Non tutte le pallottole vengono per nuocere di Salvatore Conte (2011-2022) La missione di Anna in quel di Malta era ormai conclusa.
Sembrava tutto complicato fino a pochi giorni prima, ma l'Agente 043 non sarebbe stata classificata come uno dei più affidabili freelance al mondo (agenti con licenza temporanea di uccidere), se i suoi standard non fossero stati questi. Aveva fallito solo in Libano, dove a momenti ci lasciava la pelle.
Dissimulata come una tranquilla impiegata un po' puttana, piacevolmente ingrassata, dalla faccia e i modi simpatici, nascondeva in realtà una mente fredda e analitica, e via-via messasi in luce, era divenuta una sorta di punto fermo nell'esclusivo giro del targeting globale. Si narrava nei salotti per bene che il suo sogno segreto fosse quello di diventare famosa, importante e temuta come James Bond, l'Agente 007 del servizio segreto britannico. In ogni caso intendeva sedurlo e dominarlo, in sostanza fargli da succuba. Potevano sembrare due progetti folli, ma almeno il secondo non così campato in aria, a parte il poco tempo rimasto per portarlo a termine. Nel giro si diceva che Bond avesse messo gli occhi sulle sue foto, e che fosse rimasto colpito dalla carne grassa, i camicioni sbottonati e l'aria da immortale, suffragata dalle pallottole davvero brutte digerite in Libano.
Si diceva anche che fosse stanco di fare il donnaiolo e cercasse un grosso donnone, anche stagionato, per mettersi a posto per sempre. Da qui l'interesse per Anna Frezzante e la sua storia (era stata capace di gestire diverse pallottole nella fallita missione in Libano); e in particolare per la sua aria da mignotta di classe, le tette di lusso e il grasso extra che conferiva imponenza alla figura e riempiva bene il famoso, ormai iconico camicione; nel numero di licenza della Frezzante c'era chi intravedeva una curiosa corrispondenza proprio con quello: 4 erano infatti i bottoncini tenuti lenti, 3 quelli chiusi, in una sorta di alchimia dei bottoncini, finalizzata a mostrare non troppo segretamente due belle tette da bagascia, un passepartout prezioso in diverse missioni.
Indossava il tipico camicione, sbottonato aggressivamente nel solito modo: le piaceva molto dare nell'occhio e in testa; e poi farsi credere una banale puttana di lusso la metteva al sicuro. Tossì convulsamente, sbavando sangue. Non era mai riuscita a smettere. Stizzita, smorzò la sigaretta nel posacenere. Ne aveva per poco, meglio non concedersi certi lussi. Dopo l'ultima aspirazione, i polmoni si stavano di nuovo riempiendo di liquido.
Ogni due settimane le aspiravano dai quattro ai cinque litri
di versamento pleurico. Eppure lavorava ancora. Un po’ per distrarsi, un po’ per raccattare gli ultimi soldi; secondo qualcuno, per prendersi la pallottola giusta e chiudere i giochi con un gran finale tragico, prima di dover marcire attaccata a qualche tubo. Chi la conosceva abbastanza, raccontava però che Anna non si fosse ancora arresa. Forse lo faceva per mettersi in mostra con James. Avrebbe certamente saputo della sua missione.
Doveva dimostrargli di non essere finita e di essere
l'unica donna adatta a lui.
Lei e Suxana occupavano una suite.
In fondo le avrebbe fatto un piacere.
(FLOP)
Delusa, si preparò a ricevere la reazione dell'obiettivo; dopo mezzo
secondo, infatti, si sentì afferrare alla gola: «Brutta puttana… t’ammazzo…!»,
le ringhiò sul collo Anna, facendole mollare la pistola. Suxana cercò di divincolarsi.
Ne scaturì una lotta selvaggia, nella quale
sembrò prevalere l’istinto femminile, piuttosto che
l’addestramento tecnico delle due professioniste.
La Frezzante si guardò intorno, disperata. Non aveva vie di fuga. «No..! Aspetta...! Dimmi perché!», la paura negli occhi della Frezzante, e quella curiosità finale, tutta femminile.
Ma non ci furono né pietà, né risposte.
Suxana le scaricò addosso
tutto quello che rimaneva nel serbatoio. In
ogni caso ne aveva per poco. Ma
sei tu che devi dirmi come hai fatto a capire...».
"Stai per ammazzarmi?", sembrò chiederle - con gli occhi - la potente Anna Frezzante, intontita a causa della poca aria che le arrivava al cervello. Anna era come un castello di carte che poteva crollare al primo alito.
Suxana toccò il vertice della follia quando si mise a leccare il sudore freddo di Anna, che si incuneava nel camicione allentato, da grandissima puttana.. «Perché hai puntato troppo forte e troppo in alto: eri diventata un pericolo». Una risposta che giungeva ovattata alla stordita mente di Anna. L'uccello di Bond un boccone troppo grande: forse sarebbe stato meglio essere chiari, in un'occasione come quella. «Era... la... mia... u-ultima... mi-missione...», i penosi rantoli della morente, che però, in fondo, era stata vicina a far centro...
Suxana alzò gli occhi dal cellulare e pressò con più convinzione l'asciugamano. Pochi minuti dopo un’ambulanza trasportava all'ospedale, in un bagno di sangue, l'agonizzante Anna Frezzante, Agente 043. Nel giro è consentito chiedere un break per il nemico che si è battuto bene. Un codice di sopravvivenza per non sfoltire troppo i ranghi della categoria; alla maniera dell'antico pollice retto. E la vecchia gladiatrice intanto prendeva tempo e si attaccava all'ossigeno: poi sarebbe venuto il tumore e infine lui. In fondo, a Malta, era stata la sua quartultima missione. vengono per nuocere di Salvatore Conte (2011-2022)
George arrivò puntuale, ma il socio, Patrick, non apriva. George era infatti in compagnia della sua donna, una costosa bagascia da cui s'era fatto prendere la mano; imbolsita rispetto agli anni migliori, rimaneva pur sempre una gran puttana col fascino della vecchia troia, e lui non poteva farne a meno; spendeva molti soldi per mantenerla in tiro e allentata, sempre sbottonata per lui e per i suoi amici, se pagavano bene. Aveva puntato forte su di lei.
Patrick si era beccato un’indigestione di piombo caldo ed era messo piuttosto
male; poiché era socio al 50% con George, la faccenda interessava anche lui. La cosa
sembrò spazientire la sua donna, la grossolana Dara, un puttanone sfondato che superava i
50, che non perse l'occasione di mettersi in mezzo, in maniera alquanto petulante: «Non vedi
che il tuo amico è fottuto? Vuoi fargli compagnia all’inferno, George?
Dobbiamo andarcene via subito, capisci? Questi bastardi potrebbero tornare e
farci fuori. E io non voglio rimanerci secca, capito? Per quanto ancora vuoi
imboccare questo imbecille?». Con
un'espressione malata, allucinata, sul volto
gonfio da vecchia cessa, la super cinquantenne estrasse dalla borsetta una calibro
38 e la puntò contro Patrick. BANG Il mignottone cadde sulle ginocchia con lo sguardo allibito: «Come hai potuto... mi hai fottuto…!». La donna cercò di riorganizzare i pensieri. Si era fatta fregare come una stupida. Era sicura che George non l’avrebbe toccata, e invece le aveva piazzato addosso due pallottole. Il troione si sentì perduto, lui sembrava indifferente. Dara mollò la calibro 38. George, a questo piunto, non avrebbe esitato a spararle ancora, a freddarla, se necessario. Quindi crollò sul fianco e rimase a contorcersi sul pavimento, con entrambe le mani a tamponare i buchi in pancia. Un sinistro rivolo di sangue le colava dal labbro. «Ben fatto… George… era una puttana… spremuta... finita...», infierì Patrick. «Non era finita...», l'eccessivo livore sugli anni di Dara lo irritava. Si controllò. «Ora veniamo a te, amico mio. Raccontami tutto, poi andremo all’ospedale». A fatica, tra molti stenti, Patrick ricostruì i fatti. George rimase a pensare in disparte. Si era completamente dimenticato di Dara e solo in quel momento realizzò che la sua donna aveva smesso di lamentarsi e singhiozzare come una scrofa al macello. E che nel soggiorno non c’era più. Motivo in più per sbrigarsi, pensò George… BANG Si portò alle spalle del suo socio e lo freddò con un colpo alla testa. Tanto non sarebbe sopravvissuto. In fondo aveva ragione Dara. Ora poteva occuparsi di lei. Non fu difficile seguire la scia di sangue che s’era lasciata dietro, strisciando sul pavimento della casa, ventre a terra. Era perfino riuscita a varcare la porta e uscire all’esterno… George si fermò sull’uscio: Dara era arrivata a pochi metri dalla sua auto, in sosta sul piazzale della villetta. Lì, però, s’era fermata. George la osservò dalla porta di casa: era immobile, con la faccia affondata nel ghiaietto. Aveva raccolto le forze e si era illusa di poter trovare una via di scampo: c'era tutta la sua Dara in quell'azione, disperata e arrogante insieme. Vedendola sconfitta e ormai cadavere, l’uomo ebbe un sussulto, un moto di rimpianto. Dara era ancora un donnone, poteva durare altri anni; non per niente se l’era messa vicino senza badare a spese… Non era ancora finita la sua Dara. Tuttaltro. C’era andato giù troppo pesante. Lei aveva cercato una via di scampo. Fino all’ultimo. Ma non l’aveva trovata… George si avvicinò alla sua donna e ne rovesciò il corpo. Dara era supina adesso: il volto stinto in un pallore cadaverico, la bocca socchiusa, i capelli biondi sparsi sulla faccia, le braccia inerti; e due occhi neri che lo fissavano con inappellabile lampo di condanna, quasi a fulminarlo, se solo avessero potuto… Ancora non aveva capito se fosse viva o morta. Si allungò, toccandole la carotide: respirava, ma debolmente, non ne aveva per molto. George fu scosso dal rimpianto. “Come hai potuto, mi hai fottuto”, gli aveva detto, un attimo dopo gli spari. Aveva capito subito che era finita; anche se c'aveva provato fino all'ultimo. Il rimpianto cresceva di secondo in secondo, ora che la sua donna stava crepando. George non resistette più. La prese tra le braccia e cercò di scuoterla. «Dara... mi dispiace...», e le fece ingurgitare un cicchetto di whisky. La donna mugolò dall'oltretomba della sua disperazione. «Okay... non sforzarti, tesoro. Non è ancora finita. Hai sbagliato a provocarmi, ma ti amo lo stesso. Adesso ti porto da un dottore, dal migliore. Da Jenkins…». Il dottor Jenkins era un chirurgo che non faceva troppe domande; ed era anche molto bravo; ma costava un occhio della testa. La caricò in macchina, sul sedile anteriore; quindi si diresse verso la clinica. Imboccò una curva verso destra ad alta velocità e il corpo di Dara gli si afflosciò addosso. Superata la curva, se la scrollò di dosso senza tanti complimenti: la testa della donna andò quasi a finire contro il finestrino. «Cristo... reggiti, Dara! Non farti fottere, troia... io non ci credo che ti fai fottere!». Passarono un paio di minuti e George accostò a destra, portandosi all’interno di un’area per la sosta, buia e isolata. Si fermò a osservare la sua donna. La clinica di Jenkins era dietro l’angolo, ma quanto gli sarebbe costato? Era necessario spendere tanta grana per quella puttana? Alterni pensieri confliggevano tra loro nella mente sovraeccitata. La suoneria del cellulare lo distolse: una chiamata anonima, solo un paio di squilli, George non rispose. Ormai aveva deciso. «Ascolta, pupa… il tuo fascino da mignottona mi piace un sacco, lo sai… Ma temo che per te sia finita, bellezza». E le premette la canna della calibro 45 contro il fianco. Dara trasalì atterrita. «Prima… l’ultima pompa…». «E perché no? Tu me lo tiri anche da morta, Dara...». La calibro 45 rientrò nella fondina ascellare mentre la pistola di George entrava nella bocca della donna. L’uomo si sentì cullare dalla delizia di quel servizio senza eguali; l’ultimo atto della sua bella puttana. Quando Dara sentì che il culmine stava per arrivare, si infilò la mano nella tasca del jeans… Bang Gli sguardi si incrociarono… Bang Dara crollò sul sedile. George si piegò sulle sue cosce, come a cercarle la fica. Improvvisamente una moto di grossa cilindrata con due persone in sella affiancò l’auto e un’automatica silenziata fece esplodere il finestrino di guida: un attimo dopo la canna della pistola era all’interno dell’abitacolo. «Ho interrotto qualcosa?», lo sconosciuto si presentò così. «Ehi, George, non riesci proprio a staccarti dalla tua bella puttana, vero?». Il sicario, che indossava un casco integrale, aprì lo sportello e separò il corpo di George da quello di Dara: l’uomo aveva un buco al cuore e un altro nel basso ventre, entrambi prodotti da un’arma di piccolo calibro; la donna aveva due buchi in pancia e stringeva nella mano una derringer ancora fumante. «Chi ti ha sparato?». La donna era terrorizzata. «Non farlo… non ho visto niente… ti prego…», e lasciò cadere la derringer, come se fosse ancora carica. «Ti ho solo chiesto chi ti ha sparato…», in tono fermo e rassicurante. Lei indicò con gli occhi il cadavere di George. «È per questo che lo hai ammazzato?». Annuì. «Ti prego… non uccidermi…», col sangue alle labbra, come se non fosse già morta. Avrebbe implorato ancora, ma non ne ebbe il tempo. «Farò estrarre i tuoi proiettili, e se apparterranno alla pistola di questo infame, allora sarai salva; ma se mi hai mentito, verrai eliminata...», sentenziò l’uomo con il casco. Un attimo dopo fece capolino il suo compagno di sella, anch’egli travisato: «E della donna che ne facciamo? Non va liquidata?». «Non è necessario. È pulita, la prendiamo noi. È una vecchia troia, ancora importante e con un certo prestigio. Ci farà comodo. La clinica di Jenkins è proprio qui dietro; forse è lì che stavano andando, prima che George decidesse di farla finita. Ma dobbiamo muoverci. Occulta il cadavere e raggiungimi in clinica. Hai capito, bella? Le pallottole che hai in corpo possono ucciderti, ma anche salvarti…». «E il conto di Jenkins chi lo paga?», obiettò il compagno. «Se lo pagherà da sola, è un bel pezzo...», fu la tranquilla risposta di Billy Hudson, socio dell’azienda a cui la “George & Patrick” aveva fatto concorrenza sleale.
Un paio d’ore dopo, due pallottole calibro 45 venivano estratte dal corpo di
Dara; furono portate a Billy, il quale ne constatò l’eguaglianza con
quelle rimaste inesplose nella pistola del defunto George. «Forse sì, forse no, Jack; certo ce l'ha resa più simpatica. Dal suo punto di vista è stato un curioso colpo di fortuna. Lo sai come si dice in questi casi...?». di Salvatore Conte (2011-2018)
Claudia Messalina non mancava di coraggio. Fallito il complotto che l’avrebbe fatta Imperatrice, vistasi perduta, non esitò ad afferrare il gladio.
La sua villa era sotto assedio. Nessuna speranza. I suoi ultimi uomini andavano
verso la sconfitta. Quasi tutti i servi erano fuggiti. Fabio Massimo era ormai
sulla soglia. L'aveva incubato tutto, come le grandi dell'antichità.
Gli
occhi rotearono impazziti, consci della fine. Le mani continuavano a stringere
il gladio fatale, bagnate dal sangue schiumante. I seni procaci, estremi segni di potenza, gonfiati al
massimo nella tensione della fine, agitavano inquieti la tunica chiara, con lo
scollo aperto, che
s’era lordata della fatale ferita. Il suo gladio era
rimasto asciutto.
Si era colpita col ferro, di propria mano. Una folla di curiosi si
avventò verso la sua villa. Non mancavano i suoi numerosi sostenitori, che erano
costretti a mascherare la propria angoscia. Si chiedevano particolari macabri,
si cercavano notizie di prima mano, si chiedeva chi l’avesse vista uccidersi. E
soprattutto, tutti volevano vederne il corpo. La cosa cominciava ad
annoiarlo.
Era finita.
Intanto, agitando nervosamente il corpo, cercava di non scoraggiare i tentativi
dei servi, i quali continuavano a tamponarle la ferita e a cambiare le bende.
Vedeva i servi
alternarsi su di lei, con facce torbide che la osservavano come fosse già
morta. Quelli che rimasero
diedero alle fiamme il corpo di una donna morta nei tumulti. Uno di loro, per somma devozione, si lanciò egli stesso tra le fiamme. Gli altri avrebbero rischiato la morte.
La folla accorse nel cortile e serpeggiò la notizia che la congiurata
fosse salita sul rogo come le grandi dell'antichità.
Ma gli altri erano intorno a Claudia Messalina e non potevano gioirne: «Perché così in
fondo, Domina?», chiese uno di questi, quasi con risentimento. «Presto! Ha bisogno di aria, di vedere la Superba Karthago!».
La Città di Elissa. Anche se la Collina di Byrsa non c'era più, il suo Carro stazionava sulla punta più alta dei cedri sidonii, ormai millenari.
Cartagine era in vista. Quelli dei servi spaziavano tristi sul mare. Il gladio era andato troppo in fondo.
Videro un punto nero, molto veloce,
avvicinarsi da Cartagine. Il vento, che lo inseguiva vanamente, sembrò sussurrare il nome della Regina.
Non tutti potevano sentirlo. E si sporse dal letto per vederla. di Salvatore Conte (2011-2022) Avevano pensato a tutto, fuorché all’essenziale.
Ormai Monica era impazzita, ma anziché abbassare la testa, aveva alzato la pistola. Era una Kel-Tec P-3AT, calibro 38, con caricatore da sei colpi; ultra-leggera, una delle più piccole pistole al mondo, ma devastante a distanza ravvicinata. Un’arma difensiva, concepita per le donne. Era infatti una mano di donna quella che l’impugnava. Burt era sorpreso, ma non perse la sua sicurezza: «Tu ora mi darai quella pistola… Monica…». Si avvicinò di tre passi, lentamente. Forse fu proprio quel modo infantile di chiamarla, quello sminuirla, quel sottovalutarla che fece definitivamente esplodere la sua ira… Burt si irrigidì, sbigottito. Un attimo dopo crollava in avanti, fulminato. Era stato raggiunto al cuore. Lo sguardo di Terry si riempì di terrore. Ora sarebbe toccato a lei. E da cacciatrice, non era abituata a essere preda. Ambiziosa e tracotante, forte di una bellezza intossicante, si sentiva la numero uno incontrastata. Bella e formosa, era effettivamente un pezzo unico e molto ambito, sebbene anche questa volta si fosse lavorata un perdente. «Calmati, Monica… tu non lo farai… abbassa la pistola... ti prego…». Ancora ordini, ancora presunzione, inganno... Quella bellezza così arrogante... di fronte a lei... alla canna della sua pistola... ridotta quasi sul lastrico... alla sua mercé... E poi quella paura mortale negli occhi... così piacevole da gustare... una scintilla fatale nella mente combustile... Monica la fissò dura, stava per sparare ancora… «No, Monica... no!», l'ultimo, disperato tentativo. Non appena Terry ebbe finito di supplicare, partì il colpo!
Venne raggiunta alla spalla, in un punto non vitale, ma il violento contraccolpo e l'impressionante schizzo di sangue la fecero sentire morta. Credeva di essere rimasta uccisa. Ma se le avessero detto che quello era solo un colpo d'assaggio... Se le avessero detto cosa poteva fare quella piccola pistola, sparando in una spalla, una pancia o una schiena... La Kel-Tec era devastante fino a 10 metri. La potente Terry - scossa dal colpo e spinta a roteare su sé stessa - offrì la schiena a Monica...
La seconda pallottola la colpì alle reni! Sussultò violentemente, inarcando la schiena; quindi, con gli occhi stregati dalla paura, tornò a offrire il petto. Era terrorizzata, sentiva gli artigli della morte calare su di lei. Prima d'ora, si era sempre sentita invincibile. Terry sapeva che Monica, a quel punto, non poteva più fermarsi. Non ebbe nemmeno il tempo per supplicare.
Il terzo colpo la raggiunse all’addome! Era uno stillicidio! Si inarcò all'indietro contro la parete, tormentata dall'ennesimo proiettile: era come sentirsi messa in croce. In quel momento, però, intravide il passaggio e scattò l’intuizione. Era l’ultima possibilità. Ricordò a sé stessa di essere un'invincibile. Doveva tentare il tutto per tutto: scendere dalla croce e resuscitare a vista. Quella porta conduceva al garage… e Monica era ormai convinta di averla spacciata… Terry si buttò in quella direzione, con la mano pressata sull'addome, spinta dalla forza della disperazione e dalla volontà di rimanere potente... il buco era vicino al fianco, non l'aveva fulminata... quella troietta non sapeva sparare... ancora un colpo di fortuna... e lei l'avrebbe sfruttato per salvarsi... BANG BANG Click! Gli spari furono intempestivi. E i colpi erano finiti. Terry barcollava andante. Eccitata allo spasimo, intravedeva un'insperata via di scampo. Non sarebbe finita come lui.
Pensava solo a raggiungere la salvezza. Monica era basita dalla resistenza di quella puttana: le era sgusciata via come la serpe che era. Ma non sarebbe andata lontano. Non valeva nemmeno la pena di inseguirla. Terry azionò il comando della saracinesca e schizzò fuori dal garage con l'auto di Burt. «NON ANDRAI LONTANA, TROIA!», le urlò contro Monica, mentre la macchina sgommava impazzita. «Cagna... non mi avrai...», rispose Terry tra sé, convinta di sfuggire alla morte. Raggiunse la strada principale e puntò verso la città. La nebbia le calò sugli occhi, fu colta dal panico, accelerò ancora, doveva far presto, le forze la stavano lasciando. Intravide delle luci rosse, spinse sul gas per accorciare la distanza e tamponò bruscamente l'auto che la precedeva. Quindi aspettò ansiosa che il conducente si avvicinasse per chiederle i documenti e gli estremi dell’assicurazione; la strada intanto le girava intorno. «Ma insomma... non mi ha visto? Allora... cosa fa? Non scende? Guardi che se non scende, io chiamo la Polizia…». Stizzito dall'inerzia della controparte, aprì egli stesso la portiera. Il corpo di Terry si rovesciò di schiena sulla strada, le braccia allungate all'indietro, le gambe ancora nell’abitacolo; gli occhi sbarrati, rivolti anch'essi all'indietro, due larghe macchie di sangue che spiccavano sul vestitino scollato, una sulla spalla, l’altra sull’addome. «No...», mormorò con un filo di voce, pressata dalla morte. Una scena impressionante. Si fermarono diverse vetture, intorno al corpo di Terry si formò un capannello di curiosi. Fu chiamata un'ambulanza. Insomma avevano pensato a tutto, fuorché all’essenziale. La loro stessa macchinazione gli si era ritorta contro. La regia del destino era stata implacabile. E ora la bella Terry stava giungendo cadavere in ospedale, stroncata da una Kel-Tec ultra-leggera calibro 38. La Commissaria Ianni, dal canto suo, stava arrivando al nosocomio per interrogarla, qualora avesse ripreso conoscenza. Chissà perché, ma la poliziotta - quando la vide - si sentì particolarmente coinvolta. Le sembrava di aver preso lei quelle pallottole. E aveva paura che da un momento all'altro le appuntassero un lenzuolo bianco sulla faccia, vista la fretta, un po' artificiosa, con cui la trasportavano in sala rianimazione. di Salvatore Conte (2012-2021) Mi ero andato a infognare con questo costoso troione americano, Kelly Madison... Si era messa in testa di fare l'Americana a Roma, ovviamente a mie spese. Tutto quello che voleva, se lo prendeva. Adesso, però, mi aveva stancato. A sessant'anni era ormai una mummia, anche se cercava di tenersi; soprattutto si sbottonava sempre di più... per compensare gli anni e avere l'ultima parola su tutto. Giocava alla Bella Zoccola addormentata sul Divano. E io ci cascavo sempre. Non faceva altro che non fare un cazzo. E di tutto questo se ne vantava pure, su Fregnacce Romane, Il Venticello e le altre riviste del nostro popolare quartiere, senza paura di farsi ritrarre logora e consumata, quasi ridotta a una megera, ma sempre con indosso la sua camicetta americana a scollatura profonda, perché convinta di piacere comunque, di essere per certi versi immortale.
Come se non bastasse, sapeva fare di peggio:
Kelly mi tradiva. «Allenta la camicetta e vieni con me al negozio», le dicevo prima di scendere, perché molti clienti, anche donne, compravano con più gusto quando c'era lei dietro al banco; secondo me, spesso tornavano solo per rivederla e farsi dare il resto. Una volta, un ragazzo comprò tre pacchetti di sigarette a distanza di un'ora circa l'uno dall'altro. E tornò anche il giorno dopo. E non credo fosse un fumatore tanto incallito. E poi ci fu quello che giocò al totocalcio, e che tornò poco dopo per l'enalotto, e ancora più tardi per altre due colonne al totocalcio. E questo qui tutte le settimane giocava sempre più forte. Forse sognava di portarsela via. Mi avrebbe fatto un piacere. Di sicuro questi clienti si sarebbero serviti altrove, là dove fosse loro capitato in giro per Roma, ma con lei al banco compravano soltanto da me.
Kelly era una gallinaccia dalle uova d’oro. Non sono venuta fin qui per farmi ammazzare, altrimenti sarei rimasta a casa mia...», certo che il Libano era quasi peggio di Roma a quei tempi. Però i soldi facili le piacevano, eccome. «D'accordo, riposati. A stasera, amore...», e mi masturbavo nel bagno del negozio, al solo pensiero di ritrovarmi una fica del genere dentro casa. Carismatica, zozza, burrosa, il classico donnone fuori dalla portata dei più. Dotata di una sensualità inquietante, spontanea, selvaggia, e di forme grassottelle, ben tornite, a volte mi sembrava una cagna, oltre che una vacca. Concetti che ritenevo scurrili, fino a quando non mi capitò di leggere, poco prima della chiusura, qualche brano di una commedia di Aristofane...
Santia: Tremendo: di tutte le forme, diventa. Prima una vacca, adesso un mulo: poi una ragazza, bellissima! Dioniso: Dove è? Mi butto subito! Santia: Non è più donna, è diventata una... cagna! Dioniso: Allora è Empusa! Empusa...? "Le Empuse assumono l’aspetto di cagne, di vacche o di belle fanciulle, e in quest’ultima forma giacciono con gli uomini la notte o durante la siesta pomeridiana e succhiano le loro forze vitali portandoli alla morte", trovai scritto in un libro di Robert Graves. Insomma una come Kelly era conosciuta da tempo immemorabile: una vamp succhia-sangue a tutti gli effetti, da mandare in tilt perfino Dioniso; e con l'aggravante di possedere una terza forma: quella di una bagascia mummificata. Possibile che Aristofane la sapesse così lunga? E io che la consideravo una semplice troia! Vivevo da tempo con un'empusa dagli occhi neri come la morte, ma lo scoprivo soltanto adesso... Sì, un'empusa. Però quando seppi che mi tradiva nelle stesse ore in cui ero alla cassa senza di lei, rischiando pure di finire ammazzato al posto suo, beh... allora... persi la testa. Lei, in fondo, alla cassa sarebbe stata al sicuro, perché alla vecchia Americana chi avrebbe osato sparare? Io invece dovevo stare attento.
Ma lei preferiva farsi sbattere a domicilio.
Non l’avrei fatto personalmente, non ne sarei stato capace, ma l’avrei fatto
fare.
Avrei potuto usare la rivoltella e con quella crivellarla di colpi. Non quella
denunciata, ovviamente. A Roma se ne trovano tante senza numero di matricola. Ma non
ero sicuro se - dopo aver visto il primo sangue - avrei premuto ancora il grilletto; se
fossi riuscito a portare a termine il lavoro, una volta cominciato. Lei che si
dispera, lei che non vuole morire... avrei ceduto, e le avrei chiamato
un'ambulanza. Gli indiani sono facili ai coltelli.
E doveva avvenire davanti a me, in una rapina finita male, come ce n'erano
tante. Il mio porto d'armi era limitato alla tabaccheria. In uscita di piacere
non avrei potuto difenderla. La portai al cinema, all’ultimo spettacolo. Davano un film di Maurizio Merli. Avevo parcheggiato in una zona poco illuminata; ero abbastanza certo che non avrei trovato un posto migliore e il destino mi diede una mano; in ogni caso, avrei fatto finta di non vederlo, distraendola con la promessa di un regalo. All’uscita dalla sala volle bere qualcosa. C’era un bar ancora aperto. S'era messa la solita camicetta bianca da vecchia zoccolona, sbottonata fino in pancia. Decrepita, incarognita, rugosa, mummificata, ma ancora bona. Nonostante gli anni addosso, era sempre una gran puttana, niente da dire. Il barista lasciò gli occhi dentro la scollatura. «Ci vorrebbe davvero un tipo così... lo sai? Parlo di quel Commissario...». «Sì, ho capito. Fra le tue cosce o in giro per Roma a mantenere l'ordine?». Forse per la prima volta sospettò che io sospettassi.
«Un altro...». «È buio qui...». «Anche prima lo era, no? Stai tranquilla, amore, ci sono io».
Proprio in quel momento,
l’indiano uscì fuori dall’ombra, con una calza da donna sul volto, e mi ferì una
mano col coltello. La Americana si stava sgonfiando sotto i miei occhi.
Aveva finito di ridere alle mie spalle, ora
rimaneva uccisa...
L'assassino era in qualche modo ostacolato dal
grosso seno spiovente dell'Americana.
Qualcuna frettolosa, poco più d’una puncicata, qualcun altra a tirar via, tipo ‘na
romanella, ma pur sempre 23 coltellate nella panza della Americana, Cristo Santo!
La zoccolona era seduta a terra contro il muro, a gambe larghe, la bocca aperta e la lingua
arricciata sotto il palato…
Molto sexy mentre crepava, senza dubbio.
Recitava bene, come le migliori attrici, ma a differenza di queste non fingeva.
Anche quell'accusa indignata mi ricordava
qualcosa...
Io mi finsi sotto shock, forse lo
ero davvero.
L’ambulanza arrivò a sirene spiegate.
«Salga, dottò... che su' moje
c'ha fretta...». Per fortuna, a stento di equivoci, la attaccarono subito al respiratore artificiale dell’ambulanza. «Come sta?». «L'hanno spanzata de brutto... nun se campa più al giorno d'oggi... Ma ce vo' provà a tutti li costi... nun molla... Però se dovemo da sbrigà, dottò... oppure ce crepa dentro l'ambulanza... C'ha qualche anno su' moje... ma è bona forte...».
Le presi la mano, lei la strinse: la mia donna
non voleva morire, accettava qualsiasi aiuto. Alla fine le coltellate erano arrivate, diverse delle quali mortali. Poteva soltanto spremersi per guadagnare un po' di tempo e non fare la figura di quella che veniva caricata sull'ambulanza con il lenzuolo in faccia. No, il lenzuolo ancora non ce l'aveva.
Mentre l’ambulanza correva all'impazzata, mostrava ancora qualche segno di vita:
Kelly si
contorceva nella sua agonia e usava gli occhi, non potendo usare la bocca. Erano
spalancati, atterriti, e soprattutto cercavano di farsi rimpiangere... Era inutile provarci ancora.
E poi non aveva tempo. Gli occhi guardavano gelati il nulla, la mano si staccava dalla mia. Ormai non potevano più esserci dubbi: sarebbe giunta cadavere. Ma mentre pensavo questo, ebbe un sussulto: riusciva flebilmente a stringere. Nel suo cuore di troia, sapeva perché moriva sbudellata, e forse mi stava chiedendo perdono. Lo apprezzai. Anche dalle sue parti c'era una lunga tradizione di coltelli in casi come questo. In patria non avrebbe ricevuto un trattamento migliore. Le strinsi la mano con più convinzione. L'avevo perdonata, nonostante tutto. O forse si aggrappava semplicemente a me, nel tentativo di arrivare almeno in ospedale, sapendo che non avrei infierito su di lei. Però mi piaceva questa sua voglia di tirarla per le lunghe, era una puttana dura a morire. Io sarei morto al solo pensiero di riceverle, quelle 23 coltellate... Intanto, fra questi pensieri, l'ambulanza aveva inchiodato. Eravamo giunti.
Anche se era chiaro che non la salvava
nessuno.
Certo che se non avesse avuto la mano così
pesante... forse la mia donna non si sarebbe lasciata fregare, ma ormai era
inutile starci a pensare. L'Americana aveva ricevuto il fatto suo.
Adesso era un cadavere in barella.
«Tu non potresti mai uccidermi», mi disse, sicura di sé, a un
centimetro dal filo della lama, con le zinne impettite che gonfiavano la
camicetta.
«Se devi farlo, fallo qui:
infilzami, trapassami...», e si buttò sul divano,
aprendo le cosce e stirandosi addosso la camicetta. «Ammazzami, presto! Voglio
sentirmi morire».
La zoccolona entrò in coma e vi rimase per diversi giorni.
Ormai poteva tradirmi solo con un infermiere necrofilo. O Cassio e Bruto erano anche loro di sangue indiano, oppure era questa città che chiedeva sangue a fiotti e spingeva congiurati e assassini a esagerare. D'altronde, la stessa Kelly era una troia esagerata e l'indiano si era adeguato. Quanto a Cassio e Bruto, in realtà avevano colpito una volta ciascuno, per condividere la responsabilità di un immane delitto e al tempo stesso rivendicarne il merito, in solido con molti altri congiurati. Ma io, a differenza loro, non ebbi la sfortuna di imbattermi in un novello Marco Antonio che sobillasse la Città contro di me. Tuttaltro.
La Polizia si dimenticò presto di me: una semplice rapina, finita neanche troppo
male, non interessava a nessuno di quei tempi, non faceva notizia.
Ma stavolta divideva con me i soldi che succhiava ai suoi amanti. Invecchiata, logora, però eterna, indistruttibile.
Kelly come l'Empusa, esperta mangiatrice di uomini. Lettore, se vuoi conoscere l'attrice che ha ispirato questo racconto, clicca qui. Il racconto è un tributo alla sua bellezza, carisma, personalità. Gli aspetti negativi sono introdotti per mere esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico. Il ruolo della protagonista va assimilato a quello dell'attrice rispetto a un film. La devozione alla persona in questione, da parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta. di Salvatore Conte (2016-2021) «E di Frentzen-Babe, che mi dici?». «L'hanno fatta fuori». «Sei sicuro? Quella non l'ammazzi al primo colpo». «Infatti... Ma io l'ho vista con i miei occhi mentre la trascinavano per i talloni - le braccia inerti allungate dietro la schiena - ammucchiandola con indifferenza sugli altri corpi. Aveva diversi buchi sulla camicetta: senza dubbio s'è mangiata una raffica e le è rimasta sullo stomaco... Non ha avuto scampo». «L'hanno ammazzata per ucciderla? Per farle la pelle, insomma? O è stato un incidente?». «Questo non lo so. Ma posso informarmi». «Fallo. Voglio sapere chi l'ha uccisa e perché. Potrebbero essere stati gli iraniani, o i cinesi; o anche i russi. La Frentzen era scomoda. Ma lavorava soprattutto per noi. E cerca di recuperare il cadavere. C'è chi pagherà per averlo e tu avrai la tua parte». Rod Wallace torna sulla spiaggia dove le fazioni somale hanno ammucchiato i cadaveri, dopo il sanguinoso regolamento di conti. Il corpo della Frentzen, però, non si vede più; e non sarebbe difficile da riconoscere. Malgrado i cinquantanni e i tanti chili in più addosso, si trucca ancora come una bambola, la camicetta è sempre sbottonata, così da farsi vedere le tette, e le piastrine di riconoscimento (perfettamente inutili) ci vanno a penzolare sopra, entrando nella scollatura: mozzafiato.
Nessuno aveva mai osato toccarla. «Il corpo non si trova, è sparito dal mucchio dei cadaveri, ma ho preso informazioni e so con quale gruppo si muoveva la Frentzen negli ultimi giorni. C'è stata una contesa tra fazioni e si sono sparati addosso. Durante la tregua hanno radunato i corpi sulla spiaggia. La Frentzen, dopo aver perso diversi uomini, è stata circondata ed eliminata con una raffica di kalashnikov, come avevamo già capito. Mi hanno detto che è rimasta stecchita a terra». «Chi può aver preso il corpo?». «Questo ancora non lo so». «Datti da fare, Rod». Ancora domande, ancora rischi, ma alla fine - come sempre - qualcosa salta fuori. «Pare che il cadavere della Frentzen sia stato recuperato dai suoi uomini, i pochi superstiti, e portato a bordo del loro battello. Devo proseguire con l'operazione?». «Certo. Compralo, prima che lo buttino in mare o se lo portino su qualche dannata isola». «D'accordo, ricevuto». Rod Wallace sale a bordo della nave un tempo comandata da Anna Frentzen. «E così tu vuoi vedere cadavere di nostra signora? Allora tu aspettare...», il bianco dei denti è smagliante. Wallace rimane interdetto. «Non ce l'avete voi? Io pago meglio. Qualcun altro ve l'ha chiesto? I cinesi?». «È okay... può passare...», interviene un altro del gruppo. «Accompagnalo tu dal cadavere... ma tienilo d'occhio...». Wallace viene condotto sotto coperta. Vi sono due guardie davanti alla porta di una cabina. Sono tutti negri. «Rod... vecchio bastardo...». «Anna...! Questa sì che è una sorpresa... T'avevo dato per fottuta...». «Lo sono...». «Chi è stato?». «Non lo so...». La Frentzen è in condizioni tremende: affondata sulla branda, pallida in volto, la bocca impastata di sangue, la testa che le cade all'indietro, diversi asciugamani sanguinolenti sulla pancia, usati come tamponi. «Senti, Anna... devo comunicare con il contatto». «Che vogliono...». «Il tuo cadavere... E per il momento, gli farò credere di averlo». «Okay... ma dopo... torna qui... ne ho per poco... Rod...». «Torno subito».
«Allora... hai recuperato il corpo?». «Sì, ce l'ho fatta». «In che condizioni è?». «Ottime». «Bene. Conservalo al fresco, se ti riesce. E manda qualche foto appena possibile». Wallace chiude la comunicazione senza fornire ulteriori dettagli e ritorna dalla Frentzen. La flebo al braccio l'unico sostegno. «Quando ti ho visto passare, trascinata per i talloni, sembravi morta stecchita...». «Un colpo... deve aver sfiorato la spina... Ero tramortita...». «Il grasso ti ha protetto, Anna. Te la caverai...». «Quello... che ti è sempre piaciuto...». «Di te mi piace tutto, lo sai; comprese adesso le pallottole che hai addosso. La tua barca è all'ancora. Non ti fai portare da nessuna parte?». «È tutto lontano... tutto pericoloso...». «Ma... pensi di cavartela lo stesso...? Ci stai provando?». «Rod... sai usare... la maschera... dell'ossigeno...?». «Penso di sì». «Bene... voglio farmi un giro...». «D'accordo». Wallace si guarda intorno, controlla l'attrezzatura e l'accontenta. «Va meglio?». «Un po'...». «Hai paura, Anna?». «Sì... ho paura...», gli occhi guardano lontano, «si vede... vero...». «Un po'...». «Io... sono già morta... Rod... ma... la morte che uccide... è quella... che fa davvero paura...». «E che tipo di morte sarebbe? La morte uccide sempre, no?». «No... mi hanno sparato... e mi hanno ammazzato... ma non sono morta... La morte che uccide... non ti lascia scampo... arriva... e non ti rialzi più...». «E tu hai paura che non manchi molto a quella morte, vero, Anna?». «Non sono... una stupida... Rod... Non hai idea... dei buchi... che ho in pancia...», la Frentzen abbassa allusivamente lo sguardo sugli asciugamani insanguinati. «Ma non sono finita... finché non crepo...». «Giusto modo di pensare». «Rod... adesso... fammi riposare...». «Bene, a dopo». Wallace ne approfitta per comunicare. «C'è una complicazione». «Di che si tratta?». «Il cadavere è ancora caldo...». «Che diavolo significa?». «La Frentzen è stata ammazzata, ma non uccisa». «Senti, Rod... non ho tempo da perdere, sputa il rospo». «È quanto mi ha detto lei stessa. È stata colpita a morte, ha preso una raffica in pancia, ma non è ancora crepata». «Cosa?!». «La morte che uccide non è ancora arrivata». «Ma... se non è morta... è stata visitata da un medico?». «Non c'è molto da fare, lo sa anche lei, è preparata». «La Frentzen non se lo merita, è una combattente. Mando un elicottero con adrenalina e plasma». «Non credo ce ne sarà il tempo, comunque tanto vale provare». «Tu stalle vicino e falle credere di potercela fare, capito? È una combattente, ci proverà». «D'accordo». Wallace torna sotto coperta. «Anna... come va?». «Male...». «Fatti un goccio di quello buono...», le porta alle labbra la fiaschetta del whisky. «Sei carino... con me... Rod...». «Tu sciogli tutti, Anna... Sei una bella donna, una di quelle che sembrano non nascere più». «Sei bravo... a distrarmi... mentre crepo... Ma io... non voglio morire... Ho dei soldi... da parte... se mi aiuti... li avrai...». «Non c'è bisogno di soldi, Anna... Devi cercare di stare calma... i tuoi buchi l'ho visti quando ancora fumavano. Non sono facili da gestire... ma con una come te non si può mai dire... E poi... ho una sorpresa per te, Anna. Il contatto manderà un elicottero con un kit di soccorso... Le gambe, le senti?». «Sì... ce l'ho... ancora...». «Respiri male, Anna. Fatti un giro...». Wallace aggiorna il contatto. «Flebo e maschera dell'ossigeno non bastano più. Che fine ha fatto l'elicottero?». «Negativo, ci sono problemi. L'elicottero deve raccogliere una priorità superiore.
Ritorniamo all’obiettivo iniziale: il cadavere
e informazioni sui mandanti».
Avevo anche… un certo seguito… fra
i negri…». Rod... la morte che uccide... non perdona nessuno... Sono finita... ma non gli darò... soddisfazione...
Tu... farai sparire... il mio cadavere... gli rimarrà... il
dubbio...».
La maschera… ohh... presto…», ha bisogno di ossigeno. Raffiche di mitraglietta da un motoscafo che si avvicina a forte velocità. Spari ravvicinati, il nemico è a bordo. È una donna quella che fa irruzione in cabina, pistola in pugno. Punta dritto sulla Frentzen e sta per saldarle il conto.
«Ehi...». Wallace la fa voltare e le mette due palle in corpo. La riconosce subito. Si chiama Kelly Maddox, è un'esperta di targeting. «Coglione... che fai... mi vuoi ammazzare...». «Pensavo lavorassimo per lo stesso padrone, Kelly. Lo sai, tu, cos'è la morte che uccide?».
La biondona, ingobbita in avanti, lo fissa inebetita. Wallace spranga la porta. «Anna... adesso ho capito...». «Stronzo...», la sicaria è scivolata lungo la parete della cabina, con le braccia strette intorno all'addome. «Ascolta, Kelly... Se non vuoi che la morte ti uccida, devi collaborare. Noi tre dobbiamo metterci d'accordo. Ma intanto sono io il capitano di questa bagnarola». E mentre Kelly è costretta a pensarci su, Wallace controlla che l'ammazzata non sia rimasta uccisa. E tira un sospiro di sollievo. Lettore, se vuoi conoscere l'attrice che ha ispirato questo racconto, clicca qui. Il racconto è un tributo alla sua bellezza, carisma, personalità. Gli aspetti negativi sono introdotti per mere esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico. Il ruolo della protagonista va assimilato a quello dell'attrice rispetto a un film. La devozione alla persona in questione, da parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta. di Salvatore Conte (2016-2017)
«Naturalmente,
Numero 11: con il taxi faremo in un baleno».
«Largo, largo... fate passare, per favore...», con una mano a gesticolare fuori dall'abitacolo. L'esecuzione è
avvenuta in pieno giorno.
POW!POW!
La Numero 80 - per qualche istante - sembra rimanere in piedi,
lo sguardo deciso, nonostante i
colpi d'arma da fuoco l'abbiano raggiunta in pieno; poi, però, le
gambe cedono improvvisamente, come se il pavimento si aprisse sotto i suoi
piedi; gli occhi della Numero 80 si orientano fissi al soffitto, la bocca
aperta in un'espressione di tragica meraviglia.
Questa la fine della
Numero 80. «Accidenti, quanto pesa!». «E in più c'è tutto il piombo che ha incassato». I due vanno diretti in camera da letto. E vengono congedati
all'istante. «Quegli
idioti...», ha appena ripreso fiato. «Numero 80... se non crepi... ti faccio rimettere a posto... Ma dovrà rimanere un
nostro segreto... capito?». Il Numero 2 se ne occupa personalmente. «Teledottore, eseguire autopsia sulla Numero 80». Rispondendo alla voce del Numero 2, diversi bracci meccanici entrano in funzione, agitandosi intorno al corpo della Numero 80, steso sul lettino con gli occhi sbarrati: sembrano le spire di un serpente. {Negativo. Autopsia richiesta in contrasto con protocolli operativi. Numero 80 non risulta deceduta}, una voce metallica risuona nella sala. «Teledottore, calcolare probabilità del decorso medico». {Probabilità di decesso: 98,0%. Probabilità di sopravvivenza...}. «2%, ovvio», il Numero 2 anticipa la risposta. {Negativo. Probabilità di sopravvivenza: 1,8%. Probabilità di sospensione vitale: 0,2%}. «Teledottore, analisi dei colpi fatali». {Presenza di ferita d'arma da fuoco in corrispondenza di: stomaco. Presenza di ferita d'arma da fuoco in corrispondenza di: fegato}. «Teledottore, rimani in attesa di istruzioni». {Ricevuto}. Il Numero 2 si rivolge alla Numero 80. «Almeno due colpi non ti lasciano scampo! Hai sentito?». Frigga annuisce, sconvolta. «Io... non pensavo... io...». «Il Teledottore non sbaglia mai. Sei rimasta uccisa, Numero 80». «Numero 2...
aspetta... Numero 2...»,
lo chiama per numero... due volte... sa che ha reso succube anche lui (ne ha
avuto recente conferma), potrebbe chiamarlo Numero 82 ormai... ma con la
paura della fine sul volto, la paura di chi ha ricevuto la propria sentenza. Non vuoi tentare la fortuna?». Frigga annuisce, disperata. «Teledottore, eseguire protocollo di valorizzazione delle probabilità di sopravvivenza». {Ricevuto}.
"Un'esecuzione a colpi di rivoltella. I sicari non le lasciano scampo. Il corpo, gonfio di piombo, è stato trasportato all'Ospedale per la regolarizzazione del decesso e l'autopsia di rito". Allorché il Numero 6 legge la prima e unica pagina del giornale, chiama un taxi e si fa condurre all'ospedale. In molti - in effetti - devono aver visto, ma nel Villaggio, e probabilmente ovunque, "a still tongue makes a happy life". Va diretto in sala autopsie e coglie il serpente metallico intento a operare sulla Numero 80. «Che bisogno c'era, Numero 2!», con la tipica aggressività degna del suo predecessore. «Di sicuro lei sa chi l'ha fatta fuori, come e perché!». «Mi meraviglio di lei, Numero 6. Non c'è forse bisogno di aiutarla, pur se le rimane poco da vivere?», ricambiando l'irruenza dell'interlocutore con divertiti toni sibillini. Il Numero 6 si avvicina al lettino e la osserva. «Non è ancora morta. E questa non è un'autopsia. Tuttavia... se ciò non rimanesse un segreto ben custodito... chi l'ha uccisa potrebbe riprovarci. Mi comprende, Numero 6?». «Mi fermerò qui per un po', allora. Mi fingerò malato». «Molto bene, Numero 6. Io andrò a organizzare i funerali. Teledottore, proseguire con il protocollo di valorizzazione delle probabilità di sopravvivenza. Il Numero 6 è autorizzato a impartire istruzioni in mia vece». {Ricevuto}. BIP-BIP-BIP Suona il telefono rosso: il Numero 2 lo porta sempre con sé. È il Numero 1: non può essere nessun altro. «Tutto finito, Signore. Sì, certamente, Signore... l'operazione è conclusa, i sicari non hanno risparmiato piombo, l'obiettivo è deceduto quasi sul colpo. Sissignore. Certamente. Sissignore». La comunicazione è conclusa. Il Numero 2 è perplesso. «Qui mi gioco il numero, Numero 6. E anche di più...». «Chi è il Numero 1?». Il capo del Villaggio lo osserva, abbassa gli occhi, e se ne va. «Io so chi è il Numero 1! Frigga... chi è stato?», un attimo dopo si rivolge alla donna agonizzante sul lettino d'ospedale. «Ti hanno fritto, non vedi, non capisci?», i toni non sono gentili. La Numero 80 ha subito un'anestesia locale, è in grado di parlare. «Due numeri... ohh... ohh... hanno sparato... diverse volte... ohh... sono rimasta uccisa...». «Non è ancora detto. Quali numeri?!». «11... e 66... ohh... non mi terrai rancore... per quella volta...». «No, non ti preoccupare. Quei due te li ammazzo volentieri». «Toglimi una curiosità... perché ti sei dimesso...». «Non mi sono dimesso. Ho preso in giro il Numero 1. Come lui prende in giro voi». «Però... al Villaggio... si sta bene... ohh... a parte il piombo... che ho sulla pancia...». «Insieme a te ci starei bene anch'io...». «Non ho molto tempo... ohh... purtroppo... ohh...». «Altrimenti?». «Sarei tua... Numero 6...». «Ci sarà un nuovo Numero 2, Frigga. D'altronde i globuli rossi non vivono più di quattro mesi. E tu dovrai stare molto attenta, abbottonarti la camicetta e passare inosservata. So che non sarà facile». «Forse... mi serve... un addendo...». «Se non rimani uccisa, avrai quello che ti serve». di Salvatore Conte (2017-2023)
Vernon tira un sospiro.
«È un motivo valido, signora.
Risponde con una smorfia divertita.
Un sospiro.
E si infila gli auricolari. E le sembra che dal deserto suoni l'armonica. Non è un sogno. Ombra Tagliente sta suonando per lei. Conosce a perfezione il capolavoro di Bob Dylan. Knockin' on heaven's door... Sugli occhi verde corre la rugiada.
A occhio e croce ha quasi sessant'anni, ma è ancora nella maturità di una
stravolgente, raffinatissima bellezza. Come il fiore che a dispetto dell'autunno
rimane fresco mentre gli altri avvizziscono, la Bubamara fa sospettare che il tempo
non sia per tutti uguale.
«Anche in quella canzone ci sono poche
parole». Ma anche Ombra Tagliente è pronto. Suona ancora dal deserto l'armonica. Una nota dolente di gioia, che invita a non arrendersi, a stringersi insieme, a ravvivare il fuoco nel bivacco, in mezzo alla prateria, al centro delle tenebre. Basterà una canzone e la voglia di cavalcare insieme. Quando le note di Bob Dylan sfumano, attacca lei.
«Non credo sia prudente separarsi dal suo
vice. Le sono così d’impaccio qui dietro?».
«Si occupa di
qualcosa nella vita?». Tu, ragazzo di campagna, le insegnerai quello che sai, e tu, Bubamara - che vieni dalla città - insegnerai a lui come sopravvivere nelle condizioni più estreme. Sei in prova, ragazza, non dimenticarlo». E con un colpo di sperone, sferza il vecchio Black e le reni di Dara, lanciandosi lungo il pendio.
Il bestiame di Wilcox è stato avvelenato, un
po’ come tutto, ormai.
Quel giorno lo Sceriffo è nella Riserva, Ombra
Tagliente a tradurre un detenuto nelle prigioni dello Stato, e Bubamara di servizio
in paese.
«Idiota! Non dovevi sparare!».
“Sono prontamente scattate le indagini della
Polizia di Stato sulla rapina che è costata la vita all’impiegato postale di Hot
Water, Bill Walker.
«Ombra Tagliente fatto segnali a gruppo di
idioti», è un raro momento di pausa, per far rifiatare i cavalli.
Cavalca con occhi vuoti.
I pick-up sono quattro, sul terzo ci sono le
donne.
«Prendo questi…».
“Nuovo successo per la Polizia dello Stato, le
cui serrate indagini hanno portato al rilascio delle due donne rapite nella
Contea di Hot Water. di Salvatore Conte (2017-2023)
C'è un grande fiume, ma non
siamo in Africa, né in America: siamo a Londra.
La mania di copiare porta a
soluzioni poco originali; a portata di meningi c'è il famoso "London Bridge is
down": perché sforzarsi?
Si è fatta le ossa tra canali, banchine e anse del fiume. La carne, invece, se l’è portata da casa, da Newcastle. Nonostante l'età matura, è sana come un pesce e ancora solida e potente. Non si preoccupa del tempo che le rimane: ciò che conta è il presente, il top elastico sempre gonfiato dalle sue tettone; un vero marchio di fabbrica; ne è passata d'acqua sotto i ponti, da quando era una giovane puttanella delle periferie degradate; adesso fa quasi concorrenza alla Regina nel celebrare i giubilei del potere, e come lei non ci pensa nemmeno ad abdicare prima del tempo.
Ha imparato a cacciare le prede stordendole con le sue scosse, fatte di ammiccamenti e di tette pesanti e cedenti, ma sempre perfette per attirare sguardi e desideri fra i morbidi gonfiori delle sue magliette attillate, o delle sue camicette scollate. Ingrid è un grosso pesce nato nel Tyne e che ha preso il largo, risalendo il Tamigi. Ma sembra venuta dal bagnato Norfolk, dove l'erba è grassa e ci sono tante vacche nella nebbia. Non conta come si è ridotta adesso: per chi se la ricorda, conta com'era. Certo, oggi, vecchia com'è, la sua ostinazione nello sbottonarsi fa decisamente sorridere. La Strega dei Docks è patetica e decrepita.
D'altra parte, si sa che i Docks sono
più giungla della stessa Africa Nera.
Il look è quello di una vecchia strega che sgomita per finire sul rogo. I capelli sono grigi, ma non la invecchiano troppo: tagliati a caschetto, la rendono elegante e distinta, molto british. Il volto è quello di una statua classica, perfetto nell'armonia tra connotati decisi, virili, e supremazia femminile, con un leggero trucco per non sconfinare nel patetico. Le rughe gli conferiscono potenza ed esperienza; il collo è un po' troppo rovinato, tradisce gli 85 anni che le pesano sul groppone. Gli occhiali rettangolari, neri, di taglio moderno, le tolgono qualche anno. La figura è massiccia, il camicione rossastro sbottonato con volgarità, la scollatura sempre esagerata, nonostante il seno da mummia, flaccido e pendulo. Del reggipetto nessuna traccia.
Una giacca nera completamente aperta
confeziona il prodotto finale: aggressivo e consumato.
È veccha e stravecchia, ma alla pelle ci tiene
sempre.
«Tira su, dai. Io tolgo gli ormeggi». Guarda che pezzo di fica alla sua età...». «A me sembra una vecchia bagascia...».
«Ascolta... non è in acqua da moltissimo... proviamo...».
«Forse ha bevuto… la massaggio!».
«Lo scotch, presto… e l’ovatta…».
L'amico lo guarda stupito.
Per non dare nell’occhio, noi proseguiamo con
il nostro solito giro.
Ascolta bene... ho poco tempo... c’è un canale morto… sotto la torretta viola… un anfratto…
«Allora?», gli chiede il compagno. E ci sta portando all'oro...».
«Fammi bere… non reggo più…», al suo ritorno, la richiesta è pressante.
«Tirami su le
gambe... presto...», ancora una richiesta, per cercare di
mandare più sangue al cuore. Le prova tutte.
«Pescatori… potere... pallottole... Ingrid muore...», sussurra farneticante,
nel delirio dell’agonia. Bill si allontana per qualche istante. «Ho chiamato il nostro veterinario», dice a Fred. «Tenterà qualcosa. La Strega non merita di crepare così...». «Sei impazzito? È finita... non lo hai capito? Così ci farai scoprire... Non se la caverebbe nemmeno all'ospedale». «Lei si fida di noi... Ricostruirà il suo impero grazie a noi... diventeremo potenti». «No! Diventeremo cibo per vermi... Quella è solo una vecchia puttana e forse è già crepata mentre stiamo qui a parlare». A Bill viene l'atroce dubbio che Fred possa avere ragione. Tutto regolare. Il veterinario li aspetta a Dowells Street. Ma non può certo immaginare un pesce tanto grosso. «Posso aiutarla a tirare avanti, ma non ne ha per molto. La ferita allo stomaco è mortale». «Te l'avevo detto, io...». «A meno che...», Bill, proprio lui, rimane appeso all'amo. «Non mi facciate provare un farmaco di mia invenzione, ancora alla fase sperimentale. Su alcuni pesci ha funzionato». «Ma... è assurdo...», replica Fred. «Avanti, John... la torta è grande e c'è una bella fetta anche per te». «Non prometto niente, sia chiaro. Il farmaco, se tutto funzionasse, stabilizzerebbe l'emorragia allo stomaco». «Molto bene. Puoi farcela, John. Intanto noi avremo da fare. Tu rimani con lei». «Non voglio crepare... senti... senti che roba...». Rimasta sola con il veterinario, Ingrid gli prende la testa e se la preme contro il seno avvizzito. Lui rimane paralizzato. Soltanto un muscolo si muove; e cresce... Anche in fin di vita, la grossa anguilla elettrica colpisce ancora! Qualcosa, però, non fila per il verso giusto. La Pitt si sente mancare! Spalanca la bocca... cerca di compensare! Sta rantolando! Ingrid stringe il culo, la situazione le sfugge di mano! Ma il veterinario è già intervenuto. Ci sa fare. Ingrid può rifiatare. «Veterinario... vita... vendetta...». La Strega ha ancora il controllo. E continua a sguazzare nelle acque torbide del grande fiume. di Salvatore Conte (2017-2021) RAT-RAT-RAT RAT-RAT-RAT
Il festino a
base di sesso e droga è andato a puttane. È un regolamento di conti a colpi di tommy gun.
Romina Lopez - la procace infermiera peruviana che in realtà è il boss di un'emergente banda di narcotrafficanti, più pazza e ambiziosa di Al Capone - per il momento è salva, perché poco prima si trovava nella sua stanza a sniffare. Ma c'è da pensare che
l'obiettivo finale sia proprio lei. Romina scarta con gli occhi da una all'altra, pronta a reagire, eccitata da coca e scontro mortale. Vuole salvarsi, vuole tenersi la pelle. Ma sono almeno in due e la vogliono morta. Deve prepararsi a ingoiare piombo. Un'ombra...
RAT-RAT-RAT
RAT-RAT-RAT È uno scambio di colpi reciproco! L'altro crolla, lei rimane in piedi. È la più forte e lo dimostra ancora una volta. Però, imbottita di coca com'è, a stento si è resa conto delle pallottole mortali che le hanno sparato in corpo! 11 proiettili l’hanno infatti raggiunta in pancia! Si intravedono i titoli!
La puttanona peruviana comincia ad accusare qualche fastidio. Comunque, pur barcollante, riesce a raggiungere la sua auto. Non è una vettura normale, perché è speciale come lei. Ingobbita in avanti, le braccia incrociate sul ventre, apre lo sportello e mette il culo sulla sua vecchia Cadillac verde, uguale a quella di Al Capone. Un po' le dispiace ungerla col proprio sangue, ma così la rende ancora più preziosa.
Viene subito tirata fuori e stesa su un materasso. Romina ha gli occhi che guardano vaghi il soffitto, incorniciati da un funereo
alone scuro; il volto pallido,
sbiancato; la lingua arricciata sotto il palato. Un rivolo gemello di
sangue le cola dalla bocca. Gli è costato caro farmi la pelle, insomma.
«Niente... lenzuolo in faccia... ragazzi... », è una sua ossessione. «Preparate... la... Ia... Ibern...salm...».
«Tranquilla, capo».
«Ma... non crepo subito... La
morte le mette
fretta, sente la vita sfuggirle, però Mad Nurse vuole salvarsi. I medici sono arrivati.
Insieme. Di corsa. Per l'Ibernsalm potrebbe essere presto. |