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L'ultima missione di 043

Non tutte le pallottole vengono per nuocere

Troppo in fondo

Boomerang rosso sangue

Roma violenta

La morte che uccide

Chi ha ucciso la Numero 80?

Lo Sceriffo

Pitt and the Pendulum

Mad Nurse

L'ultima MISSIONE dI 043

di Salvatore Conte (2011-2022)

La missione di Anna in quel di Malta era ormai conclusa.

Anche stavolta gli ordini erano stati eseguiti.

Sembrava tutto complicato fino a pochi giorni prima, ma l'Agente 043 non sarebbe stata classificata come uno dei più affidabili freelance al mondo (agenti con licenza temporanea di uccidere), se i suoi standard non fossero stati questi.

Aveva fallito solo in Libano, dove a momenti ci lasciava la pelle.

Ma nel giro non si infierisce sugli agenti freelance (perché fanno comodo a tutti e non hanno colore), soprattutto se sono delle vecchie puttane (disponibili al servizio privato oltre che segreto), e la Frezzante rientrava appieno nella casistica di specie.

Dissimulata come una tranquilla impiegata un po' puttana, piacevolmente ingrassata, dalla faccia e i modi simpatici, nascondeva in realtà una mente fredda e analitica, e via-via messasi in luce, era divenuta una sorta di punto fermo nell'esclusivo giro del targeting globale.

Si narrava nei salotti per bene che il suo sogno segreto fosse quello di diventare famosa, importante e temuta come James Bond, l'Agente 007 del servizio segreto britannico. In ogni caso intendeva sedurlo e dominarlo, in sostanza fargli da succuba.

Potevano sembrare due progetti folli, ma almeno il secondo non così campato in aria, a parte il poco tempo rimasto per portarlo a termine.

Nel giro si diceva che Bond avesse messo gli occhi sulle sue foto, e che fosse rimasto colpito dalla carne grassa, i camicioni sbottonati e l'aria da immortale, suffragata dalle pallottole davvero brutte digerite in Libano.

Si diceva anche che fosse stanco di fare il donnaiolo e cercasse un grosso donnone, anche stagionato, per mettersi a posto per sempre.

Da qui l'interesse per Anna Frezzante e la sua storia (era stata capace di gestire diverse pallottole nella fallita missione in Libano); e in particolare per la sua aria da mignotta di classe, le tette di lusso e il grasso extra che conferiva imponenza alla figura e riempiva bene il famoso, ormai iconico camicione; nel numero di licenza della Frezzante c'era chi intravedeva una curiosa corrispondenza proprio con quello: 4 erano infatti i bottoncini tenuti lenti, 3 quelli chiusi, in una sorta di alchimia dei bottoncini, finalizzata a mostrare non troppo segretamente due belle tette da bagascia, un passepartout prezioso in diverse missioni.

Seduta a gambe incrociate, si accese una sigaretta e si lasciò affondare nel morbido schienale del divano.

Indossava il tipico camicione, sbottonato aggressivamente nel solito modo: le piaceva molto dare nell'occhio e in testa; e poi farsi credere una banale puttana di lusso la metteva al sicuro.

Tossì convulsamente, sbavando sangue.

Non era mai riuscita a smettere.

Stizzita, smorzò la sigaretta nel posacenere. Ne aveva per poco, meglio non concedersi certi lussi.

Dopo l'ultima aspirazione, i polmoni si stavano di nuovo riempiendo di liquido.

Ogni due settimane le aspiravano dai quattro ai cinque litri di versamento pleurico.
Ormai era allo stadio 4, quello terminale.
Le metastasi potevano colpirla ovunque.
Presto avrebbe verificato con una tac completa.

Eppure lavorava ancora. Un po’ per distrarsi, un po’ per raccattare gli ultimi soldi; secondo qualcuno, per prendersi la pallottola giusta e chiudere i giochi con un gran finale tragico, prima di dover marcire attaccata a qualche tubo.

Chi la conosceva abbastanza, raccontava però che Anna non si fosse ancora arresa.

Forse lo faceva per mettersi in mostra con James. Avrebbe certamente saputo della sua missione.

Doveva dimostrargli di non essere finita e di essere l'unica donna adatta a lui.
Suxana le versò dello scotch. La vecchia zoccola dalla pancia gonfia le era stata imposta dal committente.
«Sei okay?».
«Un po’ stanca, ma sono okay».
«Non ti andrebbe di uscire?».
«No, preferisco dormire presto.
Buonanotte, dolcezza», la Frezzante si alzò e si ritirò nella propria stanza.

Lei e Suxana occupavano una suite.
Poco dopo anche la seconda si diresse verso la sua camera.
Non per dormire, però.
Innestò il silenziatore e rimase in attesa sotto le lenzuola.
Fece passare un’ora buona, poi tornò furtiva nel salotto della suite; le avevano insegnato di rimanere fredda in qualunque circostanza, ma l’idea di eliminare un obiettivo così importante nel giro le dava letteralmente alla testa: le tempie le ronzavano, una goccia di sudore si staccò dalla fronte e ricadde sul petto, depositandosi sulle grosse tette che le increspavano la canotta nera...

Quello che doveva fare lo sapeva.

In fondo le avrebbe fatto un piacere.
Silenziosa e letale, aprì lentamente la porta di Anna…
(FLOP)

(FLOP)
Quindi accese la luce...
E scoprì che aveva eliminato solo un paio di cuscini...!

Delusa, si preparò a ricevere la reazione dell'obiettivo; dopo mezzo secondo, infatti, si sentì afferrare alla gola: «Brutta puttana… t’ammazzo…!», le ringhiò sul collo Anna, facendole mollare la pistola.
La mitraglietta uzi della freelance italiana era sul comodino, con il silenziatore innestato.

Suxana cercò di divincolarsi.

Ne scaturì una lotta selvaggia, nella quale sembrò prevalere l’istinto femminile, piuttosto che l’addestramento tecnico delle due professioniste.
043 si trovò di fronte una resistenza imprevista. Benché massiccia ed esperta, pagava lo scotto della sua malattia.
Entrambe le donne puntavano ad afferrare la uzi: con quella avrebbero chiuso la partita a proprio favore. Non avrebbero fatto sconti all'avversaria.
Due mani si chiusero ansiose sull’arma, sebbene non appartenessero alla stessa persona.
(FFFFFFFRRRRRRR)
Una raffica accidentale partì in direzione del letto. Le condizioni dei cuscini si aggravarono grandemente.
«Bastarda… t’ammazzo come una cagna…», minacciò ancora Anna.
Le pareti insonorizzate della suite attutivano i rumori della lotta.
Suxana non rispondeva alle minacce, si sentiva più forte, non aveva paura.
Poi, d’improvviso, la lotta che imperversava da diversi minuti si risolse in una frazione di secondo: la possente Suxana si liberò di Anna e riuscì ad agguantare la mitraglietta.

La Frezzante si guardò intorno, disperata. Non aveva vie di fuga.
Quindi fissò la canna bombata della uzi, puntata contro di lei...
«È finita per me, vero?», domandò secca, ormai rassegnata al peggio.
«Sarà veloce, te lo prometto», rispose fredda Suxana.

«No..! Aspetta...! Dimmi perché!», la paura negli occhi della Frezzante, e quella curiosità finale, tutta femminile.

Ma non ci furono né pietà, né risposte.
(FFFFFFFRRRRRRR)

Suxana le scaricò addosso tutto quello che rimaneva nel serbatoio.
Una bella dose di piombo; per una come Anna ci voleva tutta.
La Frezzante fu scossa dai ripetuti impatti che la bersagliavano,
sussultando a lungo, come fosse rimasta attaccata alla presa della corrente, nonostante in realtà si trattasse di pallottole, pallottole ad alto potere di penetrazione; a causa della sua stazza possente, tuttavia, rimase in piedi per alcuni secondi, indietreggiando di un paio di passi, con le braccia larghe e scomposte. Una specie di ballo involontario, molto macabro, con gli occhi sbarrati dallo shock, esterrefatti per la crudele condanna.
Finita contro il muro, le gambe cedettero e 043 scivolò di schiena lungo la parete, spalmandovi sopra delle terrificanti scie di sangue.
Quindi atterrò sul sedere e così rimase, con la bocca spalancata, gli occhi fuori dalle orbite e gli stivaloni che sfregavano la moquette, scaricando d'istinto l'enorme tensione nervosa.
Suxana se la guardò soddisfatta: non poteva ancora credere di avere eliminato la famosa Anna Frezzante, licenza n. 043!
Poi, come destandosi da un sogno a occhi aperti, realizzò che il suo obiettivo respirava ancora.
Le aveva sparato addosso una dozzina di colpi...
Recuperò la sua pistola e si avvicino all'italiana.
Un ghigno nevrotico affiorò sul volto di 043: Anna continuava isterica a sfregare il pavimento, ormai  in preda al panico, sapendo che la fine poteva sorprenderla da un momento all’altro.
Suxana osservò le ferite, contando nove buchi: nessuna pallottola, però, l’aveva fulminata, il cuore era illeso, la mente ancora presente; ecco perché respirava.

In ogni caso ne aveva per poco.
«Il lavoro è lavoro, niente di personale, bella, lo sai.

Ma sei tu che devi dirmi come hai fatto a capire...».
Anna affannò convulsamente.
Poi, con una vena di follia nello sguardo, tirò fuori la lingua…
Gli occhi languidi fissavano Suxana…
La donna rimase perplessa.
«Allora, vuoi dirmelo?».
Anna non cambiò atteggiamento.
La lingua slabbrava…
Suxana cominciò a sudare. Anna le piaceva da morire… era una gran donna... e non si era arresa nemmeno di fronte a un male incurabile... e a una raffica di piombo come quella...

Sotto un impulso incontrollabile, ritornò dal bagno con un asciugamano e tamponò l’addome sanguinolento dell'italiana, bloccandole le gambe: «Stai calma...».
Suxana non si era sentita così in subbuglio nemmeno durante la lotta di pochi attimi prima.
Scrisse un messaggio e attese la riposta.

"Stai per ammazzarmi?", sembrò chiederle - con gli occhi - la potente Anna Frezzante, intontita a causa della poca aria che le arrivava al cervello.

Anna era come un castello di carte che poteva crollare al primo alito.

"Per il momento, no", le rispose, scuotendo il capo.

Suxana toccò il vertice della follia quando si mise a leccare il sudore freddo di Anna, che si incuneava nel camicione allentato, da grandissima puttana..

«Perché hai puntato troppo forte e troppo in alto: eri diventata un pericolo».

Una risposta che giungeva ovattata alla stordita mente di Anna.

L'uccello di Bond un boccone troppo grande: forse sarebbe stato meglio essere chiari, in un'occasione come quella.

«Era... la... mia... u-ultima... mi-missione...», i penosi rantoli della morente, che però, in fondo, era stata vicina a far centro...

[Autorizzata].

Suxana alzò gli occhi dal cellulare e pressò con più convinzione l'asciugamano.

Pochi minuti dopo un’ambulanza trasportava all'ospedale, in un bagno di sangue, l'agonizzante Anna Frezzante, Agente 043.

Nel giro è consentito chiedere un break per il nemico che si è battuto bene.

Un codice di sopravvivenza per non sfoltire troppo i ranghi della categoria; alla maniera dell'antico pollice retto.

E la vecchia gladiatrice intanto prendeva tempo e si attaccava all'ossigeno: poi sarebbe venuto il tumore e infine lui.

In fondo, a Malta, era stata la sua quartultima missione.

Non tutte le pallottole

vengono per nuocere

di Salvatore Conte (2011-2022)

George arrivò puntuale, ma il socio, Patrick, non apriva.
Insistette ancora, poi lo chiamò al cellulare; infine si avvicinò alla finestra del soggiorno.
Fu allora che lo vide riverso sul divano, in chiara difficoltà: ecco perché non rispondeva…
Forzò la finestra ed entrò da lì; prima di occuparsi dell’amico, fece entrare anche Dara, aprendole la porta.

George era infatti in compagnia della sua donna, una costosa bagascia da cui s'era fatto prendere la mano; imbolsita rispetto agli anni migliori, rimaneva pur sempre una gran puttana col fascino della vecchia troia, e lui non poteva farne a meno; spendeva molti soldi per mantenerla in tiro e allentata, sempre sbottonata per lui e per i suoi amici, se pagavano bene. Aveva puntato forte su di lei.

Patrick si era beccato un’indigestione di piombo caldo ed era messo piuttosto male; poiché era socio al 50% con George, la faccenda interessava anche lui.
Cercò quindi di metterlo seduto e di farlo parlare.

La cosa sembrò spazientire la sua donna, la grossolana Dara, un puttanone sfondato che superava i 50, che non perse l'occasione di mettersi in mezzo, in maniera alquanto petulante: «Non vedi che il tuo amico è fottuto? Vuoi fargli compagnia all’inferno, George? Dobbiamo andarcene via subito, capisci? Questi bastardi potrebbero tornare e farci fuori. E io non voglio rimanerci secca, capito? Per quanto ancora vuoi imboccare questo imbecille?».
«Chiudi quel cesso di bocca! Parli proprio tu che senza di me saresti finita in una fogna?», George cominciava a essere stanco dei suoi capricci; glielo tirava, però non doveva esagerare.
Dara lo ignorò: «Ho io la cura che fa per lui, George…».

Con un'espressione malata, allucinata, sul volto gonfio da vecchia cessa, la super cinquantenne estrasse dalla borsetta una calibro 38 e la puntò contro Patrick.
«Non farlo, Dara», l'ammonì George.
«Perché, altrimenti cosa fai?», rispose stizzita la vecchia bagascia, mentre era pronta a far fuoco contro Patrick.
Stava premendo il grilletto…
«Altrimenti ti buco la pancia, Dara».
La donna, sicura del fatto suo, si mostrò indifferente alla minaccia e rimase a fissare Patrick, mantenendo l’arma puntata contro l’uomo gravemente ferito e seduto precariamente sul divano.
Un guizzo omicida balenò dagli occhi neri.
George comprese da quello sguardo che non si sarebbe fermata…
BANG

BANG
Due pallottole calibro 45 raggiunsero la donna in pieno addome!

Il mignottone cadde sulle ginocchia con lo sguardo allibito: «Come hai potuto... mi hai fottuto…!».
«Ti avevo avvisato, Dara...», fu la fredda risposta di George, che si era ormai stancato di quella grossa troia.

La donna cercò di riorganizzare i pensieri. Si era fatta fregare come una stupida. Era sicura che George non l’avrebbe toccata, e invece le aveva piazzato addosso due pallottole.

Il troione si sentì perduto, lui sembrava indifferente.

Dara mollò la calibro 38. George, a questo piunto, non avrebbe esitato a spararle ancora, a freddarla, se necessario.

Quindi crollò sul fianco e rimase a contorcersi sul pavimento, con entrambe le mani a tamponare i buchi in pancia.

Un sinistro rivolo di sangue le colava dal labbro.

«Ben fatto… George… era una puttana… spremuta... finita...», infierì Patrick.

«Non era finita...», l'eccessivo livore sugli anni di Dara lo irritava.

Si controllò.

«Ora veniamo a te, amico mio. Raccontami tutto, poi andremo all’ospedale».

A fatica, tra molti stenti, Patrick ricostruì i fatti.

George rimase a pensare in disparte.

Si era completamente dimenticato di Dara e solo in quel momento realizzò che la sua donna aveva smesso di lamentarsi e singhiozzare come una scrofa al macello.

E che nel soggiorno non c’era più.

Motivo in più per sbrigarsi, pensò George…

BANG

Si portò alle spalle del suo socio e lo freddò con un colpo alla testa.

Tanto non sarebbe sopravvissuto. In fondo aveva ragione Dara.

Ora poteva occuparsi di lei.

Non fu difficile seguire la scia di sangue che s’era lasciata dietro, strisciando sul pavimento della casa, ventre a terra.

Era perfino riuscita a varcare la porta e uscire all’esterno…

George si fermò sull’uscio: Dara era arrivata a pochi metri dalla sua auto, in sosta sul piazzale della villetta.

Lì, però, s’era fermata.

George la osservò dalla porta di casa: era immobile, con la faccia affondata nel ghiaietto.

Aveva raccolto le forze e si era illusa di poter trovare una via di scampo: c'era tutta la sua Dara in quell'azione, disperata e arrogante insieme.

Vedendola sconfitta e ormai cadavere, l’uomo ebbe un sussulto, un moto di rimpianto.

Dara era ancora un donnone, poteva durare altri anni; non per niente se l’era messa vicino senza badare a spese…

Non era ancora finita la sua Dara. Tuttaltro.

C’era andato giù troppo pesante.

Lei aveva cercato una via di scampo. Fino all’ultimo. Ma non l’aveva trovata…

George si avvicinò alla sua donna e ne rovesciò il corpo.

Dara era supina adesso: il volto stinto in un pallore cadaverico, la bocca socchiusa, i capelli biondi sparsi sulla faccia, le braccia inerti; e due occhi neri che lo fissavano con inappellabile lampo di condanna, quasi a fulminarlo, se solo avessero potuto…

Ancora non aveva capito se fosse viva o morta. Si allungò, toccandole la carotide: respirava, ma debolmente, non ne aveva per molto.

George fu scosso dal rimpianto.

“Come hai potuto, mi hai fottuto”, gli aveva detto, un attimo dopo gli spari.

Aveva capito subito che era finita; anche se c'aveva provato fino all'ultimo.

Il rimpianto cresceva di secondo in secondo, ora che la sua donna stava crepando.

George non resistette più. La prese tra le braccia e cercò di scuoterla.

«Dara... mi dispiace...», e le fece ingurgitare un cicchetto di whisky.

La donna mugolò dall'oltretomba della sua disperazione.

«Okay... non sforzarti, tesoro. Non è ancora finita. Hai sbagliato a provocarmi, ma ti amo lo stesso. Adesso ti porto da un dottore, dal migliore. Da Jenkins…».

Il dottor Jenkins era un chirurgo che non faceva troppe domande; ed era anche molto bravo; ma costava un occhio della testa.

La caricò in macchina, sul sedile anteriore; quindi si diresse verso la clinica.

Imboccò una curva verso destra ad alta velocità e il corpo di Dara gli si afflosciò addosso. Superata la curva, se la scrollò di dosso senza tanti complimenti: la testa della donna andò quasi a finire contro il finestrino.

«Cristo... reggiti, Dara! Non farti fottere, troia... io non ci credo che ti fai fottere!».

Passarono un paio di minuti e George accostò a destra, portandosi all’interno di un’area per la sosta, buia e isolata. Si fermò a osservare la sua donna. La clinica di Jenkins era dietro l’angolo, ma quanto gli sarebbe costato? Era necessario spendere tanta grana per quella puttana?

Alterni pensieri confliggevano tra loro nella mente sovraeccitata.

La suoneria del cellulare lo distolse: una chiamata anonima, solo un paio di squilli, George non rispose.

Ormai aveva deciso.

«Ascolta, pupa… il tuo fascino da mignottona mi piace un sacco, lo sai…

Ma temo che per te sia finita, bellezza».

E le premette la canna della calibro 45 contro il fianco.

Dara trasalì atterrita.

«Prima… l’ultima pompa…».

«E perché no? Tu me lo tiri anche da morta, Dara...».

La  calibro 45 rientrò nella fondina ascellare mentre la pistola di George entrava nella bocca della donna.

L’uomo si sentì cullare dalla delizia di quel servizio senza eguali; l’ultimo atto della sua bella puttana.

Quando Dara sentì che il culmine stava per arrivare, si infilò la mano nella tasca del jeans…

Bang

Gli sguardi si incrociarono…

Bang

Dara crollò sul sedile.

George si piegò sulle sue cosce, come a cercarle la fica.

Improvvisamente una moto di grossa cilindrata con due persone in sella affiancò l’auto e un’automatica silenziata fece esplodere il finestrino di guida: un attimo dopo la canna della pistola era all’interno dell’abitacolo.

«Ho interrotto qualcosa?», lo sconosciuto si presentò così. «Ehi, George, non riesci proprio a staccarti dalla tua bella puttana, vero?».

Il sicario, che indossava un casco integrale, aprì lo sportello e separò il corpo di George da quello di Dara: l’uomo aveva un buco al cuore e un altro nel basso ventre, entrambi prodotti da un’arma di piccolo calibro; la donna aveva due buchi in pancia e stringeva nella mano una derringer ancora fumante.

«Chi ti ha sparato?».

La donna era terrorizzata.

«Non farlo… non ho visto niente… ti prego…», e lasciò cadere la derringer, come se fosse ancora carica.

«Ti ho solo chiesto chi ti ha sparato…», in tono fermo e rassicurante.

Lei indicò con gli occhi il cadavere di George.

«È per questo che lo hai ammazzato?».

Annuì.

«Ti prego… non uccidermi…», col sangue alle labbra, come se non fosse già morta.

Avrebbe implorato ancora, ma non ne ebbe il tempo.

«Farò estrarre i tuoi proiettili, e se apparterranno alla pistola di questo infame, allora sarai salva; ma se mi hai mentito, verrai eliminata...», sentenziò l’uomo con il casco.

Un attimo dopo fece capolino il suo compagno di sella, anch’egli travisato: «E della donna che ne facciamo? Non va liquidata?».

«Non è necessario. È pulita, la prendiamo noi. È una vecchia troia, ancora importante e con un certo prestigio. Ci farà comodo.

La clinica di Jenkins è proprio qui dietro; forse è lì che stavano andando, prima che George decidesse di farla finita.

Ma dobbiamo muoverci. Occulta il cadavere e raggiungimi in clinica.

Hai capito, bella? Le pallottole che hai in corpo possono ucciderti, ma anche salvarti…».

«E il conto di Jenkins chi lo paga?», obiettò il compagno.

«Se lo pagherà da sola, è un bel pezzo...», fu la tranquilla risposta di Billy Hudson, socio dell’azienda a cui la “George & Patrick” aveva fatto concorrenza sleale.

Un paio d’ore dopo, due pallottole calibro 45 venivano estratte dal corpo di Dara; furono portate a Billy, il quale ne constatò l’eguaglianza con quelle rimaste inesplose nella pistola del defunto George.
«Per me è assunta, ti sta bene?».
Seguì un'alzata di spalle.
«Però è curioso... se quel bastardo di George non le avesse sparato, l'avremmo liquidata insieme a lui...».

«Forse sì, forse no, Jack; certo ce l'ha resa più simpatica.

Dal suo punto di vista è stato un curioso colpo di fortuna.

Lo sai come si dice in questi casi...?».

Troppo in fondo

di Salvatore Conte (2011-2018)

Claudia Messalina non mancava di coraggio. Fallito il complotto che l’avrebbe fatta Imperatrice, vistasi perduta, non esitò ad afferrare il gladio.

La sua villa era sotto assedio. Nessuna speranza. I suoi ultimi uomini andavano verso la sconfitta. Quasi tutti i servi erano fuggiti. Fabio Massimo era ormai sulla soglia.
Si agitò furiosa per qualche momento. Ma sapeva che doveva farlo. O l’avrebbe fatto qualcun altro, a lei in odio.
Claudia Messalina si piegò sulle ginocchia e si accostò il gladio al ventre. Poi, senza pensare troppo alle conseguenze, accecata dal furore di un atto glorioso, se lo piantò nella pancia, immergendolo sempre più in fondo, spingendolo rabbiosamente dentro di sé, fin quasi all’impugnatura.
Compiuto il gesto fatale, Claudia Messalina cadde in avanti con la bocca spalancata e la sinistra voce d’un gemito soffocato. Il peso del suo massiccio corpo fece incuneare il gladio ancora più a fondo, fino a che l’elsa non fu a contatto con il ventre, e non si sentì trapassata fino alla schiena.

L'aveva incubato tutto, come le grandi dell'antichità.

Gli occhi rotearono impazziti, consci della fine. Le mani continuavano a stringere il gladio fatale, bagnate dal sangue schiumante. I seni procaci, estremi segni di potenza, gonfiati al massimo nella tensione della fine, agitavano inquieti la tunica chiara, con lo scollo aperto, che s’era lordata della fatale ferita.
Fu così che la trovò Fabio Massimo, quando varcò la soglia della sua stanza: combattuta fra la vita e la morte, il gladio affondato nel ventre, la tunica inzuppata di sangue spumante, il volto stinto, stretto in un’angoscia mortale.
Claudia Messalina si accorse della sua presenza, ma preferì non guardarlo: non voleva sollecitare né commiserazione, né furore. Non voleva ricevere altri colpi, non da altri, non da lui. Sarebbe morta di propria mano. Così aveva deciso.
Fabio Massimo, dal canto suo, rimase stizzito a guardarla: si era tolta la vita da sola.
Ai servi che chiedevano umilmente di ottenere il corpo, ordinò di aspettare fuori.
Intanto Claudia Messalina decise di strapparsi il ferro dalle viscere.
E lo fece.
Ancora forte del suo fisico possente, la bella patrizia divelse il gladio dalle sue interiora, con uno sguardo furioso sul volto.
Quindi stramazzò sul pavimento, comprimendosi la ferita e gli intestini, spumanti di sangue, con entrambe le mani.
Fabio Massimo aveva subito un altro colpo.

Il suo gladio era rimasto asciutto.
La notizia corse in un lampo. La sfrenata Claudia Messalina aveva scontato le sue colpe.

Si era colpita col ferro, di propria mano. Una folla di curiosi si avventò verso la sua villa. Non mancavano i suoi numerosi sostenitori, che erano costretti a mascherare la propria angoscia. Si chiedevano particolari macabri, si cercavano notizie di prima mano, si chiedeva chi l’avesse vista uccidersi. E soprattutto, tutti volevano vederne il corpo.
Fabio Massimo, intanto, era costretto ad assistere: Claudia Messalina si era trascinata verso il suo letto, lasciando dietro di sé una scia di sangue.
Il Prefetto del Pretorio la osservava attento mentre arrancava con lo sguardo annebbiato, la bocca spalancata, il petto formoso schiacciato a terra, le mani sotto il ventre, e le gambe che cercavano di puntellarsi per spingere avanti il corpo.
Forse Claudia Messalina voleva morire sul proprio letto, se fosse riuscita a raggiungerlo.

La cosa cominciava ad annoiarlo.
Fabio Massimo la abbandonò al suo destino e lasciò la villa.

Era finita.
L’avrebbe comunicato personalmente al Principe.
Finalmente i pochi servi rimasti fedeli poterono entrare nelle stanze della loro padrona. La sollevarono da terra per deporla sul letto. Furono portate bende e acqua fresca per lavare e freddare la ferita. E sali per tenerla cosciente. Ma la ferita era larga e implacabile, gli occhi pieni di sofferenza, il volto pallido di morte.
Uno dei servi andò alla ricerca dell’arma fatale: ben presto vide in terra un gladio bagnato di sangue fino all’impugnatura. Ora non c’erano più dubbi: la padrona non poteva sopravvivere.
Intanto il petto di Claudia Messalina palpitava alla ricerca di aria, gli occhi guardavano bui il soffitto della stanza.
Solo una mano era rimasta sulla ferita. L’altra strofinava il lino del letto, in un soffocato gesto di imprecazione e smarrimento.
I servi rinnovarono gli sforzi per bloccare il sangue, ma la ferita era implacabile. Il volto di Claudia Messalina era sfigurato dalla fine imminente. Stava cercando di capire quanto ancora le rimanesse da vivere.

Intanto, agitando nervosamente il corpo, cercava di non scoraggiare i tentativi dei servi, i quali continuavano a tamponarle la ferita e a cambiare le bende.
Era una lotta impari quella di Claudia Messalina, il destino la sovrastava. Ma lei amava la lotta, e quei seni che si gonfiavano ansiosi sotto la tunica chiara, davano a chi li guardava una certa speranza, o almeno un’estrema illusione.
Claudia Messalina chiese da bere. Doveva bere per scaldarsi. Era un vecchio rimedio. Anche Marco Antonio prolungò l’agonia in questa maniera. Subito arrivò del vino.
Mentre si consumava sul proprio letto, i suoi pensieri si rincorrevano. Speranza e rassegnazione si alternavano, beffarda l'una, crudele l'altra.

Vedeva i servi alternarsi su di lei, con facce torbide che la osservavano come fosse già morta.
Si affrettò a bere altro vino, per protrarre l'estrema lotta.
Lei era Claudia Messalina, neanche Bacco poteva farglielo dimenticare.
Ma la folla incalzava.
Voleva vederla, viva o morta.
I servi si consultarono fra loro e decisero di portarla via, senza neppure che le venisse chiesto.
La villa era collegata, attraverso un passaggio segreto, al porto.

Quelli che rimasero diedero alle fiamme il corpo di una donna morta nei tumulti.
Quando le lingue di fuoco si alzarono, gridarono “Claudia Messalina!” e piegarono la testa.

Uno di loro, per somma devozione, si lanciò egli stesso tra le fiamme. Gli altri avrebbero rischiato la morte.

La folla accorse nel cortile e serpeggiò la notizia che la congiurata fosse salita sul rogo come le grandi dell'antichità.
In realtà, in quel momento Claudia Messalina si trovava a bordo di una triremi, pronta a salpare da Anzio.
La Romana era agli estremi, circondata dai servi e dal rimpianto.
Perché tanta furia, Claudia Messalina? Perché tanto in fondo?
Quando intravedeva l'Ombra di Dite, cercava altro vino, ma il gioco era ormai agli sgoccioli.
Aveva la bocca spalancata come un pesce fuori dall’acqua.
Il braccio le cadde inerte fuori dal letto.
I servi inorridirono.
«Cartagine! Cartagine in vista!», gridò uno di loro.

Ma gli altri erano intorno a Claudia Messalina e non potevano gioirne: «Perché così in fondo, Domina?», chiese uno di questi, quasi con risentimento.
Da Claudia Messalina non giunse alcun cenno di risposta.
I servi le versarono vino in bocca.

«Presto! Ha bisogno di aria, di vedere la Superba Karthago!».

I pesanti drappeggi furono dipanati: Claudia Messalina era rivolta verso la più potente Città del Mondo, prima di Roma.

La Città di Elissa.

Anche se la Collina di Byrsa non c'era più, il suo Carro stazionava sulla punta più alta dei cedri sidonii, ormai millenari.

Cartagine era in vista.
Ma gli occhi di Claudia Messalina non vedevano più.

Quelli dei servi spaziavano tristi sul mare.

Il gladio era andato troppo in fondo.

Videro un punto nero, molto veloce, avvicinarsi da Cartagine.
In pochi attimi, oltre la comprensione umana, quasi liberando una scia di fuoco nell’aria, il falco raggiunse in picchiata la poppa della nave, appollaiandosi sul baldacchino che ricopriva la sventurata Claudia Messalina.
Dopo tre sbattiti d’ala, il falco riprese il volo.

Il vento, che lo inseguiva vanamente, sembrò sussurrare il nome della Regina.

Non tutti potevano sentirlo.
«Perché così in fondo, Domina?», ripeté meccanicamente il servo, quasi fra sé.
«Perché… è la distanza… da Cartagine…», rispose Claudia Messalina, tra la meraviglia dei presenti.

E si sporse dal letto per vederla.

BOOMERANG ROSSO SANGUE

di Salvatore Conte (2011-2022)

Avevano pensato a tutto, fuorché all’essenziale.

Spinta alla follia la loro vittima, la follia stessa stava per tornare all'origine, come un boomerang.

Ormai Monica era impazzita, ma anziché abbassare la testa, aveva alzato la pistola.

Era una Kel-Tec P-3AT, calibro 38, con caricatore da sei colpi; ultra-leggera, una delle più piccole pistole al mondo, ma devastante a distanza ravvicinata.

Un’arma difensiva, concepita per le donne.

Era infatti una mano di donna quella che l’impugnava.

Burt era sorpreso, ma non perse la sua sicurezza: «Tu ora mi darai quella pistola… Monica…».

Si avvicinò di tre passi, lentamente.

Forse fu proprio quel modo infantile di chiamarla, quello sminuirla, quel sottovalutarla che fece definitivamente esplodere la sua ira…

BANG

Burt si irrigidì, sbigottito.

Un attimo dopo crollava in avanti, fulminato.

Era stato raggiunto al cuore.

Lo sguardo di Terry si riempì di terrore. Ora sarebbe toccato a lei. E da cacciatrice, non era abituata a essere preda.

Ambiziosa e tracotante, forte di una bellezza intossicante, si sentiva la numero uno incontrastata.

Bella e formosa, era effettivamente un pezzo unico e molto ambito, sebbene anche questa volta si fosse lavorata un perdente.

«Calmati, Monica… tu non lo farai… abbassa la pistola... ti prego…».

Ancora ordini, ancora presunzione, inganno...

Quella bellezza così arrogante... di fronte a lei... alla canna della sua pistola... ridotta quasi sul lastrico...  alla sua mercé...

E poi quella paura mortale negli occhi... così piacevole da gustare... una scintilla fatale nella mente combustile...

Monica la fissò dura, stava per sparare ancora…

«No, Monica... no!», l'ultimo, disperato tentativo.

Non appena Terry ebbe finito di supplicare, partì il colpo!

BANG

Venne raggiunta alla spalla, in un punto non vitale, ma il violento contraccolpo e l'impressionante schizzo di sangue la fecero sentire morta.

Credeva di essere rimasta uccisa.

Ma se le avessero detto che quello era solo un colpo d'assaggio...

Se le avessero detto cosa poteva fare quella piccola pistola, sparando in una spalla, una pancia o una schiena...

La Kel-Tec era devastante fino a 10 metri.

La potente Terry - scossa dal colpo e spinta a roteare su sé stessa - offrì la schiena a Monica...

BANG

La seconda pallottola la colpì alle reni!

Sussultò violentemente, inarcando la schiena; quindi, con gli occhi stregati dalla paura, tornò a offrire il petto.

Era terrorizzata, sentiva gli artigli della morte calare su di lei.

Prima d'ora, si era sempre sentita invincibile.

Terry sapeva che Monica, a quel punto, non poteva più fermarsi.

Non ebbe nemmeno il tempo per supplicare.

BANG

Il terzo colpo la raggiunse all’addome!

Era uno stillicidio!

Si inarcò all'indietro contro la parete, tormentata dall'ennesimo proiettile: era come sentirsi messa in croce.

In quel momento, però, intravide il passaggio e scattò l’intuizione. Era l’ultima possibilità. Ricordò a sé stessa di essere un'invincibile. Doveva tentare il tutto per tutto: scendere dalla croce e resuscitare a vista.

Quella porta conduceva al garage… e Monica era ormai convinta di averla spacciata…

Terry si buttò in quella direzione, con la mano pressata sull'addome, spinta dalla forza della disperazione e dalla volontà di rimanere potente... il buco era vicino al fianco, non l'aveva fulminata... quella troietta non sapeva sparare... ancora un colpo di fortuna... e lei l'avrebbe sfruttato per salvarsi...

BANG

BANG

Click!

Gli spari furono intempestivi. E i colpi erano finiti.

Terry barcollava andante.

Eccitata allo spasimo, intravedeva un'insperata via di scampo.

Non sarebbe finita come lui.

L'amante di Burt aveva incassato la morte, ma si rifiutava di crederlo.

Pensava solo a raggiungere la salvezza.

Monica era basita dalla resistenza di quella puttana: le era sgusciata via come la serpe che era.

Ma non sarebbe andata lontano. Non valeva nemmeno la pena di inseguirla.

Terry azionò il comando della saracinesca e schizzò fuori dal garage con l'auto di Burt.

«NON ANDRAI LONTANA, TROIA!», le urlò contro Monica, mentre la macchina sgommava impazzita.

«Cagna... non mi avrai...», rispose Terry tra sé, convinta di sfuggire alla morte.

Raggiunse la strada principale e puntò verso la città.

La nebbia le calò sugli occhi, fu colta dal panico, accelerò ancora, doveva far presto, le forze la stavano lasciando.

Intravide delle luci rosse, spinse sul gas per accorciare la distanza e tamponò bruscamente l'auto che la precedeva.

Quindi aspettò ansiosa che il conducente si avvicinasse per chiederle i documenti e gli estremi dell’assicurazione; la strada intanto le girava intorno.

«Ma insomma... non mi ha visto?

Allora... cosa fa? Non scende?

Guardi che se non scende, io chiamo la Polizia…».

Stizzito dall'inerzia della controparte, aprì egli stesso la portiera.

Il corpo di Terry si rovesciò di schiena sulla strada, le braccia allungate all'indietro, le gambe ancora nell’abitacolo; gli occhi sbarrati, rivolti anch'essi all'indietro, due larghe macchie di sangue che spiccavano sul vestitino scollato, una sulla spalla, l’altra sull’addome.

«No...», mormorò con un filo di voce, pressata dalla morte.

Una scena impressionante.

Si fermarono diverse vetture, intorno al corpo di Terry si formò un capannello di curiosi.

Fu chiamata un'ambulanza.

Insomma avevano pensato a tutto, fuorché all’essenziale.

La loro stessa macchinazione gli si era ritorta contro.

La regia del destino era stata implacabile.

E ora la bella Terry stava giungendo cadavere in ospedale, stroncata da una Kel-Tec ultra-leggera calibro 38.

La Commissaria Ianni, dal canto suo, stava arrivando al nosocomio per interrogarla, qualora avesse ripreso conoscenza.

Chissà perché, ma la poliziotta - quando la vide - si sentì particolarmente coinvolta.

Le sembrava di aver preso lei quelle pallottole.

E aveva paura che da un momento all'altro le appuntassero un lenzuolo bianco sulla faccia, vista la fretta, un po' artificiosa, con cui la trasportavano in sala rianimazione.

ROMA VIOLENTA

di Salvatore Conte (2012-2021)

         

Mi ero andato a infognare con questo costoso troione americano, Kelly Madison...

Si era messa in testa di fare l'Americana a Roma, ovviamente a mie spese.

Tutto quello che voleva, se lo prendeva.

Adesso, però, mi aveva stancato. A sessant'anni era ormai una mummia, anche se cercava di tenersi; soprattutto si sbottonava sempre di più... per compensare gli anni e avere l'ultima parola su tutto.

Giocava alla Bella Zoccola addormentata sul Divano. E io ci cascavo sempre.

Non faceva altro che non fare un cazzo.

E di tutto questo se ne vantava pure, su Fregnacce Romane, Il Venticello e le altre riviste del nostro popolare quartiere, senza paura di farsi ritrarre logora e consumata, quasi ridotta a una megera, ma sempre con indosso la sua camicetta americana a scollatura profonda, perché convinta di piacere comunque, di essere per certi versi immortale.

Come se non bastasse, sapeva fare di peggio: Kelly mi tradiva.
Stava con me solo perché faceva l'Americana - viaggi, lussi e spese inutili - con i soldi che la tabaccheria riusciva ancora a garantire, nonostante lei non ci lavorasse più.

«Allenta la camicetta e vieni con me al negozio», le dicevo prima di scendere, perché molti clienti, anche donne, compravano con più gusto quando c'era lei dietro al banco; secondo me, spesso tornavano solo per rivederla e farsi dare il resto.

Una volta, un ragazzo comprò tre pacchetti di sigarette a distanza di un'ora circa l'uno dall'altro. E tornò anche il giorno dopo. E non credo fosse un fumatore tanto incallito. E poi ci fu quello che giocò al totocalcio, e che tornò poco dopo per l'enalotto, e ancora più tardi per altre due colonne al totocalcio. E questo qui tutte le settimane giocava sempre più forte. Forse sognava di portarsela via. Mi avrebbe fatto un piacere.

Di sicuro questi clienti si sarebbero serviti altrove, là dove fosse loro capitato in giro per Roma, ma con lei al banco compravano soltanto da me.

Kelly era una gallinaccia dalle uova d’oro.
«Sono stanca; e poi ho paura. Non li leggi i giornali? Le tabaccherie sono rapinate più delle banche e io non ho voglia di rimetterci la pelle...

Non sono venuta fin qui per farmi ammazzare, altrimenti sarei rimasta a casa mia...», certo che il Libano era quasi peggio di Roma a quei tempi.

Però i soldi facili le piacevano, eccome.

«D'accordo, riposati.

A stasera, amore...», e mi masturbavo nel bagno del negozio, al solo pensiero di ritrovarmi una fica del genere dentro casa.

Carismatica, zozza, burrosa, il classico donnone fuori dalla portata dei più.

Dotata di una sensualità inquietante, spontanea, selvaggia, e di forme grassottelle, ben tornite, a volte mi sembrava una cagna, oltre che una vacca.

Concetti che ritenevo scurrili, fino a quando non mi capitò di leggere, poco prima della chiusura, qualche brano di una commedia di Aristofane...

Santia: Perdio, che razza di mostro vedo! Dioniso: Com'è?

Santia: Tremendo: di tutte le forme, diventa. Prima una vacca, adesso un mulo: poi una ragazza, bellissima!

Dioniso: Dove è? Mi butto subito!

Santia: Non è più donna, è diventata una... cagna!

Dioniso: Allora è Empusa!

Empusa...?

"Le Empuse assumono l’aspetto di cagne, di vacche o di belle fanciulle, e in quest’ultima forma giacciono con gli uomini la notte o durante la siesta pomeridiana e succhiano le loro forze vitali portandoli alla morte", trovai scritto in un libro di Robert Graves.

Insomma una come Kelly era conosciuta da tempo immemorabile: una vamp succhia-sangue a tutti gli effetti, da mandare in tilt perfino Dioniso; e con l'aggravante di possedere una terza forma: quella di una bagascia mummificata.

Possibile che Aristofane la sapesse così lunga? E io che la consideravo una semplice troia!

Vivevo da tempo con un'empusa dagli occhi neri come la morte, ma lo scoprivo soltanto adesso...

Sì, un'empusa.

Però quando seppi che mi tradiva nelle stesse ore in cui ero alla cassa senza di lei, rischiando pure di finire ammazzato al posto suo, beh... allora... persi la testa.

Lei, in fondo, alla cassa sarebbe stata al sicuro, perché alla vecchia Americana chi avrebbe osato sparare?

Io invece dovevo stare attento.

Ma lei preferiva farsi sbattere a domicilio.
E io ero stanco di tutto questo.

Non l’avrei fatto personalmente, non ne sarei stato capace, ma l’avrei fatto fare.
Ci vuole coraggio per uccidere. E ci vuole coraggio per non uccidere. Ci vuole coraggio sempre.
Ma io non avevo più il coraggio di sopportarla, di pensarla viva e prepotente intorno a me, di vedermi succube del suo arbitrio, ubbidiente alla sua dittatura. Tuttavia non avevo neppure il coraggio di spingerle un coltellaccio nella pancia. Mi sarebbe sfuggita. Se la sarebbe cavata.

Avrei potuto usare la rivoltella e con quella crivellarla di colpi. Non quella denunciata, ovviamente. A Roma se ne trovano tante senza numero di matricola. Ma non ero sicuro se - dopo aver visto il primo sangue - avrei premuto ancora il grilletto; se fossi riuscito a portare a termine il lavoro, una volta cominciato. Lei che si dispera, lei che non vuole morire... avrei ceduto, e le avrei chiamato un'ambulanza.
Il lavoro, quindi, l’avrei dato a un immigrato clandestino.
A un indiano.

Gli indiani sono facili ai coltelli.

E doveva avvenire davanti a me, in una rapina finita male, come ce n'erano tante. Il mio porto d'armi era limitato alla tabaccheria. In uscita di piacere non avrei potuto difenderla.
Sì… proprio così... avrei appaltato il lavoro.

La portai al cinema, all’ultimo spettacolo. Davano un film di Maurizio Merli.

Avevo parcheggiato in una zona poco illuminata; ero abbastanza certo che non avrei trovato un posto migliore e il destino mi diede una mano; in ogni caso, avrei fatto finta di non vederlo, distraendola con la promessa di un regalo.

All’uscita dalla sala volle bere qualcosa. C’era un bar ancora aperto.

S'era messa la solita camicetta bianca da vecchia zoccolona, sbottonata fino in pancia.

Decrepita, incarognita, rugosa, mummificata, ma ancora bona.

Nonostante gli anni addosso, era sempre una gran puttana, niente da dire.

Il barista lasciò gli occhi dentro la scollatura.

«Ci vorrebbe davvero un tipo così... lo sai?

Parlo di quel Commissario...».

«Sì, ho capito.

Fra le tue cosce o in giro per Roma a mantenere l'ordine?».

Forse per la prima volta sospettò che io sospettassi.

«Un altro...».
Però non poteva certo sospettare che quelli sarebbero stati i suoi ultimi bicchierini.
Finoto l'ennesimo giro, ci avviammo verso l’auto.

«È buio qui...».

«Anche prima lo era, no?

Stai tranquilla, amore, ci sono io».

Proprio in quel momento, l’indiano uscì fuori dall’ombra, con una calza da donna sul volto, e mi ferì una mano col coltello.
«Dammi il portafoglio! E tu la borsetta!».
Kelly si spaventò e cercò di fuggire.
L’indiano le fu addosso, la spinse contro il muro e affondò il coltello.
Lo vidi colpire... una… due… tre… quattro… cin… impossibile contarle tutte! A ripetizione, con violenza, in profondità! Sembrava non fermarsi più! Era impazzito!
L’ammazzava! La spanzava!

La Americana si stava sgonfiando sotto i miei occhi.

Aveva finito di ridere alle mie spalle, ora rimaneva uccisa...
Kelly
continuava a strillare come una scrofa squartata. Tutte quelle coltellate non l'avevano ancora stroncata.

L'assassino era in qualche modo ostacolato dal grosso seno spiovente dell'Americana.
Tuttavia, per quanto m’avesse profondamente oltraggiato, mi si raggelò il sangue…
L'indiano la stava sbudellando! Bastardo, falla finita...
Se non m’ero sbagliato, Kelly rimaneva uccisa con 23 coltellate in panza!
Un numero impressionante, che mi diceva qualcosa, anche se non capivo cosa, in quel momento.

Qualcuna frettolosa, poco più d’una puncicata, qualcun altra a tirar via, tipo ‘na romanella, ma pur sempre 23 coltellate nella panza della Americana, Cristo Santo!
Stavo per urlare basta, ma l’indiano ormai si era fermato, e subito dopo si dileguò nella stessa ombra da cui era giunto... con il mio portafoglio... e la borsetta della mia donna... quasi se la dimenticava, quello stronzo!

La zoccolona era seduta a terra contro il muro, a gambe larghe, la bocca aperta e la lingua arricciata sotto il palato…
«Kelly!», strillai, per farmi sentire.
Era sotto shock, ma reattiva: strinse gli avambracci sulla pancia, mentre cercava di mettermi a fuoco.
Per un attimo mi fece pena.
Si dimenava ancora, ma era all’ultimo ballo. Doveva saperlo anche lei, perché i suoi occhi avevano paura, una paura che non le avevo mai visto addosso prima d'allora.
Aveva bevuto da poco, ecco perché le coltellate non l’avevano ancora stroncata. Ma sapeva di dover morire.
Mi sembrava di vedere le budella schizzarle fuori dalla pancia. Però forse era soltanto la mia crudele immaginazione.
In ogni caso il destino della mia donna era segnato.
La troiona, tuttavia, si agitava ancora, cercando disperatamente di piegare la sorte, con le braccia che si aggrappavano alla vita che le sfuggiva, serrandosi intorno al ventre.

Molto sexy mentre crepava, senza dubbio. Recitava bene, come le migliori attrici, ma a differenza di queste non fingeva.
{Ambulanza… ambulanza…}, chiedeva con voce gutturale.
Nonostante tutto, la sciagurata si voleva salvare.
Vedendomi inerte, inebetito, capì tutto…
{Sei stato... tu… vero…? Proprio… tu…!}.

Anche quell'accusa indignata mi ricordava qualcosa...
«Ma che dici?».
{Non lo dico… a nessuno… ma sei stato tu… disgraziato… aiutami…}, era ancora lucida e manteneva il controllo di sé. Era decisa a trovare una via di scampo, anche in quella situazione estrema.
Qualcuno finalmente sopraggiunse, furono chiamati i soccorsi.

Io mi finsi sotto shock, forse lo ero davvero.
Se la Americana parlava, ero fregato.
Ma per ora si limitava a gemere, agonizzante, sbiancata in volto e spaventata; aspettava ansiosa l’ambulanza.
Non capiva che era finita. Oppure non voleva ammettere che qualcosa fosse più forte di lei.
{Perché…?}, farfugliò, con la lingua arrotolata sotto il palato.
Era bella anche così, cazzo.
Eppure lei lo sapeva il perché, vecchia puttana…
«Era un pazzo violento, Kelly. Ma te la caverai…».
Mi fissò con gli occhi sbarrati: se non era già morta, di certo non ne aveva per molto.

L’ambulanza arrivò a sirene spiegate.
La troia fu subito caricata sulla barella. Però, mentre la portavano via, fu scossa da spasmi convulsi…
Non fu una bella scena.
Kelly sarebbe morta lungo il tragitto. L’indiano aveva picchiato duro, senza farsi spaventare dal primo sangue, come sarebbe successo a me.
Comunque i portantini l’avevano caricata come niente fosse.
Il decesso sarebbe stato constatato all’ospedale.

«Salga, dottò... che su' moje c'ha fretta...».
Sì, non potevo rimanere lì. Ero non solo il presunto marito, affranto e sotto shock, ma io stesso un ferito: fu così che mi infilai nell’autolettiga, mettendomi vicino a lei, per tenere d'occhio la situazione e accertarmi che non farfugliasse a sproposito.

Per fortuna, a stento di equivoci, la attaccarono subito al respiratore artificiale dell’ambulanza.

«Come sta?».

«L'hanno spanzata de brutto... nun se campa più al giorno d'oggi...

Ma ce vo' provà a tutti li costi... nun molla...

Però se dovemo da sbrigà, dottò... oppure ce crepa dentro l'ambulanza...

C'ha qualche anno su' moje... ma è bona forte...».

Le presi la mano, lei la strinse: la mia donna non voleva morire, accettava qualsiasi aiuto.
“Non lo dico a nessuno”, aveva promesso. Finora era stata di parola. Ed era troppo tardi per avere la chance di smentirsi.
Mi incuriosiva il fatto che non avesse parlato, nemmeno quando ancora avrebbe potuto; quando, cioè, erano giunti i primi soccorsi.
Una puttana come lei non era certo stanca di vivere.
Ma in fondo doveva aver capito che era inutile arrabbiarsi.

Alla fine le coltellate erano arrivate, diverse delle quali mortali.

Poteva soltanto spremersi per guadagnare un po' di tempo e non fare la figura di quella che veniva caricata sull'ambulanza con il lenzuolo in faccia.

No, il lenzuolo ancora non ce l'aveva.

Mentre l’ambulanza correva all'impazzata, mostrava ancora qualche segno di vita: Kelly si contorceva nella sua agonia e usava gli occhi, non potendo usare la bocca. Erano spalancati, atterriti, e soprattutto cercavano di farsi rimpiangere...
Io, però, non intendevo cascarci un'altra volta.
Lei sapeva perché moriva scannata.

Era inutile provarci ancora.

E poi non aveva tempo.
Kelly era fregata. S'era fatta ammazzare, pur controvoglia.

Gli occhi guardavano gelati il nulla, la mano si staccava dalla mia.

Ormai non potevano più esserci dubbi: sarebbe giunta cadavere.

Ma mentre pensavo questo, ebbe un sussulto: riusciva flebilmente a stringere.

Nel suo cuore di troia, sapeva perché moriva sbudellata, e forse mi stava chiedendo perdono. Lo apprezzai. Anche dalle sue parti c'era una lunga tradizione di coltelli in casi come questo. In patria non avrebbe ricevuto un trattamento migliore. Le strinsi la mano con più convinzione. L'avevo perdonata, nonostante tutto.

O forse si aggrappava semplicemente a me, nel tentativo di arrivare almeno in ospedale, sapendo che non avrei infierito su di lei.

Però mi piaceva questa sua voglia di tirarla per le lunghe, era una puttana dura a morire.

Io sarei morto al solo pensiero di riceverle, quelle 23 coltellate...

Intanto, fra questi pensieri, l'ambulanza aveva inchiodato.

Eravamo giunti.

Non era giunta cadavere, dunque.

Anche se era chiaro che non la salvava nessuno.
L’indiano ci sapeva fare.
Sfiancare una donna come l'Empusa non era facile. Ma lui c'era riuscito.

Certo che se non avesse avuto la mano così pesante... forse la mia donna non si sarebbe lasciata fregare, ma ormai era inutile starci a pensare. L'Americana aveva ricevuto il fatto suo. Adesso era un cadavere in barella.
I portantini la trasportarono nelle viscere dell’ospedale, parlando tranquillamente fra loro.
Kelly era una malata come tanti, in fondo. Non si erano accorti che quella era la mia donna, il più grosso troione mai giunto a Roma dai tempi delle Guerre Puniche.
Mentre era sotto i ferri, il Commissario mi raggiunse e mi interrogò.
Non ebbi difficoltà a rispondere. Mi ero preparato a dovere. Altro che Maurizio Merli... quello mi avrebbe preso a sganassoni al primo sguardo.
Nell’aspettare la ferale notizia, ripensai a quando stavo per accoltellarla io stesso, al colmo dell’ira.
Aveva minacciato di mollarmi, se non le avessi regalato una pietra di cui s'era invaghita.

«Tu non potresti mai uccidermi», mi disse, sicura di sé, a un centimetro dal filo della lama, con le zinne impettite che gonfiavano la camicetta.
E rideva tra i denti, sicura che non mi sarei mai privato di una cagna del suo genere.

«Se devi farlo, fallo qui: infilzami, trapassami...», e si buttò sul divano, aprendo le cosce e stirandosi addosso la camicetta. «Ammazzami, presto! Voglio sentirmi morire».
Non “perché” voleva chiedermi, ma “come”.
Come hai fatto a uccidermi?
Questo voleva chiedermi.
Facendoti scannare da un indiano.
Ecco come ho fatto.
Ma la colpa sarebbe stata di una città violenta, non mia, né di un Commissario incapace.
Il mandante era un’intera città; anzi la capitale; a me non sarebbero mai arrivati.
Le colpe collettive sono una gran copertura.

La zoccolona entrò in coma e vi rimase per diversi giorni.
Il referto narrava proprio di 23 coltellate…! Avevo contato bene.

              

Ormai poteva tradirmi solo con un infermiere necrofilo.
Infine ricordai il significato di quel numero.

O Cassio e Bruto erano anche loro di sangue indiano, oppure era questa città che chiedeva sangue a fiotti e spingeva congiurati e assassini a esagerare.

D'altronde, la stessa Kelly era una troia esagerata e l'indiano si era adeguato.

Quanto a Cassio e Bruto, in realtà avevano colpito una volta ciascuno, per condividere la responsabilità di un immane delitto e al tempo stesso rivendicarne il merito, in solido con molti altri congiurati.

Ma io, a differenza loro, non ebbi la sfortuna di imbattermi in un novello Marco Antonio che sobillasse la Città contro di me.

Tuttaltro.

La Polizia si dimenticò presto di me: una semplice rapina, finita neanche troppo male, non interessava a nessuno di quei tempi, non faceva notizia.
Era così contenta che tralasciò di serbarmi il dovuto rancore.
Si limitò a tradirmi di nuovo.

Ma stavolta divideva con me i soldi che succhiava ai suoi amanti.
In fondo così mi dimostrava di farlo solo per denaro.
Mica stupida…
Quando si dedicava a me, mi aspettava con la solita camicetta allentata fino allo stomaco, sguardo da cagna e bocca spalancata, come se la dovessi accoltellare.

Invecchiata, logora, però eterna, indistruttibile.

Kelly come l'Empusa, esperta mangiatrice di uomini.
Era tornata e si vantava di mangiare anche i coltelli.
Prima o poi l’avrebbero ammazzata sul serio.
Intanto però era tornata.
«Perché?», mi chiese ancora.
Non risposi.
La presi e basta.
Non c’era altro modo di prenderla.

Lettore, se vuoi conoscere l'attrice che ha ispirato questo racconto, clicca qui.

Il racconto è un tributo alla sua bellezza, carisma, personalità.

Gli aspetti negativi sono introdotti per mere esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico.

Il ruolo della protagonista va assimilato a quello dell'attrice rispetto a un film.

La devozione alla persona in questione, da parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta.

LA MORTE CHE UCCIDE

di Salvatore Conte (2016-2021)

«E di Frentzen-Babe, che mi dici?».

«L'hanno fatta fuori».

«Sei sicuro? Quella non l'ammazzi al primo colpo».

«Infatti...

Ma io l'ho vista con i miei occhi mentre la trascinavano per i talloni - le braccia inerti allungate dietro la schiena -  ammucchiandola con indifferenza sugli altri corpi.

Aveva diversi buchi sulla camicetta: senza dubbio s'è mangiata una raffica e le è rimasta sullo stomaco...

Non ha avuto scampo».

«L'hanno ammazzata per ucciderla? Per farle la pelle, insomma? O è stato un incidente?».

«Questo non lo so. Ma posso informarmi».

«Fallo. Voglio sapere chi l'ha uccisa e perché.

Potrebbero essere stati gli iraniani, o i cinesi; o anche i russi. La Frentzen era scomoda. Ma lavorava soprattutto per noi.

E cerca di recuperare il cadavere.

C'è chi pagherà per averlo e tu avrai la tua parte».

Rod Wallace torna sulla spiaggia dove le fazioni somale hanno ammucchiato i cadaveri, dopo il sanguinoso regolamento di conti.

Il corpo della Frentzen, però, non si vede più; e non sarebbe difficile da riconoscere.

Malgrado i cinquantanni e i tanti chili in più addosso, si trucca ancora come una bambola, la camicetta è sempre sbottonata, così da farsi vedere le tette, e le piastrine di riconoscimento (perfettamente inutili) ci vanno a penzolare sopra, entrando nella scollatura: mozzafiato.

Nessuno aveva mai osato toccarla.

«Il corpo non si trova, è sparito dal mucchio dei cadaveri, ma ho preso informazioni e so con quale gruppo si muoveva la Frentzen negli ultimi giorni.

C'è stata una contesa tra fazioni e si sono sparati addosso. Durante la tregua hanno radunato i corpi sulla spiaggia.

La Frentzen, dopo aver perso diversi uomini, è stata circondata ed eliminata con una raffica di kalashnikov, come avevamo già capito.

Mi hanno detto che è rimasta stecchita a terra».

«Chi può aver preso il corpo?».

«Questo ancora non lo so».

«Datti da fare, Rod».

Ancora domande, ancora rischi, ma alla fine - come sempre - qualcosa salta fuori.

«Pare che il cadavere della Frentzen sia stato recuperato dai suoi uomini, i pochi superstiti, e portato a bordo del loro battello.

Devo proseguire con l'operazione?».

«Certo.

Compralo, prima che lo buttino in mare o se lo portino su qualche dannata isola».

«D'accordo, ricevuto».

Le acque si sono calmate.

Rod Wallace sale a bordo della nave un tempo comandata da Anna Frentzen.

«E così tu vuoi vedere cadavere di nostra signora?

Allora tu aspettare...», il bianco dei denti è smagliante.

Wallace rimane interdetto.

«Non ce l'avete voi?

Io pago meglio. Qualcun altro ve l'ha chiesto? I cinesi?».

«È okay... può passare...», interviene un altro del gruppo.

«Accompagnalo tu dal cadavere... ma tienilo d'occhio...».

Wallace viene condotto sotto coperta.

Vi sono due guardie davanti alla porta di una cabina.

Sono tutti negri.

«Rod... vecchio bastardo...».

«Anna...! Questa sì che è una sorpresa...

T'avevo dato per fottuta...».

«Lo sono...».

«Chi è stato?».

«Non lo so...».

La Frentzen è in condizioni tremende: affondata sulla branda, pallida in volto, la bocca impastata di sangue, la testa che le cade all'indietro, diversi asciugamani sanguinolenti sulla pancia, usati come tamponi.

«Senti, Anna... devo comunicare con il contatto».

«Che vogliono...».

«Il tuo cadavere...

E per il momento, gli farò credere di averlo».

«Okay... ma dopo... torna qui... ne ho per poco... Rod...».

«Torno subito».

Wallace torna sul ponte e chiama con il satellitare.

«Allora... hai recuperato il corpo?».

«Sì, ce l'ho fatta».

«In che condizioni è?».

«Ottime».

«Bene. Conservalo al fresco, se ti riesce. E manda qualche foto appena possibile».

Wallace chiude la comunicazione senza fornire ulteriori dettagli e ritorna dalla Frentzen.

La flebo al braccio l'unico sostegno.

«Quando ti ho visto passare, trascinata per i talloni, sembravi morta stecchita...».

«Un colpo... deve aver sfiorato la spina...

Ero tramortita...».

«Il grasso ti ha protetto, Anna. Te la caverai...».

«Quello... che ti è sempre piaciuto...».

«Di te mi piace tutto, lo sai; comprese adesso le pallottole che hai addosso.

La tua barca è all'ancora. Non ti fai portare da nessuna parte?».

«È tutto lontano... tutto pericoloso...».

«Ma... pensi di cavartela lo stesso...? Ci stai provando?».

«Rod... sai usare... la maschera... dell'ossigeno...?».

«Penso di sì».

«Bene... voglio farmi un giro...».

«D'accordo».

Wallace si guarda intorno, controlla l'attrezzatura e l'accontenta.

«Va meglio?».

«Un po'...».

«Hai paura, Anna?».

«Sì... ho paura...», gli occhi guardano lontano, «si vede... vero...».

«Un po'...».

«Io... sono già morta... Rod... ma... la morte che uccide... è quella... che fa davvero paura...».

«E che tipo di morte sarebbe? La morte uccide sempre, no?».

«No... mi hanno sparato... e mi hanno ammazzato... ma non sono morta...

La morte che uccide... non ti lascia scampo... arriva... e non ti rialzi più...».

«E tu hai paura che non manchi molto a quella morte, vero, Anna?».

«Non sono... una stupida... Rod...

Non hai idea... dei buchi... che ho in pancia...», la Frentzen abbassa allusivamente lo sguardo sugli asciugamani insanguinati. «Ma non sono finita... finché non crepo...».

«Giusto modo di pensare».

«Rod... adesso... fammi riposare...».

«Bene, a dopo».

Wallace ne approfitta per comunicare.

«C'è una complicazione».

«Di che si tratta?».

«Il cadavere è ancora caldo...».

«Che diavolo significa?».

«La Frentzen è stata ammazzata, ma non uccisa».

«Senti, Rod... non ho tempo da perdere, sputa il rospo».

«È quanto mi ha detto lei stessa.

È stata colpita a morte, ha preso una raffica in pancia, ma non è ancora crepata».

«Cosa?!».

«La morte che uccide non è ancora arrivata».

«Ma... se non è morta... è stata visitata da un medico?».

«Non c'è molto da fare, lo sa anche lei, è preparata».

«La Frentzen non se lo merita, è una combattente.

Mando un elicottero con adrenalina e plasma».

«Non credo ce ne sarà il tempo, comunque tanto vale provare».

«Tu stalle vicino e falle credere di potercela fare, capito?

È una combattente, ci proverà».

«D'accordo».

Wallace torna sotto coperta.

«Anna... come va?».

«Male...».

«Fatti un goccio di quello buono...», le porta alle labbra la fiaschetta del whisky.

«Sei carino... con me... Rod...».

«Tu sciogli tutti, Anna...

Sei una bella donna, una di quelle che sembrano non nascere più».

«Sei bravo... a distrarmi... mentre crepo...

Ma io... non voglio morire...

Ho dei soldi... da parte... se mi aiuti... li avrai...».

«Non c'è bisogno di soldi, Anna...

Devi cercare di stare calma... i tuoi buchi l'ho visti quando ancora fumavano.

Non sono facili da gestire... ma con una come te non si può mai dire...

E poi... ho una sorpresa per te, Anna.

Il contatto manderà un elicottero con un kit di soccorso...

Le gambe, le senti?».

«Sì... ce l'ho... ancora...».

«Respiri male, Anna.

Fatti un giro...».

Wallace aggiorna il contatto.

«Flebo e maschera dell'ossigeno non bastano più. Che fine ha fatto l'elicottero?».

«Negativo, ci sono problemi. L'elicottero deve raccogliere una priorità superiore.

Ritorniamo all’obiettivo iniziale: il cadavere e informazioni sui mandanti».
«D’accordo, procedo».
Wallace torna in cabina.
«L’elicottero ha avuto problemi, arriverà in forte ritardo, mi dispiace, non dipende da me, lo sai.
Hai idea del perché ti abbiano sparato, Anna?».
«Ti sei... risposto da solo... Rod…».
«Che vuoi dire?».
«Cominciavo… a essere ingombrante… sapevo troppo…

Avevo anche… un certo seguito… fra i negri…».
«Negri…?».
«Io li chiamo così… a loro piace… non è ipocrita… ed esprime forza…
Hanno deciso di fottermi… e di azzerare... il mio gruppo… hai capito… adesso…?

Rod... la morte che uccide... non perdona nessuno...

Sono finita... ma non gli darò... soddisfazione...

Tu... farai sparire... il mio cadavere... gli rimarrà... il dubbio...».
«Anna... chi è stato a fregarti?».
«Davvero... non capisci... ahh...

La maschera… ohh... presto…», ha bisogno di ossigeno.
Sta succhiando disperata quando si scatena l’attacco.

Raffiche di mitraglietta da un motoscafo che si avvicina a forte velocità.

Spari ravvicinati, il nemico è a bordo.

È una donna quella che fa irruzione in cabina, pistola in pugno.

Punta dritto sulla Frentzen e sta per saldarle il conto.

«Ehi...».
BANG
BANG

Wallace la fa voltare e le mette due palle in corpo.

La riconosce subito.

Si chiama Kelly Maddox, è un'esperta di targeting.

«Coglione... che fai... mi vuoi ammazzare...».

«Pensavo lavorassimo per lo stesso padrone, Kelly.

Lo sai, tu, cos'è la morte che uccide?».

La biondona, ingobbita in avanti, lo fissa inebetita.
Gli spari, intanto, si spengono.

Wallace spranga la porta.

«Anna... adesso ho capito...».

«Stronzo...», la sicaria è scivolata lungo la parete della cabina, con le braccia strette intorno all'addome.

«Ascolta, Kelly...

Se non vuoi che la morte ti uccida, devi collaborare.

Noi tre dobbiamo metterci d'accordo.

Ma intanto sono io il capitano di questa bagnarola».

E mentre Kelly è costretta a pensarci su, Wallace controlla che l'ammazzata non sia rimasta uccisa.

E tira un sospiro di sollievo.

Lettore, se vuoi conoscere l'attrice che ha ispirato questo racconto, clicca qui.

Il racconto è un tributo alla sua bellezza, carisma, personalità.

Gli aspetti negativi sono introdotti per mere esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico.

Il ruolo della protagonista va assimilato a quello dell'attrice rispetto a un film.

La devozione alla persona in questione, da parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta.

CHI HA UCCISO LA NUMERO 80?

di Salvatore Conte (2016-2017)

Il pesante corpo della Numero 80 viene trascinato per i talloni fino alla porta del suo appartamento.
Le braccia della monumentale incarnazione di Freyja o Frigga, moglie di Odino, si allargano inerti, allineandosi sopra la testa.
Nonostante il gran fisico, c'è rimasta secca.
«Per favore, Numero 66, facciamo in fretta: il Numero 2 la desidera ancora calda».

«Naturalmente, Numero 11: con il taxi faremo in un baleno».
La Numero 80 viene caricata lunga sui sedili posteriori, con le braccia e le gambe a penzoloni, fuori dalla sagoma del veicolo.

Il taxi riparte e - azionando il clacson - il Numero 66, alla guida, fa scansare i concittadini che affollano la via principale del Villaggio.

«Largo, largo... fate passare, per favore...», con una mano a gesticolare fuori dall'abitacolo.

L'esecuzione è avvenuta in pieno giorno.
La Numero 80 è stata liquidata da una coppia di sicari, che le hanno esploso contro diversi colpi di rivoltella.
«Che volete fare?! Per favore... NO!», le ultime parole, prima di essere raggiunta dalle pallottole.
POW!POW!

POW!POW!

POW!POW!
I colpi sono ripetuti, insistiti, mirati a squagliarle il grasso nella pancia, senza far danni alla struttura intorno.

La Numero 80 - per qualche istante - sembra rimanere in piedi, lo sguardo deciso, nonostante i colpi d'arma da fuoco l'abbiano raggiunta in pieno; poi, però, le gambe cedono improvvisamente, come se il pavimento si aprisse sotto i suoi piedi; gli occhi della Numero 80 si orientano fissi al soffitto, la bocca aperta in un'espressione di tragica meraviglia.
È stata sorpresa nella sua bella abitazione all'interno del Villaggio, la città ideale di Sir Clough Williams-Ellis, il paradiso perduto, un incompreso lamento sulla fine dell’Occidente, in affitto al Numero 1 dal 1967.
La bella cinquantenne -  chiamata anche Freyja o Frigga, per la somiglianza, a grandi linee, alla moglie di Odino, raffigurata in statua nel Villaggio - con lo sguardo penetrante, il sorriso sfuggente, le forme procaci, la tanta... carne e il grasso vellutato che la gonfiavano in maniera ineffabile, aveva reso succubi e tributari numerosi... concittadini; il Pallone guardiano, il grande globulo bianco, il Rover, non l'aveva mai intercettata, perché Frigga non aveva mai cercato di fuggire: il Villaggio le piaceva e stava diventando il suo Regno; aveva da poco festeggiato il Solstizio d'estate, come si faceva un tempo, proprio da quelle parti.
Il Numero 2 era stato chiamato dal Numero 1, ricevendo precise istruzioni.

Questa la fine della Numero 80.
Giunta in taxi all'abitazione originaria - ante avanzamento - del Numero 2 (e non presso la prestigiosa Green Dome), viene scaricata e trasportata dentro a braccia.

«Accidenti, quanto pesa!».

«E in più c'è tutto il piombo che ha incassato».

I due vanno diretti in camera da letto.

E vengono congedati all'istante.
«Finalmente...».
Il Numero 2 si dà subito da fare.
Il corpo è ancora caldo, come voleva, e lui pronto, come sperava.
«Fantastico...».
Affonda i colpi contento.
«Per favore... no... no...», il timbro gutturale, oltretombale.
Il timbro della Numero 80!
«Che cosa...?!», benché eccitato da morirne, il Numero 2 si ferma, impietrito, e si sfila. «Non sei ancora morta...?!».
È costretto a finire di mano.

«Quegli idioti...», ha appena ripreso fiato.
Chiama l'ospedale del Villaggio e chiede un taxi-ambulanza, ossia un taxi con rimorchio usato per il trasporto di feriti, malati e salme. C'è un'autopsia da eseguire.

«Numero 80... se non crepi... ti faccio rimettere a posto...

Ma dovrà rimanere un nostro segreto... capito?».
«Volevano uccidermi...».
Giunta all'ospedale, la Numero 80 viene trasportata nella sala delle autopsie.

Il Numero 2 se ne occupa personalmente.

«Teledottore, eseguire autopsia sulla Numero 80».

Rispondendo alla voce del Numero 2, diversi bracci meccanici entrano in funzione, agitandosi intorno al corpo della Numero 80, steso sul lettino con gli occhi sbarrati: sembrano le spire di un serpente.

{Negativo. Autopsia richiesta in contrasto con protocolli operativi. Numero 80 non risulta deceduta}, una voce metallica risuona nella sala.

«Teledottore, calcolare probabilità del decorso medico».

{Probabilità di decesso: 98,0%.

Probabilità di sopravvivenza...}.

«2%, ovvio», il Numero 2 anticipa la risposta.

{Negativo.

Probabilità di sopravvivenza: 1,8%.

Probabilità di sospensione vitale: 0,2%}.

«Teledottore, analisi dei colpi fatali».

{Presenza di ferita d'arma da fuoco in corrispondenza di: stomaco.

Presenza di ferita d'arma da fuoco in corrispondenza di: fegato}.

«Teledottore, rimani in attesa di istruzioni».

{Ricevuto}.

Il Numero 2 si rivolge alla Numero 80.

«Almeno due colpi non ti lasciano scampo! Hai sentito?».

Frigga annuisce, sconvolta.

«Io... non pensavo... io...».

«Il Teledottore non sbaglia mai. Sei rimasta uccisa, Numero 80».

«Numero 2... aspetta...  Numero 2...», lo chiama per numero... due volte... sa che ha reso succube anche lui (ne ha avuto recente conferma), potrebbe chiamarlo Numero 82 ormai... ma con la paura della fine sul volto, la paura di chi ha ricevuto la propria sentenza.
«C'è solo una possibilità, Numero 80... anzi una virgola ottanta.

Non vuoi tentare la fortuna?».

Frigga annuisce, disperata.

«Teledottore, eseguire protocollo di valorizzazione delle probabilità di sopravvivenza».

{Ricevuto}.

"La Numero 80 rimane uccisa": è il titolo principale del Tally Ho, il giornale del Villaggio in edizione straordinaria.

"Un'esecuzione a colpi di rivoltella. I sicari non le lasciano scampo. Il corpo, gonfio di piombo, è stato trasportato all'Ospedale per la regolarizzazione del decesso e l'autopsia di rito".

Allorché il Numero 6 legge la prima e unica pagina del giornale, chiama un taxi e si fa condurre all'ospedale.

In molti - in effetti - devono aver visto, ma nel Villaggio, e probabilmente ovunque, "a still tongue makes a happy life".

Va diretto in sala autopsie e coglie il serpente metallico intento a operare sulla Numero 80.

«Che bisogno c'era, Numero 2!», con la tipica aggressività degna del suo predecessore. «Di sicuro lei sa chi l'ha fatta fuori, come e perché!».

«Mi meraviglio di lei, Numero 6. Non c'è forse bisogno di aiutarla, pur se le rimane poco da vivere?», ricambiando l'irruenza dell'interlocutore con divertiti toni sibillini.

Il Numero 6 si avvicina al lettino e la osserva.

«Non è ancora morta. E questa non è un'autopsia.

Tuttavia... se ciò non rimanesse un segreto ben custodito... chi l'ha uccisa potrebbe riprovarci.

Mi comprende, Numero 6?».

«Mi fermerò qui per un po', allora. Mi fingerò malato».

«Molto bene, Numero 6. Io andrò a organizzare i funerali.

Teledottore, proseguire con il protocollo di valorizzazione delle probabilità di sopravvivenza.

Il Numero 6 è autorizzato a impartire istruzioni in mia vece».

{Ricevuto}.

BIP-BIP-BIP

Suona il telefono rosso: il Numero 2 lo porta sempre con sé.

È il Numero 1: non può essere nessun altro.

«Tutto finito, Signore.

Sì, certamente, Signore... l'operazione è conclusa, i sicari non hanno risparmiato piombo, l'obiettivo è deceduto quasi sul colpo.

Sissignore. Certamente. Sissignore».

La comunicazione è conclusa.

Il Numero 2 è perplesso.

«Qui mi gioco il numero, Numero 6. E anche di più...».

«Chi è il Numero 1?».

Il capo del Villaggio lo osserva, abbassa gli occhi, e se ne va.

«Io so chi è il Numero 1!

Frigga... chi è stato?», un attimo dopo si rivolge alla donna agonizzante sul lettino d'ospedale. «Ti hanno fritto, non vedi, non capisci?», i toni non sono gentili.

La Numero 80 ha subito un'anestesia locale, è in grado di parlare.

«Due numeri... ohh... ohh... hanno sparato... diverse volte... ohh... sono rimasta uccisa...».

«Non è ancora detto. Quali numeri?!».

«11... e 66... ohh... non mi terrai rancore... per quella volta...».

«No, non ti preoccupare. Quei due te li ammazzo volentieri».

«Toglimi una curiosità... perché ti sei dimesso...».

«Non mi sono dimesso.

Ho preso in giro il Numero 1.

Come lui prende in giro voi».

«Però... al Villaggio... si sta bene... ohh... a parte il piombo... che ho sulla pancia...».

«Insieme a te ci starei bene anch'io...».

«Non ho molto tempo... ohh... purtroppo... ohh...».

«Altrimenti?».

«Sarei tua... Numero 6...».

«Ci sarà un nuovo Numero 2, Frigga. D'altronde i globuli rossi non vivono più di quattro mesi.

E tu dovrai stare molto attenta, abbottonarti la camicetta e passare inosservata.

So che non sarà facile».

«Forse... mi serve... un addendo...».

«Se non rimani uccisa, avrai quello che ti serve».

LO SCERIFFO

di Salvatore Conte (2017-2023)

«Rentcar ha parlato: grido di aiuto da carro di ferro. Fermato in Gola di Puma».
«Ferro? Credo sia plastica.
Il grido d’aiuto è un Sos automatico?».
«Lingua Dritta ha parlato».
«Andiamo a vedere. Prendi i cavalli».
John Vernon è lo Sceriffo della Contea, Ombra Tagliente il suo unico vice, tre penne che pendono dall'orecchio.
In quest'angolo sperduto d'America anche i bianchi vivono nelle Riserve.
I vecchi nemici sono quelli di cui hanno più nostalgia. Tutto il resto non c'è più.
Gli hanno chiesto la resa incondizionata, di consegnare i fucili e arrendersi.
Pensavano di aver vinto, ma sono stati sconfitti.
Presto ci sarà chi si prenderà cura di loro. Potranno chiamare un numero d'emergenza e saranno salvati.
Hanno eletto John Vernon perché gli ha promesso di non aver tempo per loro. Un uomo col fucile può salvarsi da solo. Lui dovrà pensare a chi non ce l'ha.
Quando verranno a portarglielo via, combatteranno l'ultima battaglia e poi scompariranno, come quei musi rossi di cui non avevano capito tante cose.
La nazione indiana s'è guadagnata il loro rispetto, e adesso vedi spesso un viso pallido e un muso rosso camminare insieme; il primo può imparare tante cose; come perdere mantenendo la propria gloria, per esempio.
La strada s'inerpica tortuosa nel deserto; è una semplice pista di sabbia, delineata più da cactus che da cartelli.
Escursionisti, ciclisti, automobilisti, variamente sprovveduti, sono sempre più frequenti.
Niente li spaventa, nemmeno i cartelli che segnalano la presenza del puma.
Troppo forte il desiderio di fuggire dal progresso.

«Ci siamo...».
Lo Sceriffo avvista l'auto: ha perso la carreggiata e si è capovolta; una persona è a terra nei pressi del veicolo.
Smonta da cavallo e scorge il maestoso puma che troneggia sulla cresta di roccia.
Puzza di benzina non ce n'è, può lasciarla dov'è.
Lei sente la sua presenza e spalanca gli occhi neri.

Vernon tira un sospiro.
«Sente dolore, signora?».
«Lei... è un poliziotto... sia ringraziato il cielo».
«Sono lo Sceriffo.
Si sente bene?».
«Io... io... ho bevuto... solo un goccio...
Mi farà l'alcol-test... Sceriffo?».
L'aiuta a tirarsi su, sembra non aver niente di rotto.
«Già, l'alcol-test...
Ombra Tagliente, vallo a prendere...».
L'indiano torna con la borraccia.
«Su, beva un goccio, le farà bene; poi vedremo come regge l'alcol...».
«Ma così... mi arresterà... superre... supperro... insomma... rischio di supperrare... il limite... consentito... dalla legge...».
«Signora, siamo nella Contea di Hot Water.
Qui la legge sono io.
Sono io a decidere se qualcuno ha bevuto o no, e sempre io a decidere se ha bevuto per un valido motivo, oppure no.
Non sarà certo una fottuta macchina cinese a stabilirlo, non nella mia Contea, almeno. Non è vero, Ombra Tagliente?».
«Sceriffo parla con lingua dritta».
«Sentito?».
«Beh... io... ero un po' giù... Sceriffo... e ho bevuto un goccio... per tirarmi su...
Non avrei dovuto farlo... lo so... ma questo... paesaggio... mi ha fatto perdere la testa...».

«È un motivo valido, signora.
Per Bacco e per Manitou... whisky e winchester hanno fatto insieme questo Paese: vogliamo dimenticarlo?».
«AAAHHH...!», la signora ha inquadrato il puma. «Quella bestia... avrebbe potuto uccidermi...».
«Quel puma l'ha protetta dagli sciacalli».
«Cosa? Ha protetto me? Ma se neanche mi conosce...
E perché l'avrebbe fatto?».
«Un puma tiene fermi mille sciacalli.
Non si fa forte del numero, non conta gli avversari.
È come uno Sceriffo d'altri tempi».
«Cambiando discorso, può dirmi chi è quello?».
«È il mio vice».
«E perché porta delle penne in testa come un indiano nei film?».
«Perché è un apache, signora».
«Un apache?!».
«Non si senta in colpa per loro, qualcuno è rimasto.
A me non serviva un apache con un cappello da cow-boy in testa.
Certo, il Governatore ha avuto da ridire, ma io ho deciso così.
E qui c'è gente pronta a combattere l'ultima battaglia. Finché non avranno il coraggio di vincerla, io sono la legge.
Il muso rosso è in gamba, questo è ciò che conta».
«Lei chiama un suo dipendente “muso rosso”...».
«Signora... per me un negro è un negro, e un muso rosso è un muso rosso.
E non è un dipendente, è il Vicesceriffo della Contea.
Ombra Tagliente non dipende da nessuno. Se non rigassi dritto, mi scalperebbe in meno di un minuto.
Per questo l'ho assunto.
E ne cerco un altro.
2.000 dollari al mese.
Ma niente curriculum.
E non mi basta che mi centri una bottiglia da duecento metri.
Lo faccio annusare a occhi di giada e mi faccio dire che ne pensa».
«Occhi di giada... una squaw indiana, suppongo».
«No, un puma femmina.
Ha occhi come i suoi, signora».

Risponde con una smorfia divertita.
«Mi dica... questi puma... non sono pericolosi? Nessuno li caccia?».
«Nella mia Contea, per chi caccia il puma c'è il capestro, signora.
Vivono su questa terra da molto più tempo di noi, sono un'unica cosa con questo paesaggio, e che io sia dannato se permetterò a un fottuto delinquente di dar loro fastidio».
«Lingua Dritta ha parlato».
«Lingua Dritta è lei, Sceriffo?».
«I musi rossi mi chiamano così.
Amministro la giustizia nella loro Riserva».
«Allora lei è Sceriffo e anche Giudice».
«C'è forse differenza?».
«Di solito sì. Dunque lei potrebbe non solo arrestarmi, ma anche condannarmi...».
«Già, dovrei condannarla all'ergastolo, da scontare nella prigione della Contea.
Ma poiché non ravvedo colpe nel suo maldestro comportamento, mi vedo costretto a rilasciarla».
Sorride.
«Sceriffo... lei è un uomo così forte, eppure si fa incantare dagli occhi di una donna?».
Una lunga pausa.

Un sospiro.
«Sono uno Sceriffo. Non un uomo forte, signora».
«Dara. Mi chiamo Dara Bubamara, e vengo da Boston. Non mi ha nemmeno chiesto la patente».
«Nessuna patente al mondo potrebbe dimostrare, in questo momento, che lei sia una buona guidatrice; perciò non mi serve vederla».
Lo guarda, stupita.
«Sceriffo... lei e il suo vice mi avete salvato la vita, questa è la verità.
Mi dispiace aver creato un tale problema.
E le sarei grata se potesse darmi un passaggio con la sua macchina di servizio alla più vicina agenzia di noleggio auto».
Vernon fa un cenno al suo vice.
«Naturalmente. Non penserà che la lasci qui, no?».
Quando vede i cavalli, la Bubamara rimane basita.
Scuote leggermente la testa.
«No... questo no... io non ho confidenza con gli animali...».
«Dietro di me non le accadrà nulla.
Ombra Tagliente l'aiuterà a montare».
«Vada piano, la prego».
«Lei si stringa forte».
«Non c'è bisogno di dirmelo...».
Dopo non molto si fermano, è calata l'oscurità.
Ombra Tagliente accende il fuoco.
«Come si sente?».
Un silenzio imbarazzato.
«Sono un po' stanca, ma è stato emozionante cavalcare.
In fondo ero qui per fare qualcosa di diverso.
Sceriffo... questi sono 200 dollari per il carro attrezzi. Sono sufficienti?».
«Li tenga, all'auto penserà il vecchio Jack».
«Il vecchio Jack...».
«Non riuscirei mai a rifilargli un dollaro.
Non mi guardi così.
Si usa così da queste parti.
Chi prende soldi dallo Sceriffo è considerato alla stregua di un usuraio.
È gente che è rimasta molto indietro.
Se la può consolare, non prenderebbe soldi nemmeno da lei».
«E come fa a dirlo?».
«Lo dico perché lo conosco. Jack Stanton è un bravuomo. E se lei avesse un problema, lui si farebbe in quattro per aiutarla.
Lo Sceriffo deve conoscere tutti.
Qui le persone non hanno codici fiscali. Hanno una reputazione».
«Quell'ascia è molto bella, è sua?
È il tomahawk che mi ha regalato la tribù di Ombra Tagliente.
È l'arma dell'ultimo giudizio, perché per un uccidere con un tomahawk non basta premere un grilletto. Tutta la mano deve volerlo. E anche il braccio.
Insomma, devi volerlo davvero, stai condannando a morte il tuo nemico. È come il martello dei nostri giudici. Il movimento è secco, coordinato, la decisione è presa: due culture tanto diverse, gli stessi gesti.
Comunque con questo arnese, il qui presente Ombra Tagliente può dividere una testa in due parti uguali a cento metri di distanza, sotto la luce della luna.
Forse il suo nome le dice qualcosa, adesso».
«E tutte quelle medaglie sull'uniforme? Cosa rappresentano?».
«Solo cianfrusaglie, le danno a tutti».
«Viso pallido parlare con lingua biforcuta, signora».
Gli tira un sassetto.
«Lo sai che non devi contraddirmi, sporco muso rosso».
«Lingua Dritta salvato molte persone, musi rossi, negri, peones.
Non guardare pelle, lui Sceriffo per tutti, ma se tu non rispetti sua legge, lui non portare da giudice. Io paura quando lui arrabbiato».
«Smettila, o spaventerai la signora».
Si gira, Dara si è addormentata.
Vernon si allontana un po', si trova una roccia e si siede, guardando lontano; il tomahawk dietro la schiena.
Si volta intercettando un'ombra.
«La disturbo, Sceriffo?».
«John. Mi chiamo John Vernon, e sono di queste parti.
Credevo stesse dormendo...».
«Ho pensato che una notte così andasse passata come sta facendo lei, guardando lontano...».
«Lei è una donna molto strana, signora Bubamara.
Come le ho detto, anzi come lei stessa ha notato, sono uno Sceriffo, non un uomo forte».
«Come dice il suo vice, lei parla con lingua biforcuta...
Eppure la chiamano Lingua Dritta.
E così lei è forte con tutti, tranne che con una bella donna.
Non sono più molto giovane, ma so di essere ancora piacente.
C'è qualcosa di male in questo?».
«Davvero niente».
«Non vorrei sbagliarmi, ma la sua solitudine si percepisce lontano un miglio, come un urlo silente.
Lei ama la natura selvaggia, gli animali, le culture diverse dalla sua, lo spirito che anima tutte le cose.
Non può stupire quindi che a lei manchi qualcosa che racchiuda tutto questo in un'unica, perfetta espressione.
Forse in città avrei aspettato mesi, anni per fare un discorso così, ma in questo santuario le parole vengono da sé.
Scusami, John, se ho parlato troppo».
«Se si parla dritto, non c'è male nelle parole.
Ma l'incidente è stato troppo grave.
Forse tu ti sei ripresa, io no».
Dara ammutolisce per l'emozionante, inequivocabile complimento.
Passa un lungo silenzio. Entrambi guardano lontano.
«Ci sono battaglie che durano molte vite. E che non si vincono mai».
«Quali, ad esempio».
Ma lui non risponde.
«Lei parla come uno sciamano indiano, Sceriffo».
«Non sono diversi da quello che eravamo noi, una volta».
«La lascio ai suoi pensieri, Sceriffo. Io non sono così complicata.
Credo di essere sempre la stessa...».

E si infila gli auricolari.
La musica dello smartphone filtra ovattata nel silenzio del deserto.
Impossibile non riconoscerla.
«È una canzone che parla di morte, ma sembra un inno alla vita.
È pervasa da nostalgia e speranza, realismo e sogno.
È bellissima, ogni volta mi fa tremare».
Tre minuti dopo gli passa l’apparecchio e gli auricolari, come se gli appartenessero.
E si allontana, tornando a dormire.

E le sembra che dal deserto suoni l'armonica.

Non è un sogno. Ombra Tagliente sta suonando per lei.

Conosce a perfezione il capolavoro di Bob Dylan.

Knockin' on heaven's door...

Sugli occhi verde corre la rugiada.

A occhio e croce ha quasi sessant'anni, ma è ancora nella maturità di una stravolgente, raffinatissima bellezza. Come il fiore che a dispetto dell'autunno rimane fresco mentre gli altri avvizziscono, la Bubamara fa sospettare che il tempo non sia per tutti uguale.
Non è l'alba, è mattino inoltrato quando Dara riapre gli occhi neri.
«Ma è tardi... state aspettando me... ero molto stanca, scusatemi».
Ombra Tagliente le porge una tazza di caffè caldo.
«Perché il suo vice non parla quasi mai?».
«Gli apache non danno importanza alle parole, men che meno alle nostre».

«Anche in quella canzone ci sono poche parole».
«È vero, tutto il resto lo dice la musica.
Se la sente di tornare in sella, signora Bubamara?».
Passa una coppia di ciclisti.
Passa la sabbia sotto gli zoccoli.
Ombra Tagliente indica l’orizzonte.
Lo Sceriffo si ferma e prende il cannocchiale.
Un folto gruppo di avvoltoi volteggia sulla prateria, ai limiti del deserto.
«Devo andare a controllare, signora Bubamara.
Ombra Tagliente la accompagnerà in paese».
«Se corre così, non vincerà mai la sua battaglia», la reazione è pronta, quasi preparata.

Ma anche Ombra Tagliente è pronto. Suona ancora dal deserto l'armonica. Una nota dolente di gioia, che invita a non arrendersi, a stringersi insieme, a ravvivare il fuoco nel bivacco, in mezzo alla prateria, al centro delle tenebre. Basterà una canzone e la voglia di cavalcare insieme.

Quando le note di Bob Dylan sfumano, attacca lei.

«Non credo sia prudente separarsi dal suo vice. Le sono così d’impaccio qui dietro?».
«Dovrebbe chiedere al vecchio Black».
«Il vecchio Black...».
Un nitrito le risponde.
«Un altro che si farebbe in quattro per aiutarmi, scommetto».

«Si occupa di qualcosa nella vita?».
«Sì, di non farmi pestare i piedi».
«Questo sarà utile.
Ombra Tagliente, dalle una stella.
Non voglio civili tra i piedi quando lavoro.

Tu, ragazzo di campagna, le insegnerai quello che sai, e tu, Bubamara - che vieni dalla città - insegnerai a lui come sopravvivere nelle condizioni più estreme.

Sei in prova, ragazza, non dimenticarlo».

E con un colpo di sperone, sferza il vecchio Black e le reni di Dara, lanciandosi lungo il pendio.

Il bestiame di Wilcox è stato avvelenato, un po’ come tutto, ormai.
Non fa eccezione Dara Bubamara, che ha bevuto il veleno da cui non si fa ritorno, che non conosce antidoto.
Sole di Notte ha imparato a cavalcare e a sparare. È una dura, la città l’ha resa forte. Il resto sono dettagli.
Lo stregone apache le ha regalato la cintura della medicina.
Perché i cavalli le sono soggiogati e la pistola la parifica al sesso dell’uomo.
Ma senza medicina non avrà mai potere.

Quel giorno lo Sceriffo è nella Riserva, Ombra Tagliente a tradurre un detenuto nelle prigioni dello Stato, e Bubamara di servizio in paese.
Quel giorno si spara.
Una banda di narcotrafficanti fa una scorribanda a Hot Water.
Le informazioni sono giuste.
Arriva la chiamata d’emergenza, ma la Riserva non è dietro l’angolo.
Lingua Dritta si scusa con i Capi e sferza il vecchio Black.
Quando non vede Dara tra la folla, non ha nemmeno la forza di parlare.
Sempre meglio che vederla a terra, si dice.
C’è anche il Sindaco, una brava persona.
Lui, però, si fa raccontare i fatti dal vecchio Jack, che oltre ad essere una brava persona, ha la semplicità di chi lavora e non frequenta i politici.
«Hanno ammazzato Bill e fatto il colpo. E preso Dara e Amabel, la figlia della signora Carson.
Erano una ventina, su quattro o cinque pick-up. Hanno sparato con fucili mitragliatori. Senza lo Sceriffo, nessuno se l’è sentita… beh…», con una vergogna oggi sconosciuta.
«Non si poteva fare niente, Jack».
Scuote leggermente la testa, non è convinto, qualcosa non gli torna.
«Sono andati in direzione del confine», conclude così, mancava solo quello.
«Erano messicani, Jack?».
«Io non li chiamerei così».
Poche informazioni, semplici e chiare, nello stile di una volta.
Negli occhi lo sguardo che fu di Annibale al Trasimeno e a Canne, di Ulisse davanti ai Proci.
Ma ancora più disumano, perché in quell’epoca non sorgeva da un sentimento tanto alieno.
«Jack, portala al Sindaco».
Anche Ombra Tagliente è rientrato, e in quel momento si sfila la stella e la lancia allo Sceriffo.
«No, tu no.
Perderai il posto.
Questo compito spetta solo a me».
Negli occhi dell’indiano la totale indifferenza a quelle parole.
«Ombra Tagliente prendere scalpo o morire».
«Tu non prenderai niente, idiota!».
Quello, però, è già partito per l’Ufficio.
«Anche questa.
E non far muovere nessuno. Non servirebbe a niente.
Di’ alla mamma di Amabel che faremo il possibile».
«Sissignore».
Vorrebbe aggiungere qualcosa, ma quando gira la testa, lo vede a cinquanta metri, diretto all’Ufficio, dove presumibilmente farà ricorso all’armeria.

«Idiota! Non dovevi sparare!».
«E perché? Chi ce lo ha impedito?
L’abbiamo fatto anche a Rock Spring…».
«Non tutti i posti sono uguali, idiota!
Vi avevo detto che dovevamo prendere i soldi e basta.
Pedro: tu e i tuoi uomini rimarrete indietro e controllerete la pista».
«Ma capo… i federali ci metteranno giorni a organizzarsi e noi siamo quasi alla frontiera…».
«Non ci sono solo i federali, imbecille.
Fai come ti dico o t’ammazzo.
E voi state lontano da quelle due, cabrones!
Ci salveranno le chiappe, se qualcosa dovesse andare storto».
«Ma cosa potrebbe andare storto, con questi?», e mostra, sicuro di sé, il fucile mitragliatore.

“Sono prontamente scattate le indagini della Polizia di Stato sulla rapina che è costata la vita all’impiegato postale di Hot Water, Bill Walker.
Proprio in questo momento, purtroppo, Sceriffo e Vicesceriffo di Contea risultano dimissionari.
Se venisse confermata l’ipotesi del rapimento di due donne, interverrà anche l’FBI. Mentre, qualora le tracce portassero in Messico, scatterebbe subito la rogatoria internazionale.
E passiamo ora…”.
È la televisione dell’unico saloon di Hot Water.
Gli sguardi bassi.
Non si poteva fare niente.

«Ombra Tagliente fatto segnali a gruppo di idioti», è un raro momento di pausa, per far rifiatare i cavalli.
«Hai fatto bene. Due idioti sono già molti».
Non è più tempo d’ombre rosse.
Le ombre sono sempre più cupe.
«Ma non si allontanino troppo.
Se non avremo fortuna, voglio che riportino a casa le donne».
«Loro sapere.
Ma capire, non capire.
Guerrieri non aspettano».
«Lo so, dannazione. Lo so.
Ma non voglio perderne ancora.
Basta.
Basta così».
Lo sguardo si sposta.
«Siamo in Messico, si sentono al sicuro, hanno già rallentato, si sbronzeranno».
«Lingua Dritta ha parlato».
«Stanno andando verso la Sierra.
Devono avere un covo.
Spartiranno i soldi lassù.
Ci saranno prima di notte».
«Lingua Dritta ha parlato».
«Li aspetteremo alle Gole della Morte, salendo per il fianco della Grande Madre».
«Ombra Tagliente incontrerà i Grandi Capi senza vergogna».
«Ombra Tagliente serve a me.
Vamonos».

Cavalca con occhi vuoti.
A stento nota il braccio teso di Ombra Tagliente.
«Grande Signora non appare a tutti».
L’aquila volteggia in cima alla Sierra. Sembra aspettarli.
Ma lui è un non vivente.
Si chiede se abbia fatto la scelta giusta, se non fosse stato meglio tentare il tutto per tutto in un altro modo.
Si chiede se Sole di Notte sia ancora viva.
It's getting dark, too dark to see.
That cold black cloud is comin' down.
Il sole è ancora alto, ma intorno a lui si fa ombra.
Il bandito sta per sparare.
Lui ha un solo tentativo.
Punta il fucile.
Non può sbagliare.
BANG
E invece sbaglia.
Lo Sceriffo ha bevuto il veleno da cui non si fa ritorno, che non conosce antidoto, che gli fa sbagliare cose che per lui sarebbero facili.
Il gelo della morte lo pervade come se il suo spirito tramontasse con Sole di Notte.
Il veleno del dio lo consuma da dentro.
Con la coda dell’occhio vede Ombra Tagliente disegnarsi il volto in piena corsa, sfrenato come soltanto un guerriero apache può essere quando affronta la morte.
Combatte per loro, per Sole di Notte, e per lui.
E anche lui deve farlo.

I pick-up sono quattro, sul terzo ci sono le donne.
Il fondo della gola è cosparso di chiodi a tre punte.
Urla di disappunto si alzano dai veicoli, moltiplicandosi sui ripidi crinali.
Il primo pick-up si ferma non lontano da un saguaro contro cui è stato affisso un foglio di carta.
Quando le voci si placano, suona l’armonica.
«E questa musica, che cazzo è?», chiede l’autista del capo.
«Non conosci Bob Dylan, idiota!?».
È il segnale per Dara.
Siamo venuti a prenderti.
Le pareti sono a picco, l’eco è ripetuto mille volte, impossibile individuare l’origine del suono.
«Vallo a prendere», gli indica il foglio.
«Ma…».
«Muoviti…», gli ha già puntato la pistola alla tempia.
E quello, pur riluttante, va.
«Leggi».
«Tu il dinero, io le donne e chi ha sparato a Bill. E non ci facciamo male. Vai avanti a piedi e lascia il resto sul posto.
Ma che cazzo vuol dire?».
«Figlio de puta…
Passa il megafono, muy rapido…
E mangiati quel coso!
CABRONES, APRITE LE ORECCHIE!
SIAMO SOTTO TIRO, NON FATE CAZZATE!
HO FATTO UN PATTO.
ANDREMO AVANTI A PIEDI, CON TUTTI I SOLDI, E NON SUCCEDERA’ NIENTE.
LASCIATE LE DONNE DOVE SONO.
FUORI, CABRONES!».
Si radunano intorno al primo pick-up.
«Paco, vieni qui».
«Che c’è, capo…».
«Comincia a correre… da quella parte…», indicandola con un breve cenno della testa.
«Ma… ma…», e - pur riluttante - comincia a correre.
BANG
BANG
Fa solo pochi passi e il capo gli spara alla schiena.
«Ecco che succede a chi non m’ascolta, cabrones!
Vamonos…».
Se ne vanno.
Sono tanti.
KABOOM
Fossero stati altri tempi, non uno si sarebbe salvato.
Ma stavolta l’esplosione è un semplice avvertimento.
Non tornate indietro.
Non sono del tutto solo.
Il capo della banda lo ha capito in tempo.
Li fa camminare un po’, poi si sgancia.
Dara è già in groppa a Black.
Non aspetta.
Lo va a prendere.
Il vecchio Black si impenna davanti al suo padrone, partecipe di ciò che sente intorno a sé.
È la forza di fronte a cui anche un dio s’inchina.
Scena d’altri tempi, o di tempi nuovi, è una scena che sta tutta in uno sguardo.
Non si dicono nemmeno una parola.
Sta tutto in quello sguardo.

«Prendo questi…».
Il gestore dello store rimane incantato sulle telecamere di sorveglianza, esterne al negozio.
Due cavalli sono entrati nella main street del paese. Vanno a passo lento. Trasportano carichi preziosi. Hanno battuto sentieri selvaggi.
«Scusi, ma dove va?», il cliente è di passaggio.
Ai lati della main street tutto si ferma.
«Sa chi sono?», domanda il cliente al gestore, dal marciapiede.
«È lo Sceriffo».
«Non porta la stella…».
«Bastasse quella…».
Un vecchio si alza a fatica dalla sedia a dondolo e si porta in mezzo alla strada. Si regge in piedi con un bastone. Nell’altra mano ha una busta. Forse è il più anziano del paese.
«Maledetta artrite…».
«Ci vuol altro per metterti ko».
«Giovanotto… il Sindaco di questo posto mi ha lasciato qui ad aspettarti.
Io non so perché non l’abbia detto a qualcun altro».
«Fanno lavorare sempre gli stessi, Fred».
«Mi ha detto… che hai perduto queste…».
Gli allunga la busta, ma lui non la prende.
«A me farebbe piacere che tornassero al loro posto…
Alla mia età non sai mai quello che succede.
John… vecchio demonio… vorrei che tu la riprendessi subito».
La prende.
E se la mette, lanciando l’altra a Ombra Tagliente.
«Grazie, Fred.
Cerca di riguardarti, perché non ne verranno altri.
Che fine ha fatto la tua razza?».
«L’artrite… se l’è portata via l’artrite… maledetta artrite».
«Credo sia stato qualcos’altro».
Dietro di loro, il pianto di gioia della signora Carson, che riabbraccia la figlia.
Una scena d’altri tempi.

“Nuovo successo per la Polizia dello Stato, le cui serrate indagini hanno portato al rilascio delle due donne rapite nella Contea di Hot Water.
In caso di necessità, rivolgetevi al numero di emergenza in sovraimpressione.
Oltre confine, intanto, proseguono i regolamenti di conti tra bande di narcotrafficanti; si è registrato perfino l’uso di dinamite e un cadavere è stato rinvenuto orribilmente scalpato, cioè privo della cotenna”.
«Diablo! Mi voglio segnare quel numero… in caso di necessità…», dice il cantinero messicano dell’unico saloon di Hot Water. «Qualche notizia, però, Sceriffo, non sembra del tutto inventata…».
«Beviamoci sopra, Pancho.
La verità ha sempre sei colpi. E non sbaglia mai.
E qui sarà sempre così».
«Salud!».
Bevono un sorso insieme.
Ci sono fior di messicani in quella terra. Gente d’onore, laboriosa, onesta.
Lo Sceriffo deve conoscere tutti.
«Perché io sono la legge».

PITT AND THE PENDULUM

di Salvatore Conte (2017-2023)

C'è un grande fiume, ma non siamo in Africa, né in America: siamo a Londra.
“London Pit is dry” è la frase in codice per quando la tireranno giù, perché prima o poi capita a tutti, anche alle puttane-assassine.

La mania di copiare porta a soluzioni poco originali; a portata di meningi c'è il famoso "London Bridge is down": perché sforzarsi?
È l'anguilla del grande fiume di Britannia, perché non riesce a prenderla nessuno; ma non certo per il corpo leggero e guizzante, che in effetti è un vecchio e solido monolito, con due morbide zinne.
Ingrid Pitt è la potente boss della Mafia londinese dei Docks.

Si è fatta le ossa tra canali, banchine e anse del fiume.

La carne, invece, se l’è portata da casa, da Newcastle.

Nonostante l'età matura, è sana come un pesce e ancora solida e potente.

Non si preoccupa del tempo che le rimane: ciò che conta è il presente, il top elastico sempre gonfiato dalle sue tettone; un vero marchio di fabbrica; ne è passata d'acqua sotto i ponti, da quando era una giovane puttanella delle periferie degradate; adesso fa quasi concorrenza alla Regina nel celebrare i giubilei del potere, e come lei non ci pensa nemmeno ad abdicare prima del tempo.

Ingrid Pitt guizza tra i Docks di Londra come un’anguilla nell’acqua torbida.

Ha imparato a cacciare le prede stordendole con le sue scosse, fatte di ammiccamenti e di tette pesanti e cedenti, ma sempre perfette per attirare sguardi e desideri fra i morbidi gonfiori delle sue magliette attillate, o delle sue camicette scollate.

Ingrid è un grosso pesce nato nel Tyne e che ha preso il largo, risalendo il Tamigi.

Ma sembra venuta dal bagnato Norfolk, dove l'erba è grassa e ci sono tante vacche nella nebbia.

Non conta come si è ridotta adesso: per chi se la ricorda, conta com'era.

Certo, oggi, vecchia com'è, la sua ostinazione nello sbottonarsi fa decisamente sorridere. La Strega dei Docks è patetica e decrepita.

D'altra parte, si sa che i Docks sono più giungla della stessa Africa Nera.
«Ingrid deve essere eliminata», l'ordine parte dall'ultimo piano di un grattacielo della City.

È la stessa Scotland Yard che provvede alla sua sicurezza, utilizzando il comodo artificio di un testimone sotto protezione nella residenza adiacente.
Quella mattina, però, stranamente, non c’è nessuno.
Conosce a perfezione gli agenti in borghese che controllano la strada.
L’autista, invece, è puntuale.
Non ha paura, deve trattarsi di una semplice carenza di personale.
Apre il portoncino e scende le scalette con il suo passo senile.
La portiera se la apre da sola, non vuole sembrare più vecchia di quello che è.

Il look è quello di una vecchia strega che sgomita per finire sul rogo.

I capelli sono grigi, ma non la invecchiano troppo: tagliati a caschetto, la rendono elegante e distinta, molto british.

Il volto è quello di una statua classica, perfetto nell'armonia tra connotati decisi, virili, e supremazia femminile, con un leggero trucco per non sconfinare nel patetico. Le rughe gli conferiscono potenza ed esperienza; il collo è un po' troppo rovinato, tradisce gli 85 anni che le pesano sul groppone. Gli occhiali rettangolari, neri, di taglio moderno, le tolgono qualche anno.

La figura è massiccia, il camicione rossastro sbottonato con volgarità, la scollatura sempre esagerata, nonostante il seno da mummia, flaccido e pendulo.

Del reggipetto nessuna traccia.

Una giacca nera completamente aperta confeziona il prodotto finale: aggressivo e consumato.
«Fate la carità…», un barbone allunga un malridotto cappello a tuba.
«Pezzente…», sottovoce, voltandogli le spalle, senza che l’altro possa sentire.
Quello, però, dal cilindro non tira fuori un coniglio.
«Ingrid...», le viene istintivo girarsi.
Quello tira fuori un silenziatore. Innestato e macabro.
FLOP
FLOP
Due colpi nella pancia!
La Pitt impietrisce.
E le prepara anche il colpo di grazia in pieno petto, alzando lievemente il tiro.
POW
POW
C’è però sempre l’autista, ben armato, che mette un braccio fuori dal finestrino e spara.
Il barbone ha raccolto qualcosa. Si tratta di piombo. È comunque un metallo.
FLOP
Il colpo di grazia lo spara lei: in borsetta porta un giocattolo che non fa rumore.
Ed entra in macchina come niente fosse.
«Vai…
Andiamo al covo segreto…
Farò venire un dottore…
Non posso fidarmi di nessuno…
Almeno tu… non sei stato comprato…».
La delusione è cocente.
«Mi dispiace, capo, ma hanno comprato tutti…».
«No! Ti prego!».

È veccha e stravecchia, ma alla pelle ci tiene sempre.
POW
Un colpo in pieno stomaco.
Rimane basita, bocca spalancata e occhi fuori dalle orbite.
Sa che adesso è finita.
Ingrid stramazza sul sedile posteriore a faccia avanti.
L’autista procede e si ferma nel posto convenuto.
Viene estratta dall’auto e scaricata in un canale.
“Docks are down”: il messaggio in codice è giunto ai piani alti.

«Tira su, dai. Io tolgo gli ormeggi».
Il Tamigi è ricco di pesci e di pescatori.
Vi sono anche tante anguille.
Ma questa è molto più grossa del normale.
«Per tutte le baldracche dei Docks, ma che roba è…!».
«Ma questa… è… la Strega...!
Tira giù adagio…».
«Guarda che buchi…
Chi l'avrà ammazzata?».
«Cazzo... la vecchia troia è andata...

Guarda che pezzo di fica alla sua età...».

«A me sembra una vecchia bagascia...».

«Ascolta... non è in acqua da moltissimo... proviamo...».
«Proviamo cosa?».

«Forse ha bevuto… la massaggio!».
«Non è meglio se…», si guarda intorno, la zona è poco frequentata, nessuno si è accorto di niente; i pochi esseri umani presenti proseguono annoiati nelle loro attività, sembrano più zombi che persone viventi, non reagirebbero nemmeno se i Docks crollassero o se la Strega fosse ripescata dal Tamigi.
«Prosegui tu!
Io le attacco i piedi alla batteria».
«Che cosa?».
«Un rogo elettrico per la Strega: curioso, vero?».
ZUMMM
«Oh! Per San Giorgio! Respira!».
«Falle sputare tutta l’acqua e portiamola sotto».

«Lo scotch, presto… e l’ovatta…».
«È andata, non lo vedi?».
«Però respira».
«Se le hanno fatto la festa, la faranno anche a noi, non capisci?».
«Se invece si riprende, ci sarà un grosso premio, non credi?
E poi è ancora un pezzo di donna, ce l'hai gli occhi?».
«A chi... devo... mandarlo...», è Ingrid che sospira, con voce oltretombale.
«Che cosa... il premio... io... noi vi stiamo aiutando, non ci aspettiamo niente in cambio».

L'amico lo guarda stupito.
«Siete... stati... bravi…», con un filo di voce. «Volevano... fottermi...», abbassa lo sguardo sui buchi, e lo rialza più spaventata di prima. «Non chiamate… nessuno… fate... come... niente... fosse...».
«Come volete.

Per non dare nell’occhio, noi proseguiamo con il nostro solito giro.
Fred, accendi il motore. Io rimango con lei».
«Prima... di crepare… ti dirò… dove tengo… il malloppo…».
«Veramente...».
«Zitto... Dowells Street… a Greenwich…

Ascolta bene... ho poco tempo... c’è un canale morto… sotto la torretta viola… un anfratto…
Andate giù… in due… con la muta… è pieno di anguille…
Dentro l’anfratto… un box d'acciaio…».
«Faremo finta di dover riparare una falla».
«Ma io... voglio... qualcuno... intorno a me... mentre crepo…».
«Manderò solo Fred, allora».
«Da soli... è difficile…».
«Ce la farà.
Vado a dargli la rotta. Torno subito».

«Allora?», gli chiede il compagno.
«Che vuoi… sta tirando avanti...

E ci sta portando all'oro...».

«Fammi bere… non reggo più…», al suo ritorno, la richiesta è pressante.
La vecchia Pitt fissa dal basso il ponte del piccolo peschereccio, cercando disperatamente di protrarre l'inevitabile fine, come smaniasse se non altro di terminare qualcosa, prima di crepare del tutto.

«Tirami su le gambe... presto...», ancora una richiesta, per cercare di mandare più sangue al cuore. Le prova tutte. «Pescatori… potere... pallottole... Ingrid muore...», sussurra farneticante, nel delirio dell’agonia.
«Scusate, boss… non potremmo trovare brutte sorprese, in questo posto…?».
«Ingrid... hanno eliminato... Ingrid...», spaventata e incredula di ritrovarsi così, in fin di vita, nonostante l'insperato ripescaggio.
«I vostri uomini… non conoscono il nascondiglio?».
«Uomini... due uomini… sono morti… uccisi dalla Strega... Ingrid... adesso tocca a lei... maledetti... mi volete... morta... via... andate via...», agita la mano, come a scacciare delle ombre.

Bill si allontana per qualche istante.

«Ho chiamato il nostro veterinario», dice a Fred. «Tenterà qualcosa. La Strega non merita di crepare così...».

«Sei impazzito? È finita... non lo hai capito? Così ci farai scoprire...

Non se la caverebbe nemmeno all'ospedale».

«Lei si fida di noi...

Ricostruirà il suo impero grazie a noi... diventeremo potenti».

«No! Diventeremo cibo per vermi...

Quella è solo una vecchia puttana e forse è già crepata mentre stiamo qui a parlare».

A Bill viene l'atroce dubbio che Fred possa avere ragione.

Torna subito a controllare.

Tutto regolare.

Il veterinario li aspetta a Dowells Street.

Ma non può certo immaginare un pesce tanto grosso.

«Posso aiutarla a tirare avanti, ma non ne ha per molto.

La ferita allo stomaco è mortale».

«Te l'avevo detto, io...».

«A meno che...», Bill, proprio lui, rimane appeso all'amo. «Non mi facciate provare un farmaco di mia invenzione, ancora alla fase sperimentale.

Su alcuni pesci ha funzionato».

«Ma... è assurdo...», replica Fred.

«Avanti, John... la torta è grande e c'è una bella fetta anche per te».

«Non prometto niente, sia chiaro.

Il farmaco, se tutto funzionasse, stabilizzerebbe l'emorragia allo stomaco».

«Molto bene. Puoi farcela, John.

Intanto noi avremo da fare.

Tu rimani con lei».

«Non voglio crepare... senti... senti che roba...».

Rimasta sola con il veterinario, Ingrid gli prende la testa e se la preme contro il seno avvizzito.

Lui rimane paralizzato.

Soltanto un muscolo si muove; e cresce...

Anche in fin di vita, la grossa anguilla elettrica colpisce ancora!

Qualcosa, però, non fila per il verso giusto.

La Pitt si sente mancare!

Spalanca la bocca... cerca di compensare!

Sta rantolando!

Ingrid stringe il culo, la situazione le sfugge di mano!

Ma il veterinario è già intervenuto. Ci sa fare.

Ingrid può rifiatare.

«Veterinario... vita... vendetta...».

La Strega ha ancora il controllo.

E continua a sguazzare nelle acque torbide del grande fiume.

MAD NURSE

di Salvatore Conte (2017-2021)

RAT-RAT-RAT

RAT-RAT-RAT
Impugnando spavaldamente il suo thompson con una sola mano, Mad Nurse prorompe furiosa nel soggiorno.
«Bastardi, avete fottuto i miei ragazzi!», esclama, nel vederli morti stecchiti sul pavimento.
I suoi luogotenenti, infatti, sono stati seccati, si sono fatti sorprendere.

Il festino a base di sesso e droga è andato a puttane.
Qualcuno ha individuato il covo segreto: una villetta in aperta campagna, circondata da un piccolo bosco.
Rimane l’osso più duro, con tanta polpa intorno:
l'infermiera pazza, quasi insospettabile, che ha messo su un'organizzazione tutta sua.
RAT-RAT-RAT
Una raffica di frustrazione alla cieca, dalla finestra.

È un regolamento di conti a colpi di tommy gun.

Romina Lopez - la procace infermiera peruviana che in realtà è il boss di un'emergente banda di narcotrafficanti, più pazza e ambiziosa di Al Capone - per il momento è salva, perché poco prima si trovava nella sua stanza a sniffare.

Ma c'è da pensare che l'obiettivo finale sia proprio lei.
Le finestre sono tutte aperte, la serata è calda, a Chicago e dintorni.

Romina scarta con gli occhi da una all'altra, pronta a reagire, eccitata da coca e scontro mortale.

Vuole salvarsi, vuole tenersi la pelle.

Ma sono almeno in due e la vogliono morta. Deve prepararsi a ingoiare piombo.

Un'ombra...

RAT-RAT-RAT
Qualcuno cerca di sorprendere la bella puttanona, ma Romina è più svelta: una raffica raggiunge al petto quel qualcuno, facendolo stramazzare fuori dal campo visivo della Lopez; l'intruso esce letteralmente di scena.
Dietro di lui, però, ne appare un altro.

RAT-RAT-RAT
RAT-RAT-RAT
Mad Nurse non ci pensa due volte e vomita piombo a raffica; anche lei, però, incassa!

È uno scambio di colpi reciproco!

L'altro crolla, lei rimane in piedi.

È la più forte e lo dimostra ancora una volta.

Però, imbottita di coca com'è, a stento si è resa conto delle pallottole mortali che le hanno sparato in corpo!

11 proiettili l’hanno infatti raggiunta in pancia!

Si intravedono i titoli!

  

La puttanona peruviana comincia ad accusare qualche fastidio.

Comunque, pur barcollante, riesce a raggiungere la sua auto.

Non è una vettura normale, perché è speciale come lei.

Ingobbita in avanti, le braccia incrociate sul ventre, apre lo sportello e mette il culo sulla sua vecchia Cadillac verde, uguale a quella di Al Capone.

Un po' le dispiace ungerla col proprio sangue, ma così la rende ancora più preziosa.

La peruviana raggiunge il covo centrale con l'auto che procede a scatti; Mad Nurse è ferita a morte.

Viene subito tirata fuori e stesa su un materasso.

Romina ha gli occhi che guardano vaghi il soffitto, incorniciati da un funereo alone scuro; il volto pallido, sbiancato; la lingua arricciata sotto il palato. Un rivolo gemello di sangue le cola dalla bocca.
Qualcosa - forse la sua rabbia, di sicuro la cocaina - l’ha tenuta in vita, ma la birra sta finendo.
«Jim… e Fred… sono crepati... secchi…».
Sembra quasi un modo per prendere le distanze, per dire “io ancora no”, me la stiro, mi so gestire.
«Ma i sicari... li ho ammazzati… tutti e due…».

Gli è costato caro farmi la pelle, insomma.

«Niente... lenzuolo in faccia... ragazzi... », è una sua ossessione. «Preparate... la... Ia... Ibern...salm...».

«Tranquilla, capo».

«Ma... non crepo subito...
Me la gioco... fino all'ultimo...
Ho ancora... un po' di tempo... non voglio... non voglio morire... subito...».

«Tranquilla, capo. Chiamiamo un dottore, capo?».
Per un attimo si lascia lusingare dall’idea. Ma non vuole illudersi.
Sa che servirebbe a poco, anche se la tentazione di provarci è forte.

La morte le mette fretta, sente la vita sfuggirle, però Mad Nurse vuole salvarsi.
«Chi... chi può venire…?», la voce è ansiosa.
«Watson o Jackson... in genere non fanno problemi; sapendo che si tratta del capo, faranno a gara per esserci».
«Chiamateli tutti e due… subito…», ha una dannata fretta, la voglia di provarci è tanta, la foga di vivere la travolge.
Arrivano degli asciugamani, una coperta e la bottiglia del whisky.
Si mormora che sarebbe ora di scegliere a chi lasciare la banda, ma lei non si è ancora decisa a parlarne.
«Sono... rimasta... in piedi… con una raffica... in corpo...», sono morta, ma non caduta, sembra dire.

I medici sono arrivati. Insieme. Di corsa.
Watson molla subito, però; per lui c’è poco da fare.
Jackson le mette in faccia la maschera dell’ossigeno e le inietta il contenuto di una siringa.
Spiega trattarsi di un condensatore differenziale di sua invenzione, che aumenta la densità del sangue, fino a renderlo quasi solido a contatto con l'aria.
In questa maniera le emorragie vengono otturate, senza pregiudicare il mantenimento delle funzioni vitali minime.
Basta poi aspettare la naturale ricomposizione delle ferite, senza dover ricorrere a interventi chirurgici.
Naturalmente Jackson applica il suo protocollo solo quando ne valga davvero la pena.

Per l'Ibernsalm potrebbe essere presto.

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