovevo sistemarla io, oppure c'avrebbe messo troppo.

Aspettai che anche Lucho si staccasse, per farle visita: un folto cespuglio mi proteggeva.

«Che fai qui...?».

«T'ammazzo...».

BANG

«Mal...di...to...», sussurrò rabbiosa, mentre crollava di schiena.

Le avevo allargato il buco nello stomaco!

Ora, però, era meglio defilarmi.

Capitai dalle parti di quella troia che si tirava dietro Jones, giusto in tempo per vederla cadere in un'imboscata, perché di quello si trattava: la macchia era fitta e assomigliava a un bosco.

BANG
BANG
Aveva preso altri due colpi in pancia!

La testa le girava e aveva una gran voglia di finire sulle ginocchia, ma se ne vergognò e riuscì a reggersi in piedi, mentre intorno a lei continuavano a fischiare pallottole.
Si portò al riparo di un grosso cespuglio, nel tentativo di riordinare le idee.
Aveva preso altro piombo, mentre al contrario quel bastardo di Jones continuava a urlare ordini e a rimanere illeso.
«Cristo… sono fottuta…», imprecò tra sé Leila, comprimendosi l’addome con la mano libera. «Ma io li fotto tutti…!».
Come impazzita dalla rabbia e dalla paura di lasciarci la pelle, si gettò paradossalmente allo sbaraglio, barcollando pesante su gambe incerte, sputando fuoco e veleno.
«Cani… cani maledetti…! Prendete questo…!».

BANG
BANG
BANG

Quel che ne rimediò fu solo altro piombo.

Ormai aveva un tamburo intero nella pancia.
Tuttavia, il rimanere crivellata di pallottole, le mise in corpo, oltre allo stesso piombo, una sfrenata voglia di vivere.
Si trascinò nuovamente al riparo e prese a strisciare verso qualcuno dei suoi, la bocca a mangiare sabbia, gli stivali a scalciare polvere.

«Non mi avrete… bastardi…», sussurrò tra sé.
Fu lo stesso Jones a raggiungerla.
Lei gli si aggrappò addosso, tra panico e follia.

«Doug... sono crepata per te... stammi vicino...».

Ma in fondo, se non proprio immune, era quantomeno resistente alle pallottole.

«Cabrones! Kelly è rimasta fottuta!».

Nello stesso momento, Romina aveva rinvenuto il corpo della Madison.

Era troppo.

Jones non valeva molto da solo, e la banda Madison non valeva molto senza Kelly.

El Loco ne approfittò per sganciarsi.

Era ancora dentro la diligenza.

L'avevano lasciata lì.

Stavo aspettando il momento di reclamare il comando, ma la puttanella e gli altri entravano e uscivano dalla carrozza senza prestare attenzione a nient'altro.

Non pensavo fossero così attaccati alla vecchia puttana.

La cosa cominciò a puzzarmi quando Romina fece entrare nella diligenza uno strano tipo.

Sembrava un vecchio stregone.

Fosse stato un prete dal vicino villaggio non avrei avuto niente da ridire.

Nel dubbio mi cercai un cavallo.

«Pedro... che diavolo fanno in quella diligenza?

Io vado a controllare se El Loco è scappato davvero».

«D'accordo, ma stai attento».

L'aveva detto.

Non dovevo dimenticare che un winchester in braccio a Romina poteva colpire a mezzo miglio di distanza.

Nel dubbio era meglio farsi una bella cavalcata.

BANG

Cristo! La paglia del sombrero puzzava di bruciato, m'aveva bruciato il cappello.

Dannate puttane!

«L...o...h...a...i...a...m...m...a...z...z...a...t...o...», la gran vacca che non passava mai, credeva ancora di poter rimanere tra gli ultimi, e di morire dopo gli altri, nonostante le apparenze contrarie.

E non era la sola.
Tutto infine aveva ricevuto una precisa collocazione.
Alcuni avevano perso il mondo, altri lo cavalcavano ancora.
Perché il mondo appartiene a coloro che vengono (e muoiono) per ultimi.

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Il racconto è un tributo alla sua bellezza, carisma, personalità.

Gli aspetti negativi sono introdotti per mere esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico.

Il ruolo della protagonista va assimilato a quello dell'attrice rispetto a un film.

La devozione alla persona in questione, da parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta.

ASSASSINIO SUL BERMUDA EXPRESs

di Salvatore Conte (2017-2019)

C'è sempre chi ama i misteri, a tutte le latitudini, e il Capitano Wilson ci tira su qualche soldo.

Se il Triangolo Maledetto si prendesse la sua carretta, tuttavia, non sarebbe di certo una clamorosa scomparsa.

Forse per questo l'ha sempre fatta franca, fino a oggi.

Imbarca i turisti a Miami e li porta in giro per il Triangolo. Qualche bagno al largo, qualche immersione.

Talvolta, per eccitarli un po', si inventa strane anomalie, tipo inspiegabili disturbi alle frequenze radio, o misteriose oscillazioni della bussola di bordo.

E per non farli annoiare ha un asso nella manica che si chiama Jane Frexhi, ex casalinga di origine greche, che ha cercato miglior fortuna per le sue grazie.

Mollato il marito, ha ottenuto qualche particina in produzioni minori, senza però decollare.

Forse si è decisa tardi, a cinquant'anni e con qualche chilo di troppo, per i canoni dello show-business.

Adesso è entrata in società con Wilson e si adatta a fare tante cose: primo ufficiale, segretaria, guida turistica, animatrice, barista, etc.

Di sicuro non parte mai battuta, perché è gonfia di carne dappertutto: davvero un bel pezzo; una strafica incompresa dai geni di Hollywood.

Sarà una coincidenza, ma anche oggi il battello è pieno.

Il tour prosegue fra i soliti disturbi e le misteriose oscillazioni.

Anche Jane è sempre attiva: adocchia, rimorchia e si porta in cabina gli ospiti, se hanno soldi da spendere.

«Basta mariti, me la faccio solo con i dollari, mister», risponde a chi va troppo oltre. «Sono una grande attrice, sarò presto in prima pagina», a chi tira sul prezzo, o forse per un sinistro presentimento; sì, Jane, magari a quattro colonne nella Cronaca nera del Miami Herald, vista la schiera di mogli e compagne che stai mortificando.

SZOCK

Il colpo arriva improvviso, nell'oscurità.

Aveva appuntamento con più di un ospite, uno spettacolino di gruppo, per risalire la china di Hollywood.

Poi uno di loro fa finta di aver dimenticato qualcosa e torna indietro.

Come lei apre - distratta, quasi infastidita - si prende la coltellata!

Profonda, nello stomaco.

Jane non ha la forza di urlare, il colpo l'ha gelata.

E quello se ne va subito, richiudendo la porta.

Non ha nemmeno guardato chi fosse.

Dopo qualche attimo, assorbito lo shock, esce dalla cabina - rischiando altri colpi - e cerca di raggiungere la sala comune, dove si radunano gli ospiti e vengono serviti i pasti.
Lì troverà qualcuno, non rischierà di bussare al suo assassino.
Raggiunge barcollante la sala, ma è troppo tardi, non c'è nessuno, sono tutti in cabina.
E l'assassino potrebbe riprenderla.

È disperata.

Se bussasse a qualche porta, potrebbe aprirgli proprio l'omicida.

Perfino Wilson potrebbe avere i suoi motivi, visto che si è rifiutata di sposarlo.

CRASH
Ma senza farlo apposta, si appoggia pesante al tavolo e rovescia a terra una bottiglia.
Il rumore richiama l'Ispettore Jones, della Polizia di Miami.
La trova seduta sulla poltroncina della sala, con indosso la sua caratteristica camicetta rosa, sbottonata aggressivamente, il volto sbiancato, gli occhi allucinati, la bocca spalancata e un coltellaccio nello stomaco.
È in fin di vita.
«Chi è stato?».
La Frexhi scuote leggermente il capo, senza nemmeno guardarlo.
«Non l'hai visto? Era mascherato?».
L'Ispettore capisce subito che non riuscirà a cavarle niente.
«Capitano!», lo chiama a gran voce per svegliarlo.
«Cristo...!», la sorpresa sembra autentica, ma di buoni attori in giro, ingiustamente trascurati, ce ne sono tanti.
«Un asciugamano e del whisky, presto...».
L'Ispettore le lascia dentro il coltello, perché altrimenti rimarrebbe uccisa all'istante.
«A me non ha risposto, Capitano. E se non erro, siamo in acque internazionali. La giurisdizione è sua».
«Veramente io... non ho pratica di certe cose...

Ispettore... affido a lei il caso».
«Provi a vedere se ci mandano un elicottero, Capitano. Specifichi che la donna ferita è in fin di vita».
Wilson torna con notizie negative.
«Purtroppo la radio non funziona. Ci sono strani disturbi. E i cellulari, in questa zona, non prendono».
«Se questo è uno scherzo, Capitano...».
«Ispettore... ammetto di averci giocato sopra ogni tanto, ma ci tengo molto alla mia socia e si ricordi che siamo nel Triangolo delle Bermude, e che certe cose avvengono davvero, talvolta».
«L'arma del delitto, il coltello... lo riconosce?».
«Sì...», sospiro sofferto e occhi trasognati a fissare Jane. «Il coltello proviene dalla cambusa e serve a lavorare il pesce. La porta è rotta, purtroppo. Chiunque può essere entrato».
«Ma sicuro... c'era da immaginarselo...
Quanto alla sua socia... con quali passeggeri se l'è fatta in questo viaggio?».
«E va bene... forse le è arrivata qualche voce, Ispettore. Ma non c'è niente di illegale. Ed è una brava donna, la mia Jane; un'attrice incompresa.
Rapporti consenzienti tra adulti, con la speciale emozione della sfida al Triangolo Maledetto».
«Dunque una prostituta d'alto bordo...».

«No!», scatta duramente. «Jane non è una prostituta. È una donna sola, delusa, incompresa, che cerca qualche soddisfazione», intanto aiuta l'Ispettore a premere l'asciugamano contro la ferita sanguinolenta.

«Certo se lavora sulla sua tinozza, d'alto bordo non può essere...».
«Non siamo sulla Regina dei Mari, lo so anch'io, ma la mia barca tiene bene anche il mare aperto e lei evidentemente non poteva permettersi di più, Ispettore...
Però si ricordi che qui, nel Triangolo, il mare non fa distinzioni: bordo alto o basso, sono scomparse navi di tutte le dimensioni...».
«Non si scaldi tanto, Capitano.
La sua tinozza mi sta simpatica; e anche se il mio stipendio è magro, l'ho scelta per questo.
Ora mi ascolti...», tirandolo in disparte. «C'è una cassa frigorifera su questa tinozza? Perché quando la poveretta avrà mollato gli ormeggi, dovremo conservare il corpo al fresco, per la successiva autopsia...».
«Jane? Non ce la farà?», quasi incredulo.
«Temo di no».
«Faccio liberare la cassa, allora.
Lei le rimanga vicino...».
«Bevi...», Jones la conforta con il whisky, intanto.
{Ispettore... voglio... un bacio...}, è riuscita a biascicare qualche parola.

Lui ci sta.
{I…s...p...e...t…t...o…r...e...}, sempre più gutturale, mentre il braccio le cade a penzoloni oltre la sponda della poltroncina.
«Wilson... ci siamo…», il poliziotto richiama l'attenzione del Capitano, che - imbarazzato - era rimasto in disparte.
{Ho… sba… sba... gliato…}, la Frexhi tira un calcio a vuoto, spalanca la bocca, e incrocia gli occhi sul nulla.
«È finita… non poteva fare di più.
Mettiamola nella cassa, coraggio...», l’Ispettore la prende per le spalle, il Capitano per le gambe, e la trasportano in cambusa.

«Ho sbagliato…

Cosa avrà voluto dire la mia socia, Ispettore?».
«Che ha sbagliato a mettersi in società con lei, Capitano?».
Wilson abbassa il capo; una sera aveva perso le staffe quando era stato respinto per l'ennesima volta, e le aveva augurato - in cuor suo - di finire morta ammazzata.
«E adesso… i miei surgelati?», cercando di riprendersi con una battuta.
Giunti in cambusa, il Capitano indirizza lo sguardo verso le confezioni estratte dalla cassa frigorifera per far posto a Jane.
«Non aveva detto di cucinare pesce fresco?».
«Talvolta bisogna arrangiarsi. Quando il mare è mosso non si può pescare.

Ma insomma... perché la prossima volta non prenota sulla Regina dei Mari?
Non le basterebbe un anno di stipendio…».

Il corpo di Jane è entrato preciso nella cassa, solo le gambe sono un po’ piegate.
«Questo possiamo toglierlo, adesso…

Un tovagliolo…».
Avviluppa il manico del coltello - per non rovinare eventuali impronte digitali - e lo tira a sé.
SWISH
«A…h…h…h…!», un lungo sospiro estenuato.
La cinquantenne sembra spirare in questo momento!
Lo shock dell’estrazione le ha dato una scossa.
««Cristo!»», esclamano in coro i due.
«Dei tovaglioli, presto…», l’Ispettore tampona con forza la ferita, che ha ripreso a buttare sangue più forte di prima.
La tira su da solo e la porta in cabina.
«Non si illuda, Wilson. È solo un sussulto.
Rimanga qui e l’accudisca.
Io vado a interrogare gli ospiti.
Mi chiami quando sarà finita per davvero».
Jones prende una persona a caso e la porta nella cabina di Jane.
Non può escludere che l’assassino sia Wilson, pertanto deve evitare che, pur moribonda, le infligga il colpo di grazia, magari soffocandola.
«Grazie per la fiducia, Ispettore», la mossa non sfugge al Capitano.
Quindi passa a interrogare gli altri passeggeri e l’equipaggio, come nel più classico racconto giallo.
Tutti avrebbero potuto farlo, donne comprese, per vendetta o gelosia, anche se il colpo sembrava inferto con la forza di un uomo.
Però non esce fuori nulla di strano: niente contraddizioni, reticenze, esitazioni.
In tre hanno visto il suo blando spogliarello, poco prima che venisse uccisa.
Ma sono usciti insieme dalla sua cabina.
E chiunque altro avrebbe potuto rientrarvi.
L’unica reticente, in fondo, è stata lei: non ha fornito alcun indizio sul suo assassino.

Certo è stata colta di sorpresa, però una donna qualche idea se la fa sempre, specie una sveglia come Jane.
Inoltre bisogna dare un senso alle sue ultime parole: "ho sbagliato".
«Ispettore…!», Wilson lo chiama dalla porta della cabina.
«È finita?».
«Manca poco! Sta tribolando...!

 Io non me la sento di…».
«Va bene, ho capito».
Non vuole vedersela morire in faccia, prendersi la responsabilità di ritrovarsela cadavere.
«No, lei rimane», dice l’Ispettore al passeggero che si trova accanto alla Frexhi. «Anch’io potrei essere l’assassino».
{I…s...p...e...t…t...o…r...e...}.
«Coraggio, bella. L’ultima volta che mi hai chiamato così, hai fatto una brutta fine.
Bevi un goccio…
Va meglio?».
Annuisce debolmente.
«Ispettore… non voglio... morire…».
«Sei proprio sicura di non avere sospetti su nessuno?».
«Io… io…».
È in fin di vita.
Non è una bella scena.
C’è da capire Wilson.
È una donna molto forte, esperta, fibra robusta e stazza.
In certi casi l’agonia diventa una vera e propria tribolazione.
«Non posso prometterti niente, Jane.
Ma sei bella tosta; sembravi morta, prima; e invece hai avuto un sussulto.
Può essere un buon segno. Sta a te lottare, se vuoi tenerti la pelle…».
«Io… non volevo… farlo…».
«Non volevi fare cosa?
Jane! Parla…!».
«Io… ho spinto… troppo… in fondo…», mormora triste la cinquantenne, con la bocca che rimane spalancata - come quella di un pesce arenato sulla spiaggia - e gli occhi che fissano vitrei il tetto della cabina.
«Non è il momento di crepare, Jane!», le riporta entrambe le mani sulla ferita e ci aggiunge le sue; un gesto poco più che simbolico, per darle ancora un po’ di spinta.
«Brava... non perdere il controllo...», le smuove i capelli sudati appiccicati alla fronte, facendole sentire la sua presenza.
Adesso che si è leggermente calmata, che appare meno rigida, e meno pronta a crepare, adesso glielo chiede.
«Vuoi dire che hai fatto tutto da sola?».
«Non sono... una puttana… voglio... vivere…».
I venti, però, soffiano in direzione contraria. La tragedia non le lascia scampo.

«Jane, sei stata tu?», la incalza, vuole una confessione.
Il volto tirato, imperlato di sudore, e lo spurgo di sangue dalla bocca, dicono all'Ispettore che è rimasto poco tempo per vuotare il sacco.

«Alan... vero...», è ancora sufficientemente lucida.

«Alan Jones, Ispettore della Polizia di Miami», con un pizzico d'orgoglio, quasi a intendere che se lei si accontentasse...

«Sì...», ha confessato.
Un vero peccato, perché era una bella donna.

Jane ha confessato il proprio assassinio.

La solitudine affettiva di una cinquantenne, la delusione per non aver ottenuto ruoli importanti, la rabbia di mettersi fatalmente in mostra: l’Ispettore non è un fine psicologo, ma vive per strada e certe cose le inquadra abbastanza bene.
Però, alla fine, come spesso accade, ha sentito qualcosa. Un richiamo, una sirena. La lusinga di vivere è diventata un piacere proibito, che l’ha intrigata come mai prima.
La Frexhi ha ritrovato emozioni vere.
La ricerca del colpevole, il teatro della vita che va in scena davanti ai suoi occhi vitrei, l’ironico duetto tra il Capitano e l’Ispettore, la galanteria del poliziotto di fronte a una puttana che crepa sventrata; tutto questo le ha trasmesso una scossa.
«Per favore, vada a comunicare che l’inchiesta è finita.
Ha sentito bene, vero?».
«Ha detto "sì", ma non ho ben capito a cosa», l'onestà di un testimone imparziale.
«Dica almeno al Capitano che può rimettere a posto i surgelati.
Prima che sia troppo tardi...».
Poi, guardandola spalancare la bocca per attaccarsi alle ultime bolle d'aria, gli viene un lampo.
«Come ho fatto a non pensarci prima!».
E chiama subito Wilson.
«Adesso ti fai una bella immersione, Jane».
Oltre alle normali bombole da sub, ce ne sono alcune di ossigeno puro - perfino sul Bermuda Express - che servono a ricaricare le prime e a rianimare chi dovesse cadere in crisi respiratoria.

«Impacchettami...», prima di beccarsi la mascherina in faccia, brancica sui bottoncini della camicetta, invitando Jones a chiuderne qualcuno.

Uno-due.

È il segno. Se non crepa, se la porta a casa, oppure entra in società con una quota della tinozza.

La bella Jane Frexhi prova disperatamente a fare la sua parte e a non scomparire dalla scena.

Anche se sa di trovarsi nel Triangolo Maledetto, sarebbe senza dubbio una scomparsa clamorosa; specie per un poliziotto galante che le ha messo gli occhi addosso.

Potrebbe scapparci un film, un poliziesco, con lei protagonista nella parte di una dura che - benché colpita a morte da una brutta pallottola - prova a non arrendersi, ma arriva in ospedale sui titoli di coda, ormai spacciata, con i paramedici addosso, lasciando gli spettatori con il fiato sospeso e la sensazione che se non arrivasse subito la fine, smetterebbero di friggerla e le calerebbero un lenzuolo sulla faccia gelata.

Lui ci metterebbe dentro un poliziotto che giunge trafelato sul posto, in tempo per vederla sballottolata dalla friggitrice, incredulo che il suo proiettile le avesse fatto tanto male, dopo anni di conflitti a fuoco in cui non s'era fatta nemmeno un graffio.

Lettore, se vuoi conoscere l'attrice che ha ispirato questo racconto, clicca qui.

Il racconto è un tributo alla sua bellezza, carisma, personalità.

Gli aspetti negativi sono introdotti per mere esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico.

Il ruolo della protagonista va assimilato a quello dell'attrice rispetto a un film.

La devozione alla persona in questione, da parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta.

FERRUM ET FULGUR

di Danila Comastri Montanari e Salvatore Conte (1990-2023)

Quando noi ci siamo, non c'è la morte,
e quando c'è la morte, allora non ci siamo noi;
talvolta, però, ci siamo tutti.

( Epicuro e Pasquino )

Il senatore Publio Aurelio Stazio era di ottimo umore mentre si avviava in portantina verso la casa della sua ultima conquista: sui cinquanta, ma in condizioni perfette e sempre sorridente; un vero e proprio mostro, tra donna e vacca.
Dopo mangiato, si era concesso un lungo bagno ristoratore per prepararsi degnamente all'appuntamento che aveva strappato alla possente bellezza conosciuta quella mattina.
Era una serata umida con imminente minaccia di pioggia.
In lontananza, nell'ombra latente, si stagliavano i colli bianchi di templi e fitti di pini a ombrello, indispensabili - unitamente ai cornioli - per dar vita all’appuntito tirso.
Lo schiavo annunciatore si faceva largo nelle strade caotiche, sgombrando il passo alla lettiga.
La portantina lasciò le vie affollate del centro per inoltrarsi fra gli orti dell'Aventino e dopo un breve percorso tortuoso giunse davanti alla casa di Corinna.

Impaziente di entrare, si affrettò a congedare la scorta, indirizzando i portatori a una bettola poco lontana, con l'obolo necessario per una lunga bevuta.

La porticina si aprì cigolando e il senatore entrò.
La casa sembrava deserta.
Strano che non ci fosse nessuno: Corinna non poteva aver dimenticato l'appuntamento, dato che gli aveva lasciato la porta aperta.

Il silenzio della casa cominciava a infondergli una certa apprensione.
Non c'era l'ombra di uno schiavo né di una cameriera.
Finalmente individuò una stanza da cui provenisse una luce: forse era la camera da letto di Corinna.

Rinfrancato, Aurelio si avviò verso la stretta apertura e si affacciò all’interno.
Sotto le cortine del letto - riconoscendone le spalle possenti - giaceva la mostruosa bellona.

Indossava la stretta tunica porpora di quella stessa mattina.

L’aveva trovata.
Una statua di Bacco con relativo tirso e un affresco di Priapo la dicevano lunga sulle aspettative dell'esperta Corinna.
Il viso era affondato nel cuscino.
Forse si era stufata di aspettare.
Il giovane senatore si avvicinò ammirato, pregustando la morbidezza di quella carne abbondante.
La sfiorò con una carezza, aprendosi in un caldo sorriso.
Al contatto con la pelle gelida, trasalì e di scatto voltò il corpo abbandonato, che gli si rovesciò quasi addosso.
Mentre per un attimo sentì su di sé il contatto del seno pesante, sballonzolato dal suo stesso gesto, apparvero ai suoi occhi il volto sbiancato di Corinna e il luccicante manico di una raffinata daga affondata per intero nella morbida carne della mostruosa bellona; tutta nel fianco!

Adesso Corinna non rideva più!

Era stata colpita senza pietà, per non lasciarle scampo e non correre il rischio di avere ripensamenti, nel caso avesse agonizzato e lottato per sopravvivere.

La daga l'aveva gelata. Un'arma di lusso, che rifletteva una certa considerazione per l'importanza della vittima.

Ma come era stato possibile? Una donna così potente ammazzata come una volgare puttana?

Eppure l'avevano stroncata; gli occhi sbarrati, ghiacciati, che sembravano fissarlo, increduli; la prese per il collo, nel tentativo di suscitare una reazione, ma rimase deluso.
Un languido rivolo di sangue colava dalle labbra ben disegnate, come un rossetto dalla tinta stonata, rispetto al viola porpora del trucco e della tunica; con quel colore Corinna esprimeva la sua volontà di potenza.

Poco sangue, invece, intorno alla ferita, dato che la daga era penetrata in profondità, con precisione e fermezza.
Aurelio, dopo un attimo di intenso turbamento, ritrovò la compostezza abituale.
Rimise a posto il corpo dell'incredibile bellona, come ripiegasse una tunica di lusso, e si guardò intorno.
Il delitto era stato compiuto da poco, perché il cadavere di Corinna non era ancora rigido; tanto che aveva cercato di tirarne fuori uno spasmo o due.

Nella piccola stanza non c'era traccia di lotta, tutto sembrava in ordine e tranquillo.
I gioielli che la bellona aveva indossato quel giorno giacevano in un mucchietto su uno sgabello di legno di cedro, come li avesse tolti da poco; nel groviglio di collane e bracciali, Aurelio distinse l'anello che le aveva regalato quella mattina.
Chiunque fosse, l'assassino non l'aveva certo uccisa per derubarla: anzi doveva essere di casa, se lei l'aveva ricevuto in camera sua vestita di una tunica molto sensuale, con le borchie d'avorio allentate fino allo stomaco; a meno che non gliele avesse slacciate lo stesso omicida, dopo averla colpita; ma era improbabile.
Era probabile, invece, che Corinna fosse stata uccisa durante un convegno d'amore: dall'aspetto ancora ordinato del corpo, Aurelio dedusse che il pugnale avesse colpito prima che le effusioni cominciassero.
Forse un amante licenziato? Forse un protettore geloso? Bisognava appurare immediatamente chi fossero i frequentatori più assidui della mostruosa bellona, che doveva aver avuto infiniti successi galanti, a giudicare dalla ricchezza degli arredi e dalla sua stessa prestanza.
Mentre rifletteva rapidamente, il patrizio sentì un suono soffocato proveniente dall'atrio: il passo strascicato di chi fatica a camminare per l'età o per il troppo peso.
Si sporse cautamente, in silenzio, e nella fioca luce dell'atrio scorse una donna anzianotta, ma bella gonfia in carne, che tentava di dirigersi senza far rumore verso un cubicolo vicino all'entrata.

Si trattava certo della nutrice, o meglio, della ruffiana di Corinna, abbastanza discreta da non voler turbare il convegno amoroso in cui credeva impegnata la padrona. I tratti erano marcatamente celtici: una schiava di lusso giunta da lontano.

Il senatore osservò la grossa cessa per alcuni istanti: si comportava normalmente, come se ignorasse la presenza del cadavere.
Si guardava in giro, circospetta e curiosa.

Malgrado l'età, si teneva bene: imbolsita, ma solida, imponente; ancora perfetta, per certi versi; vecchiotta, ma niente affatto superata; una donna così - se la salute non l'abbandonava - poteva essere ancora ambiziosa; però doveva stare attenta a non fare la fine di Corinna.

Sicuramente di esperienza ne aveva da vendere: in gioventù doveva essere stata una gran puttana, anche meglio della stessa Corinna, ma pure adesso si difendeva bene.

La padrona doveva averla avvertita dell'appuntamento e adesso la bella cessa, credendo la sua signora occupata col nuovo amante, cercava di indagare, senza dare troppo nell'occhio, sulle disponibilità finanziarie del cliente.
Aurelio si rese subito conto che se la schiava celtica lo avesse trovato in casa, col corpo ancora caldo della padrona nel letto, l'avrebbe scambiato per l'assassino.
Allora - mentre cominciava a piovere - uscì dal retro e saltò il muro di cinta, seguendo probabilmente la stessa via percorsa pochi minuti prima dal vero omicida.
Poi, senza esitare, raggiunse la bettola dove i suoi schiavi lo stavano aspettando e bevve tranquillamente un gotto di vino allungato.
Non dovette aspettare molto: le urla della cessa giunsero presto alle orecchie degli avventori che si precipitarono verso la casa in tempo per vedere la grossa puttana che ne fuggiva stravolta.
«L'ha ammazzata! Me l'ha ammazzata! Ha ammazzato la mia Corinna!», gridava a perdifiato. «È là, con un ferro nella pancia, Sacra Artemide! L'ha ammazzata! Non si muove! Fate qualcosa! Non può essere morta così! Bisogna aiutarla!».
Aurelio si fece largo tra la folla e, forte della sua carica di magistrato, prese il comando delle operazioni.
«Calma, vecchia. Ora andiamo a vedere», la rassicurò, trascinandola all'interno, sempre urlante, subito seguito dal capannello di inarrestabili curiosi che si era assiepato davanti alla porta.

La possente bellona era nota e apprezzata in zona, talvolta si faceva vedere anche nella bettola, e la notizia della sua morte stava facendo scalpore; fu data voce ai chirurghi del rione, nella speranza che le urla della megera fossero tragicamente esagerate e che si potesse ancora tentare qualcosa in favore dell'importantissima prostituta: la plebe romana era generosa con le belle donne.

Ma di esagerazione ce n'era poca.
La vecchia, fra pianti e grida, mostrò al senatore il cadavere di Corinna.
L'aspetto della camera era immutato, solo il corpo, spostato dalla nutrice, ora giaceva di traverso sul letto: con un braccio che penzolava fuori e l'altro largo, sembrava crocifissa; il seno flaccido, spremuto, da prostituta cinquantenne, gelato dal ferro, premeva contro la tunica allentata fino allo stomaco, gonfiata dal grosso cadavere; i capezzoli irrigiditi, puntuti, erano facilmente riconoscibili sotto il morbido tessuto; la daga assassina, che emanava un sinistro riverbero, protendeva dal fianco.
I gioielli sul sedile erano ancora al loro posto: tutti, salvo l'anello di Aurelio.
La ruffiana non doveva essere così sconvolta, se aveva pensato d'intascare l'unico monile che nessuno aveva ancora visto addosso alla sua padrona.
«Allora, donna!», l'apostrofò duramente il patrizio dall'alto della sua autorità. «Chi è l'uccisa?».

KRA-KOOM

Un roboante tuono conferì ancor più solennità alla tragica atmosfera.
«La mia signora... la potente Corinna... importantissima liberta greca di Taranto...

Non si può fare niente per lei?».

Il senatore scosse la testa. La vecchia proseguì.

«Dieci anni fa si è trasferita a Roma con me, la sua nutrice, per esercitare la sua arte».
«Quale arte? La prostituzione? Sei forse una ruffiana?», domandò il senatore, sprezzante.
Gli occhi dell'infida serva si riempirono di terrore.
La prostituzione era libera a Roma, ma non era ben vista - se meramente profana - da certi ambienti conservatori, molto influenti.
«No, no, cosa dite! La mia padrona dipingeva su stoffa con polveri d'oro e di cinabro.

Ecco, guardate...», ansimò la vecchia, mostrando alcune pezze di lino finemente dipinte. «Già a Taranto la mia bambina si guadagnava la vita con questa antica arte, che aveva appreso dalla madre; morendo, mi affidò la figlia, che ho sempre custodito gelosamente.

E ora, povera piccola... che ti è successo?».
«Non mi sembra tanto piccola, donna... e non penserai di farmi credere che questa casa e questi marmi... la tua padrona abbia potuto acquistarli col lavoro delle sue mani...
Certo, anche con quelle... ma non solo…
Dimmi, chi erano i suoi clienti?
Ne ricattava forse qualcuno?».
«Ah, la padrona non frequentava uomini! Le sue stoffe erano contese dalle più ricche matrone e...».
«Piantala di mentire, stupida vecchia!
Hai provato almeno a rianimarla, anziché far finta di piangere?
Il corpo è gelido per una puttana, ma caldo per un cadavere.

Forse Caronte non l'ha ancora scaricata...».
«Ma…».
«Niente ma…

I fati sono propizi.

C'è un'ultima possibilità di darle una scossa e farle perdere il traghetto.

Presto!

Radunate delle aste di ferro e portatela fuori, lasciando il pugnale dentro.

Fate piano».

Il cadavere fu portato sotto la pioggia battente.

Aurelio lo fece adagiare sul terreno zuppo.

Quindi conficcò personalmente tre aste nel terreno stesso, secondo uno schema piramidale: due tra le ascelle e una tra le gambe chiuse, a contatto con la vagina; dunque le legò al vertice con un laccio ben stretto.

«State indietro!

GIOVE!

OTTIMO!

MASSIMO!

Anche voi!».

««GIOVE!!

OTTIMO!!

MASSIMO!!»».

Ora bisognava aspettare un cenno dal Sommo Padre.

Durante il tragitto fatale non c'erano più leggi.

Ciò che era mortale per un vivo, poteva essere vitale per un morto.

Il senatore si inginocchiò davanti al corpo di Corinna.

Un atto d'umiltà atipico per un alto magistrato romano.

Le gocce d'acqua gli scorrevano sul volto, impossibile capire se nascondessero delle lacrime.

KRA-KOOM

KRA-KOOM

I rombi di tuono si sovrapponevano fra loro, le saette illuminavano a giorno la notte: la tempesta era all'apice, non c'erano più regole.

Il cadavere fu scosso dalla folgore con una potenza sconosciuta allo stesso Inferno.

Corinna fu attraversata dalla luce di Giove.

«Ghh…hh… ghhh…».
Come il colpo fulmineo del ferro crudele, profondo e improvviso, l’aveva stroncata, così il colpo della sacra folgore, propiziato dallo stesso ferro, l'aveva ridestata, ripescandone i sensi smarriti nell'oblio del Lete.
«Corinna! Corinna!», la voce della cessa si sentì fino al Campidoglio.

««CORINNA!!»», i curiosi che erano sciamati incontenibili nella casa fecero coro alla grossa puttana celtica, facendo quasi smottare la struttura.
«Del vino, presto!».
Il senatore, sotto la pioggia, rischiando egli stesso una saetta, la fece bere per cercare di scaldarla.

Quindi fu riportata dentro, con ogni cautela, sempre con il pugnale immerso nel fianco.
Era livida in faccia come un cadavere, sembrava ancora morta, ma aveva dei sussulti.

Gli occhi erano vitrei, spiritati, come di chi viaggiasse tra mondi opposti e avesse smarrito ogni riferimento.

Respirava a singhiozzo, senza mai sollevare il flaccido seno, che rimaneva affossato sul ventre.

Strappata alla morte, ma non restituita alla vita.

La vecchia nutrice e i presenti più vicini si affannavano intorno al corpo, portandole conforto: asciugavano la pioggia e il sudore dell'agonia, e le prendevano le mani.

Più che in fin in vita, Corinna era in fin di morte.

Stava ritornando lentamente alla vita, ma rischiava di morire per sempre e sprofondare nel Lete.
«Fate chiamare Locusta, l’avvelenatrice di Saxa Rubra.
Che si sbrighi. Sarà pagate bene».
Solo lei, adesso, poteva fare qualcosa per Corinna.

Aurelio non si fidava dei chirurghi.

Solo Locusta avrebbe estratto il ferro dalla pancia della potentissima bellona.

Mentre il senatore continuava a tenerla sotto stretta osservazione, volle al contempo soddisfare la curiosità della plebe che affollava il il cubicolo dell'importantissima prostituta.
«Vi sono morti che sembrano morti; ma non ancora separati dai vivi.
E morti che sembrano vivi; ma morti, separati da noi.
L’osservatore è in genere inesperto e il suo animo è alterato, vuoi perché era affezionato al defunto, vuoi per la stessa morte.

Pertanto può essere facilmente ingannato.

La morte, pur costantemente ripetendosi, è ogni volta diversa: anche un osservatore esperto può essere ingannato.

La morte stessa è un sommo inganno».

Si involano i pasquini di Roma e corrono a imbrattare i muri della Città.

«Adesso, vecchia, di fronte alla tua padrona, mi dirai chi è stato.

Con chi doveva vedersi e perché.

Di certo lo conosceva».

A quel punto la bella megera abbassò il capo e vuotò il sacco, all'orecchio del senatore.

Aurelio sentì il contatto con i grossi seni della vecchia, ancora gonfi.

Era degna della sua padrona.

«Egli è uomo d'onore.

Non ucciderebbe una donna.

Corinna lo ricattava?».

Una contrita ammissione.

«Non l'avrebbe uccisa comunque.

Conosco bene chi stai chiamando in causa, stai attenta a non mentire», l'ammonì severo il senatore di Roma.

La megera impallidì alle parole di Aurelio.

Tuttavia si accostò di nuovo all'orecchio e fornì alcuni dettagli.

«Il Sommo Giove non rimane indifferente alle suppliche oneste e ai delitti invendicati.

Bada a te, vecchia!».

Qualche plebeo già la strattonava per linciarla, pur non avendo compreso l'intera storia.

«Lasciatela!

Seguirà la sorte della sua padrona...».

Aurelio non era rimasto indifferente al torbido fascino e al lascivo contatto della megera...

«Come ti chiami, donna?».

«Ecuba, mio signore...».

E di nuovo si accostò all'orecchio: «Anch'io voglio morire col ferro di un senatore romano nel ventre... però dev'essere il vostro, vi prego...», e gli si accostò addosso con la pancia gonfia, impudica.

«Subito?», domandò severo Aurelio.

Per risposta, la bella megera allargò attonita la bocca, sapendo di fare ancora il suo effetto, sicura che non l'avrebbe colpita, ma perversamente suggestionata dall'idea.

La vecchia baldracca aveva capito di suscitargli interesse, curiosità, di apparire tuttaltro che finita agli occhi di un così raffinato interlocutore, rispettoso di una tarda maturità affrontata con il coltello fra i denti; e cercava di guadagnarsi la salvezza e un futuro, disperatamente vogliosa di vivere bene.

Diverse cose univano tra loro Corinna ed Ecuba. Una, specialmente.

La osservò per qualche istante.

Il suo crepuscolo sembrava possedere un indubbio gusto estetico.

Le rughe, addolcite dalla ciccia, non l’avevano stravolta; anzi avevano reso più aggressiva la sua bellezza.

Aveva una storia lunga alle spalle e questo contava molto a Roma, dove valevano le cose antiche e quelle nuove erano considerate vili.

Certo, una donna non invecchiava bene come il marmo, ma valeva dieci volte tanto, finché si manteneva in bilico sullo sprofondo.

Perciò sei decenni potevano valere sei secoli, in una città che divorava tutto.

«La carne c'è. Vedremo...».

E la lasciò in sospeso.

Tuttavia non passò molto tempo prima che Aurelio la traesse in disparte con decisione.

«Verrai a servire da me, Ecuba.

Ma non dovrai cedere al tempo... mai...».

«No, mio signore... non rimarrete mai deluso: berrò sangue d'uomo, mi ungerò d'olio, il tempo non potrà nulla, non sarò mai decrepita, la voglia di vivere mi manterrà potente per voi...

Non sono troppo vecchia, non sono finita, non sarete mai stanco di me, mio signore...», e gli si strusciò addosso, pienamente ricambiata.

«Sarai la mia favorita per molti anni, Ecuba... perché hai temperamento e sei potente... ma non dovremo contarli... perché sei molto vecchia; e potresti cedere all'improvviso, pagare in una sola volta tutto quello che osi ancora alla tua età».

«Non succederà, mio signore... non cederò: vi servirò bene e a lungo, molto a lungo...», concluse la megera, prendendolo tra il seno grasso e la pancia gonfia.

«Ecuba... non sei finita...

Sarai tu la vera Padrona di Roma...».

«E voi, mio signore, il vero Padrone...».

Improvvisamente arrivarono tanto Locusta - a cavallo, data l'urgenza - quanto - sulle ali del vento infame - la notizia della clamorosa confessione del senatore Marco Furio Rufo.

L'ex comandante aveva dunque finto di cedere al ricatto, di voler pagare, e aveva chiesto alla potente prostituta di sancire il patto a letto; quindi l'aveva uccisa con un colpo secco - senza esitazioni e senza farsi coinvolgere, nonostante si trattasse di un'importantissima bellona.

Aurelio si era fatto restituire l'anello e adesso lo infilava intorno all'anulare di Corinna.

Lui sì che era rimasto coinvolto. E non avrebbe rinunciato neppure all'ambiziosa megera.

Bella, pingue e capace di riprendersi la vita nonostante una pugnalata mortale nel fianco, e di sopravvivere, almeno per un po', al suo assassino: un'impresa titanica.

Con i funghi, però, Locusta ci sapeva fare.

Sapeva uccidere, ma anche non completamente. Portare morte e lasciare vita.

C'erano proprio tutti nella casa di Corinna, in quella sera fattasi notte, e anche giorno.

IL GRILLO E LA CICALA

di Salvatore Conte (2017-2022)

Aveva ricevuto il compito di agganciarmi. Sapevano che mi piaceva e che mi faceva venire le vertigini.

Si era presentata sotto il mio ombrellone con una banale scusa e aveva attaccato bottone: non le occorreva molto, anzi si poteva anche coprire.

Era la preclara Susanna Bocci, cameriera alla Locanda del Marinaio, nel centro di Torvaianica.
Giocava a fare la strappona e a togliersi qualche anno, ma a me non la faceva: Susanna Bocci si era appesantita, invecchiata e imbolsita.
Pur così, però, era sempre lei.

Aveva sempre l'aria da gran puttana.

Non credo ce ne fossero molte altre, come lei, in giro.

   

Anzi invecchiando era diventata sempre più bona. Avevo trovato le sue vecchie foto su facebook e da giovanottona non era un granché: le mancava quella cazzimma da donna senza futuro (60 anni sono tanti per chiunque), ma che prolunga all'infinito il presente (sembrava inarrestabile).

Il fatto poi che combattesse contro un cancro all’intestino, me la rendeva anche simpatica.

Un amico ben erudito, parlandone, mi aveva segnalato una curiosità: una certa Anna Bocci era venuta sulla terra cento anni prima di quella attuale, sempre a Roma, bella svagata e popolana come questa, così descritta da tale Mazzucco - non famoso di questi tempi, ma col tocco - in un libro ispirato e dentro il vivo delle cose.

«Colacito notò i fianchi, un corpo prorompente, quasi volesse schizzar fuori dalle vesti incontro al primo ammiratore.

Colacito si sentì catturato: formosa, bruna, gli occhi roventi, le labbra carnose.

Colacito bevve d'un fiato il liquore forte e amaro, poi passò con una sbirciatina sul seno della donna, un respiro ben ritmato, appariscente, un andirivieni che convogliava una folla di desideri violenti».

Mi lesse poche frasi e mi convinse subito.

Sembravano scritte per la Bocci del XX secolo.

Alla fine dell'attacco mi concesse un incontro privato. Ma con troppa facilità.
Pensava che mi fossi bevuto il cervello per lei, come questo Colacito.
D'altronde era sempre una bella donna, e di fronte a una così, non ero capace di tirarmi indietro.

Consumata o no, la Bocci era la Bocci; aveva il fascino drammatico della vecchia gloria, era l'imperatrice d'altri tempi che lottava per non uscire di scena; insomma, benché invischiata in loschi traffici, appesantita dall'età e invasa dal cancro, non accettava di scomparire. E questo mi piaceva.

Da uomo, ero dalla sua parte.
Ci vedemmo in un pied-à-terre di via Siviglia, nei pressi del lungomare.

Indossava un copricostume bianco da gran puttana.

Ma vista da vicino, pur considerando il tumore che la scavava, i 60 anni si vedevano tutti. Era davvero finita. Ormai faceva schifo.

Lei era convinta di gestirsi, ma non sarebbe andata lontano.
«Il tumore come va?», ero curioso, volevo sapere quanto tempo le rimaneva.
«Quello? Niente di grave… ne esco fuori tranquillamente».
Le informazioni che avevo raccolto, però, dicevano il contrario. Peccato, non le rimaneva molto.
Mi ero intimamente predisposto all'uscita di scena della Bocci, affinché - al dunque - non ci rimanessi troppo male.
«Cos’è? Ti preoccupi per una cameriera?
Io nun c’ho mica du camice sa’…».

Ma quella che aveva valeva per cento.
Susanna si era riferita a una poesia del Trilussa, probabilmente senza saperlo.
Però se pensava de damme la cojonella co' quarche stornello, se sbajava: era una cameriera, sì, ma arrotondava bene con lavoretti sporchi per mala e servizi.
Stavo per allentarle il copricostume, quando si divincolò sapientemente, calandosi giù dal letto: «Scusa... mi è caduto un orecchino…».
La Bocci, però, non era tipo da scusarsi, e poi - anche se guardavo giù rispetto all'orecchio - non avevo sentito il tintinnio del metallo sul pavimento.
Un attimo prima che l’armadio si spalancasse avevo già la mano dentro il borsello.
POW
Sparai con la rivoltella ancora all'interno.
FLOP
THUD
Nel cadere a terra come un frutto maturo, il sicario fece partire un colpo per la tangente.
Niente di preoccupante.
La Bocci si era abbassata come il casellante del Padrino.

«Ora puoi rialzarti…», Susanna era fuori dal mio campo visivo, ma ero sicuro che fosse carponi ai piedi del letto.
Aspettai un paio di secondi, perplesso.
Non c’era tempo da perdere, il mio sparo aveva fatto rumore.
Girando intorno al letto, non mi fu difficile capire perché non rispondesse…
Sulla schiena aveva il foro d’entrata di un proiettile.
La voltai.
La pallottola era uscita dallo stomaco, scavandole un grosso buco.
Affrontai il suo sguardo.
Aveva gli occhi allucinati.
Per lei c’era poco da fare.
Era la fine di Susanna Bocci... uccisa da fuoco amico.
Le asciugai la bocca e le appoggiai un fazzoletto sulla ferita: «Su, avanti... te la caverai…».
Ma anche lei non sembrava molto convinta.
Il volto era sbiancato e le palpebre le premevano sugli occhi…
«Dimmi chi è stato».
«Ho voluto troppo... ma non voglio morire... portami con te...
Sarò la tua donna... la tua puttana... quello che vorrai...».
Tra non molto sarebbe stato il mio cadavere.
Come non m'avesse nemmeno ascoltato, aveva cominciato un discorso tutto suo e campato in aria.
Però decisi di accontentarla: caricata in macchina, la portai verso il mio covo segreto, ai Castelli.
Lei sembrava contenta di fuggire e giocarsi le ultime carte.
Era Susanna Bocci.
La sua morte avrebbe fatto rumore nel giro.
«Io... non voglio morire...», come se m'avesse ascoltato, stavolta.

La bocca spalancata e le palpebre pesanti, Susanna cercava di reggere.

Ma non ne aveva per molto, la camiciola si era infradiciata di sangue.
Fui colto da un impulso improvviso, accostai l'auto e le tamponai lo stomaco.

«Ci mettiamo insieme... ci stai...», mi afferrò il braccio, aveva ancora forza.
«Io ho già una donna, Susanna.
Se piaci anche a lei, ci sto».
E come non le sarebbe piaciuta?
Era Susanna Bocci.
Di grilli e formiche - 'na cecala così - poteva averne a iosa.

Dopo averla consolata, ripartii.

Volevo arrivare al covo prima che andasse in crisi.

Avevo dell'ossigeno, le sarebbe servito come il pane.
BANG
BANG
Mi sparavano, cazzo!
Mentre perdevo tempo con la Bocci, quelli m’avevano individuato.
«Ammazzali... o quelli... ammazzano me...».
Si preoccupava solo per sé stessa, non sapendo di essere già cadavere.
Riuscii comunque a seminarli, il covo adesso era vicino.
«Ce l'abbiamo fatta... prendimi le tette...».
Credeva di acquisire potere su di me. Avrebbe fatto qualunque cosa per salvarsi.
Mi fermai un’altra volta, allentai qualche bottoncino e gliele presi, colto da fregola irrefrenabile.
La famosa Susanna Bocci era nelle mie mani, anche se ancora non sapeva di essere rimasta uccisa in un regolamento di conti della mala romana.
Al covo c'arrivò mezza morta.
Avevo una mascherina dell'ossigeno e la usai.
Si riprese.
«Allora... ci tieni a me...».
«Sei Susanna Bocci, no? O hai cambiato nome?».

«Sono... la regina... di Torvaianica...».
«Di più: sei l'imperatrice di Roma».
«La pallottola... m'ha ucciso... questo non ci voleva...».
Lo ammetteva, il tumore in fase avanzata le aveva dato confidenza con la morte.
«È un grosso problema, Susanna. Come vogliamo risolverlo?».
«Sono Susanna Bocci... mi tengo il buco...».
Credo intendesse dire di voler resistere a oltranza.
Ma una ridotta così, non era in grado di sopravvivere, nemmeno chiamandosi Susanna Bocci.
Con l’ossigeno fresco si era rinfrancata, però non sarebbe durata a lungo.
«E con il tumore, come la mettiamo?
Si è sparso dappertutto, ti rimangono un paio di mesi, non è vero?».
«Fregnacce... ho un paio di metastasi... ma mi sto gestendo... e posso uscirne...

O almeno... allungarmi...», aveva corretto il tiro.
Nonostante tutto, comunque, aveva voglia di lottare.

Era proprio lei. Come l'avevo immaginata.
Forte come un toro, la cameriera voleva apparecchiarsi la salvezza; anche a costo di bussare alle porte di tutti gli oncologi di Roma.

Ma ignorava di non avere più uno stomaco.
Io stavo aspettando Gina, una vecchia infermiera molto professionale; le avevo inviato un messaggio, perché avevo bisogno di lei per gestire la fine di Susanna.

Le donne fra loro si capiscono.
Le avrebbe prestato un'attenzione diversa dalla mia.
Per me Susanna Bocci rimaneva un'imperatrice, sempre donna-donna, anche morente.
«Cristo... ma...», fu la prima cosa che mi disse, appena in disparte.
«Sì, lo so», fu la prima cosa che le dissi io.

Uscii dalla stanza e le lasciai sole.
«Tu sei... la sua donna...
E ti piace... o gli prendi i soldi...».
Ascoltavo dalla porta. E non mi irritavo.
Anzi la trovavo simpatica, la vecchia Susanna.
«Risparmia il fiato, bella.
Tra non molto ne avrai bisogno».
Gina non fu tanto tenera.
Dopo un po' le diedi il cambio.
«Pensavo... di creparti in faccia... e invece... tu... mi passi... alla tua troia...», si lamentò la Bocci. «È bella però... bravo... hai fatto i soldi...».
«Vuoi dirmi chi ha organizzato il colpo?».
«Qualcuno... che voleva farti fuori...».
«Ti hanno pagato bene?».
«Con i soldi... non ci faccio... più niente...
Volevo solo... evitare... di crepare in carcere...».
«La tua storia è struggente, Susanna, ma fa acqua da tutte le parti».
«Richiama Gina... sto meglio con lei...».
L'accontentai, ma dopo un po' la mia donna mi cercò, perché Susanna si era ridotta al lumicino.
Faceva pena a tutti e due.
A lei da donna.
A me da uomo.
Una mano la teneva lei, una io; la premevo leggera sullo stomaco, per darle una sensazione di controllo.
Aveva la bocca spalancata e scartava con lo sguardo da Gina a me, e da me a Gina, a intervalli di mezzo minuto.
Era come se - ormai incapace di misurarsi e capire - leggesse in noi la sua fine.
L'aveva capito anche la mia donna, che si mostrava calma e serena, nonostante Susanna fosse in fin di vita.
«Tanto... avevo poco da vivere...», mormorò triste. «Sono piena... di metastasi... non... mi salvavo... più...».
«Non sforzarti, Susanna».
Ma la Bocci proseguì.
«Ho preso... 3.000 euro... per farti la festa...
Ma niente... di personale...
Ti conoscevo appena...
L'incarico... me l'ha dato... er Ciuccio...».
Aveva vuotato il sacco.
Per ringraziarla, le ripassai con dolcezza la mano sullo stomaco.
Lo chiamavano così perché faceva tutto quello che gli chiedevano, senza mai fare domande o porsi questioni.
Di certo Susanna non poteva conoscere il mandante del Ciuccio.
Non sapeva altro.
La sua assenza alla Locanda del Marinaio si sarebbe notata a lungo: era sempre molto bella.
Lusingata dalla mia mano calda, ebbe un sussulto di nostalgia per la vita.
«Non voglio morire... Gina...», spostò lo sguardo su di lei.
Era quello che dicevo prima: rivolgersi a una donna dà una sensazione di calore e soccorso che nessun uomo può dare; in più tra loro poteva instaurarsi la sottile complicità delle belle donne.
«Cerca di stare calma, Susanna. Ti stai stabilizzando, ne verrai fuori».
Ma non era vero, ed entrambe lo sapevano.
Senza farsi vedere, Gina mi guardò, scuotendo il capo.
Ci stava rimanendo male per la fine di Susanna.
Voleva da me una reazione, ma anch'io ero spaesato.
L'imperatrice mi stava crepando in faccia.
«Gina...», la chiamò ancora.
«Susanna!», vedendola così in difficoltà, mi alzai in piedi e provai a scuoterla.
Volevo evitare che la sua morte mi cogliesse alla sprovvista.
«Mi sono...».
«Che cosa, Susanna?».
«Abbreviata... la vita...».
Era disperata, voleva provare a resistere, ma non ne aveva più la forza.
«L'ossigeno, presto...».
Provavo ancora, anche se sarebbe servito a poco.
Ma la Bocci lottava, e volevo aiutarla.
Oppure, una volta crepata, i rimorsi mi avrebbero perseguitato; lo sapevo.
L'avrei accompagnata fino alla fine, e se lei voleva illudersi, l'avrei fatta illudere. Di certo era questo che voleva: lusingarsi del fatto che una come lei - un mito nell'ambiente - potesse ancora farla franca; e che comunque - al peggio - potesse fulminare tutti con la notizia della sua fine.
Chi l'avrebbe immaginato?
Susanna Bocci rimasta uccisa in uno scontro a fuoco...
Poco da fare per lei, colpo mortale allo stomaco, fine anticipata della cameriera più famosa del litorale romano; il tumore si sarebbe mangiato un cadavere.
Le tolsi la mascherina per vedere come andava.
«Mhhh...», un sospiro estenuato. «Non riesco... più... a gestirmi... hai provato... a tenermi... ti sei preso... una bella troia... anch'io... ero... come te... Gina...», rivolta alla mia donna.
«Sei sempre bella, Susanna», era galante.
«Ora... sono ingrassata... ho avuto... tanti problemi... speravo... di andare avanti... non voglio... morire... Gina... aiutami tu...».
«Tu andrai avanti, Susanna.
Sei ancora una bella fica e sei forte come una bestia.
Il mio uomo sbava per te, e non posso non capirlo, da donna».
«Non c'era... niente... di personale... in ciò... che ho fatto...».
«Lo so, so anch'io come funziona. Non hai colpa, Susanna.
Tu vuoi salvarti, e ti salverai», Gina provava a lusingarla, aveva capito ciò che bisognava tentare.
Ma la Bocci non era più lei e neanche l'ascoltava.
Guardava solo me, terrorizzata.
Pensava ancora di avere un paio di mesi, e invece...
Il tempo si era ristretto, non riusciva più a gestirsi e non capiva perché.
Una donna potente come lei pensava sempre di risolvere tutto.
Le ridiedi ossigeno perché mi stava crepando in faccia.
«Non ci resta che chiamare l'Imbalsamatore», propose Gina.
La lasciai fare, aveva ragione.
Non sapevo, tuttavia, se avrebbe fatto in tempo ad arrivare.
Dovevamo pensarci prima.
Povera Susanna, tutto le andava storto quel giorno.
Seppi poi che il mandante del Ciuccio si era lamentato per la fine prematura della Bocci.
Infatti avevo diffuso la notizia che per lei non c'era stato nulla da fare.
Il Ciuccio fu ritrovato ammazzato, sia perché aveva fallito, sia perché aveva mandato a morte la Bocci.
La cameriera di Torvaianica era sempre molto quotata nell'ambiente.
Anche se tutti erano consapevoli che stava morendo di cancro, nessuno però aveva preso in considerazione l'ipotesi che rimanesse uccisa in uno scontro a fuoco.
Non era mai stata impiegata in azione, e da quando si era ammalata gravemente, l'avevano preservata da missioni troppo faticose.
Circolava bramosia per vedere il corpo: nell'ambiente c'erano segreti cultori di negromanzia, che avrebbero voluto provare a rianimarla.
Ma non ce n'era bisogno, perché aveva già provveduto l'Imbalsamatore.
Era un negromante esperto dell'antica arte egizia, ma che in più riusciva a mantenere i corpi in stasi per lungo tempo.
Non c'erano più stagioni per la cicala.
Solo un lungo inverno.
Era stato l'unico modo per non perderla del tutto.
Anche Gina si era invaghita di lei: della sua civetteria, della sua sfortuna, della sua voglia di vivere, del suo potere inespresso.
Vedeva in lei compiuto ciò che stava crescendo in lei stessa.
I grossi capi volevano rivedere la Bocci, i clienti della locanda pure: dai grossi ai piccoli, tutti volevano rivederla, anche impagliata.
Perché chi è grande in vita, diventa enorme dopo.
Ma solo io potevo farlo.

L'ULTIMO NATALE DELLA FREZZA

Fu scongelata, per così dire, il giorno dei morti.

Recuperò bene, ma il cancro riprese subito a divorarla, da dove aveva lasciato.

Gina mi aveva concesso tre mesi di convivenza con lei, rectius commorienza, per assisterla e accompagnarla alla fine.
Traccheggiava tra varie cure palliative, per cercare di guadagnare altri mesi.
Ma adesso neanche lei si illudeva più.
I risultati delle ultime ecografie erano sconfortanti.
Al suo capezzale, nell'appartamento di Torvaianica, si alternavano i boss del litorale e quelli della Magliana, e anche politici e vip.
Lei li aspettava tirata su e gli preparava con le sue mani un tè con qualche pasticcino.
Stava comunque molto attenta a non stancarsi troppo: infatti non voleva sprecare i suoi ultimi giorni accelerando il crollo finale.

Era Natale, si scattavano foto, sarebbero state le ultime.

Certo, lei non era al top: affaticata e depressa, s’areggeva co' lo sputo.
La donna un tempo potente era finita. Finita male.
Gina mi chiamava spesso e mi chiedeva di lei, e se la faceva anche passare.
Nessuna gelosia, anzi una certa complicità.
Superato il Natale, mai sazia di vivere, cominciò a puntare la Pasqua: me lo disse chiaramente, il suo obiettivo era diventato quello; i medici consultati, però, predissero che - salvo complicazioni - non avrebbe superato il Carnevale.
Infatti la Bocci era invasa dal tumore.
A volte, pensandoci, la sfioravo appena, come fosse di cristallo, temendo un suo imminente crollo.
Eppure riusciva a reggere, in qualche modo.
«Non mi sento ancora finita...», mi confessò una sera.
«Perché non lo sei», le feci eco in maniera galante. «Non mi va di aspettare qui per nove anni.

E poi quanta differenza e chissà dove».
Mi guardò perplessa.
Non poteva capire.
La bella donna è scossa da forze che a stento può solo immaginare, e che in genere la consumano e distruggono.
Per l'uomo è più facile gestirsi.
«Non ho nove anni...», puntualizzò.
«Finché vivi, sei eterna.

E poi, pensaci... le cicale hanno smentito i greci: dopo 3.000 anni sono ancora qui; almeno, le abbiamo sentite fino allo scorso luglio.

Non cantano perdere tempo, ma...».

«Per perdere tempo... ti sei mangiato il per».

«No, sto sperimentando. Penso sia giusto eliminare le ridondanze e sottintenderle: col tempo ci si farà l'abitudine, l'italiano sarà più simile alla robusta sintesi latina.

Dicevo quindi che non cantano perdere tempo, ma per fottersi le loro femmine: chiamali fessi i maschi delle cicale... hanno poco tempo per l'amore e lo sfruttano appieno.

Gli uomini avrebbero dovute imitarle - visto che oggi parlano di denatalità - anziché deriderle e pensare solo a lavorare come le formiche.

Quando l'ultimo greco avrà lasciato la terra, di cicale ce ne saranno ancora a iosa.

Di certo abbiamo che Orazio non ebbe mai a dolersene».
Mi guardò basita.

D'altronde l'inverno stava passando, faceva già caldo e le cicale - si sa - non muoiono d'estate.

Lettore, se vuoi conoscere l'attrice che ha ispirato questo racconto, vai all'ombra di Trilussa.

Il racconto è un tributo alla sua bellezza, carisma, personalità.

Gli aspetti negativi sono introdotti per mere esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico.

Il ruolo della protagonista va assimilato a quello dell'attrice rispetto a un film.

La devozione alla persona in questione, da parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta.

UN POMPINO AL DESTINO

di Emiliano Caponi (2014)

Sono un tipo cinico e baro, puntuale e soprattutto ineluttabilmente infallibile.

Sempre o quasi, perché sono anche l'eccezione che stasera confermerà la regola.

Alle 20.32 mi sono fermato all'incrocio fra Avenue de l'Opéra e Rue des Pyramides, scegliendomi una postazione sopra le due strade, perché dall'alto l'ampiezza d'angolo permette quasi sempre una visuale perfetta.

Come d'abitudine, in queste occasioni indosso il solito cappotto, quello di stoffa più pesante, quello nero come me.

Nome: Philippe.

Cognome: Martignon.

Data di nascita: 12/06/1971.

Professione: avvocato.

Stato civile: coniugato con Christine Debois.

Nel mio archivio non manca nessun nome, sono tutti schedati.

E stasera ho preso la sua scheda, è lui la pedina che mi serve per arrivare alla regina.

Automobile di proprietà: Citroën DS3 di colore bianco, ma non c'è scritto sulla carta d'identità, questa informazione serve solamente a me.

Drin.

Drin.

«Dimmi, Sophie... sei arrivata?», ribattezza subito l'interlocutore, pronta come sempre.

«Sono arrivato».

«Scendo subito...».

Svelta di bocca come sempre, e non solo nell'inventarsi parole.

«È Sophie, caro, andiamo a quella noiosissima mostra di quadri...

Sicuro di non voler venire?», si struscia come una gatta in calore sapendo già la risposta, e questo la eccita.

«Odio queste serate, lo sai... e poi domattina alle 7 devo essere all'aeroporto a ricevere quel Sal Caponi, l'investitore italo-americano.

Non ce la fai a farmi cambiare idea», Marc Giresse, industriale di 55 anni, portati da settantenne, è già afflosciato nella sua poltrona di pelle, come e più del suo uccello nei pantaloni.

«Nemmeno se insisto...?», gli passa una mano sulla guancia precocemente aggrinzita e immaginando quello che l'aspetta si eccita ancora di più, quasi al punto di bagnarsi.

«Nemmeno se insisti», e si apre un libro di Balzac, probabilmente la floscezza dell'uccello ha già oltrepassato i confini dell'impotenza.

«Allora vado...», e si avvia teatralmente verso la porta d'ingresso mandando a destra e sinistra il suo largo culo.

Kelly Madison, quarantacinquenne platinata dalle forme di troia, tette e carne abbondantemente esposte, una tipa dalle curve pericolose, in ogni senso.

La mia regina di stasera, appunto.

Gira l'angolo e l'eccitazione è già lì che l'aspetta, a fari spenti.

«Ho voglia di scoparti subito... qui, adesso!», Philippe non sa badare ai propri ormoni e le infila una mano nell'ampia scollatura chiudendo fra le dita la morbidezza del suo seno.

«Philippe... fermo... andiamocene da qui...», e passandogli per caso una mano sui pantaloni capisce che anche gli uccelli, come i minerali, si suddividono in durezza, e quello del marito è un uccello di gesso se confrontato a quello di diamante di Philippe.

Sempre secondo la sua personalissima scala Mohs.

«Sì... andiamo via… altrimenti ti scopo qui in macchina davanti a tutti».

«Hai prenotato al solito posto...?», sistema la scollatura rimettendo una tetta dentro il vestito.

«Sì, al nostro posto», una camera d'albergo alla periferia della città, va avanti così da quasi un anno, lei unica amante di lui, rispettato e rispettabile avvocato parigino, lui uno dei tanti amanti di lei, rispettata e rispettabile troia d'alto rango, quello conferitole dalla posizione del pluricornificato marito.

Nell'abitacolo si respira esclusivamente odore di sesso e di desideri già bagnati, e la Citroën si immette nel traffico della prima rue che si trova davanti, iniziando così il breve viaggio che la porterà ad incontrarmi.

«Cazzo...», Philippe si accorge di aver cambiato giacca.

«Ho lasciato i documenti nell'altro abito».

«E allora?

Tanto all'hotel non servono, il portiere oramai ci conosce molto bene...», accarezza il cambio per poi finirgli con la mano da troia in mezzo alle gambe.

«Non è quel frocio di portiere che mi preoccupa», la guarda e la vede già nuda e sdraiata sul letto della camera, pronta ad aprirgli le gambe.

«Con il culo che mi ritrovo scommetto che fra tutti i balordi che girano a Parigi la polizia stasera sarebbe capace di fermare proprio me.

E quelli non scherzano, ti portano subito in gendarmeria e ti rivoltano come un calzino».

«Quindi?», la mano è sempre lì e la stoffa dei pantaloni prende sempre più la forma propria della voglia di scoparla.

«Quindi è meglio che mi fermi e che guidi tu, per noi non sarebbe il massimo spiattellare le nostre scopate clandestine davanti a tutta Parigi».

Sì, avevo calcolato anche il cambio di giacca e di guida, ho già descritto il tipo che sono.

Ineluttabilmente infallibile, almeno fino all'incontro con la puttana di questa sera.

«Accelera, cazzo!

Ci sono quasi addosso!», due avanzi di galera stanno scappando a bordo di un'arrugginita Fiat, dopo aver rapinato un fottuto cinese dell'incasso del suo altrettanto fottuto locale.

«Accelera, Michel!

Li abbiamo quasi presi!», i soliti poli opposti, guardie e ladri, è per questo che si attraggono.

Avevo previsto anche questa attrazione, ovviamente.

«Attento, cazzo! La macchina all'incrocio!», ma il balordo non è altrettanto bravo al volante com'è invece quando ha in mano una pistola puntata contro un cinese armato solamente del suo incomprensibile e isterico linguaggio.

CRASH

Sterzata e controsterzata servono solamente a far stridere gli pneumatici, l'altra auto è centrata in pieno. Una Citroën DS3 bianca.

Prevedibile, ovviamente.

«Cazzo, che botta!», il gendarme sembra eccitarsi davanti all'incidente.

Sotto di me, in mezzo all'incrocio, ora ci sono tre auto: quella delle guardie, quella dei ladri, e quella degli infedeli.

«Kelly...», Philippe si volta verso di lei con un taglio in fronte e un po' di ossa ammaccate, questo è il massimo che il mio programma preveda per lui.

«Ohhh...», si lamenta mettendosi le mani sulle tette doloranti per essere state sbattute senza troppo riguardo contro il cruscotto dell'auto.

«Ma che cazzo...», un paio di segni impressi come tatuaggi sul petto sono le uniche ferite che si ritrova addosso, le sue forme abbondanti l'hanno protetta e salvata per adesso, in fondo è dotata di airbags naturali distribuiti lungo tutto il corpo.

Ma la regina non può morire così, in un plebeo incidente d'auto, ci vuole prima il picchetto d'onore che spari.

«Scendete dall'auto! E con le mani bene in vista!», intanto le guardie si sono riparate dietro le portiere della loro auto, lasciando spuntare solo le canne delle pistole.

«Sei tutto intero?».

«Penso di sì...».

«Allora scendiamo e fottiamo quei bastardi», nemmeno per i ladri fin qui ho previsto grosse ammaccature.

Tre auto al centro di un incrocio: quella dei ladri a destra, quella delle guardie a sinistra, e quella degli infedeli in mezzo alle due.

Bella posizione, la migliore che potessi scegliere per l'esecuzione della regina.

«Ho detto di uscire con le mani alzate!», il vocabolario delle guardie è solitamente povero.

«Fottetevi, bastardi!», altrettanto quello dei ladri.

«All'inferno!», e scendono folli cominciando a sparare all'impazzata.

BANG

BANG

BANG

Non fanno economia di pallottole e le sparano a volontà, finché glielo concedo.

BANG

BANG

BANG

Le guardie rispondono colpo su colpo con il vantaggio d'essere protetti dalla carrozzeria della loro auto.

«Argh...!», il primo ladro cade pesantemente sull'asfalto inumidito dalla pioggia e il sangue si infiltra subito nei rigagnoli d'acqua ravvivandoli di rosso.

«Bastardi! Bastardi! Bastardi!», il secondo ladro è più testardo, o forse solamente più fortunato, perché gli sto concedendo di passare fra una pallottola e l'altra.

BANG

BANG

BANG

Ma le mie concessioni sono limitate e decido che stavolta siano le pallottole a passare lui, e cade sopra il suo compare così preciso da sembrare che se lo stia inculando.

Maschi nella vita e froci nell'aldilà: la morte scopre sempre tutti gli altarini.

«Li abbiamo seccati, Michel!».

«Puoi dirlo forte, Pierre!», si congratulano fra loro, per questa sera ho fatto vincere le guardie.

«All'inferno, fottutissimi bastardi», uno dei due accerta con la suola della scarpa che i ladri siano veramente crepati.

«L'altra auto... chiama l'ambulanza, ci sono dei feriti a bordo».

Un ferito e una morta, preciso io.

Il gendarme apre la portiera dal lato del guidatore e senza più il suo fondamentale sostegno un corpo gli cade ai piedi con la leggera pesantezza di un fantoccio.

«Cazzo...», due dita messe sul collo sono più che sufficienti per dargli l'estrema unzione.

«Per questo ci vuole il carro funebre».

Forse sono state proprio le sue pallottole a seccarlo, ma adesso non ha più nessuna importanza, Philippe sta già sognando ad occhi aperti un mondo migliore.

Philippe...? Solo adesso mi rendo conto.

Come Philippe?!

Cazzo! Dovevano essere le tette di Kelly a cadere ai piedi del gendarme, non tu, Philippe!!

Maledizione!

Cosa cazzo ci facevi alla guida dell'auto, fottutissimo idiota?

Non mi ero forse adoperato per farti lasciare i documenti nell'altra giacca?

Testa di cazzo! Perché non ti sei scambiato di posto facendo guidare lei come da mio programma?

«Ohhh...», sul sedile accanto infatti la puttana è ancora viva, anche se si ritrova una pallottola nel fianco entrata appena sopra il rene sinistro.

Una palla anziché quattro come da programma, i conti non tornano per niente.

«È ancora viva!

Digli di sbrigarsi a quelli dell'ambulanza!».

Che cazzo ci fai seduta al posto del passeggero?

Perché non eri alla guida dell'auto, maledetta troia?

Guardo meglio tutta la scena e vedo e capisco, e mi rispondo da solo.

«Forza bellezza... sta arrivando l'ambulanza...», il gendarme le stringe la mano, ma forse vorrebbe stringerle qualcos'altro, il vestito lacerato dall'incidente e dalla pallottola che ha dentro mette in mostra abbastanza corpo da far venire cattivi pensieri a chiunque.

Sai eccitare gli uomini anche ridotta così, con il viso struccato dal dolore e dalla paura di crepare.

«Fate presto… a tirarmi… fuori di qui... uhhh... fa male...».

Maledetta puttana, insieme al rivolo di sangue noto che ai lati della bocca hai appiccicato anche un po' di liquido bianco. È sperma.

Ho voglio di prendertelo in bocca mentre sei al volante...

Guida per qualche altro chilometro... rischia per me...

La scelta delle pedine, lo scambio delle giacche, la rapina nel locale del cinese, l'inseguimento della polizia, l'incidente all'incrocio fra Avenue de l'Opéra e Rue des Pyramides, la meticolosa disposizione delle auto, la sparatoria con le pallottole distribuite in base ai posti assegnati.

Un'organizzazione ineluttabilmente infallibile, come da sempre.

Invece...

Come cazzo facevo ad immaginarmi che a quella puttana venisse voglia di fargli un bel pompino?

E lì, in macchina, mentre Philippe guidava, senza neanche avere la pazienza di arrivare all'hotel.

Anche se all'hotel non ci sarebbero mai arrivati, ma quello lo sapevo solo io.

Sì, adesso potrei rallentare l'ambulanza e ritardare l'arrivo all'ospedale, ma a cosa servirebbe?

Una troia così, incapace di tenere la bocca lontana da un pompino anche solo per qualche chilometro, sarebbe capace di viverci con una pallottola addosso.

E poi lo ammetto, mi hai fottuto, per la prima volta sono rimasto fregato io.

In fondo te lo meriti di non crepare e di continuare a portare le tue tette in giro per Parigi.

Ma è stato un incidente di percorso, l'eccezione che appunto conferma la mia regola, io rimango sempre quel tipo cinico e baro, puntuale e ineluttabilmente infallibile.

E dai mille appuntamenti nel mio portafoglio, ne traggo subito uno all'ombra della Senna, fra i giacigli miseri di quel poco che resta dell'essere umano.

Sento già il puzzo del fiume, qualcuno fra poco annegherà nel suo torbido corso, senza rimpianti e senza nessuno che saprà reclamarlo.

L'acqua è nera e per la prima volta devo guardarmi attorno per sentirmi sicuro, per essere certo che nei paraggi non ci sia un'altra donna che sappia tradirmi una seconda volta.

Un'altra Kelly Madison, la troia che stasera è riuscita a fare un pompino anche al destino.

LA BALLATA DELLA VECCHIA KLEO

di Salvatore Conte (2014-2022)

Sistemo la tesa del cappello e continuo a suonare la mia armonica a bocca, facendo finta che il sole non stia arroventando il paesaggio fatto di rocce, polvere e rara vegetazione, per metà ingiallita e secca.

«Tutto bene là dietro?», mi giro socchiudendo ancora di più gli occhi, per aver guardato in direzione del sole, mentre anche i cavalli oramai trascinano gli zoccoli, che riescono ad alzare solo piccoli sbuffi di polvere che si dissolvono subito nel niente.

«Finché cavalchi tu, cavalchiamo anche noi».

«Bene», mi volto di nuovo verso l'orizzonte che si distende infinito davanti a me. «Allora si va avanti», picchio lo sperone sul fianco di Black, che lo ignora e prosegue con la sua andatura svogliata.

Lo stesso fanno le mie socie spronando con lo stesso risultato i loro due ronzini.

Le mie socie sono Jasmine e Layla, le ho arruolate un anno e mezzo fa, dopo che nell'assalto al convoglio diretto a Yuma avevo perso Tico, Mick e Gonzales.

Tico e Mick erano crepati rispettivamente con cinque e sette pallottole in corpo, mentre Gonzales era stato ferito e catturato dai Federali.

E impiccato dopo cinque giorni senza nessun processo.

Avevamo organizzato l'assalto al treno che portava l'oro a Yuma in ogni piccolo dettaglio, ma qualcuno ci vendette, passandoci di proposito l'informazione sbagliata sul numero di soldati presenti su quel maledetto convoglio merci: dovevamo metterlo in conto, le nostre quattro teste messe insieme ormai valevano un bel po' di dollari.

Dovevano essere circa dieci soldati, ne sarebbero toccati giusto due e un pezzetto a testa, la cosa era fattibile, ma appena assaltammo il treno ci accorgemmo che più ne ammazzavamo e più da quei vagoni uscivano soldati: i conti non tornavano più.

Alla fine, contai personalmente più di venti corpi sparsi fra i vagoni e lungo le rotaie.

Nonostante fossi stato ferito, riuscii a scappare e a infilarmi sotto un costone di roccia e da lì vidi passare tutto il gruppo di soldati che al galoppo andava a inseguirmi lungo un sentiero che non avevo mai preso.

Quasi moribondo riuscii ad arrivare in un villaggio fantasma dove abitava una puttanella che anni prima al confine con il Messico avevo liberato a colpi di pistola dal suo sfruttatore: per lei adesso era arrivato il momento di sdebitarsi.

Dopo un mese e mezzo fui di nuovo in grado di sellare Black e insieme oltrepassammo tre stati e solo nell'ultimo mi considerai abbastanza lontano dalle mie taglie per fermarmi.

Adesso mi rimaneva solo una cosa da fare: rimettere in piedi una banda, quello era l'unico mestiere che avevo sempre fatto. E lo sapevo fare bene.

Una sera in un saloon, dopo aver bevuto cinque whisky, un tipo con una cicatrice a sostituzione di un occhio cominciò a prendere a schiaffi una prostituta che ravvivava l'ambiente: l'avrebbe ammazzata di botte e dovetti intervenire, era troppo bella per fare una fine così brutta.

L'uomo dalla cicatrice accennò a muovere la mano verso la fondina e fu il suo più grosso errore: il tempo di tirare fuori la mia pistola e andò a spezzare in due un tavolo cadendoci sopra di schiena con tre pallottole distribuite fra stomaco e pancia.

La puttana per ringraziarmi mi portò nelle camere di sopra e il mattino dopo mi supplicò di portarla via da quel saloon.

Lo feci e il destino mi ricompensò: Jasmine, oltre ad essere una brava puttana, era anche la figlia di un ex generale messicano e prima di scappare da casa aveva imparato a maneggiare parecchio bene le pistole.

Il tempo di trovarle un cavallo e di allacciarle il cinturone e la portai via con me: avevo appena trovato la mia prima socia.

Dieci giorni dopo, Jasmine bussò alla camera del nostro hotel entrando insieme a una donna e mi disse di mettere da parte le pistole che stavo pulendo per ascoltare quello che aveva da dirmi.

Mi disse che la donna si chiamava Layla ed era una lanciatrice di coltelli che lavorava con una carovana ambulante che da qualche giorno si era fermata nel nostro stesso villaggio.

   

La notte prima, stanca di essere violentata dal proprietario, aveva pensato bene di lanciargli due coltelli nel cuore: Jasmine mi disse che dovevamo nasconderla da noi, perché i due figli del panciuto e defunto padrone la stavano cercando per ucciderla.

Ripresi in mano la pistola e mi rimisi con calma a pulirla.

Le chiesi se la sera stessa sarebbe stata pronta per partire insieme a noi: una lanciatrice di coltelli nella banda poteva sempre essere utile.

Sorrise, e lo stesso fece Jasmine, e senza dire altro capii che avevo di fronte a me la mia seconda socia.

Sellammo i cavalli e ce ne andammo nell'oscurità cavalcando per diversi giorni finché non oltrepassammo tre stati: sapevo per esperienza che quello era il numero perfetto degli stati che bisognava lasciare tra chi fuggiva e chi rincorreva.

In poco tempo diventammo un terzetto ben affiatato e capii che non avevo bisogno di cercare nessun altro: quella era la mia nuova banda.

Rapinammo diverse banche e assaltammo molte diligenze e nessuno di noi creò mai problemi.

Compiuto il colpo, ci dividevamo in parti uguali il bottino, senza favoritismi o percentuali dispari: trenta per cento a testa e il restante dieci per cento nel fondo cassa comune.

E anche i letti erano divisi allo stesso modo.

Jasmine e Layla avevano fra loro un rapporto lesbico, ma venivano puntuali anche nel mio letto, una alla volta, nessuna gelosia e nessun possesso, le porte delle camere erano sempre aperte, sia in ingresso che in uscita.

«Emiliano, quanto manca al luogo dell'appuntamento?», Jasmine tira le redini al cavallo, quasi già fermo di suo, e si snoda il fazzoletto avvolto al collo asciugandosi il prosperoso seno che si lascia guardare dal profondo scollo della camicetta.

«Ancora un miglio e ci siamo», è dannatamente sexy nel suo completo nero: pantaloni, blusa, spolverino, fazzoletto e cappello, compresi occhi e capelli.

Due metri dietro di lei, Layla: grassa e arrogante, con la camicetta sbottonata fino allo stomaco e il pistolone centrale, perché ha imparato anche a sparare, anche se i coltelli, ben nascosti, rimangono il suo piatto forte.

Mi piacciono tutte e due, ma la carne di Layla è senza limiti.

Sebbene grossolana, a lei non saprei rinunciare. Quando si spara controllo subito che non venga colpita. E penso ormai che dovremmo fermarci un po', perché si rischia troppo.

«Speriamo che l'incontro con la tua amica sia conveniente come dici», Layla mi affianca con il cavallo.

«Sarà molto conveniente, Layla», sottolineo la parola molto e mi infilo l'armonica nel taschino.

«Stasera saremo più ricche di quanto potresti mai immaginare», anche Jasmine mi affianca sull'altro lato. «La sua amica ha un bel po' di cose luccicanti che a noi donne piacciono molto», e mi strizza l'occhio mentre si riannoda il fazzoletto al collo.

Le cose luccicanti sono un bel po' di diamanti e la mia amica è la vecchia Kleo Madison.

Anche se, a essere onesti, mia amica non lo è mai stata: amante, puttana, rivale, nemica e ancora amante, poi di nuovo puttana, rivale e nemica. Ma amica mai.

Dopo un po' di anni, durante i quali avevo perso le sue tracce, si è rifatta viva all'improvviso mandandomi un suo uomo a propormi un affare: adesso è al comando di un gruppetto di fuorilegge e con loro ha svaligiato banche in ogni stato, e nell'ultima banca, in mezzo ai sacchi di dollari, ha trovato anche un bel sacchetto di diamanti.

Ma i diamanti sono da sempre più ingombranti dei bigliettoni e Kleo deve sbarazzarsene alla svelta e ha pensato bene di rivolgersi a me per risolvere il suo problema, evitando così di dover trattare con altri e per lei più pericolosi trafficanti: in fondo di me si è sempre fidata.

Io ho giusto da parte la cifra sufficiente per potermeli permettere e conosco già la persona che può ricomprarmeli spendendo qualche dollaro in più di quanti ne spenda io: capiamo subito che l'affare conviene a tutti.

Il suo scagnozzo mi ricontatta e ci incontriamo per definire i dettagli e il luogo dove dobbiamo fare lo scambio, il giorno successivo.

E la vecchia Kleo fino a questo momento si è limitata a mandarmi messaggi e messaggeri, rimanendo una presenza intangibile, quasi eterea.

Anche per questo ieri notte non sono riuscito a dormire: dopo cinque anni, forse più dei diamanti mi interessa rivedere lei.

Spero non sia invecchiata troppo.

«Siamo arrivati», tiro le redini a Black e indico davanti a me il luogo dove, oltre a Kleo, avremmo incontrato il nostro destino.

In nome del padre, del figlio e dello spirito santo. Amen.

Mi faccio il segno della croce, come d’abitudine prima di ogni azione, e guardando il cielo vedo un gruppetto di avvoltoi che svolazzano sopra di noi.

Non è un buon presagio.

«Finalmente posso mettere il culo a terra», Jasmine toglie gli stivali dalle staffe e allunga le gambe tenendosi alle redini, mentre Layla preferisce restare zitta e bagnarsi le labbra screpolate con l'ultimo goccio d'acqua rimasta nella borraccia.

Il posto dell'incontro ricorda un'arena romana: una grande piazza ellittica di terra polverosa, chiusa tutt'attorno da rocce che sembrano sistemate una sopra all'altra, come a comporre asimmetriche gradinate da dove i fantasmi dei pistoleri possono godersi lo spettacolo.

Per accedervi, un unico largo passaggio aperto dalla corrosione del tempo: lo oltrepassiamo uno alla volta guardando con sospetto anche le nostre ombre e sulla piazza ci accoglie un mulinello di vento che spolverando il terreno fa rotolare vorticosamente palle di sterpaglie secche.

«Brutto posto per morirci», Jasmine si guarda attorno facendo una smorfia.

«Non esiste un posto bello dove morire», Layla scende pesante dal cavallo. «Ogni posto può essere bello o brutto, dipende da chi ci muore», si palpeggia da sé la pancia lenta e le zinne cedenti, per esorcizzare l'aura di morte: lo fa spesso, e mi fa impazzire.

«Lasciate i morti nelle tombe», intervengo, il discorso non mi piace. «Abbiamo altre cose a cui pensare in questo momento».

Le guardo duro, entrambe; Layla vorrebbe rispondermi, ma Kleo non le dà il tempo.

«La tua amica è puntuale», Jasmine fa cenno con il capo oltre il corridoio di rocce, dove in lontananza si intravedono le sagome di un gruppo di cavalli al galoppo.

Lo è sempre stata.

Specialmente quando si trattava di fregarmi.

Le sagome diventano metro dopo metro sempre più riconoscibili, fino a farsi contare: quattro cavalli, Kleo davanti a tutti e dietro tre dei suoi uomini.

Quattro contro tre, si parte già sbilanciati, ma questo deve essere uno scambio vantaggioso per tutti, non uno scontro.

Arrivano alzando un vortice di polvere e il primo cavallo si ferma davanti a me: si imbizzarrisce mettendosi su due zampe, ma con una strigliata la sua padrona lo rimette subito saldamente a terra.

«Emiliano... è passato tanto tempo dall'ultima volta...», si aggiusta il cappello per vedermi bene.

La vecchia Kleo. Eccola di nuovo davanti a me.

Più o meno 60 anni, ma ancora potente.

Camicetta sbottonata fino all'ombelico e grosse tette a penzoloni che quasi la sfondano.

«Cinque anni...», sono sempre stato un tipo preciso.

«Non sei poi cambiato così tanto...», mi guarda con i soliti occhi maliziosi che conosco bene.

«Neanche te, Kleo», ricambio il complimento, se quella è la sua intenzione, e in effetti non è cambiata per niente: nonostante l'età importante, specie per una pistolera, è sempre la migliore.

E adesso ce l'ho a un metro da me, finalmente in tutta la sua tangibilità.

Il fisico è sempre solido, formoso e agile insieme; il fascino inossidabile; il volto concreto, ben disegnato; gli occhi penetranti; e l'aura è da dura invincibile: tutto concorre al suo mito, ma soprattutto quelle abbondanti zinne a penzoloni che premono pesanti sulla stoffa della camicetta, sbottonata in maniera a dir poco aggressiva.

Accessori importanti, indispensabili per portarsi a letto gli uomini giusti la sera e concludere affari la mattina dopo.

Prima o poi crollerà anche lei di fronte alla maledetta clessidra del tempo, ma di sabbia ne dovrà cadere davvero tanta.

Al presente è la solita, irresistibile troia, come cinque anni fa, come la prima volta che l'ho incontrata, come sempre.

«Veniamo a noi, Emiliano», i convenevoli sono già finiti. «Ci sono tutti i dollari?», scende da cavallo, tornando subito concreta, come da sua abitudine.

«Tutti, fino all'ultimo biglietto», smonto anch'io. «Sono nelle due sacche attaccate al cavallo», le faccio cenno indicando Jasmine, che smonta dal lato degli uomini di Kleo, per farsi guardare nell'ampia scollatura.

«Vedo che ti tratti bene», la guarda con superiorità. «Bei puttanoni, niente da dire.

Anche se, messe insieme, non sapranno soddisfarti la metà di quello che sapevo soddisfarti io», mi guarda sfidandomi, mentre Layla mette subito la mano su uno dei suoi coltelli.

«Calma, Layla», so che può perdere il controllo da un momento all'altro. «È tutto a posto. Tira giù le sacche...», la distolgo. «Tocca a te, Kleo».

«Jack!

Ronnie!

Portatemi qui il sacchetto», i due uomini smontano subito senza dire niente, mentre il terzo uomo rimane in sella, qualche metro più dietro.

«Ecco, capo», le passano un sacchetto di velluto nero, rendendo palese chi comanda da quelle parti.

Lo prende e lo butta in terra.

«Dagli un'occhiata, Emiliano...».

Mi accuccio e sciogliendo il piccolo laccio che lo lega, permetto al sole di riflettersi sui diamanti e mi lascio accecare piacevolmente.

«Le sacche. Falle aprire... non vorrai far scomodare una signora...», è il suo turno.

Layla allenta una cerniera e lancia le sacche verso Kleo, facendo in modo che i dollari escano da sé: è il suo modo di sfidarla, la conosco bene.

«Prendine un mazzetto, Ronnie», Kleo non si scomoda neanche a controllare di persona e Ronnie fa frusciare i dollari come un giocatore di poker mentre si prepara a smistare le carte.

«Tutto in regola», sorride sdentato, ributtando il mazzetto sopra la sacca.

«Bene, Emiliano...

È sempre un piacere fare affari con te», guarda il terzo uomo, quello rimasto a cavallo, e in un momento capisco tutto. Ma è già troppo tardi.

Ho commesso una tremenda leggerezza.

Il terzo uomo estrae...

BAM

BAM

Eppure la conosco bene: come ho potuto commettere uno sbaglio del genere?

«UHHH!», un colpo centra Jasmine in piena pancia, mentre il secondo ferisce di striscio Layla alla spalla.

«Maledetti bastardi!», urlo buttandomi a terra.

BAM

BAM

Centro il terzo uomo in mezzo agli occhi. Cade da cavallo come un fantoccio, finendo nella polvere.

«Layla! Ohhh... sono stata colpita», Jasmine - nonostante si sia beccata una pallottola nella pancia - è rimasta in piedi e guardandosi la mano insanguinata estrae la pistola per vendicarsi subito di quel brutto buco.

«Figli di cani!

Avete sparato a Jasmine!», Layla ruggisce come una tigre ferita.

ZIP

La ferita alla spalla non le impedisce di lanciare un coltello, che si infila preciso nella gola di Ronnie, prima che questi riesca a muovere un solo muscolo.

BAM

BAM

«Andate all'inferno, maledetti!», e Jasmine pianta due pallottole in corpo a Jack, che per tutta risposta reagisce al fuoco sparando di nuovo verso di lei.

BAM

BAM

BAM

Tre colpi, due persi nella polvere, mentre il terzo la colpisce in pieno petto e l'impatto della pallottola le fa sobbalzare il seno destro.

«AHH!», il secondo proiettile la mette a sedere con il culo per terra, ma non nel modo in cui lei aveva previsto.

Si guarda il prosperoso petto forato dal proiettile, e rabbiosa, da seduta, scarica il caricatore contro Jack, mandandolo definitivamente all'inferno.

Kleo intanto ha trovato riparo dietro l'unico masso roccioso che è presente in mezzo all'arena e da lì si prepara a sparare: il posto lo conosceva bene, come sempre non ha lasciato niente al caso.

BAM

BAM

BAM

Esplode tre colpi e tutte e tre le pallottole centrano Layla costringendola a inginocchiarsi.

Ma non è finita, ne sono certo.

«AHHH...!», si porta entrambe le mani sulla pancia. «Emiliano...», mi guarda cercando un aiuto che non posso darle. «Quella maledetta troia...», stacca una mano dalle ferite e la porta dietro la schiena per afferrare un coltello, ma Kleo non le dà il tempo.

BAM

BAM

BAM

Oh, no! No! Non può essere...

Altri tre colpi centrano Layla in pieno petto, e con un rantolo cade con la faccia in avanti, assaporando il mortale sapore della polvere mista al sangue...

Assisto impietrito alla fine di Layla, che avviene proprio sotto i miei occhi.

O è morta, o ne ha per poco.

Neanche una grossa vacca come lei può reggere una scarica di piombo del genere.

Quasi mi prende un attacco di panico: non posso perdere Layla...

Vorrei controllare se respira ancora, ma devo concentrarmi su Kleo.

Mi giro verso di lei e vedo che sta istericamente rimettendo i proiettili nel tamburo: ha finito i colpi.

Questo è il mio momento, ho qualche secondo per alzarmi e spararle, prima che ricarichi la pistola e mi spari lei.

Devo ucciderla, o lei uccide me.

BAM

BAM

Altri due colpi riecheggiano nell'arena fatta di pietre, polvere e cadaveri.

Mi guardo d'istinto per vedere se sono stato colpito, ma non provo né dolore né vedo buchi di pallottole.

«Vieni all'inferno con me, bagascia...», Jasmine è stata più veloce del mio pensiero e più veloce di Kleo nel ricaricare la pistola.

«Il tuo troione ci sa fare... uhhh...», Kleo, poggiata a terra su un fianco, si porta le mani all'altezza dello stomaco per coprire le ferite delle due pallottole che si è appena beccata; né i suoi uomini, né il masso roccioso l'hanno salvata, ma ha ancora la forza di puntare contro Jasmine la pistola ricaricata per metà.

BAM

Jasmine ha però il vantaggio di averla già saldamente in pugno e un'altra pallottola colpisce Kleo in pancia, facendole quasi fuoriuscire dalla camicetta - per il contraccolpo e lo shock - l'ingombrante seno; le braccia lunghe sui fianchi, la bocca aperta in una sorpresa mortale, a ingoiare la sconfitta...

«Stavolta hai vinto tu, Emiliano... uhhh...», abbassa lo sguardo sulla pancia bucata tre volte e si distende sulla schiena guardando fissa il cielo azzurro e senza nuvole.

Mi alzo dalla mia posizione e mi precipito intorno a Layla.

La volto delicatamente.

«Layla...

Layla...», la chiamo due volte, paralizzato dallo sconforto.

«Ci penso io a lei: tu occupati di quella troia...», le condizioni di Jasmine non sembrano particolarmente gravi, per fortuna.

Ho tempo per vedere come sta la vecchia Kleo.

Mi avvicino con la pistola in pugno e il cane alzato, per oggi ho già commesso abbastanza errori.

Struscia gli stivali nella polvere avanti e indietro come fossero zoccoli di una bestia ferita.

Mi abbasso su di lei, è ridotta male.

«Stavolta è finita, Kleo», le sposto le mani dallo stomaco e dalla pancia e allo stesso tempo la guardo negli occhi.

«No... non voglio... ohhh... forse... me la posso... ancora... cavare... uhhh...!», prova con fatica a rialzare la testa per guardarsi le ferite. «A meno... di venti miglia... c'è un villaggio…», mi prende una mano e se la mette sul grosso seno, l'altra sulla pancia bucata, coprendola con la sua. «E lì... c'è un dottore...», mi guarda con gli occhi allucinati da quella remota speranza affacciatasi nel suo diabolico cervello; vi aggiunge una smorfia, le pallottole fanno male.

Purtroppo è bella anche ridotta così.

«Per quale motivo dovrei portarti da un dottore...», distolgo lo sguardo da lei e fisso l'orizzonte come a cercare un motivo nel passato. «Mi hai appena teso un tranello e hai riempito di piombo le mie socie...».

«i tuoi puttanoni...», mi corregge.

Si pigia ancora di più la mia mano sul ventre penetrato dal proiettile, usandola come un tampone di carne contro la sua stessa carne, e geme come se le piacesse...

«Lo farai... perché... mi hai... sempre... amato...», è tornata sulla mia domanda, respirando apposta più profondamente di quanto non ne abbia  bisogno.

Rimango in silenzio.

«È per questo... che mi porterai... da un dottore...».

Continuo a rimanere in silenzio, mentre la mia mano va su e giù, mossa dal suo petto.

«Sai... che è così... uhhh...».

Distolgo lo sguardo dall'orizzonte, come se ci avessi appena trovato il motivo, e agisco.

«Ce la fai a metterti in piedi?».

«Ci provo...», l'aiuto.

«Ohhh... fa piano...», si lamenta, mentre con un certo sforzo riesco a spingerla in groppa a Black.

«Reggiti alla sella», lei annuisce senza dire niente, le ferite evitano risposte superflue.

Intanto Jasmine ha bendato Layla e attende me per caricarla.

Per prima cosa tolgo la sella dalla groppa: due culi così grossi non c'entrano davvero.

Jasmine sale da sola, senza rifiutare una spintarella. Si terrà stretta quel che rimane di Layla.

Quindi raccatto le sacche di dollari e il sacchetto di diamanti, rimasti in terra in mezzo ai cadaveri.

«Sbrigati... sto male...», Kleo si tiene a fatica sul cavallo.

Mi affretto anche se non lo merita, e sistemato alla svelta l'intero bottino, monto dietro di lei.

«Fammi vedere».

Con un foulard le asciugo il viso e il petto dal sudore e dopo glielo metto sulla pancia a coprire le ferite.

«Tieni premuto più forte che puoi, mi raccomando».

«Ci provo... ohhh...», unisce dolorosamente le mani sulla pancia intrecciando le dita.

E picchio gli speroni contro il mio Black...

«Non dirmi che... quella Layla... è ancora viva...».

«Pare di sì».
«L’ho… imbottita… di piombo… ohhh....», Kleo non può crederci.
«Anche lei sa incassare. Vedremo presto chi sarà la più brava…

Layla!», la chiamo per vedere se è ancora in corsa.

Per risposta, Jasmine le alza un braccio.

Non è una prova molto convincente, ma al momento c'è solo questa.

Layla, prima di morire, sta sfidando Kleo in un macabro gioco...

Guardo il cielo, ci sono due nuvole bianche e poi solo azzurro, degli avvoltoi non c'è più traccia, in questo momento hanno altro da fare: vanno sul sicuro e non si fidano di queste grosse troie.

«Prendi la tua armonica… e suonami qualcosa...», Kleo ha ancora la forza di fare richieste. «Se suoni… resto sveglia… e se resto sveglia… vuol dire… che resto viva…».

Si appoggia meglio al mio petto, mentre io accontento la sua voglia tirando fuori dal taschino la mia armonica.

Inizio con un pezzo che le suonavo tanti anni prima, quando entrambi non eravamo ancora diventati delle facce su dei manifesti.

Piega leggermente la testa verso il mio viso.

«Sì... bravo... suona… la nostra canzone...», e chiude gli occhi accennando un sorriso sofferente.

La vecchia Kleo ha ancora buona memoria.

Suono lungo tutto il percorso, e lei, seppur fra un lamento e l'altro, rimane sveglia. E viva.

Quindici miglia passano in fretta, e tirando le redini al cavallo, mi fermo su una collinetta, accorgendomi che il villaggio è solamente qualche centinaio di metri più sotto, alla fine del sentiero.

«Dottore... c'è del lavoro per lei...».

Prendo un mucchietto di dollari e glielo lancio.

Se riuscirà a salvarne anche una sola, se lo sarà meritato tutto.

«Voglio sapere... quanto rimane... a Layla... cough... cough...», un paio di dolorosi colpi di tosse le fanno vomitare uno spaventoso grumo di sangue.

«Tu pensa a te, Kleo...

Adesso vado a vedere...».

La lascio al suo destino e vado ad assecondare le ultime pene di Layla.

Non so come farò senza di lei.

Sembra già morta, terrigna in volto, con la bocca spalancata come un pesce spiaggiato e gli occhi allucinati, fissi al cielo.

Anche Jasmine è al suo capezzale, nonostante i propri buchi.

Però le forme massicce di Layla sono ancora imponenti e quella pazza voglia di vivere non del tutto spenta.

C'è da sudare e soffrire.

Il dottore le ha fatto sollevare le gambe, per mandare sangue al cuore.

Le manca davvero poco, la clessidra è quasi finita.

La braccia sono larghe, segno di disperazione.

La camicetta è sempre sbottonata come piace a lei: fino allo stomaco. Layla è molto aggressiva, anche da morta. Purtroppo Kelly non le ha risparmiato nemmeno una pallottola.

Jasmine le sta col fiato sul collo, per vedere se riesce a balbettare qualcosa. È molto preoccupata.

Di tanto in tanto Layla muove leggermente il labbro, non si capisce se voglia cercare di parlare o stia soffrendo e basta.

Un puttanone così quando mi ricapita?

Potrebbe lasciarsi andare, ma è troppo tesa per farlo.

Finalmente il dottore convince Jasmine a buttarsi su un letto.

«Stalle sempre addosso», mi dice.

Le poggio una mano sulla pancia bucata.

Sento le vibrazioni del suo corpo morente, la disperazione di una donna che non si aspettava di rimanere uccisa in quel modo.

Anche Jasmine si lamenta, il piombo le presenta il conto.

L'ultimo ballo della vecchia bagascia è costato un bel mucchio di carne e tette pregiate.

5 MESI DOPO

Esco dal saloon, è un mezzogiorno di una giornata qualunque.

TAC-TAC

Al di là della strada, lo sceriffo sta piantando un paio di chiodi sulla porta di legno del suo ufficio, per attaccare la taglia di qualche ricercato.

Monto su Black e attraverso la strada passando vicino all'ufficio per vedere a chi appartenga la taglia: è sempre bene tenersi informati sulla concorrenza.

Mentre Black procede lentamente, butto una rapida occhiata al manifesto e un brivido mi percorre da capo a piedi...

La vecchia Kleo è già tornata in azione!

E si è trovata un nome davvero giusto per lei...

Qui nel West le buone storie sono più importanti che altrove.

Le sue strade selvagge ci avrebbero fatto incontrare ancora, era solo una questione di tempo, ci stavamo già inseguendo.

Con la mano piego leggermente la tesa del cappello a salutare lo sceriffo, posso farlo perché qui non sono conosciuto. Ancora.

Ricambia con una brutta occhiata, ma io sorrido, so che almeno per oggi mi inseguiranno solamente le nuvole di polvere alzate dagli zoccoli di Black.

E mettendo in bocca l'armonica, faccio riecheggiare nell'aria le note della nostra vecchia canzone.

LA VECCHIA KLEO BALLA ANCORA

di Salvatore Conte (2014-2022)

Il sole è a picco, ce l’ho dappertutto.

Sul viso, sul petto lasciato scoperto dalla camicia lacerata, sulle braccia e sulle mani, sugli speroni degli stivali; mi sembra che entri anche nelle tasche dei pantaloni.

Il sole mi penzola sopra e proprio come un pendolo oscilla a destra e a sinistra, a destra e a sinistra, e mi sembra che mentre oscilli stia calando a poco a poco su di me, centimetro dopo centimetro, minuto dopo minuto, bruciatura dopo bruciatura…

«Ah! Ah! Ah!», rido isterico, folle, allucinato: già… forse tutto questo può essere soltanto un’allucinazione della mia mente un po’ troppo surriscaldata.

Ma un’allucinazione non secca le mie labbra fino a farmi assaporare il sangue che mi esce dalle screpolature, e non fa diventare le parti scoperte della mia pelle sempre più simili ai colori pastello della sabbia che si fondono con il rosso vivo della roccia.

E soprattutto un’allucinazione non uccide come un pendolo dalla lama infuocata che invece di tagliarmi in due preferisce carbonizzarmi da capo a piedi.

Mi sforzo, mi dimeno, provo a muovermi, ma le corde che mi bloccano sono più forti di me e i movimenti che posso fare sono minimi: lacci e lacciuoli mi tengono inchiodato alla mia croce, fatta di terra polverosa; il sudore mi cola ininterrottamente dalla fronte e i capelli fradici sono la mia corona di spine.

Un rumore strisciante desta la mia attenzione.

Cristo...

Apro e chiudo gli occhi diverse volte, con la speranza che sia tutta colpa del sole, ma ogni volta che li riapro lui è sempre lì.

Lui è il Mostro di Gila, un bel lucertolone colorato con l’unico difetto di essere più velenoso di una troia in menopausa.

È a un paio di metri da me sulla mia destra, cerco di stare fermo e di respirare senza dare troppo nell’occhio, ma seppur lentamente il Mostro sta muovendo le sue dannate zampacce nella mia direzione…

«Vieni, bastardo!», cambio subito idea, non mi va di crepare stando zitto. «Fanculo! Mordimi e facciamola finita!», se deve essere lui a mandarmi all’inferno, voglio perlomeno mandarlo a fare in culo.

La bestiaccia sembra aver capito e mi prende in parola, adesso i metri fra noi sono già dimezzati.

Conosco bene, sulla mia pelle, il dolore delle pallottole, me ne sono prese almeno mezza dozzina, dappertutto, ma per sentito dire so che il morso di questo stronzo, oltre a essere parecchio velenoso, è più doloroso di una palla nello stomaco.

«Ah! Ah! Ah! Vieni, lucertolone!».

Cerco di muovermi apposta, quel poco che riesco, per farlo incazzare; questi stronzi mordono solo per difendersi: ho deciso di crepare tutto in una volta anziché a rate.

Eccolo, gli ho rotto le palle e mi è arrivato così vicino che mi sembra di sentire il suo alito puzzolente.

«Mordimi! Che cazzo aspetti ancora?», se potessi, gli allungherei la mano per fare prima.

BAM

BAM

Cristo, che culo!

Due improvvisi colpi di colt rompono la quiete apparente del deserto e spappolano la testa del lucertolone, fermandolo a pochi centimetri da me e facendomi finire sul viso qualche suo schifoso pezzetto.

Mi scuoto di dosso la sua carne fetida, mentre il sole sembra di colpo bruciare meno.

Cosa diavolo...? Una figura si è interposta fra me e lui, mettendomi in ombra.

«Emiliano...

Ti ho legato qui per farti morire in un altro modo.

La tua morte sarà quella che ho scelto io…».

L’artificiosa eclissi di sole mi consente di tenere aperti gli occhi e di mettere a fuoco la figura che sta a picco sopra di me.

Cazzo!

Layla...

La più bella vacca del West...

Adesso so per certo che il morso del lucertolone sarebbe stata la soluzione migliore.

E meno dolorosa.

«Non mi ringrazi per averti salvato la pelle...?», sempre in piedi sopra di me, ha divaricato le gambe e si è messa all’altezza del mio viso, una gamba alla mia destra e l’altra alla mia sinistra, con gli speroni a sfiorarmi le ascelle.

L'avevo lasciata con mezza dozzina di pallottole in corpo.

Non riuscivo più a star lì a vederla consumarsi, senza poter far niente.

Ma evidentemente non si è consumata abbastanza, anzi è più grassa che mai.

Si è digerita sei pallottole in corpo!

Ed è tornata nella sua camicetta paglierino da troione, sbottonata fino allo stomaco.

È stata fortunata, molte volte basta un colpo sporco per rimetterci la pelle.

Mi fissa sorniona, pregustando la preda: sembra abbia rubato gli occhi al lucertolone, sembra lei il mostro.

L’unica cosa che la differenzia sostanzialmente da quel tipo di bestia, anzi le uniche due cose, sono quelle che lascia intravedere così bene, e che gonfiano altrettanto bene la pellaccia paglierina.

Se si sporge un altro po’, le sue grosse tette mi finiranno in bocca…

«Grazie...», provo ad accennarle un sorriso, ma non mi viene ironico come vorrei, perché le labbra mi fanno tremendamente male e mi impediscono un’espressione migliore.

«Non sei bello come al solito...», cala su di me mettendosi a sedere sul mio petto, e a questo punto - se avessi una lingua come quella del lucertolone - le potrei leccare le tette, ma non è detto che non ci riesca ugualmente. «Vorresti baciarmi, vero...?», è pur sempre una donna, ragiona a modo suo, avvicina il viso al mio; perlomeno il suo alito è migliore rispetto a quello del lucertolone. «E allora… questo bacio…? Ah già... con le labbra ridotte così, dubito che ce la faresti», le appoggia alle mie - dopo aver appoggiato ben altro - assaporando malata il sangue. «Sentiamo se sei messo meglio là sotto», mi infila la mano nei pantaloni con la pistola stretta fra le dita. «È eccitante, non è vero...?», mi dà una leccata sul collo. «Potrebbe anche partire un colpo, proprio lì...», inizia a strusciarmi il petto sul viso, avanti e indietro, facendomi annusare l’odore estatico del suo sudore malato.

Finalmente posso leccarla.

Il peggio di tutto questo è che mi piace.

Se avessi una prospettiva di vita e lei qualche bernoccolo di meno in testa, me la riprenderei subito.

«Puttana...».

CIAFF

Voleva essere un complimento, ma pare non l'abbia capito.

Le pallottole le hanno bruciato il cervello.

Scatta in piedi, stizzita, sempre divisa a metà sopra di me.

«Non so neanche io come abbia fatto, se è questo che vuoi sapere.

Ero troppo tesa per morire. Mi sono sentita mancare più volte, ma avevo talmente rabbia che ogni volta sono riuscita a ritrovare il respiro...

Non potevo crepare così, a me piace vivere...», e mi ripropone il suo classico gesto, palpeggiandosi la pancia con una mano e le tette con l'altra.

«Ero disperata, rassegnata, ma non mi sono lasciata andare...

Però, adesso... brucia sotto il sole... come io bruciavo su quel letto!», alza il viso al cielo, sdegnosa, rassettandosi la camicetta.

«Ma io…», è troppo tardi per cercare di spiegarle.

Layla... non potevo credere che ti saresti salvata...

E adesso ricordo anche come sono finito in croce.

Un appuntamento presso una catapecchia abbandonata, io che entro con la mia colt in pugno, e poi un dolore alla testa, improvviso, lancinante, che mi stende ai piedi di una scalinata di legno marcio.

Dopo, d’improvviso, il sole a togliermi dall’oscurità, un passaggio dal nero al giallo, senza gradazioni intermedie.

BAM

«Ach! Che cazzo...?!», Layla si guarda la mano rimasta senza colt, uno sparo giunto a segno gliel’ha fatta schizzare sulla terra polverosa, lasciandole una riga di sangue fra le dita. «Maledizione!», scatta subito giù per riprendersela.

BAM

Secondo sparo e secondo centro, la colt salta da terra e ricasca a un metro buono da lei, che resta accucciata con la mano protesa invano: qualcuno sta sparando da dietro una roccia e pare abbia una discreta mira.

BAM

Terzo colpo e adesso la colt è spezzata in due: sì, chiunque stia sparando ci sa proprio fare con i suoi attrezzi.

«Chi cazzo sei?! Esci e fatti vedere!», Layla impreca furiosa, è esposta e senza colt. E temo non abbia nemmeno i suoi coltelli, deve aver capito che nel West il piombo è più veloce del ferro.

Con una torsione della testa che mi fa urlare di dolore per colpa della pelle intorno al collo che quasi si stacca bruciata, mi giro quel tanto che basta per vedere una figura uscire dal suo nascondiglio di rocce rossastre: in una mano le briglie del cavallo che le cammina a fianco e nell’altra un winchester.

Cazzo...

Kleo!

La camicetta sbottonata fino all'ombelico e le grosse tette a penzolarci dentro.

Stavolta sorrido come si deve e gli angoli della bocca mi si aprono dolorosamente mettendosi a sanguinare, ma ne vale la pena.

Kleo Madison!

Dannata vecchia troia!

È passato quasi un anno dall’ultima volta che ci siamo visti: avevi tre palle addosso e nonostante tutto sei riuscita a portarti la pelle a casa.

Dopo ti ho rivisto molte altre volte, ma solamente sui manifesti, ribattezzata Holey Stomach: 10.000, 15.000, e all’ultimo cambio, 20.000 dollari di taglia.

«Emiliano...», ferma il cavallo accanto a me, a farmi ombra; forse un’accortezza nei miei confronti o più probabilmente perché fermandosi lì è nella posizione giusta per tenere tutto sotto controllo. «L’ultima volta che ti ho visto sdraiato così, io ero sopra di te».

«Kleo...», la saluto con quel che mi rimane del mio sorriso. «Meno male che passavi di qua…».

«Cercavo un'occasione per ricambiarti il favore, Emiliano... e questo puttanone me l'ha data». Il complimento nasconde un pizzico di ammirazione. «Non dirmi che ti piace ancora questa grassa figlia di troia...».

«Puttana...», risponde Layla per le rime.

«Attenta... sei stata fortunata, qualche mese fa... ma la fortuna non capita mai due volte...», l'avvertimento è chiaro. Kleo si accuccia accanto a me e con un coltello inizia a tagliarmi i lacci partendo dai polsi. «Tu, buona, Layla... se non vuoi bruciarti una volta per tutte...», la mano destra di Kleo tiene ben saldo il winchester, con la canna sempre puntata verso la mia ex socia. Ancora un paio di tagli e sono libero. «Ce la fai ad alzarti?».

«Ci provo...», a stento riesco a rimettermi in piedi, mi gira la testa e mi brucia maledettamente tutto il corpo, ma sono sceso dalla mia croce e questo mi basta.

«Tieni», mi passa una borraccia d’acqua e bevo…

Bevo!

La bocca finalmente mi sa di qualcosa e di diverso, rispetto al fottutissimo terriccio polveroso che avevo ingoiato poco alla volta.

«Vai a prendere i cavalli... e niente scherzi, Emiliano...».

«Come vuoi… sei tu che hai il fucile…», mi avvio lento verso le bestie, sono legate nei pressi della baracca; rimarrò in vista per tutto il breve percorso, non posso permettermi nessuno scherzo; e poi, perché dovrei?

Mi volto per un solo attimo: la vecchia Kleo ha spostato il fucile dalle tette di Layla al mio fondoschiena e questo è un errore che neanche la Madison può permettersi.

«All’inferno, vecchia troia!», veloce come una vipera, Layla si sfila un coltello dallo stivale e mi rimane appena il tempo di vedere il luccichio della lama mentre sibila in volo.

Il ferro è sempre utile, quando non hai il piombo.

SZOCK

«Ah!».

BAM

«Arghh!».

Tutto è così veloce che non c’è tempo per avere paura, né di parteggiare per una delle due.

Un colpo di winchester contro una lama lanciata nell'aria: in questo duello non conta la potenza dell’arma; conta la precisione della mano.

«Uhhh...», Layla barcolla all’indietro e finisce contro un grosso masso alle sue spalle; la possente vacca scivola con la schiena lungo il dente roccioso, alto e appuntito, che spunta dalla sabbia come una specie di canino della terra, e sprofonda col culo nella polvere, mentre le mani si uniscono sullo stomaco.

Dannazione... ci risiamo...

Non vorrei mai vederla uccisa.

Kleo invece è sempre in piedi.

«Stupida puttana...», il coltello si è conficcato in una spalla, poteva andarle molto peggio.

ZACK

Con un gesto deciso se lo toglie subito e lo butta a terra, rabbiosa.

«Volevi fregarmi, cagna maldita...», e invece è rimasta fregata lei; poteva andarle molto meglio.

«Maledetta cagna...», usano armi diverse, ma hanno gli stessi pensieri; Layla si sposta le mani dallo stomaco e si guarda il buco. «Mi hai beccato in pieno... uhh...», riporta le mani sulla ferita e strofina la terra con gli stivali.

«Emiliano…! I cavalli!».

«Aspetta un attimo, Kleo».

Torno indietro e mi piego dolorosamente sulle ginocchia, accucciandomi accanto a Layla.

«Fa vedere…», le prendo una mano - già troppo fredda, considerata la temperatura diurna nel deserto dell’Arizona - e gliela sposto, per guardare se è conciata così male come sembra.

«Uhh... piano...», si lamenta, la ferita brucia; stranezza delle pallottole: sanno scaldare e raffreddare allo stesso tempo…

«Maledizione! Non ti ho detto di giocare al dottore!», Kleo si incazza, forse è gelosa, forse - malata com’è - preferirebbe esserci lei al posto di Layla, pallottola in corpo compresa. «Vai a prendere i cavalli!».

«Cazzo, Kleo! È Layla! La gran vacca! Ed è ferita gravemente...

Se non provo almeno a tamponarle la ferita, in città ce la portiamo cadavere!».

«Non me ne frega un cazzo di come c’arriva. E poi chi ha detto che andiamo in città?

Avevo in mente una bella gita nel deserto...».

«La tua gita fattela da sola!», non sopporto di vedere Layla moribonda. Forse è l'occasione giusta per riconciliarmi con lei.

«Attento, ragazzo! Ti consiglio di non farmi arrabbiare!», e per farmelo capire meglio, mi punta il winchester alla testa.

«Basta... smettetela... mi fa un male cane... uhh...», Layla mi stringe il braccio, lasciandomi un tatuaggio di sangue sulla carne scottata.

Strappo un lembo di stoffa da quel che è rimasto della mia camicia e ne improvviso un fazzoletto.

«Urghh...», glielo premo sulla ferita, mentre con l’altra mano la tocco dietro la schiena: le dita sono asciutte, non c’è buco di uscita, la pallottola ce l’ha tutta sullo stomaco.

«Hai finito?», Kleo è stufa di star lì a guardare.

La ignoro, mi strappo un altro pezzo di camicia e glielo passo intorno al collo, imperlato di sudore; so per esperienza che il dolore e la paura di crepare fanno sudare più del sole, anche se è quello dell'Arizona.

«Tieni premuto, okay...?».

«Okay...», il volto ha già il pallore della tomba, le labbra sono livide e le tette sgonfie; sarà tutto inutile stavolta, ma lei pare voglia provarci e io non ho il coraggio di dirle in faccia che fine farà.

«Vuoi che dia un’occhiata anche alla tua spalla?», mi rialzo in piedi.

«Fanculo. Continua pure a giocare con lei», mi fissa quasi sprezzante. «Questa cazzo di ferita guarisce da sé».

Un graffio, ecco cos’è per Kleo Madison una ferita di quel genere.

Pensa di farmi credere questo.

«Come vuoi».

Arrivo ai cavalli e li porto docile verso Kleo.

È presto per tentare una sortita. Mi sono appena rimesso in piedi. E poi devo capire che intenzioni abbia.

Quando mi avvicino, Kleo è già montata in sella.

«Aiutala a salire».

Mi riaccuccio accanto a Layla.

«Passami un braccio attorno al collo».

«Ci provo... uhh...», Layla si toglie una mano dallo stomaco e si aggrappa alla mia spalla, sforzandosi di assecondarmi.

«Brava... così», mi sto prendendo cura di colei che fino a pochi minuti prima era la mia carnefice; da queste parti capita spesso di fare cose senza senso. Forse è il sole dell'Arizona a picchiare troppo duro.

Fra un gemito e un colpo di tosse riesce a mettersi in piedi, un braccio attorno a me e l’altro a coprirsi lo stomaco.

«Bravi. A cavallo, adesso».

«Uhh...», Layla cammina ingobbita e devo curvarmi anch’io per riuscire a farle percorrere quei pochi passi.

Spingendola da dietro, riesco pure a farla salire in groppa.

«Ohh...», si stringe alle briglie e mi guarda con occhi malati, mordendosi un labbro: più della ferita che le fa un male cane, credo le sia piaciuto sentire le mie mani spingerle il culo.

Ha sempre il gusto della vita la bella Layla… anche se di vita - da adesso in poi - se ne ritroverà sempre meno.

Monto anch’io e a questo punto siamo pronti.

«Adesso spiegami cosa vuoi fare, Kleo…», la guardo, togliendomi col dorso della mano un po’ di sudore dalla fronte, facendo attenzione a non togliermi anche pezzi di pelle.

E intanto che aspetto la risposta, osservo preoccupato Layla, che se ne sta incurvata in groppa, gemendo di tanto in tanto.

«È semplice.

Questo troione stava per farti la pelle, ma io ti ho tirato fuori dai guai.

Perciò ho pagato il debito che avevo con te...».

«Veramente, nell'ultimo incontro, hai cercato di fregarmi, e hai riempito di piombo le mie socie.

Credo tu mi debba ancora qualcosa...».

«Ascolta, Emiliano... nel nostro mondo una fregatura ci può stare, lo sai; anche più di una.

Ho voluto ripianare il mio debito quale segno di buona volontà e per ricreare una banda con te.

Ci stai?

Oggi vanno in giro solo mezze cartucce, a me serve uno come te».

La proposta è allettante, ma so già che con Kleo non andrei mai d'accordo.

«Mi dispiace, ma ho altri progetti.

Di lei cosa farai?», indico Layla con un cenno del capo.

«Non lo so ancora, ma penso che tra non molto non sarà più un problema.

Puoi dirle addio, Emiliano...».

Certo non l'ho messa di buonumore, rifiutando la sua gentile offerta.

Mi rassegno e penso sia meglio non aggiungere altro.

Kleo è pur sempre una fottutissima pazza, potrebbe ancora ripensarci e decidere di estinguere il creditore, oltre al debito...

Layla ha un buco di winchester nello stomaco e non può andare lontano; la mia presenza non servirebbe a molto.

«Addio, Kleo...».

«Emiliano… adesso siamo pari.

Ma la prossima volta che ti incrocio... mi tengo le mani libere... stanne certo...», un chiaro avvertimento.

«Allora alla prossima, Kleo», e mi dirigo verso la città, portandomi addosso le mie scottature, mentre lei va dalla parte opposta, portandosi dietro una grossa vacca con un grosso buco nello stomaco.

Stanne certo, dici, ma dalle nostre parti non c'è nessuna certezza, Kleo.

Specialmente sotto il sole dell'Arizona.

EPILOGO

«Sto crepando... uhh...», e scivola con il corpo in avanti appoggiandosi al collo della bestia, con il volto a sprofondare nella criniera e i capelli biondicci a intrecciarsi con il pelo scuro.

Le tette penzolano inerti all'interno della camicetta, inerte è tutto il corpo della grossa vacca, eccetto la mano, che nascosta dalla sagoma del cavallo, si infila furtiva in una tasca della sella.

«Maledetta cagna!», la vuole vedere in faccia mentre crepa.

BAM

BAM

«Arghh...».

TUMP

La terra sbuffa, ricevendo su di sé un pesante fardello.

Spari!

Due spari…

Due note diverse… due pistole diverse... se l’orecchio arroventato non m’inganna…

Forse Kleo si è liberata di Layla, forse Layla ha chiesto di farla finita; due pistole, però, sono troppe per un’esecuzione.

In ogni caso il suo destino era segnato.

Però il deserto è un posto strano, dove un morto può ammazzare un vivo, o resuscitare dalla tomba.

Ho un attacco di panico, pensando a Layla ormai cadavere, come un anno fa.

Inverto la direzione, voglio sapere se è finita, e portarmi via il corpo.

Kleo è in piedi, Layla a terra, immobile.

Dannazione, no...

Mi vede arrivare.

«Kleo…!», faccio finta di preoccuparmi per lei.

«Stai tranquillo, Emiliano…

Invecchiando ho imparato a evitare il piombo…

Ha estratto lei per prima, nascondeva un’arma…», e le lancia uno sguardo sprezzante.

«Tu sei illesa?».

«Purtroppo il mio cavallo no…».

BAM

Kleo gli spara il colpo di grazia per non farlo soffrire troppo. Un pensiero gentile da parte sua.

Avevo capito bene, dunque. Si sono scambiate piombo. E Layla c’è rimasta secca…

Maledizione!

«Ce la fai a caricarla sulla sella?

Di traverso?», specifica bene.

«Ci provo.

Ma che vuoi farne?».

«Non sono una selvaggia, la porto al cimitero più vicino».

«Ti accompagno, allora; in fondo è stata la mia socia», non mi rimane che attaccarmi al cadavere, ormai.

Non senza fatica - Layla è un peso morto - la metto in sella di traverso.

Le grosse tette sono finite fuori dalla camicetta, a penzoloni nel vuoto.

È il suo ultimo show...

Peccato davvero per la bella Layla…

Forse ormai si sentiva spacciata e ha deciso di giocarsi gli ultimi lembi di pellaccia.

Ma si è ritrovata con un buco nel fegato e stavolta ha dovuto cedere.

Eseguita l’operazione di carico, le sollevo la testa prendendola per i capelli arruffati, sperando in chissà cosa. Niente, gli occhi le sono finiti dietro la schiena...

Layla è andata sul serio questa volta.

Per lei non c’è più niente da fare.

Mollo i capelli e la lascio a penzolare sulla sella.

Non credo avesse più illusioni, quando ha estratto.

«È tardi per giocare al dottore, bello mio. Ha voluto troppo.

Nessuno può fregarmi. Tantomeno una troia come quella.

Però c’ho rimesso il cavallo.

E adesso mi serve il tuo, Emiliano…», Kleo mi punta lo sguardo addosso, come fosse una colt 45.

«Te l'ho detto... ti accompagno… sali...».

L’addio è rimandato.

Dannata Kleo… se io stesso fossi stato cadavere, addosso a te mi sarei ripreso dall’inferno…

Il sole picchia duro, il cimitero più vicino è sempre troppo lontano.

Il ronzino di Layla è inquieto, sbuffa.

A parte la stanchezza e la sete, sente qualcosa che noi non possiamo sentire.

I cavalli sono bestie sensibili.

«Uhh...», da dietro sembra giungere un mormorio.

Mi volto.

«Cristo! Forse è viva…».

«Chi…? Layla? E cosa vuoi che me ne importi?

Controlla almeno che abbia finito pistole e coltelli…

E non perderci troppo tempo…».

La tiro giù, le rimetto dentro le tette e la faccio bere.

Altri mormorii, poi qualche parola biascicata...

«Emiliano…», sta faticosamente riordinando le idee nel suo cervello bruciato, «ho fatto una pazzia... sentivo la morte... ma io... sono un mignottone... voglio salvarmi... tu prega... per la vecchia Layla... uhh...».

«Rimango accanto a te, ma niente più cazzate, okay?».

«Chiama Kleo… sto morendo…», il tono è pressante, non ha certo voglia di scherzare.

Pensavo di rimetterla in sella e correre da qualche parte, ma pare non ce ne sia il tempo.

È tornata in vita per morire.

«Kleo!».

«Che vuoi?».

«Vieni... Layla vuole parlarti, è molto grave».

«Allora sta meglio, visto che prima era morta.

Che vuole?».

«Non lo so. Vieni e lo saprai».

«D’accordo, arrivo».

Per strapparle anche il consenso più banale, mi fa sempre dannare, accidenti a lei!

La Madison la osserva perplessa, meno sprezzante del solito.

«Non male, Layla.

Bevici sopra… il whisky ammazza il verme».

Kleo le passa un goccio di quello buono, con le sue stesse mani.

Layla ha ottenuto il suo rispetto.

Ora è Kleo che la incoraggia.

E Layla non chiedeva di meglio.

L’aveva chiamata per quello, per trovare uno scopo in una battaglia senza speranze.

Segreti fra donne.

Intanto accendo un fuoco.

Un fuoco in una fornace: un paradosso.

Layla ha paura, è tesa, rigida, attenta a non farsi sorprendere, come era stata un anno fa; non morirà con un colpo secco, lo farà venire a noi.

C'è solo da sperare nel fuoco.

A questa alta colonna di fumo, che si perde nel cielo sconfinato dell’Arizona, terra di grandi uomini della medicina, è appeso l’ultimo straccio di pelle di questa grossa vacca.

IL RIGURGITO DELLA FOSSA

di Salvatore Conte (2017-2022)

C’è dell’oro nascosto in una cassa da morto.

Però non è abbastanza per tutti e tre.

Sono ossi duri, ma con tanta carne.

Chi perde rimane al cimitero, chi vince avrà tempo per tornarci.

Qualcuno prenderà l'oro, e qualcun altro prenderà il posto dell'oro, riempiendo la bara con il proprio cadavere.

Succede sempre così.

Tutti si conoscono.

Tutti sono stati amici.

Tutti sono stati nemici.

Ognuno è parte a sé.

Il Porco è furbo e veloce, ma anche l'unico uomo in piedi, oggi, al cimitero.

Potrebbe non giovargli.

Il Sergente è abbronzato e sempre in forma.

Per un po' ha portato la divisa, ma si è stancata presto.

Da pistolera guadagna dieci volte tanto.

La Vacca è grossa, ma non si fa mungere.

Al tavolo della morte si cambia l'oro col sangue.

I tre giocatori tengono le carte coperte.

BANG

Ma è venuto il momento di calare il punto.

Il diavolo è dalla parte della Vacca.

Layla ha scelto di togliere di mezzo il pericolo maggiore.

Lea si rovescia a terra.

Ma non ha perso la pistola...

Il Sergente non accetta la sconfitta!

Vuole tentare il tutto per tutto.

Con una palla in corpo, Lea Franzen rilancia!

La Vacca le lascia un po' di corda, la fa appoggiare sul gomito.

BANG

Ma appena ci prova, la fulmina!

Lea rotola letteralmente nella fossa; le misure sono giuste.

In un cimitero c’è n'è sempre qualcuna pronta per i nuovi arrivi.

A volte i clienti hanno fretta, o puzzano troppo.

Oppure fanno tutto da soli.

Tuco è rimasto a fare lo spettatore, perché la sua pistola si è inceppata.

Ma aveva mirato anche lui alla più pericolosa; mai farsi troppa fama.

Perciò Layla lo risparmia.

E gli lascia anche un terzo della torta.

Ma dovrà guadagnarsela.

Lo fa salire su una pericolante croce di legno e lo impicca a un albero.

L'equilibrio è fatalmente precario.

La mano della morte è su di lui.

Lei gli lascia la sua parte ai piedi della croce.

La Vacca è fatta così.

BANG

Lo fa stare sulla croce per un bel po' e poi lo tira giù.

Non servono miracoli, ma un preciso colpo di winchester, indirizzato alla corda dell'impiccato.

Il Porco cade giusto sul mucchio d'oro, come il Sergente nella fossa.

Dall'inferno al paradiso in un colpo solo.

È letteralmente frastornato dal bottino.

«Ah!», la mano della morte lo sfiora ancora.

Tuco urla il proprio ribrezzo, ma quando si volta cambia faccia.

Impegnato a non impiccarsi, non si era accorto della giacca blu.

Non servono miracoli - per uscire dalla tomba - ma un bel fisico, quello sì.

«T…u…c…o…», un sussurro estenuato, mentre cerca di rialzare la testa.

L’aiuta lui, prendendola per lo scalpo canuto.

«Lea!

La Vacca è stata proprio cattiva a bucarti la pancia…».

Il Porco molla la presa e la testa si affloscia a terra.

«Sergente, ascolta… la Vacca mi ha lasciato la mia parte... lo vedi?!

Anche tu avrai un po' di monete… eh… sei contenta?».

«S…t…o…m…a…l…e…».

Nessuno l'aveva mai toccata, ci voleva una donna per farla fuori.

Su... su... bevi… non darla vinta a quella cattiva della Vacca...

Avanti, Sergente… butta giù... brava...

Guarda che facciamo, adesso...».

La prende e la mette con la testa sopra il mucchio dell'oro, più o meno come ci stava lui prima.

«Così ti senti meglio, vero...?», e ride con il suo ghigno sghembo sulla faccia da porco. «Non rimarrai a bocca asciutta, te lo prometto: c’è un po’ d’oro anche per te, Sergentona bella…».

«Ho lo stomaco... bucato... Tuco...», gli annuncia funerea.

Ha il volto pallido di morte e un doppio rivolo di sangue alla bocca.

«Dovevi stare più attenta... una come te non deve farsi fregare!».

«Quella bastarda... ha sparato... per uccidermi... io... volevo... portarla... con me...».

«Ha il diavolo dalla sua, quella; accidenti a lei! A momenti finivo impiccato...

E senza aver fatto niente...!», ancora il suo ghigno obliquo.

«Tuco... non sono uscita... dalla fossa... per crepare... un'altra volta...», la rigurgitata non ci sta.

«Ehi... te lo ricordi quando mi hai fatto pestare, in quel campo nordista?

Non è stato divertente.

Ma non ti ho mai serbato rancore.

Oggi ti ho mirato contro, perché credevo fossi tu la più veloce...».

«Ma non... mi avresti ucciso... vero...».

«No, certo... solo un colpo per tenerti buona...

Una vacca come te, con tanto grasso, vale parecchio da queste parti... di' un po'... sei tanto costosa da mantenere?».

«Adesso... non valgo... molto...», serrando le mascelle. «Tuco...!», lo chiama ansante. E gli allunga la mano. Vuole essere accompagnata all'inferno. «Quella puttana... mi ha giocato... un brutto scherzo...».

«Perché non ti sei fermata dopo il primo colpo?».

«M'aveva... già bucato... lo stomaco... ero andata...

Se vuoi farmi... un favore... ammazzala...!», e gli stringe la mano, quasi a spezzargliela.

«Ehi...!».

«Adesso... però... m'è tornata... una fottuta... voglia... di tenermi la pelle...».

«È un po' tardi per ripensarci...».

«Non sono... affari tuoi... io... voglio crederci...».

«Come vuoi, vaccona blu... ma dovrai spremerti di dosso un po' di grasso...».

Il messicano la vede già nella fossa.

E non è certo un gran indovino.

«Tuco...!», il Sergente spalanca la bocca e finisce quasi per ingoiare una moneta d'oro.

Per pagarsi Caronte la Franzen non ha problemi.

C'è rimasta strozzata con quell'oro.

«Non... voglio... cre...pa...ghh....».

E rimane con la bocca spalancata sul gruzzolo d'oro, lo sguardo gelato dalla delusione.

C'ha provato fino all'ultimo.

È tornata.

La mia bella vacca è tornata.

Il bottino è ben legato sulla sella.

E si porta appresso anche una giacca blu.

«Ha chiesto di te».

Le sollevo la testa, prendendola per i capelli.

Io il Sergente l'ho conosciuto.

L'ha caricata di traverso sul cavallo a rimorchio, a penzoloni sulla sella.

«S…t…o…m…a…l…e…».

È uno spettro.

«Pensavo peggio, Lea».

Non è ancora crepata.

Che me l'ha portata a fare.

Ora me la devo gestire io.

«Te le ricordi... le mie tette...», ansante.

Non perde tempo.

«Dieci anni fa erano già mosce, Lea».

Però gli occhi mi ci vanno ancora sopra.

Le mollo la testa.

«E...m...i...l...i...a...n...o...».

E protesta subito.

«Lea... adesso ti controllo...

Con tutto quel posto, nel cimitero, proprio qui dovevi portarla?», mi rivolgo ad Layla, la domanda mi sembra pertinente.

«A parte che vale un mucchio di soldi, 25.000 dollari... ha chiesto di te, te l'ho detto.

Ho avuto il presentimento che non fosse ancora cadavere e sono tornata indietro a controllare.

Quando l'ho ritrovata sembrava morta stecchita, ma è dura a crepare, e vuole tentare.

Ci sono passata anch'io, prima o poi ci passiamo tutti...

Per guadagnare un po' di tempo è disposta a fare qualsiasi cosa».

«Non c'era una fossa aperta al cimitero?», le domando ancora.

Se non c'è, tanto vale scavarla qui.

ZACK

Ma la gran vacca, senza scendere da cavallo, taglia la corda.

«Stavolta... cerca di ricordarti le ultime parole...».

LA FINE DI LEA

L’ho messa con le spalle contro la sella, un po’ rialzata da terra, per evitare che i rigurgiti di sangue la soffochino prima del tempo.

Ben coperta, con il fuoco vicino.

Più di questo non si può fare.

E naturalmente la mano nella mia.

La situazione può precipitare rapidamente, devo tenermi pronto.

I segnali sono partiti, ma non sempre si trova uno stregone a portata di fumo.

Lea, comunque, è contenta.

Si gode questo tempo che è riuscita a guadagnare.

Ha avuto paura di crepare nella fossa.

Vuole vivere, ma i buchi che ha in corpo non lasciano scampo a nessuno.

Devo essere paziente con lei, ha una certa età, e non si aspettava di rimanere uccisa.

Sta bene attenta a non perdere il controllo, respira lentamente, e mi guarda spesso, per verificare le mie reazioni.

“Per guadagnare un po' di tempo è disposta a fare qualsiasi cosa”, Layla aveva ragione.

«Quanti anni… posso reggere… come donna…», ogni tanto tira fuori il fiato e mi parla, per tenermi coinvolto.

«Una come te può arrivare a 90 anni in buone condizioni».

«Però… ho bisogno… di un uomo… fisso…».

Mi guarda allusivamente, con la faccia da spettro.

«Mi sei sempre piaciuta, lo sai.

La fica non mi manca, ma tu sei speciale.

Mi spieghi perché hai due pallottole in corpo?».

«Non mi sono… fermata…. c’ho riprovato… volevo… portarmela… appresso…».

«Questo errore poteva esserti fatale, Lea…».

«Lo so… ma è stato… un attimo… di follia… lo stomaco… era già bucato… ho sentito… la fine… volevo… portarmela… appresso…».

«Calmati…», si sta agitando. «Ormai è andata così».

Ridotta com’è, non supererà la notte, ma non posso dirglielo.

Mi sembra restia a saperlo.

«Ma poi… dentro quella buca… ho capito… che fisico… ed esperienza… potevano salvarmi…».

«Tu ce li hai, tutti e due; devi solo stare attenta a non farti sorprendere».

«Lo so…», ansima.

Le tampono delicatamente, con la punta del fazzoletto, il sudore freddo che le imperla la fronte e il sangue che le risale in bocca.

Tutto sta nel darle una sensazione di controllo.

«Attizzo il fuoco, Lea».

La lascio per qualche momento.

«Sto bene con te… non ho paura…».

Aspetta ancora un po’, e poi ne riparliamo, Sergente…

«Non vorrei fare il menagramo, ma il peggio deve ancora venire, Lea…».

Rimane con il labbro sporgente, delusa, come avesse creduto di poter migliorare a breve.

«Non penserai… che io… rimanga uccisa…».

«No, questo no…», mi affretto a smentire, «ma ci sarà da soffrire».

«Io… voglio salvarmi… Emiliano… ho chiesto di te… per tenermi… la pelle…».

«Hai fatto bene. Per noi sarà un nuovo inizio, Lea», e le infilo la mano nell’uniforme, per prendermi un anticipo.

Ci sta.

«Sono mosce…?».

«Sono perfette».

Ha una fitta, storce la bocca.

«Bruciano… da morire…».

«Lo stomaco, in genere, non perdona. Molti si lasciano andare.

Sei coraggiosa, Lea», comincio a fare chiarezza sulla situazione.

«Tu... non mi lascerai crepare... lo so...

Voglio salvarmi… con pazienza… e ricominciare… non sono… tanto vecchia… no…».

«Sei sempre in tiro, non so come fai».

Ma ho paura che rimarrai deluso, Sergente.

Layla assiste alla fine di Lea in disparte.

Ogni tanto mi cerca con lo sguardo, sa che per me è imbarazzante accompagnare all’inferno una puttana di questo genere, tosta e ostinata.

A un tratto vedo una lacrima rigarle il volto funereo.

Non le chiedo niente.

Ma penso sia un segnale di ammissione.

Sente la fine, sa che può farci poco, e si dispera.

Le stringo più forte la mano.

Ha scelto una strada difficile, che porta lontano dalle piste conosciute, in un deserto di morte.

Sono il suo ultimo appiglio, fra i gorghi dell’inferno.

«Perché… non ci riprovi… cowboy…».

È un piacere, Lea. Davvero sei ancora in tiro.

Le ripasso la mano dove piace a entrambi.

E stavolta anche sotto, per scaldarla bene.

«Torniamo insieme… stavolta… funzionerà… ma niente troie… intorno…».

«Solo io e te, Sergente».

«Ti faccio… ammalare… fino… a 90 anni…».

«Tu non hai limiti, Lea. Il tuo invecchiare è una forma d’arte».

Accenna un sorriso. È contenta. Qualcosa nel suo piano funziona.

Ma ha paura. È pallida di morte e di paura.

Teme di doversi arrendere.

La strada verso la salvezza è sbarrata.

È troppo intelligente per non saperlo.

Vuole tentare fino all’ultimo, ma presto sarà trascinata via dalla corrente.

È donna di razza comunque.

Restia a invecchiare, restia a crepare.

Le stringo la mano per farmi sentire. Sono il suo ultimo appiglio.

Ma è finita, Lea.

Peccato… una storia con te era ancora possibile.

Non invecchi mai del tutto, maledetta.

Approfitto di un suo momento di dormiveglia per avvicinare Layla.

Ho una curiosità.

«La seconda non potevi evitargliela?».

«Ha fatto la fessa, c’ha riprovato.

Ci stava tutta.

Rimane uccisa per la prima, comunque.

L’ho presa piena».

«Me ne sono accorto».

«Emiliano… mi dispiace…

Non vuole capire, vero?».

«Donne così non capiscono, lo sai.

Non so quanto ci creda, ma vuole salvarsi.

Si difende con ordine e finora non ha sbagliato un colpo».

«Torna da lei… la corda può spezzarsi facilmente».

Lo so anch’io.

«Dove sei stato…».

«A parlare con Layla».

«Lasciala perdere… è stata fortunata… poteva… esserci lei… al mio posto…».

«C’è già stata».

«Sì… l’ho saputo…

Ho voglia… di salvarmi anch’io… Emiliano…

In tanti... ci provano... in pochi... ci riescono...».

Sembra un presentimento funesto.

«Che intendi dire? Tu non sei tra quei pochi, Lea?», le asciugo il sudore freddo che le imperla la fronte e il collo, gonfio di carne; è bella da toccare in tutti i punti; non è avvizzita, non è decrepita.

«Non lo so… ho paura… Emiliano…».

«Finora non ti sei mai scomposta, hai il controllo, fisico ed esperienza ti stanno aiutando; che c’è, Lea?».

«Forse… non ce la faccio… rimarrai deluso… la vecchia Lea… potrebbe… rimanere uccisa…», guarda lontano, con occhi allucinati.

«Perché dici questo? Finora eri certa di salvarti».

«Non lo so… ho paura…».

Le asciugo con più apprensione il collo.

«Ci sono io».

Ansima, esercitando un ferreo controllo su sé stessa.

«Io… tra un po’... esplodo… Emiliano… non... non ce la faccio più…».

Comincia a cedere… e a fare le prime, pericolose ammissioni.

Mi volto in direzione di Layla e scuoto il capo.

«Sei molto stanca, Lea. È normale.

Ma non penserai davvero di rimanere uccisa, spero».

Mi sta facendo paura.

«Non fare l'idiota... lo sapevi... che era finita... sin da quando... mi hai rivisto...».

«Hai detto che avresti lottato».

«L'ho fatto... e il tuo stregone... non è arrivato...».

«Arriverà».

«Quando...

Io... ho poco tempo...», ansiosa, disperata.

È stanca e ha paura, ma vuole salvarsi.

Layla guarda verso di me.

Ha capito che ci sono problemi seri.

Lea è inquieta.

Suda e ansima.

Ma regge, si assesta, vuole salvarsi a tutti i costi, anche se i buchi la condKleono.

«Non pensavo… ci tenessi… alla vecchia Lea…».

Le asciugo il sudore, la faccio sentire importante.

«Layla ti ha preparato un brodino».

Dentro c’è sicuramente qualche droga; per tenerla arzilla.

Glielo mando giù piano-piano.

È leggero, facilmente digeribile, e la scalderà.

«Ci tieni... proprio… a me…».

«Donne come te non ce ne sono più; sei l’ultima nel tuo genere; bisogna tenerti da conto».

«Voglio… la salvezza… Emiliano…», sputacchia brodo e sangue.

«Per una come te non sarà difficile ottenerla, Lea».

«Ma io… ho paura… di... rimanere... delusa... Emiliano…», col fiato corto.

E io paura che tu ci veda bene, Sergente. Ma non posso sbattertelo in faccia.

«Parlami di questa paura, Lea…».

«È una grossa… fossa nera… mi sta risucchiando…

Io… cerco… di tirarmi fuori… guardo avanti…

Ma la strada… è sbarrata…».

«Da chi?».

«Non lo so… non… non riesco… a vedere… ma… puzza di morte…

Allora… provo… a cambiare strada… forse sei tu… vengo da te…

Ma è faticoso… sono circondata… sprofondo… è brutto…».

Le asciugo il sudore.

«Basta, adesso; calmati…

Presto sarà l’alba e arriverà uno stregone, vedrai…

Riposa un po’, io rimango sempre qui, non mi muovo».

Mentre socchiude gli occhi, vedo Layla che scava una fossa.

E ha già preparato una croce con relativa iscrizione.

E la mia vacca, di solito, non fa niente a caso.

Lettore, se vuoi conoscere l'attrice che ha ispirato questo racconto, clicca qui.

Il racconto è un tributo alla sua bellezza, carisma, personalità.

Gli aspetti negativi sono introdotti per mere esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico.

Il ruolo della protagonista va assimilato a quello dell'attrice rispetto a un film.

La devozione alla persona in questione, da parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta.

LA BELLA TAMPONATA NEL BOSCO

di Salvatore Conte (2012-2019)

«Non aspetto più...

Lo voglio morto!», l’ordine del boss era partito.

E il suo luogotenente era già al lavoro: «Da qualche giorno frequenta lo stabilimento di Anna Frezza. Sarà lei ad agganciarlo: è spietata e ci deve un mucchio di soldi. Se lo porterà a letto e in quel momento lo fregheremo…».

«E se venisse colpita anche Anna? Il Capo ne va pazzo e potrebbe aversene a male…».

«Anna? Quella è una bestia. Se la caverà anche stavolta».

L’ordine era partito, il piano era operativo e l’esca pronta ad attrarre il pesciolino.

L'esca era la supercinquantenne Anna Frezza: bella, cessa e troia.

Entrata di prepotenza nel giro buono, la Frezza aveva posto il suo quartier generale presso uno stabilimento balneare sul lido di Ostia, all'ombrellone del quale esercitava i più loschi traffici.

Massiccia, potente, carrozzata, anche quel giorno non si smentiva, indossando una camicetta allentata fino allo stomaco, una di quelle che l'aveva resa famosa sul litorale romano e oltre.

Sbottonata in maniera molto simile, era riuscita a ottenere un prestito a tasso zero per l'acquisto del suo stabilimento.

Il suo lido era sempre pieno, e più pieno che mai dopo le sue apparizioni in popolari rotocalchi trash della televisione, propiziate dai boss della Magliana, competenti su Roma e con le mani in pasta pressoché ovunque.

Ero steso sul lettino, piegato sul gomito, lei arrivò da dietro e mi cadde praticamente addosso, quasi tamponandomi: l'impatto aggressivo della pesante carrozzeria, bombata nei punti giusti, e il mellifluo contatto delle dita esperte, il tocco sfuggente della medusa.

Era Anna Frezza in persona.

«Oh, scusi, ho perso l’equilibrio…», si giustificò banalmente.

«Chi tampona ha sempre torto, lo sa?».

«Posso rimediare in qualche modo... o dobbiamo chiamare i vigili?», rimase appoggiata al mio lettino.

«Potrebbe compilarmi il Cid… o trovare un altro modo…».

«E quale…?», mi guardò con occhi fissi, sprigionando tutta la sua carica erotica.

«Potrei vendicarmi tamponandola a mia volta, ma stavolta sul serio…», non mi feci scappare la battuta.

Gli occhi sornioni da puttana svampita, la faccia da bonacciona a mascherare una mignottona cattiva, ormai a livello dei boss; una montagna di carne con una sua precisa geografia; una storia lunga alle spalle, che affondava nel tempo ben prima della sua nascita.

Le passai la mano intorno al fianco da vacca di razza.

Subito sentii salire la pressione alle tempie, senza neppure il bisogno di sfiorare le curve più pesanti.

Dal lettino della spiaggia al doppio letto di un pied-à-terre di Ostia, il passo fu breve.

Le avevo già allungato la mancia mentre si ergeva, per metà della figura, sopra di me; le avevo lasciato addosso la sottoveste a fiori: mi piaceva, era la sua uniforme da battaglia.

Mi stavo ripassando le zinnone, quando si divincolò sapientemente calandosi giù da un lato del letto: «Mi è caduto un orecchino…».

Io però di lei non mi fidavo neanche un po'.

Un attimo prima che l’armadio si spalancasse avevo già la mano dentro il borsello.

ZIP

Sparai con l’arma ancora al suo interno.

ZIP

Nel cadere a terra come un frutto maturo, il sicario fece partire un colpo per la tangente.

Niente di preoccupante.

Non ne avrebbe sparati altri.

Volevano fregarmi…

La Frezza si era abbassata come il casellante del Padrino.

«Ora puoi rialzarti…», Anna era fuori dal mio campo visivo, ma ero sicuro che fosse carponi ai piedi del letto.

Aspettai un paio di secondi, perplesso.

Scendendo dal letto, non mi fu difficile capire perché non rispondesse…

Sulla schiena aveva il foro d’entrata di un proiettile!

Quello sparato accidentalmente dal suo complice, ormai morto.

La rovesciai supina, con il fiato che mi mancava dall'ansia.

Benché avesse cercato di fregarmi, non volevo facesse quella fine.

La pallottola era uscita dallo stomaco, portandosi via tutto.

Respirava ancora, ma era fottuta.

Corsi in bagno e tornai con un asciugamano.

«Ecco... su... premi forte...».

Le avevo tamponato la ferita, anche se sapevo che non sarebbe bastato.

Il buco era talmente grosso che avrei potuto passarci il braccio dentro.

Davvero una brutta fine per la Frezza.

«Certo... so come sopravvivere... non ho paura...», aveva reagito allo shock, ma non aveva ancora capito a cosa sarebbe andata incontro.

Lo stomaco di Anna non esisteva più.

L'emorragia l'avrebbe uccisa.

Discorso finito.

Non mi chiese di andare all'ospedale, per me era inutile andarci.

Sarebbe deceduta comunque.

E poi non le dovevo niente, anzi.

Aveva cercato di fregarmi.

Era una bella donna, certo.

Forse il pezzo più grosso su piazza.

Ma era andata storta, a cominciare dalla pallottola.

Stava per parlare, volevo sentirla.

Mi piaceva, avrei preso un ombrellone fisso.

«Io… avevo bisogno… di quei soldi… niente di personale…», il volto stava sbiancando e lei respirava senza alzare il petto…

Non si rendeva neanche conto di essere già in riserva.

Quella fottuta pallottola non l'avrebbe perdonata.

«Dimmi chi è stato…

Ascolta: volevi fregarmi e sei rimasta fregata.

Dimmi chi è stato», la incalzai.

«Se parlo… mi porti con te…».

«Va bene, ti porto con me. Ci mettiamo insieme, Anna.

Adesso però parla».

«È stato… il boss…», ormai l’avevo capito.

La caricai sul sedile anteriore e mi diressi verso il covo.

Il sicario lavorava solo. Erano sicuri di fregarmi, grazie ad Anna.

Mentre guidavo, la Frezza mi tormentava con la mano sinistra, cercando di richiamare la mia attenzione su di lei.

A un tratto, però, mi accorsi che la mano tra le palle non c’era più.

La guardai: era sfinita…

Accostai subito l’auto.

«Anna...», suonai il clacson per farmi sentire.

Funzionò. Ebbe un sussulto.

Era viva, ma spenta, sembrava non accorgersi più di niente.

La grande Anna, anche se appariva implausibile, c'era rimasta secca.

La mia storia con lei era durata poco.

Ripartii e pensai ad altro: alla mia vendetta, innanzitutto.

«Cough…», un colpo di tosse dirottò i miei pensieri. «Dove… siamo…».

«Stiamo per arrivare al mio covo, Anna».

«Io… voglio… parlarti…».

«Lo farai al covo».

«No... subito...».

«Devo fermarmi…? Sei sicura?».

Meglio starla a sentire, potevano essere le sue ultime parole.

Accostai a destra, alle pendici di Albano. La mia Bmw aveva i vetri oscurati.

«Siamo fermi, Anna.

Sputa il rospo...».

«Non me l'aspettavo... di prendere... questa... pallottola... del cazzo...», era un cadavere parlante, resisteva con le unghie e la forza della disperazione, ma era morta. «Sono la Frezza... e sto morendo... quell'idiota... m'ha... ammazzato...», non la interruppi, era agli sgoccioli la povera Anna. «Quando crepo... mettimi in un frizer... io... proverò... a rimanere nei paraggi... dopo qualche ora... torna... con la batteria dell'auto... se questo non basta... allora... spediscimi a Cuba... insieme... ai surgelati... lì sanno come fare... anche se malconcia... voglio tornare... e tu... mi starai vicino...».
«Insomma, di questi tempi, un bacio non è più sufficiente?». Mi guardò confusa. Un po' stava crepando, un po' forse non conosceva la famosa favola. «E a me chi me lo fa fare?».
«Una fica come me... è bona... anche fredda... e sarò tua...».
«Per amore, insomma...».
«Anzi no... lascia... il mio corpo… qui dentro… e adesso… metti… una bella musica… e poi… rimettila… quando crepo… me lo giuri...?».

Probabilmente era impazzita.

In fondo, però, cosa mi costava accontentarla?

Una bella donna va sempre accontentata, specie se sta per morire.

«Ho un cd degli Europe: vanno bene?».

Lo inserii nell'autoradio senza aspettare una risposta.

Il primo brano, neanche a farlo apposta, era "The Final Countdown", tragicamente appropriato.

«Su queste note, te lo giuro, farò come mi hai chiesto».

Potevo ripartire.

Passarono solo cinque minuti, appena il tempo di superare Albano e il primo brano del cd.

«Emiliano… fermati… sono... arrivata...», il fiato era più che mai stentato.

Non ce la faceva più, era arrivata sul serio.

Davanti a me avevo il Ponte di Ariccia.

Accostai.

«Leccami… la ferita… fai presto…».

«Cosa…?».

In fondo, però, cosa mi costava?

Leccai come mi aveva chiesto, con le pesanti zinne che mi premevano in testa.

Dall'enorme buco scavato dalla pallottola in uscita traboccava di tutto.

Leccai tutto.

Non so perché lo feci.

«Bevi... la mia morte... Emiliano...».

Quando pensai che poteva bastare, mi risollevai e rimasi a guardarla: il seno le era praticamente finito sulle ginocchia.

Era completamente immobile.

Non capivo come facesse a respirare, se ancora respirava.

{E...m...i...l...i...a...n...o...}, sibilava in apnea, ecco come faceva.

«Sono qua, Anna... cerca di stare calma...», mi stava crepando in faccia. «Non puoi farmi questo...».

Per un attimo sembrò quasi sorridere.

Ma subito dopo si fece paonazza.

Gli occhi si sbarrarono in un’espressione di attonita sorpresa, la bocca rimase spalancata.

Le mani si staccarono dalla pancia e si abbandonarono inerti lungo i fianchi.

Stavolta era andata sul serio...

La Frezza aveva messo in campo tutta la sua potenza femminile, provando a reggere botta a dispetto di un grosso e fatale buco nello stomaco.

Adesso, però, per non farmela franare addosso a peso morto, la agganciai alla cintura di sicurezza.

«Così non ti faranno la multa, Anna», tanto valeva scherzarci su.

Oltrepassai il Ponte e proseguii per i Campi d’Annibale.

Stavo per ingaggiare la grande rotonda del Nemus Dianae - uno dei boschi più belli della terra - fermo in colonna.

CRASH

Un vecchio rincoglionito mi tamponò come se neanche m’avesse visto, mandandomi quasi a sbattere contro il parabrezza; infatti non portavo la cintura, a differenza di Anna… e gli airbag li avevo fatti staccare, perché alla prima pallottola sarebbero scoppiati.

«Mi scusi tanto… io non volevo… questa strada è tanto strana, lo sa, vero?», alludeva alle anomalie gravitazionali che si registrano in quel tratto, dove la discesa è salita e la salita è discesa.

Era uscito dal suo guscio per venirmi a raccontare quelle baggianate, con il corpo di Anna ancora caldo al mio fianco.

«Ma adesso chiamo la polizia e un’ambulanza, per lei e sua moglie, non si preoccupi…».

Ci mancava solo quello…

«Non si disturbi, la prego. Possiamo compilare il Cid».

Ero ancora stordito, mi ci volle qualche secondo per riprendermi, la mia auto era andata, come lei.

Addio, Anna. Appena il tempo per un tiepido bacio d'addio.

Rimandai il cd dall'inizio, alzai il volume e la chiusi dentro.

«Lei intanto compili il Cid, per favore. Io ho un bisogno urgente, lei capisce...».

Entrai nel parcheggio di un ristorante e rubai un’auto.

Al covo accesi la Tv, tanto per seguire il televideo, mentre mi preparavo qualcosa da mettere sotto i denti.

Fu allora che rimasi allibito…

[ 17.13 ]   ULTIM’ORA

Ferita a morte Anna Frezza

Anna Frezza, 50 anni, titolare di uno stabilimento balneare sul litorale romano, nota al grande pubblico per le sue apparizioni televisive, è stata ritrovata agonizzante a bordo di un'auto.

La Frezza è stata raggiunta da un colpo d'arma da fuoco alla schiena.

Mi attaccai al video.

[ 18.11 ]   ULTIM’ORA

Caso Frezza, prime ipotesi

Secondo le prime indiscrezioni, Anna Frezza sarebbe rimasta coinvolta in un conflitto a fuoco della malavita romana.

Migliaia i fan che si stanno riversando all'ospedale San Giovanni di Roma, dove la Frezza è ricoverata in condizioni disperate.

Mi dispiaceva per loro, ma la lingua nel suo buco ce l'avevo messa io.

Avevo ancora il suo sangue in bocca.

Perciò dentro la Frezza c’avrei pisciato io e nessun altro.

UNA BARA PER LAYLA

di Salvatore Conte (2017-2023)

«Sei tu la Legge, Bob.

Mandalo via», e gli lascia sul tavolo una mazzetta extra.

«Non ho il potere di farlo, lo sai.

Il delitto è avvenuto nella sua città».

«Ma di che delitto parli?

La morte di un vecchio, per una pallottola di rimbalzo?».

«È lui che fa la Legge».

«Sistemerò la faccenda a modo mio.

Tu non impicciarti».

Lee Cobb ha deciso.

Non è tipo da farsi imporre convocazioni.

È allergico ai giudici.

Non ha ancora confidenza con i nuovi tempi.

È un gradasso, ma all’antica.

E ha trovato uno sceriffo più all’antica di lui, lo Sceriffo di Big Sandy, nel Montana, dove i suoi uomini - dopo aver bevuto - hanno fatto secco - per errore - un vecchio di passaggio.

Non rischia la corda, ma non gli sta bene che si ficchi il naso nel suo territorio.

Tutta la Contea di Fort Benton è praticamente sua.

«Lo farai nel saloon: voglio che tutti vedano.

Quattro testimoni diranno che ha estratto lui per primo.

Qui non ha alcuna giurisdizione. Può solo notificare i suoi maledetti ordini di comparizione.

Tu gli notificherai qualcos’altro».

L’ordine è dato, se ne occuperà Layla, la pistolera più prepotente della Contea.

Layla Mitchell è una bella donna molto in carne, che ha imparato presto a difendersi e a uccidere.

Poi ha cominciato a prenderci gusto, a cercare moribondi per dargli il colpo di grazia; oppure a crearli lei stessa.

Si veste da puttana e in fondo lo è: la camicetta color paglierino è sempre sbottonata fino allo stomaco; nessuno, però, ha il coraggio di dirglielo in faccia, nemmeno il pastore luterano, perché è molto veloce e ne ha già ammazzati parecchi.

Tuttavia ha avuto l'accortezza di farli fuori all'interno della Contea di Fort Benton, dove lo sceriffo Robert Ryan ha sempre chiuso un occhio, anzi due, accecato dalle mazzette di patron Cobb e ingolosito dalla sua bella ciccia grassa.

Sceglie due uomini e lo aspetta con la sigaretta in bocca.

«Portate una carta della regione allo Sceriffo».

«Conosco molto bene questo territorio, signorina».

«Non si direbbe, visto che si è perso.

La sua città è molto più a nord».

«Lo so. Ma il lavoro talvolta mi porta lontano».

La Mitchell si alza dal tavolo, imitata dai suoi scagnozzi.

Uno a destra, l’altro a sinistra.

«Stavolta potrebbe portarla sotto due metri di terra».

«È la fine che faremo comunque».

«Mi sembra nervoso, sceriffo.

Vuole forse impiccarci tutti per una semplice disgrazia?».

«Sarà il giudice a stabilirlo.

Tuttavia non ci sono donne sulla mia lista».

«Lei però è sulla mia!».

BANG

BANG

BANG

«Qualcuno chiami lo Sceriffo!

E l’undertaker...!».

Gli scagnozzi sono andati giù secchi, lei barcolla verso il tavolo, con la sigaretta ancora in bocca.

Ha un bel buco sullo stomaco, che butta fuori sangue e grasso fuso.
Lo sceriffo Jared Maddox non le ha fatto sconti.

Va giù pesante sulla sedia e lo fissa attonita.

Sembra stia aspettando l'ultima cena.

Ezechiel Balm - l’undertaker di Fort Benton - arriva subito, lui non fa mai aspettare i suoi clienti.

Si è portato appresso la bara, ma ne serviranno altre.

«Sceriffo, mi scusi, ma la cliente si muove troppo. Temo non sia ancora pronta.

Consiglio, al momento, un medico o un prete».

«Quanti ne ammazza il segaossa di questo posto?», gli chiede lo sceriffo.

«È il mio principale fornitore».

«Portala via lo stesso, nella tua bottega.

La interrogherò con calma».

«Accidenti, di calma ne avrà eccome, sceriffo.

I miei clienti non fanno rumore.

Mi occorre una mano, però...».

La Mitchell è dentro la bara.

Lo sceriffo Maddox e l’undertaker la usano a mo' di barella per trasportarla fuori dal saloon.

Nel frattempo arrivano il dottore e il prete.

«Per questi serve Balm, chiamatelo».

Layla Mitchell è sul letto dell’undertaker, che avendo una sorta di vocazione per il suo lavoro, ha fatto casa e bottega.

Maddox le sta guardando il buco.

E non solo.

«Tu quella sera non potevi esserci.

Ti avrebbero notato...

Ma di sicuro sai chi ha sparato il colpo...

Dimmelo...

Rischi di crepare, lo sai?».

Layla non parla.

«Vuoi dirmelo o no?», le preme un dito intorno al buco.

«Ahh…!».

«Sceriffo…!», l’undertaker fa capolino nella stanza.

«Il figlio… di Cobb… ».

«C’è un vecchio farmacista da queste parti, Ezechiel?».

«Niente del genere, che io sappia».

«Uno stregone indiano, un brujo, ci sono i Crow da queste parti, sulle Badlands…».

«I miei clienti hanno il viso pallido, sceriffo; molto pallido».

«Accatasta un po' di legna marcia sul retro della bottega, allora: devo chiamare qualcuno.

Tu stai buona, hai parlato abbastanza».

In quel momento Maddox intravede la canna di una colt che fa capolino dalla finestra…

Rovescia di scatto la branda ed estrae.

BANG

BANG

Un bandito ha cercato di zittirla, ma l’ha beccato.

BANG

BANG

Ferito, sta cercando allontanarsi, ma lo sceriffo lo fa secco con due colpi alla schiena.

È lui la Legge.

«Fermo!».

E quello obbedisce.

Comunque è la conferma che non gli ha mentito: è coinvolto in prima persona il figlio del capo.

Balm fa di nuovo capolino nella stanza - stavolta molto prudentemente - per capire cosa sia successo.

«C'è un tale fuori dalla finestra che moriva dalla voglia di diventare tuo cliente.

Scontagli il trasporto».

Lo sceriffo sta rimettendo a posto il letto.

La Mitchell è stata scaraventata a terra, ma non ha riportato troppi danni.

«Spiacente per il disagio, ragazza. Ma almeno hai conservato un filo di buccia.

Una volta con i Crow mi è andata bene, ma non posso prometterti nulla.

So solo che così non ne hai per molto».

Annuisce debolmente.

«Hanno veleni molto potenti, che inducono un sonno profondissimo.

Se il sangue si ferma, l’emorragia si ferma, è un principio semplice.

La ferita andrà lentamente a posto, con un po' di fortuna...

Ezechiel, tu le terrai la mano.

Non devi lasciarla mai. Nel profondo sonno, vicina alla morte, avrà bisogno di un contatto con la vita.

Non prenderla anzitempo per una delle tue clienti».

«Conosco il mio mestiere, sceriffo.

Ma cercate di salvarla solo per impiccarla?».

«Non essere drammatico.

Non ha commesso delitti all'interno della mia giurisdizione. E nello spararmi ci ha rimesso lei.

Per me il discorso è chiuso.

Vado ad accendere la miccia, Ezechiel.

E a procurarti un importante cliente».

«Sapete che vi dico, sceriffo?

Dovreste passare più spesso…».

«Non lamentarti. Con il tuo mestiere i clienti non mancano mai.

Ma conserva la bara di Layla per un altro giorno».

GOLDEN CESSA

contro

SBOTTONATA ROSA

di Salvatore Conte (2010-2023)

La corsara era rientrata nella sua lussuosa cabina - nel castello di poppa - dove oro e porpora la facevano da padroni. Era il suo habitat naturale.

Il porpora era il colore del comando sin dai tempi di Didone, le cui vele si gonfiavano controvento, mentre il mare si stendeva piatto intorno alla chiglia vivente di cedro, con le radici a prora che mulinavano l'acqua.

ll suo vascello, lo Squalo di Haiti, incrociava al largo di Cuba.

In lontananza era ancora visibile il fumo rilasciato dal brigantino della Sbottonata Rosa: soltanto un'ora prima, tra le due navi infuriava la battaglia.
Nessun pirata s’era arreso: sapevano che Lauren Sangster non faceva prigionieri.
Golden Cessa era a capo di una variegata ciurma di tagliagole, per lo più composta da negri, indigeni e ispanici.
Lauren non era una corsara, come tanti altri, perché non aveva licenze di comodo da parte di nessun monarca; combatteva solo per sé stessa, ma aveva vincolato i suoi a un patto: nessuna spartizione del bottino, le ricchezze accumulate avrebbero finanziato un ambizioso progetto.
Ecco perché, anche senza licenze, era per tutti la corsara più potente dei Sette Mari.
Un superstite della recente battaglia, in ogni caso, c’era; e si trattava del capo dei pirati, la Sbottonata Rosa, lasciata in vita per offrire un macabro rituale ai pendagli da forca dello Squalo di Haiti.
La prigioniera era legata all'albero maestro del vascello.
Ancora qualche minuto e Golden Cessa avrebbe combattuto a morte contro di lei.

Era un rito, necessario per mantenere il controllo dei suoi uomini.

Ma era anche un gioco, un gioco molto pericoloso, che le metteva il fuoco addosso.

Negli assalti, infatti, Lauren mandava a morire i suoi uomini, rimanendo nelle retrovie. Era molto abile nel preservarsi, e tuttavia non tanto per mancanza di coraggio, quanto piuttosto per un pregiudizio di insostituibilità: chi altri avrebbe potuto prendere il suo posto, nel caso fosse mancata?

Non aveva tutti i torti, in fondo.

Pirati e corsari se ne trovavano in abbondanza; e le belle donne non erano rare. Ma una come lei, nata per dominare, bella come nessuna, e fin troppo audace nei suoi progetti, non si sapeva dove andare a cercarla.

Prima dei duelli fatali che si tenevano sulla sua nave, le vittime designate venivano drogate, in modo che lei non corresse troppi rischi nell'ammazzarle davanti alla sua ciurma.

Sfrenatamente ambiziosa, con le immense ricchezze accumulate in anni di corseria, meditava di fondare un suo regno e si diceva che il sito prescelto si trovasse sulla misteriosa isola di Haiti; altre voci parlavano delle grandi paludi del continente, là dove gli alberi stavano in acqua; e anche gli alberi dello Squalo stavano in acqua, dopotutto.

L’intero equipaggio si era raccolto sul ponte per godersi lo scannamento. La partecipazione di un'altra donna rendeva lo spettacolo ancora più eccitante.

Lauren sapeva cosa offrire ai suoi uomini, e benché la sua avversaria non fosse per niente male, non temeva confronti.

Sapeva di essere la numero uno. Sempre.

Eccola…

Stava arrivando.

Lauren indossava il solito camicione giallo-bruno, scollato a cuneo e stragonfio del grosso seno, come la vela maestra con il vento da prora.

Scosciata e scoppiata, con il fisico sfondato da tanti eccessi, 60 anni pesanti e troppa ciccia: Lauren non faceva mistero di essere una grossa cessa, anzi ci teneva a mostrarlo, a cominciare dalle navigate poppone, per finire a tutto il resto, suggellato da un sorriso sardonico da vecchia mignottona.
Sapeva bene come incantare la sua feccia.

Di fronte a lei, legata all'albero, c’era la sua avversaria: Anna Frazer.

Si trattava di una donna ben fatta, sebbene grassotella; avrebbe combattuto nel suo tipico camicione rosa quarzo (sbottonato fino allo stomaco), il colore da sempre associato alla femminilità: delicato e potente al tempo stesso.

«Sbottonata Rosa... sei pronta a combattere per la tua vita?».

Anna la fissò dritta negli occhi: «Perché dovrei farlo? Sono morta in ogni caso».

Lauren era preparata: «Oh, sì... probabilmente lo sei. Ma non ti alletta l’idea di scannare le famigerate Golden Cessa?».

«Sì, questo mi alletta molto…».

«Bene».

Le girò intorno e la sciolse dai legami.

«Una daga e una sciabola alla Sbottonata Rosa!», tuonò la Sangster.

L’attesa era finita, lo scontro a morte cominciava.

CLANG

CLANG

Le sciabole facevano scintille.

Ma per il momento erano solo schermaglie.

Lauren aspettava che la droga sciolta nell’acqua della prigioniera allentasse i riflessi della sua avversaria.

CLANG

CLANG

La Frazer, però, era tenace, reggeva bene i colpi e non rinunciava a qualche pericoloso affondo.

Un lampo di nervosismo balenò sugli occhi neri di Lauren Sangster.

La piratessa non si piegava e sembrava immune agli effetti della droga. Forse l’adrenalina dello scontro, l’eccitazione di lottare per la propria vita, la stazza, le facevano compensare tutto il resto. Forse i suoi uomini avevano sbagliato dose. Forse l'avevano sbagliata apposta. C'è sempre un traditore nell'ombra.

La paura partoriva mostri nella sua testa.

CLANG

CLANG

I colpi si fecero più pesanti, la sciabola faceva perdere lucidità, se impugnata troppo a lungo.

Lauren provò a risolvere lo scontro, affondando decisa, ma la Frazer riuscì a scartare di fianco con insospettabile agilità.

Qualche mormorio di delusione, e anche di preoccupazione, cominciò a serpeggiare fra i membri dell’equipaggio; senza trascurare qualche segreto impulso di ammirazione per la tenace piratessa.

Lauren era una bella donna, ma non la combattente che voleva far credere. E loro lo sapevano.

CLANG

CLANG

Lo scontro stava durando fin troppo e Anna si faceva sempre più aggressiva; Lauren decise che era il momento di farla finita.

Non vedeva l'ora di affondare la sciabola nel pingue ventre della Frazer e di vederla gemere mentre crepava abbracciando la mortale ferita, lottando per estrarre gli ultimi respiri dal proprio cadavere, rimanendo infine con la bocca orrendamente spalancata, come un pesce fuor d'acqua, lasciando tutti - lei compresa - con il fiato sospeso, in attesa di un ultimo sussulto della Sbottonata Rosa.

Fu così che la corsara moltiplicò gli sforzi per ridurre all’impotenza la pericolosa rivale.

CLANG

CLANG

Le sciabole si sbarrarono l’una contro l’altra, determinando uno stallo.

Fu allora che la Frazer seppe cogliere l’attimo.

SZOCK

Ambidestra, estrasse fulminea la daga e colpì!

Un attimo dopo, l’intera lama era sepolta nel ventre di Golden Cessa!

«Oughh…», Lauren sentì insieme il freddo gelido del pugnale e un fremito di panico che dalle budella le salì in gola: stavolta, dopo tante vittorie, era toccato a lei...

La fortuna l’aveva abbandonata.

Spalancò la bocca, costernata, senza avere il coraggio di guardare né i suoi uomini, né la sua avversaria.

Subito dopo lasciò cadere la sciabola. Impossibile reagire con quella daga in corpo: l'aveva raggelata.

Se trapassata dalla sciabola, avrebbe potuto salvarsi, ma la daga era devastante. Non perdonava.

Nonostante l'euforia, Anna intuì che il lavoro andava finito; Lauren si sarebbe aggrappata alla vita, bisognava impedirglielo: strappò la daga dalla pancia della corsara, ma solo per affondargliela dentro un'altra volta, con ancora più forza e cattiveria!

SZOCK

«Urghh…», Lauren si ingobbì in avanti, con occhi increduli e frastornati, costretta ad accettare il colpo di grazia della Frazer.

Il suo ambizioso castello di sogni stava crollando miseramente.

Si sforzò subito di sapere.

Gli occhi di Golden Cessa strabuzzarono dalle orbite, atterriti, quando capì che i colpi erano mortali, che la piratessa cicciotella l'aveva fatta fuori!

E ancora non la tirava via...

Anzi, la fissava crudelmente negli occhi...

E gliela rivoltò dentro!

Occorreva forza per farlo.

Lauren spalancò la bocca per l'indicibile dolore.

La Frazer aveva infierito come la consumata tagliagole che era!

Soddisfatta, si decise - finalmente - a tirar fuori la maledetta lama dalla sua pancia!

Le aveva regalato una brutta morte.

Uno squalo più cattivo di lei l'aveva fatta a pezzi!

Le mani di Lauren corsero disperate a reggersi le budella, temendo a quel punto che la morte potesse arrivare fulminea.

E intanto guardava ansiosa la mano di Anna, che avrebbe potuto colpire ancora.

«Hai vinto... basta... ti prego...», supplicò senza ritegno, sputando più sangue che parole.

La Frazer si era divertita abbastanza.

Avrebbe sofferto prima di morire.

La corsara, benché scannata, non appena vide abbassarsi la daga, si lusingò di essere ancora in piedi, intravedendo una possibile via di scampo; accentuò quindi la pressione delle braccia intorno al ventre, tentando disperatamente di contenersi le budella.

Lauren era troppo ambiziosa e piena di sé per rinunciare a tutto.

Come niente fosse, piegata in due, barcollò verso la porta che portava sottocoperta, dove dormiva la ciurma.

Si ritirava.

Accettava il declassamento, ma non di perdere la vita.

Qualcuno dei suoi l'avrebbe raggiunta nelle budella dello Squalo e l'avrebbe curata.

Si sfilò il cappello e lo lasciò cadere a terra. Ora apparteneva ad Anna.

C'era quasi.

Poteva salvarsi.

Si illuse di potercela fare.

Ma le gambe non la sostenevano più.

Cadde in ginocchio, lo sguardo deluso, ma ancora ambizioso, che guardava la porta, come se le sbarrasse la salvezza.

Si fece cadere in avanti e cominciò a strisciare sul ponte, come una serpe, spingendo solo con le gambe, le braccia sotto il corpo.

Aveva ancora la forza di stringersi le budella, cercando con ciò di arginare la perdita di sangue, ma il respiro si era fatto sinistramente gutturale.

Lauren boccheggiava come uno squalo spiaggiato.

La situazione stava per precipitare.

La corsara era stata sventrata come un grosso pesce.

Languiva agonizzante sul ponte della sua nave.

Stava perdendo il controllo, malgrado cercasse ancora - a tratti - di reagire.

Era dura a crepare.

Per questo Anna non le aveva lasciato scampo.

Lauren sentì arrivare la fine, ma non voleva morire; si era illusa di aver fatto un buon lavoro fino a quel momento, evitando altri colpi e riuscendo a trascinarsi a un solo metro dalla maledetta porta: sarebbe rotolata giù per gli scalini e di sotto qualcuno l'avrebbe soccorsa; si sarebbe scaldata con del rhum e le avrebbero tamponato come si deve quelle brutte ferite; alla fine, una come lei si sarebbe salvata.

Sorretta dalla forza di volontà, ebbe uno scatto improvviso, riuscì a coprire l'ultimo spazio che la separava dalla porta e ad allungare il braccio verso la maniglia.

La sfiorò per un attimo.

Ma subito dopo ricadde pesante a terra.

Gli occhi spaventati vagarono storditi: aveva fallito.

E non c'era tempo per riprovare...

Spalancò la bocca, ma le mancò lo stesso l'aria.

Due attimi dopo gli occhi si fissarono sul nulla... le pupille fisse e inespressive di uno squalo appena infilato da dieci arpioni.

La bocca rimase spalancata.

L’agonia era finita.

Lauren era crepata attaccata alla porta, inseguendo la sua ultima illusione.

Nei suoi occhi vitrei tutti potevano leggere la tragica delusione per aver sperato invano di poter sopravvivere allo scannamento.

I compagni rimasero interdetti nel vedere Golden Cessa morta ammazzata sul ponte della sua stessa nave.

In due fecero per avvicinarsi; sui loro occhi c’era la stessa espressione perplessa rimasta dipinta sul volto di cera di Lauren.

A quel punto Anna capì che doveva agire in fretta.

E allora gridò all'equipaggio: «Questa nave ha un nuovo Capo!», e per dare forza alle sue parole, raccolse il cappello di Lauren e lo indossò lei stessa.

Quindi si rivolse ai due corsari: «Legatela all’albero, in piedi, con le mani dietro la schiena».

L’ordine, malgrado una fugace titubanza, fu eseguito. La Frazer aveva assunto il comando.

La corsara fu legata all’albero maestro, allo stesso modo della Sbottonata Rosa prima del duello.

Lo scambio di consegne era avvenuto.

Lauren penzolava in avanti a capo chino, con il bustino inzuppato di sangue e pezzi di intestino che le fuoriuscivano orripilanti dalla pancia.

Anna si guardò intorno superba.

«Questo è ciò che accade a chi mi sfida».

L'equipaggio rimase in silenzio.

La nuova Capitana continuò: «C’è qualcuno che ha da obiettare qualcosa?».

Ancora silenzio.

Anche la filibusta aveva le sue leggi e davano diritto alla Frazer di proclamarsi Capo.

Lauren, d’altronde, era ciccia per gli squali, ormai.

Silente nel silenzio, pendeva in avanti senz'anima, come una struttura pericolante, tragica ombra della potente Golden Cessa; la testa affossata nel petto come a confessare la propria sconfitta e distruzione, con il bustino che continuava a sgocciolare sangue e le budella meschinamente in vista.

La perturbante solennità della morte, però, unita al richiamo dei procaci seni - quasi fuoriusciti dalla morbida casacchina bianca e leggermente ballonzolanti a causa dell'involontario dondolio - attizzava la nostalgia della ciurma.

«Bene!

Anche lei non ha nulla da dire...

E allora adesso in pasto ai pesci! Avanti…!», la Capitana cercò di essere convincente e di prevenire eventuali resistenze.

Tuttavia meglio non irridere i morti, non porta bene e i marinai più esperti lo sanno.

I corsari stavano sciogliendo il nodo con troppa premura.

«Largo… si fa così!», la Frazer recise i legami con la daga, anche se ci mise più del necessario; aveva i riflessi appannati, la droga - pur in ritardo - stava facendo effetto.

Il corpo crollò pesante sul ponte.

La faccia di Lauren, a bocca spalancata, era premuta a terra. La Sangster aveva vomitato un grosso grumo di sangue, forse a causa del violento impatto contro la tolda.

«Cough… cough…», banali colpi di tosse… ma singolari per un cadavere.

Lauren si girò sulla schiena e fissò il cielo con sguardo infantile, tra la sorpresa generale.

«Che cosa…?! Questa cagna è ancora viva...!».

La Frazer, inferocita, estrasse la sciabola e si apprestò a infliggere l'ennesimo colpo alla rivale.

Vedere Golden Cessa ancora viva, però, aveva rianimato l’equipaggio.

Anche la filibusta aveva le sue leggi e la Sbottonata Rosa aveva smesso di infierire.

Aveva accordato alla sua nemica una morte sofferta.

Ora doveva accettare l'esito della sua decisione: Golden Cessa aveva lottato bene e se adesso aveva un ultimo sussulto, doveva lasciarglielo.

Non era degno uccidere a sangue freddo, lei stessa aveva avuto una possibilità, sia pure annacquata...

Lauren, nel frattempo, aveva cambiato espressione: anche lei aveva capito di essere ancora viva.

Mentre Anna mulinava la sciabola per distruggerla definitivamente, barcollando sulle gambe, la corsara lanciò uno sguardo ai suoi.

Subito si ritrovò in mano una pistola.

POW

Armò il cane e sparò.

Sullo stomaco di Anna, quasi in mezzo alle tette, sbocciò un fiore purpureo.

Il fiore della morte.

Le mani, però, rimasero serrate sull’elsa della sciabola, la lunga lama indirizzata verso il petto di Lauren.

Crollando rigida in avanti, la Frazer - anche da morta - cercò di spegnere le ultime resistenze della rivale.

La corsara fu tentata di accettare il colpo e farla finita.

La lama stava per abbattersi su di lei, ma all’ultimo momento - lusingata dal gusto agrodolce della vita - si rotolò sul fianco, schivando per un soffio l’estremo affondo della piratessa sbottonata.

«Stupida cagna… sai morire… una volta sola…», l’aspro epitaffio di Lauren, mentre si riprendeva il cappello.

«Uhh... erghh... uhhh...!».

Ma anche la Sbottonata Rosa non mollava le cime facilmente.

Con gli occhi fissi al cielo, vedeva la morte, ma estraeva ancora respiri dal proprio cadavere.

Lauren era affascinata, quasi ipnotizzata, dalla fine di Anna, da quella grossa carne morta.

Era un cadavere eccellente, con il camicione sbottonato teso allo spasimo dagli strazi dell'agonia.

Sebbene i suoi uomini premessero intorno a lei per portarla via e soccorrerla, la corsara voleva gustare l'agonia della sbottonata fino in fondo, quasi dimenticando la propria.

«Non fatela morire...», ordinò ai suoi, prima di cedere ai compagni e separarsi dalla rivale.

I suoi uomini la trasportarono in cabina, nel suo castello, adagiandola sull'ampio letto.

In quei casi si attendeva che il Capo facesse il nome del proprio successore.

Ma Lauren non parlava, limitandosi a tenersi dentro le budella e a vivacchiare ancora un po'.

«Voglio del rhum…».

Beveva. E tanto. Per scaldare il corpo e dilatare la fine.

Stava cercando di mantenere il controllo della situazione, sapendo che quella sarebbe stata la sua ultima possibilità.

Il momento fatale sembrò arrivare quando perse improvvisamente i sensi, piegandosi su un fianco con la bocca spalancata e gli occhi spiritati.

Un’onda di panico attraversò lo Squalo di Haiti.

Si sapeva che sarebbe accaduto, ma ciò non rendeva il fatto meno sconcertante.

Lauren, tuttavia, con l’aiuto dei sali, si riprese: era stato un mancamento.

Non era ancora finita, anche se il tempo stringeva.

«È morta...?», nonostante tutto, chiedeva spesso notizie della sbottonata.

«È finita...?», ma non si riferiva a sé stessa, quanto piuttosto ad Anna; si preoccupava più della fine della piratessa che non della propria.

Sapeva di averla ammazzata e temeva che la fatale notizia potesse raggiungerla da un momento all'altro.

Ormai c'era un vincolo tra loro.

Un pericoloso vincolo...

«Tenete il corpo... sulla nave...», immaginandola cadavere, per evitare che finisse ai pesci.

Aveva in mente qualcosa?

«Maledetta cagna… mi hai ucciso... due volte…», mormorò la corsara, fissandosi nel grande specchio della sua bella cabina.

Nessuno del suo equipaggio osò ricordarle che avrebbe dovuto scegliere il successore.

«È stato... solo un momento... sono ancora io… il Capo…», leggendo negli occhi, con la tipica preveggenza dei moribondi. «Chi... ha preparato... la droga...».

«Buck...», risposero in coro. Di sicuro non sarebbe stato lui il successore.

«Ai pesci...».

Cercava di riportare la disciplina, ma tutti quelli che le stavano intorno sentivano salire alle nari un rancido odore di morte.

«Adesso... via tutti... andate... a farvi una sega...

Voi due... rimanete... per passarmi il rhum...».

Beveva per guadagnare tempo, ma quando si rese conto che il liquore, dopo un po', colava dalle budella aperte, se ne inorridì al punto di smettere.

Non poteva salvarsi, ridotta in quelle condizioni.

Si teneva in vita solo con la sua disperata ambizione; una droga molto potente, ma come tutte le droghe destinata a lasciare spazio alla realtà.

Lauren fremeva sul letto, impotente, disillusa.

Non poteva far altro che aspettare il momento, tenendolo ben nascosto alla ciurma, facendo loro credere che poteva riprendersi.

Nessuno era degno di lei. Non avrebbe nominato nessun successore.

Si sarebbero scannati fra loro.

Solo Anna lo sarebbe stata, ma anche lei doveva morire.

Sentiva la sua paura, la sua disperata voglia di salvarsi, destinata a rimanere una vana aspettativa.

Avrebbe comandato di raggiungere un porto e di cercare un chirurgo.

Fece chiamare il timoniere e impartì la rotta.

Ogni tanto si scostava di dosso le spugne di mare che assorbivano il sangue e si guardava le budella scoperchiate.

«Quella cagna... m’ha scannato… ma ci sa fare...», i due rimasti accanto a lei avevano ormai capito il gioco, ciascuno interpretandolo a suo modo.

Andò avanti così per un po’, dimenandosi sul letto, boccheggiando come uno squalo spiaggiato.

«Ho ancora... il controllo…», diceva ai suoi, mentre crepava.

D'improvviso si ritrovò senza respiro e con le gambe bloccate.

Rantolò rabbiosa cercando di riprendere fiato, non voleva saperne di mollare.

Aveva lottato duramente per tutta la vita, non poteva buttare via ogni cosa.

Con il sangue che le colava da entrambi gli angoli della bocca, continuò a rantolare, raccogliendo un filo di fiato per mantenersi in agonia.

I compagni presenti erano costernati.

Uno di dei due, infastidito dalla scena, uscì dalla cabina, riversandosi sul ponte: «Lauren è morta. Basta. È morta».

Presto fu raggiunto dall'altro, molto più vecchio: «Calma! Calma...».

Ne chiamò un altro con sé.

Ma non biasimò il giovane, aveva ragione.

«Non... è... ancora... arrivato…», la prima cosa che ascoltarono da Lauren.

Doveva riferirsi al momento fatale.

La notte si protraeva lenta, attraverso gemiti estenuati, mormorii d’attesa e sinistri scricchiolii di fasciame.

L’intera ciurma e forse lo stesso Squalo agonizzavano con lei.

Il vecchio corsaro, uscito dalla cabina, fu avvicinato dal compagno più giovane.

«Perché non dici a tutti che è finita?».

«Perché... è come uno squalo... ma respira anche sulla terra...

Guarda laggiù… vedi quelle luci? Quello è Port au Prince.

E laggiù troveranno molto più di un semplice chirurgo...».

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