Attenzione: verificare la data di scadenza
di Salvatore Conte (2014-2022)
Viene sollevata dalla barella e
appoggiata di schiena contro il tronco di un grosso albero.
La testa le pende sul petto, gli occhi guardano in basso, inespressivi; puntano
senza volerlo le tette spompate, veterane di tante battaglie, che le gonfiano
sensuali la mimetica sbottonata.
Nonostante tutto, è scossa da un
sussulto. Le piastrine di riconoscimento sbattono l’una sull’altra restituendo
un lieve tintinnio metallico.
Spudoratamente attaccata alla vita fino all’ultimo respiro.
Colpita, ma non stroncata.
Stroncata, ma non uccisa.
Uccisa, ma non cadavere.
Cadavere, ma non sepolta.
Adesso, infatti, non sussulta più.
Vado a controllare se è davvero cadavere, o almeno morta.
Mi avvicino e le sollevo il mento: «Kelly… ci sei…?», in qualche modo sono
sempre stato un ottimista.
«Hhh…».
In qualche modo c’è, infatti. Ho fatto bene a chiedere. La Madison c’è ancora.
Come le lascio il mento, però, la testa torna a piegarsi pesante sul petto.
Eppure c’è, la Mercenaria c’è.
Non
sono bastate diciotto pallottole… due raffiche di mitra in corpo…
Per farla finita con l’ex fiancheggiatrice dell’intelligence siriana di Assad, e
aggiudicarsi una delle sue piastrine, ci vorrebbe un colpo di grazia, in testa o
in bocca.
Altrimenti c’è da attendere la fine di un’agonia che non si sa ancora quanto
possa durare: da pochi istanti a qualche ora.
Ho l’impressione che - quasi come Alessandro Magno che tenne i suoi satrapi col
fiato sospeso fino alla fine, non riconoscendo nessuno degno di lui - Kelly
tenga i colleghi mercenari nella medesima incertezza riguardo a chi otterrà la
sua piastrina gemella. Sarebbe un trofeo per chiunque.
Kelly Madison, più che una vera mercenaria, fino a non molto prima era soltanto un
grosso puttanone; adesso, però, mostrandosi tanto dura a morire, il suo
titolo le spetta a tutti gli effetti.
Niente da fare per la morte.
Almeno per il momento.
Inutile aspettarsi che sia lei a chiedere di farla finita con un ultimo colpo.
Kelly è una che non molla mai. Un po’ l’ho conosciuta nelle lunghe marce congolesi. Un po’ l’ho conosciuta sotto la tenda, a mie spese. Un po’ me la
immagino.
Per lei le pallottole non esistono. Sono cioccolatini, da mangiare e digerire.
Diciotto cioccolatini di piombo. E tiene botta…
Ne sono impressionati anche gli altri.
Tutto sta a reggere lo shock e la vista del sangue: il resto è poca cosa, in
fondo.
Una donna così merita rispetto, anche se prima di adesso era soltanto un grasso
puttanone.
Kelly
Madison, 48 anni molto vissuti, tanti chili in eccesso ma ottimamente
distribuiti, occhi che squagliano, stazza imponente, una che te lo tira solo
guardandoti, una che ti fa sentire vulnerabile anche se porti addosso un
giubbotto antiproiettile, una che dopo l'uso delle bombe in dotazione naturale,
aveva appreso quello della mitraglietta; senza badare che fosse di produzione
israeliana; in questo gioco, infatti, conta solo il potere: le parole, gli
aggettivi, le definizioni sono meri artifici per suggestionare le masse e
muoverle senza che mai possano intravedere chi davvero le muova; basta
dirottarle verso la loro muleta, come un toro inferocito, anche se in questo
gioco il rosso è il colore di chi non viene mai incornato; la bestialità delle
masse è infatti l’amuleto dei grandi burattinai; e noi, da giocatori esperti,
conosciamo l’etica del gioco: tollerare chiunque se mancante d’etica, nessuna
pietà per gli altri.
E per gioco aveva cominciato: per sentirsi importante e calcare la scena con
tutto il suo peso.
Le confidenze e i servizietti per la rete di Assad in Libano, l’ambizione di
mettersi in evidenza non soltanto con la bocca da troia, il salto di qualità nel
business delle autobombe e dei martiri-mercenari, i mercenari di Dio.
C’è d’altronde chi vende organi da vivo e chi dona organi da morto; così c’è chi
vende organi da morto, tutti gli organi, inclusa l’anima.
Poi la delusione di ristagnare fra le maglie intermedie della rete e di non
pescare abbastanza denaro.
Una donna araba può al massimo raggiungere lo status di puttana bene
ammaestrata, spendibile per il potere e per Assad, nel caso di specie.
Troppo poco per una come Kelly.
E così si era messa sul mercato, aveva contrattato un ingaggio migliore in un
club più ricco: l’anima della mercenaria aveva battuto cassa.
D’altra parte, per una bella donna come lei, le occasioni, gli incarichi, le
missioni non mancano mai. Il fascino femminile rimane pur sempre, in ogni
scenario, l'arma più subdola ed efficace, tanto a Beirut - tra autobombe e mille
fazioni - quanto nella giungla congolese - tra milizie e multinazionali che si
scannano fra loro; in più, rispetto ad allora, Kelly si è perfezionata
imbracciando la mitraglietta sionista: ormai conosceva bene uzi e costumi della guerriglia professionale...
Che siano cinesi, russi o ebrei, basta che paghino e la usino pure...; già, la uzi, un’arma perfettamente femminile:
compatta, infida, letale, adatta ai
colpi di testa, perché non richiede precisione; la derringer dei mitragliatori.
Frammenti di discorsi, tra una sparatoria e l’altra; e tra una scopata e
l’altra, non certo economiche, perché se la tirava tanto; ma soprattutto i
pettegolezzi del nostro mondo.
Di soldi ne stava facendo tanti insieme a noi, ma a quale prezzo?
Cosa rimane adesso di questo grosso troione, dopo diciotto pallottole?
Le ho contate una per una, forse per vendicarmi della sua vanità.
Rimane un ammasso di forme ancestrali, ancora dannatamente suggestive, e un
intreccio di budella ridotte a poltiglia sanguinolenta, sul punto di esplodere e
rovesciarsi a terra.
Eccola lì con la lingua sotto il palato e il culo stretto, tutti i freni tirati
al massimo nel tentativo arrogante di far pagare qualcosa anche alla morte.
Eccola lì nella sua tuta da mercenario: la mimetica grigia, sbottonata
aggressivamente fino allo stomaco; e gli
stivali intrisi di fango a segnare pesanti il terreno con sussulti improvvisi.
Per la morte c’è ancora da penare.
Non si decide a crepare e allora viene rimessa sulla lettiga e la marcia
riprende.
Non è morta addosso a quell’albero. Ha lasciato un altro pezzo di pelle, ma non
il suo cadavere.
L’epilogo è rimandato.
L’attenzione passa ad altro, la routine della marcia riprende il sopravvento.
Io, invece, le asciugo la bocca, perché la Madison cola sangue dal labbro.
Non le sto parlando, però è come se le dicessi: “Provaci… che ti costa
provarci…? Ti hanno già dato per morta dopo la prima raffica, una decina di
pallottole fa. Nessuno si aspetta più niente da te. Tanto vale provarci, no? So
che hai ancora qualcosa da spendere. Una riserva segreta di rabbia e
frustrazione con cui tenere a bada la morte ancora per un po’. So che non
molleresti mai prima della fine. E questa parte di te mi piace, Kelly… anche più del
resto. Se trovi un modo per uscirne, ci mettiamo insieme e ti faccio ricca a mie
spese. Di soldi ne ho tanti da parte, dopo anni di contrabbando e guerriglia a
contratto. Tu pensaci… prima di crepare…”.
Nonostante la situazione disastrosa, un sorrisetto allucinato fa la sua comparsa
sull’ostinata faccia da troia di Kelly Madison.
È lucida, ha capito tutto. O almeno credo.
Annaspa, sta per cedere, ma si tiene follemente in bilico guardandomi con occhi
spiritati: i contorni sono marmorizzati, sottilmente venati di linee scure; è la necrosi che
accompagna le
morti stentate, una sorta di make-up, di rimmel infernale, che non le sta per niente male.
Una pausa.
In molti si ritrovano intorno a lei.
Piace sempre, anche con tanti buchi in più.
La situazione può precipitare da un momento all’altro.
L’espressione della mercenaria è titubante, sa di aver raschiato il fondo del
barile.
La bocca è dischiusa sghemba, la lingua arricciata sotto il palato, gli occhi
arrotolati sotto le arcate sopraccigliari: si difende, ma le va tutto storto e non
può essere altrimenti con tanto piombo in corpo.
C’è chi le tiene la mano, un po’ di compassione nella giungla congolese, c’è chi
le asciuga la bocca, che continua a colare sangue, e c’è chi, infine, le
aggiusta i tamponi contro la mimetica, bloccati da una fascia elastica lungo
l'addome: per una sorta di strano pudore nessuno le ha messo le mani dentro la
camicetta.
Tutti costoro sanno che il suo sforzo è immane.
Kelly suda… suda freddo… suda tanto…
Ma tiene… Cristo, se tiene!
Rimane aggrappata a qualcosa di molto sottile, che solo lei riesce a vedere.
Di progressi dai tempi di Garibaldi i mercenari ne hanno fatti. Non si finiscono
i compagni, e con le donne, anche se emancipate, si usa un pizzico di
cavalleria.
La nostra Anita ce la portiamo dietro e scommetto anche che sia molto più
pesante.
La Madison è forte come un toro, testarda come un mulo, dura come il ferro,
morbida come il burro.
Diciotto pallottole non l’hanno ancora sepolta.
La pancia ripiena di ciccia e piombo freme sotto la mimetica.
Freme… freme come in una sopita danza del ventre, appena accennata,
eppure mortalmente sensuale.
La Madison ci prova ancora, non dico che ci creda, ma ci prova ancora. Anche lei
sa che è finita, come lo sappiamo tutti noi che la guardiamo, però non si lascia
andare, i freni sono tutti tirati, vuole ancora dimostrare qualcosa.
Sta crepando, non ha molto da vivere, ma non si fa mettere fretta dalla morte.
Per ora tiene, questo è l’importante per chi la guarda affascinato.
Niente rantoli. Una difesa ancora tutto sommata ordinata. Strenua, efferata, disperata, ma ordinata.
E per una che ha incassato diciotto, proprio diciotto palle in
corpo… che sono tante perfino a guardarsi, impresse su quella cazzo di mimetica
sbottonata, figuriamoci a portarsele addosso… è una bella vittoria, anche se
provvisoria.
Il suo sforzo è impressionante. Nessuno lotterebbe così, nemmeno un uomo.
Conosciuta come una troia e basta, ora è d’obbligo ripensare in altri termini al
suo profilo di mercenaria, affermatosi soprattutto a letto o in branda.
Le battaglie sono sempre da combattere, anche quando sono impossibili e l’esito
è segnato.
Questa è la battaglia impossibile di Kelly. Ma lei la combatte lo stesso.
L’ansia di mantenersi in vita è più forte della paura, più forte della
rassegnazione, più forte della sua stessa intelligenza.
Per certi versi sembra quasi soddisfatta. Soddisfatta di esserci ancora. Non se
l’aspettava nemmeno lei, dopo che era piovuto fuoco sul piombo ancora caldo.
Intanto prova a guadagnare altro tempo, non è ancora sottoterra, la
sua ultima ora è - paradossalmente - l’ora della sua massima gloria.
Gli occhi scartano faticosamente sulle sagome riunite intorno a lei. Arriva a
me, è il mio momento.
Mi lancia un messaggio silenzioso e invisibile, un messaggio che forse è solo
autosuggestione: “Lo sai anche tu come sono ridotta, ma adesso non sto peggio di
cinque minuti fa. Non so dove sto andando, non riconosco la strada, ma ho il
piede sul freno. Quando sarà la fine, tu lo capirai prima di tutti gli altri,
prima anche di me”.
Suggestione o no, per adesso regge la strada.
Finalmente mi prendo la briga di
asciugarle il sudore dalle tempie al collo: un
gesto semplice, ma difficile per un mercenario.
Molti degli uomini sono ai suoi piedi. E non è la solita smania. È qualcosa di
più. I compagni sospirano insieme a lei. Sembrano ipnotizzati da questa
mercenaria che ci prova fino all’ultimo spasimo, da questi occhi irrequieti che
alternano rassegnazione e rabbia.
La Madison respira ancora senza troppi scompensi, la fine non è dietro la curva,
a quanto pare, non è imminentissima, insomma; il fine-corsa dovrei darlo io, se
ho ben capito.
Le fanno bere qualcosa di forte. Si rimettono a posto i tamponi. Quasi sempre le
stesse cose. Qualcuno sussurra che Kelly potrebbe alla lunga spuntarla… ma io
non lo credo possibile.
La sua ostinata difesa, però, fa di lei un’ottima combattente, meritevole di
miglior fortuna.
Kelly avverte il sapore della tragedia sul labbro: sa di essere in bilico
sul precipizio e allora spalanca la bocca a cercare aria, per non farsi
sorprendere dalla caduta.
La Madison reagisce, aggiusta lo sterzo in continuazione; me ne accorgo, la seguo in ogni piega del
volto. A tanto sono arrivate le sue tecniche di sopravvivenza. Tutto le viene
spontaneo, come se da sempre fosse abituata a sfuggire alla morte.
Tiene frenato tutto, non cede la vita. Il sangue arriva a fermarsi, se
controllato da una ferrea volontà. Le ferite cominciano a coagularsi.
Nove sono le porte del corpo: sette si trovano sulla testa, due nel basso
ventre.
V’è anche una decima porta, latente, diffusa:
l’epidermide, da cui tracima il sudore freddo della morte, ma molto
gradualmente.
Nove è il numero della prossimità, la soglia del passaggio. Nove i mesi per
passare dal ventre della madre alla luce. Nove gli anelli della palude stigia,
che separa i morti dai vivi, in fondo - penso - non molto diversa da questa
giungla.
Per i latini nove era quasi dieci, dieci meno qualcosa, dieci meno una
tacca: IX; dopo il nove si passava alla decina seguente; e anche oggi è così.
I mercenari leggono, tra una missione e l’altra, e pure durante.
La vita umana fugge da nove porte e attraversa nove volte lo Stige, prima di presentarsi ai cancelli dell’inferno.
Penso che Kelly sia quasi arrivata, è impaludata fradicia, la sua strada se l’è fatta tutta, la più contorta possibile, ha seguito le anse del fiume una per una.
Però cerca ancora di perdersi. Sta girando in tondo da un po’.
La corrente dello Stige è alterna,
menata dalla fortuna, ovunque sovrana. Se per un tratto la riaccompagnasse
indietro, chissà…
La fine di Kelly sta diventando tragedia. Adesso sarebbe un peccato se la
sorprendesse senza darle il tempo di reagire.
«Le ferite si stanno asciugando… se ci credi, puoi farcela…», provo a
lusingarla, sottovoce.
La Madison scuote leggermente la testa: non mi crede, non si lusinga.
Kelly crede soltanto a sé stessa, non alle mie parole.
Però tiene. Questo è un dato di fatto.
Quando l’hanno messa seduta contro il grande tronco, in quel momento tutti la
davano per morta. Eppure è ancora qui.
Forse ha fatto bene a non mollare, se non a crederci, almeno a provarci; lo
capiscono tutti che ha fatto bene, che sta reggendo un peso immane, pronta a
combattere ancora, costi quel che costi, a denti digrignati e mascelle serrate,
da mercenaria vera, come in questo preciso momento, decisa a trattenersi in gola
l’ultimo sospiro e a tenere per sé entrambe le piastrine.
Kelly Madison li esalta, ci esalta tutti. In questo frangente è la
mercenaria perfetta: esperta, ma non troppo vecchia; formosa, ma non troppo
grassa; uccisa, ma non troppo morta.
Soltanto io, però, ho visto con i miei occhi come questo grosso puttanone sia
giunto sulla Porta di Dite con tanto onore.
La prima raffica l’avevano vista tutti, o quasi: beccata durante la fuga, dopo
il sabotaggio, mentre sputava fuoco contro i nostri inseguitori.
Aveva retto lo shock di ritrovarsi addosso una decina di pallottole, ma non
poteva più proseguire con quel fardello di piombo nella pancia.
Si era quindi rassegnata a fare da tappo, per coprire la fuga ai compagni,
avendo ormai poco da perdere. Io mi ero offerto di rimanere con lei. Una
missione suicida, certo. Un colpo di testa. Tuttavia ero convinto che il grosso troione non pensasse ancora alla bella morte. L’avrei vista crepare
combattendo, da mercenaria autentica, e queste sono soddisfazioni che non hanno prezzo;
d’altra parte non potevo mollarla in quelle condizioni, non so nemmeno io cosa
m’avesse preso.
L’impatto con i nemici rimasti alle nostre calcagna fu durissimo.
Anch’io rimasi ferito, ma a lei andò molto peggio: incassò un'altra micidiale
raffica, un altro shock tremendo; non potei
fare nulla per evitarglielo, eppure - a caldo - la Madison aveva continuato a
sparare all’impazzata, difendendosi come una belva ferita a morte, ma non ancora
abbattuta.
Era incredibile, sparava ancora!
Fu così che anche il mio fuoco risultò efficace.
Forse pensarono che eravamo troppi, che altri si tenevano nascosti, a una specie
di trappola per farli esporre, che il prezzo fosse divenuto troppo alto.
O forse erano semplicemente morti.
Fatto fu che riuscimmo a fermarli.
A quel punto, però, la vidi crollare. Pensavo fosse finita.
Invece la Madison si era raccolta in posizione fetale, nel tentativo di assorbire
i colpi e di riassestarsi alla disperata. Non cercava la bella morte, ma una
lunga agonia.
Aveva combattuto con lo scopo di venirne fuori, incassando meno piombo
possibile. Le era andata bene per un verso, male per l’altro: i nemici avevano
mollato la presa, lei però c’avrebbe lasciato la pelle; anche se poteva ancora tirarla
per le lunghe.
Da lì a poco i nostri compagni tornarono indietro. Avevano sentito esplodere
l’inferno e volevano sapere come era finita. Si era sparato talmente tanto che
erano destinati a prevalere sui nemici superstiti.
Ma non ne trovarono nemmeno uno.
Con stupore, ritrovarono invece i loro due tappi.
Kelly era agonizzante, aveva incassato altro piombo, tanto piombo, ma era
diventata un’eroina, una vera mercenaria. Le mie ferite, invece, non erano critiche.
Fu approntata una barella. A nessuno venne in mente di farla finita. Ma il
trasporto era penoso. Kelly smaniava. A un tratto, le cose sembrarono sul punto
di precipitare, lei sembrò mollare.
Fu allora che decisero di fermarsi e farla morire comoda, appoggiata a un
bell’albero.
Lei, però, non aveva mollato, non si era rassegnata, non aveva ceduto.
E ancora adesso non cede. La Madison tiene…
Niente da fare.
Per la morte.
Annaspa, fatica, suda, ma non cede.
Si muove, si agita, credo voglia cambiare posizione. L’aiuto.
Infatti è così: assume una posizione fetale, si sente meno esposta.
È il cerchio della vita e della morte, prepararsi alla luce, prepararsi alle
tenebre; in ogni caso, al passaggio, all’ignoto.
Kelly ha paura e reagisce in questa maniera.
Le prova tutte. Per lei sarebbe più facile lasciarsi andare e invece qualcosa la
spinge a provarci ancora.
Sta girata su un fianco, con le ginocchia piegate alte, la testa reclinata sul
petto, gli avambracci stretti sulla pancia: classica posizione fetale e mani a
tamponare, con molta ansia, i tanti buchi.
La difesa è ancora ordinata, tutto sommato. Kelly ha paura, ma non c’è resa nei
suoi occhi infuocati. È tosta, mantiene il controllo di sé, se non della
situazione.
Chi di loro se la immaginava così dura, abituati solo a scoparsela?
Adesso le sbavano addosso come se la Madison fosse divenuta
all’improvviso un’icona della guerriglia professionale.
E intanto si prendono accordi per un ricovero di somma urgenza.
Lo fanno dire a me, visto che sono rimasto con lei a rischiare il culo.
Correttezza professionale tra mercenari.
«Kelly… tra meno di un’ora l’elicottero sarà qui… ce la fai a tenere…?».
Un lampo negli occhi della Madison. La troia non è ancora stanca di vivere.
Adesso intravede uno spiraglio. Spalanca ansiosa la bocca. Non riesce a parlare,
è troppo impegnata a respirare, ma è come se dicesse: “Io ci sto provando, te ne
sei accorto, no? Bisogna fare presto, però…! Il più presto possibile…! Perché
anche una mercenaria come me alla fine ci rimane secca con venti buchi in
corpo…”.
Esagera (di poco, però), per far l’impresa più grossa, ma il tempo normale è
finito davvero. Questo è
tempo estremo, strappato alla morte con i suoi artigli da troia.
Kelly Madison, con la sua stazza, la sua arroganza, la sua ostinazione, di
tempo ce ne sta dando ancora e tuttavia è meglio non abusarne…
L’elicottero viene sollecitato, si contano i minuti, si consola il puttanone in
tutte le maniere.
Ma lei non ne ha bisogno. Kelly ci tiene a sé stessa.
E tiene fino alla fine.
L’elicottero riparte con la mercenaria morente a bordo.
Ci sono anch’io, la seguo fino all’inferno, ormai. Ho dovuto spingere per
salire. Gli altri saranno informati a fatto compiuto.
Sta male, ma gli occhi si sono lusingati. La stanno ancora intubando. C’è
un’equipe di pronto soccorso a bordo.
La Madison è letteralmente a pezzi, crivellata da diciotto pallottole da guerra.
Ma è salita a bordo e vola verso l’ultimo atto.
«Kelly, ce la fai a tenere…?», le chiedo, sfiorando le sue piastrine.
Muove la mano e le fa scomparire
all'interno della mimetica sbottonata.
È sicura.
Niente da fare.
Per la morte.
di William Hope Hodgson, Gianni Pilo
e Salvatore Conte (1908-2023)
All'estremo limite dell'Irlanda occidentale c'è un piccolo villaggio, chiamato Kraighten.
Sorge isolato, ai piedi di una bassa collina. Intorno, si stende per miglia e miglia un paesaggio squallido e inospitale; qui e là si incontrano casupole in rovina, molto distanti l'una dall'altra, abbandonate da chissà quanto tempo, nude e senza tetto.
La terra, brulla e deserta, ricopre appena la roccia sottostante, che abbonda in questa regione e affiora, a tratti, in creste ondulate.
Benché la località fosse così desolata, il mio amico Tonnison e io avevamo deciso di trascorrervi le vacanze. Tonnison vi era capitato per puro caso l'anno precedente, durante una lunga escursione a piedi, e aveva scoperto un fiumiciattolo senza nome, che scorre ai margini del villaggio, e che pareva offrire buone possibilità di pesca.
Ho detto che il fiume non ha nome; aggiungerò che né il villaggio né il fiume sono indicati sulle carte da me consultate. A quanto pare, sono passati del tutto inosservati; potrebbero, in effetti, non esistere neppure, stando alle guide in commercio. Ciò può essere dovuto al fatto che la stazione ferroviaria più vicina, Ardrahan, è a quaranta miglia di distanza.
A noi si sarebbe unita la signora Anna Frazer, mia vicina di casa, perché quando mi era capitato di accennarle qualcosa a riguardo del mio spostamento, mi aveva timidamente chiesto di potersi accompagnare a me e al mio amico in questa piccola avventura.
La Frazer era una modesta governante, divorziata e piuttosto avanti con gli anni.
Non aveva soldi per andare in vacanza, e comunque si sarebbe ritrovata da sola, poiché non legava facilmente.
Purtroppo era da tempo gravemente malata, anche se riusciva a tirare avanti abbastanza bene e a continuare a lavorare, grazie soprattutto alla sua forza di volontà e a un fisico molto robusto.
Io e Tonnison non avevamo motivi per escluderla: nonostante l'età, non era decrepita, e malgrado il tumore all'intestino che l'affliggeva, era ancora autosufficiente e in grado di muoversi, e così non sarebbe stata d'impaccio; inoltre, chissà, avrebbe dato una mano a mandare avanti il nostro piccolo accampamento; infine, ma forse era la cosa più importante, era pure una bella donna, dalle forme piene, che non sarebbe stato affatto imbarazzante avere accanto durante la vacanza; non di rado, quando scambiavamo qualche parola attraverso la piccola staccionata che divideva le nostre abitazioni, si presentava con la camicetta sbottonata, talvolta pesantemente, lasciando intravedere i seni, cadenti ma sempre sensuali; forse un tentativo di reagire alla grave malattia, forse un segnale di frustrazione per non avere più molto da vivere.
Mi raccontava che i medici non le avevano dato speranza. Era solo una questione di tempo. Ma lei non si rassegnava. Provava sempre strane cure. E quando si sentiva particolarmente spaventata dal suo destino, mi chiamava alla staccionata, per farsi vedere ancora attraente.
Era una donna sola, e quando si sarebbe aggravata, avrei forse dovuto assisterla nelle sue ultime settimane; non so se me l'avrebbe chiesto; non ne avevamo ancora parlato; altrimenti l'avrebbero ricoverata in qualche squallida clinica governativa per malati terminali; sempre che non rimanesse uccisa in breve tempo, per una crisi improvvisa o a seguito di un ricovero d'urgenza.
Fu così che arrivammo a Kraighten, verso il tramonto
di una tiepida giornata di primo autunno.
Eravamo giunti ad Ardrahan la sera prima, avevamo pernottato nella locanda che serviva anche da ufficio postale, ed eravamo ripartiti l'indomani mattina di buon'ora, in precario equilibrio su uno dei tipici barrocci locali.
Avevamo viaggiato tutto il giorno per le strade più impervie che si possano immaginare, ed eravamo stanchi morti, e saremmo stati anche di cattivo umore, se non fosse stato per la presenza della signora Frazer, autunnale come la stagione, ma in contrasto con il paesaggio brullo.
Il fatto che, benché donna e benché malata, se la cavasse benissimo, ci dava conforto; inoltre era sempre pronta a incoraggiarci, dicendosi sicura che avremmo trascorso un bel tempo.
Comunque, prima di mangiare e di riposare, occorreva piantare le tende e sistemare il campo. Perciò ci mettemmo subito all'opera e in breve, con l'aiuto del conducente, alzammo le due tende in una piccola radura fuori del villaggio, vicino al fiume.
Una era per me e Tonnison, l'altra per la signora Frazer.
Quando tutto fu a posto, congedammo il conducente, con l'intesa che sarebbe tornato a prenderci quindici giorni dopo.
Avevamo portato provviste sufficienti per quel periodo: l'acqua potevamo attingerla al fiume e non avevamo bisogno di legna, perché il nostro equipaggiamento comprendeva un fornello a petrolio, e il clima era caldo e asciutto.
Tonnison aveva già acceso
la fiamma, la signora Frazer affettava la pancetta nel tegamino; perciò presi la brocca e andai per
prendere l'acqua al fiume.
Passando accanto al villaggio, vidi un gruppetto di paesani che mi squadrarono incuriositi, ma senza ostilità, anche se nessuno pronunciò una parola.
Era chiaro, pensavo, tornando verso l'accampamento, che gli abitanti di quelle casupole sperdute non conoscevano neppure una parola d'inglese.
Quando lo dissi ai miei compagni di viaggio, Tonnison osservò che lo sapeva e che ciò non era affatto insolito in quella regione, dove spesso i contadini vivevano e morivano nei loro villaggi isolati senza aver avuto nessun contatto con il resto del mondo.
«Avremmo dovuto chiedere al conducente di farci da interprete, prima di andarsene», osservai, mentre sedevamo a mangiare. «È un po' imbarazzante che questa gente non sappia neppure perché siamo qui».
Tonnison alzò le spalle, senza smettere di mangiare.
«Quando vi vedranno pescare, lo capiranno», concluse intelligentemente la signora Frazer. Ahh... la praticità delle donne...
Malgrado la stanchezza, c'era un clima allegro nel nostro piccolo accampamento.
Tuttavia, quando cominciai a notare uno sconcertante dettaglio, mi si guastò l'appetito.
«Cough... cough...».
La signora Frazer, dopo un paio di colpi di tosse, aveva del sangue intorno alla bocca... segno questo che il tumore era arrivato allo stomaco...
Non so da quanto avesse tale sintomo, ma chissà se avrebbe festeggiato il Natale, giunta a quel punto.
Sapevo che non ne aveva per molto, ma questo segnale mi rovinò la serata.
Alla signora non sfuggì la mia apprensione; mi guardò con occhi allucinati e folli, come se per lei fosse un gioco perverso, e non solo una trappola mortale.
Dopo cena restammo un po' a discutere i progetti per l'indomani, condividendo un buon goccio, tutti e tre.
Data l'oscurità e la desolazione del posto, decidemmo che nessuno doveva allontanarsi da solo per assolvere alle proprie esigenze.
Prima di salutare la Frazer, trovai il coraggio di affrontarla.
«Scusatemi, se ve lo chiedo... ma da quando vi sale il sangue alla bocca?».
«Da parecchio... diversi mesi».
La fissai basito.
Doveva essere completamente invasa dal tumore, ormai.
«E non vi siete allarmata?».
«All'inizio ero spaventata, ma poi ho capito che dovevo accontentarmi; di vivere giorno per giorno, fino alla fine».
«Siete proprio sicura che non si possa fare niente?».
«Così hanno detto i medici...».
«Ma voi non vi siete mai rassegnata...».
«No,
io voglio vivere, voglio lottare... non voglio morire così...»,
mi guardò fisso, mentre la lingua faceva capolino tra le labbra e con la mano si
stiracchiava addosso il camicione rosa... portato come una sorta di tunica.
La Frazer era molto sensuale, viaggiava a forza 3, secondo la mia scala, cioè con tre bottoncini allentati; talvolta andava a forza 4, e allora la scollatura del camicione diventava più profonda e raggiungeva lo stomaco.
Cercava di reagire, di non pensare alla fine, di sentirsi viva e scambiare sensazioni positive, di suscitare attenzione e nostalgia, ma così facendo appariva irresistibile e ancora potente: la signora Frazer era una grandissima donna e non potevo accettare che rimanesse uccisa.
Era vicina alla crisi finale e non se ne rendeva conto.
Anna, stai per finire affossata, non capisci?
Era inutile che mi facessi illusioni, il cancro era arrivato al quarto bottone, per lei non c'era più nulla da fare.
Peccato, ma era andata.
Tonnison era già entrato in tenda.
«Non ci sarà pericolo che quelli ci portino via qualcosa?», domandai, mentre mi avvolgevo nella coperta.
Il mio amico rispose che era improbabile, almeno mentre c'eravamo noi, e aggiunse che comunque avremmo potuto chiudere tutto, fuorché le tende, nella cassa delle provviste.
Approvai, e in breve ci addormentammo entrambi.
Il mattino dopo ci alzammo con relativa calma e trovammo la colazione piacevolmente pronta. Quindi tirammo fuori gli arnesi da pesca e ci avviammo verso la località che il mio amico aveva esplorato durante la sua visita precedente, seguiti dalla signora Frazer, che avrebbe dato fondo a un buon libro.
Pescammo beatamente tutto il giorno, sempre risalendo il fiume, e prima di sera avevamo quasi più pesce di quanto ne potessimo portare.
Tornati al villaggio, facemmo un'ottima cena con il ricavato della giornata e, dopo aver messo da parte alcuni dei pesci più belli per la colazione dell'indomani, regalammo gli altri ai contadini che, radunati a rispettosa distanza, ci stavano osservando.
Mostrarono di gradirli moltissimo e riversarono sul nostro capo fiumi di benedizioni irlandesi, o almeno così supposi. Furono anche molto riverenti nei confronti della signora Frazer, a forza 4 (!), che in rapporto a quello scalcinato villaggio faceva la figura della Regina d'Inghilterra.
Trascorremmo alcuni giorni continuando a pescare con fortuna e godendo di un eccellente appetito che ci permetteva di far onore al nostro bottino.
Anna non aveva grossi problemi, anche se si toccava spesso la pancia, gonfia più del normale.
Stava per esplodere, ma speravo che almeno si godesse la vacanza.
Ci rallegrò molto constatare che gli abitanti del villaggio erano disposti alla massima cordialità nei nostri confronti, e che nessuno toccava mai le nostre provviste o i nostri arnesi durante le nostre assenze.
Ancora più gradito fu il fatto che la signora Frazer non si mostrasse annoiata di starci a guardare, leggendo i suoi libri. Ed era anche un'eccellente cuoca.
La sera si rimaneva a bere qualcosa prima di addormentarsi e in un paio di occasioni avevamo acceso un focherello di compagnia, grazie a un po' di legna fornita dagli abitanti del villaggio.
«Capisco che voglia sentirsi viva, ma tutto il giorno con quel camicione sbottonato davanti agli occhi... è una bella tortura...», si lamentò Tonnison, a bassa voce, tra il serio e il faceto. In effetti la Frazer ti entrava nelle ossa a poco a poco. «Sicuro che non ci sia più niente da fare per lei?».
«Così le hanno detto i medici, purtroppo».
«Ha una brutta cera, infatti.
Quanto ci vorrà...?».
«Quando arriva allo stomaco... significa che manca poco, la fine può farsi rapida; temo che stia per crollare e allora bisognerà assisterla, giorno per giorno».
«Io temo che non si rassegnerà facilmente: ho sentito parlare di malati così attaccati alla vita che bisogna convincerli a lasciarsi andare, per non vederli soffrire inutilmente, anche per settimane; e che sperano fino all'ultimo di migliorare, nonostante dovrebbero essere già morti e sepolti.
Penso che la Frazer sia uno di questi».
«Probabile. Non ha alcuna intenzione di cadere nella fossa. Tenterà fino all'ultimo di guadagnare tempo. E non sarò io a convincerla a mollare.
Sarà una grave perdita quando la chiuderanno in una cassa».
«Quelle tette sono semplicemente fantastiche...».
«Certo, è così...».
«Ma pensi che morirà con la sua camicetta sbottonata addosso?».
«Non ho dubbi che sarà così».
Fissai il fuoco morente e vidi una lingua di donna umettarsi il labbro.
Fissai il fuoco morente e vidi una mano di donna palpeggiarsi il seno.
E
mi sembrò di udire un gemito soffocato.
Fissai le ceneri del fuoco e la vidi spirare con la testa che si allungava all'indietro e la bocca spalancata, incredula di chi veniva affossato.
Stizzito, cercai di far riprendere il fuoco.
E allora la vidi spasimare sul letto, con la faccia sudata e gli occhi che si guardavano intorno; era eccitata e con le mani si stirò addosso il camicione, per avere la conferma di essere viva e di aver guadagnato altro tempo... di aver superato l'ennesima crisi...
Buttai altra legna sul fuoco e mi infilai pensieroso nella tenda.
Eravamo arrivati a Kraighten di martedì, e fu la domenica seguente che ci capitò di fare una singolare scoperta.
Fino a quel giorno avevamo sempre risalito il fiume; quella mattina, invece, lasciammo gli arnesi da pesca e, portandoci qualche provvista, ci avviammo per una lunga passeggiata nella direzione opposta.
Faceva caldo, e camminavamo tranquillamente, senza fretta, anche per non affaticare la signora Frazer.
A mezzogiorno ci fermammo a far colazione su un ampio masso piatto, presso l'argine del fiume.
Proseguimmo poi per circa un'ora, conversando piacevolmente del più e del meno, e fermandoci ogni tanto per dar modo al mio amico Tonnison, che si diletta di pittura, di schizzare qualche aspetto particolarmente interessante dell'aspro paesaggio.
D'un tratto, senza che nulla lo facesse prevedere, il fiume che avevamo fino allora seguito sparì di colpo, nella terra.
«Gran Dio!», esclamai. «Chi se l'aspettava?».
Sbalordito, mi girai verso i compagni.
Tonnison fissava con sguardo attonito il punto dove il fiume era scomparso.
La Frazer, invece, la prese con filosofia: «Quello che vediamo è solo una piccola parte di ciò che esiste».
«Proseguiamo, allora», disse Tonnison. «Può darsi che torni ad affiorare, comunque vale la pena di dare un'occhiata».
Riprendemmo dunque il cammino, un po' a caso perché non sapevamo affatto in che direzione spingere le nostre ricerche.
Avevamo percorso circa un miglio, quando Tonnison, che guardava in giro attentamente, si fermò e si fece schermo agli occhi con la mano.
«Guardate!», disse dopo un poco. «Non vedete una specie di nebbia laggiù a destra, in direzione di quella grande roccia?».
Guardai il punto che mi indicava; effettivamente mi pareva di scorgere qualcosa, ma non ne ero certo.
Mi voltai verso la signora Frazer per raccogliere il suo parere.
«Sì, c’è qualcosa laggiù, lo sento», disse, senza neanche sforzare la vista.
«In ogni caso, direi di andare a vedere», suggerì Tonnison.
Si avviò in quella direzione senza aspettare conferme e io e la Frazer lo seguimmo subito.
Poco dopo attraversammo una macchia d'arbusti dalla quale sbucammo su un'altura disseminata di massi, dominante un folto intrico d'alberi e cespugli.
«Ma guarda: un'oasi in questo deserto di roccia!», mormorò il mio amico, osservando incuriosito la scena. Poi tacque, gli occhi fissi su un punto. E anch'io guardai: infatti, dal centro del folto d'alberi, sotto di noi, si alzava nell'aria immobile una grande colonna di spuma, sulla quale il sole accendeva innumerevoli arcobaleni.
«Straordinario!», esclamai.
«Già», rispose Tonnison, pensieroso. «Dev'esserci una cascata, o qualcosa del genere, laggiù. Forse è il fiume, tornato alla superficie. Andiamo a vedere».
Scendemmo il declivio e ci addentrammo tra gli alberi e gli sterpi.
Ancora una volta la signora Frazer se la sbrigava egregiamente.
A ogni modo, la tenevamo in mezzo, mentre marciavamo, per controllarla e proteggerla dalle insidie.
Oltre a toccarsi spesso la pancia, afflitta dal tumore che - impassibile di fronte a una donna come lei - la stava divorando, osservava attenta gli spazi intorno ai fusti d'albero e sotto i cespugli. Sembrava stesse cercando qualcosa.
L'intricata vegetazione si chiudeva sopra di noi, creando una penombra cupa e sgradevole; non così fitta, però, da impedirmi di notare che molti alberi erano da frutto e che, qui e là, c'erano vaghe tracce di coltura abbandonata da tempo.
Ciò mi fece pensare che ci trovassimo in un vasto, antico giardino in rovina.
Com'era tetro e selvaggio il luogo!
Mentre procedevamo, il senso d'abbandono e di silenziosa solitudine dell'antico giardino mi penetrò nelle ossa, facendomi rabbrividire.
Immaginavo misteriose presenze, in agguato nel groviglio degli sterpi; nell'aria stessa c'era qualcosa di pauroso.
Credo che anche i miei compagni lo sentissero, ma non dicevano nulla.
Improvvisamente ci fermammo. Attraverso gli alberi, giungeva alle nostre orecchie un rumore lontano.
Tonnison si protese, in ascolto. Ora il rumore si udiva più nettamente; era aspro e incessante, come un rombo monotono, proveniente da grande distanza. In che razza di luogo eravamo capitati?
Guardai la signora Frazer per cogliere le sue reazioni, ma il suo viso era sfuggente, inespressivo.
«Sì, dev'essere proprio una cascata», disse Tonnison «Ora riconosco il rumore», e cominciò a farsi strada risolutamente tra i cespugli, in quella direzione.
A mano a mano che procedevamo, il boato si faceva più distinto, confermandoci che puntavamo nella direzione giusta.
Si fece sempre più forte e vicino finché mi parve che fosse quasi sotto i nostri piedi. Ed eravamo sempre circondati dagli alberi e dagli arbusti.
«Attenti!», gridò Tonnison. «Badate a dove mettete i piedi!».
Improvvisamente eravamo entrati in una vasta radura nella quale, a pochi passi da noi, si apriva un baratro enorme, dalle cui profondità pareva venire il rombo, insieme al getto continuo di spumeggiante vapore che avevamo visto dall'altura lontana.
Stupefatti, osservammo a lungo, in silenzio, lo spettacolo; poi il mio amico si avvicinò cautamente all'orlo dell'abisso.
Soltanto poi, io e la Frazer, allacciati, lo seguimmo; la strinsi a me e lei non mi respinse; malata com'era, avrebbe potuto perdere l'equilibrio; e non c'era motivo di affrettare il destino.
Attraverso il ribollire del vapore, scorgemmo un'enorme cascata d'acqua spumeggiante, che sgorgava impetuosa dalla parete del baratro, una ventina di metri più sotto.
Tacevo, impressionato dall'inattesa grandiosità di quello spettacolo quasi soprannaturale.
Dopo un poco, levai gli occhi al lato opposto del baratro e vidi qualcosa ergersi in mezzo al getto di spuma: pareva il frammento di un enorme rudere.
Anche Tonnison lo stava guardando.
«Andiamo!», disse, gridando per superare il frastuono. «Voglio vedere di che si tratta. Non sapevo che ci fosse qualcosa di simile, da queste parti», e si avviò lungo il ciglio dell'abisso a cratere.
Quando fummo vicini alla forma che avevo intravisto, ebbi conferma della mia supposizione. Era senza dubbio un frammento di rudere di un edificio; ma ora vidi che non sorgeva, come avevo creduto, sul ciglio del baratro, ma all'estremità di un enorme sperone di roccia che sporgeva sull'abisso per una quindicina di metri. In effetti, il rudere era praticamente sospeso nel vuoto.
Tenendomi stretto la signora Frazer, che comunque non si mostrava spaventata, mi avventurai su quello sperone di roccia, e confesso che guardando da quella posizione vertiginosa le ignote profondità spalancate sotto di noi - l'abisso da cui si alzava l'incessante rombo della cascata, e la nuvola di vapore - provai un senso di indicibile terrore e strinsi più forte la Frazer.
Lei non aveva paura, perché forse si sentiva già morta, già precipitata in quell'abisso.
Raggiunto il rudere, ai piedi del quale c'era un considerevole ammasso di pietre e di altri detriti, constatammo che doveva trattarsi di un frammento del muro esterno di una grossa costruzione.
Ma come si trovasse in quella posizione, veramente non riuscivo a capirlo.
Dov'era il resto della casa, o castello che fosse?
Feci compagnia alla signora Frazer, mentre riposava un po’, seduta su un frammento di muro.
Tonnison, intanto, frugava tra le pietre e i detriti.
D'un tratto sentii che mi chiamava con voce concitata.
Dapprima ebbi timore che si fosse ferito; poi pensai che doveva aver trovato qualcosa.
Infatti ritornò con un oggetto nella mano: un libro, spiegazzato e malconcio.
Me lo porse, dicendomi di tenerlo, mentre lui proseguiva le sue ricerche.
Prima di farlo vedere anche alla signora Frazer, lo sfogliai rapidamente e notai che era ricoperto da una scrittura nitida e antiquata, perfettamente leggibile fuorché nella parte centrale, dove le pagine erano gualcite e ammuffite come se il libro fosse rimasto aperto in quel punto, tra le macerie.
Seppi poi da Tonnison che così, infatti, lo aveva trovato.
Dopo non molto, il mio amico abbandonò le ricerche e quindi tornammo, lungo lo sperone di roccia, alla sicurezza della terraferma.
Poi facemmo tutto il giro dell'enorme abisso, constatando che aveva la forma di un circolo quasi perfetto, la cui simmetria era rotta unicamente dallo sperone di roccia sul quale sorgeva il rudere.
L'abisso, come osservò Tonnison, aveva tutta l'aria di un gigantesco pozzo che scendeva dritto nelle viscere della terra.
Ci soffermammo ancora a guardarci attorno; e, notando uno spiazzo aperto a monte del baratro, ci avviammo in quella direzione.
Qui, a qualche centinaio di metri dall'apertura dell'immensa voragine, si apriva un lago silenzioso e immobile, fuorché in un punto, dove l'acqua ribolliva e gorgogliava incessantemente.
Ora, lontani dal fragore della cascata, potevamo parlare senza sgolarci, e chiesi a Tonnison cosa pensasse di quello strano luogo.
Gli dissi che non mi piaceva e che avevo una gran fretta di andarmene.
Annuì brevemente, e lanciò un'occhiata furtiva alla boscaglia, dietro di noi.
Gli chiesi se avesse visto o udito qualcosa.
Non rispose; rimase immobile, come in ascolto, e anch'io tacqui.
D'improvviso, parlò.
«Ascoltate!», disse bruscamente.
Lo guardai, poi rivolsi gli occhi sugli alberi e i cespugli, trattenendo involontariamente il fiato. Trascorse così un minuto, in un silenzio teso; non udivo nulla, e stavo per dirlo a Tonnison, quando, proprio in quel momento, udii giungere, dal folto alla nostra sinistra, uno strano suono lamentoso…
Parve fluttuare tra gli alberi, e si udì un fruscio di foglie smosse; poi, silenzio.
Tonnison mi posò una mano sulla spalla.
«Andiamo», disse in fretta, e cominciò ad avviarsi, cauto, verso un punto dove la boscaglia che ci circondava sembrava più rada.
Come in precedenza, lasciai che la signora Frazer lo seguisse, mentre io prendevo l’ultima posizione della corta colonna, per tenere la bella governante al riparo da ogni attacco.
Mi accorsi solo in quel momento che il sole era calato e che c'era, nell'aria, una sensazione pungente di freddo.
Tonnison non aggiunse altro, ma proseguì in fretta.
Ora eravamo nel folto degli alberi, e io mi guardavo attorno con apprensione; ma non vedevo altro che rami, tronchi immobili e cespugli aggrovigliati.
Mi compiacevo del fatto che la signora Frazer non apparisse intimorita e mi piaceva pensare che si sentisse protetta dalla nostra presenza.
Proseguimmo ancora, e nessun rumore ruppe il silenzio, fuorché, ogni tanto, lo scricchiolio di un ramo spezzato sotto i nostri stessi piedi.
Pure, nonostante il silenzio, avevo l'orribile sensazione che non fossimo soli; e camminavo così vicino alla Frazer che un paio di volte la feci addirittura inciampare; tuttavia fu cortese a non protestare.
Un minuto, un altro, e finalmente eccoci fuori della boscaglia, nel nudo paesaggio roccioso.
Soltanto allora riuscii a scuotermi di dosso la paura che mi aveva attanagliato nel bosco.
Ancora una volta, mentre ci allontanavamo, mi parve di udire un lamento lontano, e mi dissi che forse era il vento, benché la sera fosse immobile.
Dopo un poco, Tonnison cominciò a parlare.
«Sentite», ci disse in tono deciso. «Non sarei disposto a trascorrere la notte laggiù per tutto l'oro del mondo. Laggiù c'è qualcosa d'impuro… di diabolico. Mi è parso che il giardino fosse pieno di presenze abbiette… mi capite?».
«Sì», risposi, attendendo il giudizio della signora Frazer.
«C’è qualcosa, ragazzi. Ma io sono vecchia e ne ho viste tante. Non vivrò a lungo, perciò se volete tornare là dentro, io non avrò paura».
Detto questo, stavolta superò se stessa: sporse la lingua dal labbro e si stirò addosso il camicione, gonfiando il petto, in una posa spettacolare.
Entrambi la fissammo basiti: era malinconica e autunnale, ma anche solida e sicura di sé, come una roccia nel vento. E soprattutto sbottonata. Fino alla morte.
Per me era una presenza rassicurante. E credo che lo stesso valesse per Tonnison.
«C'è il libro», aggiunsi, e posai la mano sullo zaino.
«L'hai messo al sicuro?», domandò il mio amico con ansia improvvisa. «Forse», proseguì, «potrà darci qualche spiegazione. Adesso però faremo bene ad affrettarci; c'è ancora molta strada, e non sarebbe piacevole essere sorpresi qui dal buio.
Ma se è disposta a rischiare, signora Frazer, torneremo a esplorare questo strano luogo...».
La governante annuì.
È chiaro che non aveva molto da perdere, il cerchio si stava stringendo intorno a lei; probabilmente, prima di morire, cercava qualche brivido insolito e quel posto faceva al caso suo.
Arrivammo alle tende due ore dopo, e senza indugio ci accingemmo a preparare la cena, perché non avevamo toccato cibo dopo lo spuntino di mezzogiorno.
Dopo aver mangiato, riordinammo ogni cosa e ci rinfrancammo con un buon goccio, in un clima sereno.
Poi Tonnison mi pregò di prendere il manoscritto.
Lo tolsi dallo zaino e mi invitò a leggerlo ad alta voce.
Anna mi si strinse accanto, visibilmente eccitata.
Così, seduti in mezzo alle nostre tende, alla luce della lanterna, cominciammo a scoprire lo strano racconto intitolato “La Casa sull'Abisso”.
«La scrittura si interrompe... non c'è altro...».
Giunto alla fine, posai il manoscritto e cercai lo sguardo dei miei compagni.
Tonnison era rimasto con gli occhi fissi nel buio e non diceva nulla.
«Che ne pensate?», chiesi, sollecitando una reazione. «Era pazzo?», continuai, indicando il manoscritto con un cenno della testa.
«No!», esclamò deciso il mio amico.
Aprii le labbra per obiettare qualcosa, perché la mia razionalità non mi permetteva di prendere alla lettera la storia narrata nel manoscritto; poi le richiusi, senza parlare. Chissà come, la sicurezza del tono di voce di Tonnison servì a cancellare i miei dubbi. In quel momento, cominciai a dubitare dei miei preconcetti, anche se non potevo certamente definirmi convinto.
Aspettavo ora la reazione di Anna.
«So solo che stanotte vi chiedo di non lasciarmi sola», disse, seria.
Ancora una volta aveva espresso un concetto molto pratico: la compagnia, il calore umano come rimedio a un senso di paura e incertezza.
Del resto non sarebbe stato un gran sacrificio.
Scambiai un’occhiata con Tonnison.
Il mio amico estrasse una moneta e la lanciò in aria.
«Coda», scommettei, prima che gli ricadesse fra le mani.
E code furono. Avevo vinto.
«Avete giocato per evitarmi... o per farmi compagnia?».
«Che domande, signora Frazer: ci siamo giocati il privilegio di proteggerla...», le risposi subito, sicuro di interpretare anche il pensiero di Tonnison.
Dunque mi coricai nella tenda di Anna, stanchissimo, ma soddisfatto dell'avventura che stavamo vivendo.
La mattina dopo ci alzammo molto tardi, quasi a mezzogiorno.
Nessuno di noi parlò di andare a pescare o a fare altro.
Pranzammo e rimanemmo intorpiditi in mezzo alle tende, quasi a chiuderci nel nostro fortino.
Più tardi, Tonnison volle il manoscritto, e si mise a rileggerlo per conto suo.
«Siete disposti a tornare laggiù?», domandai all'improvviso, indicando con la testa la direzione del rudere.
Tonnison alzò gli occhi.
«Sei pazzo?», rispose bruscamente.
«Forse dovremmo farci forza e affrontare questa avventura: se rimaniamo uniti, nessuno potrà farci paura...», il coraggio di Anna scosse l'orgoglio del mio amico.
«Dormiamoci sopra... domani decideremo».
Quella notte fu lui a coricarsi accanto alla signora Frazer, sotto la stessa tenda.
Lei non chiese di rimanere sola, e noi evitammo di domandarlo.
L'indomani mattina ci alzammo presto e decidemmo il da farsi.
Come se la vicinanza con la Frazer l'avesse in qualche modo cambiato, Tonnison appoggiò adesso il partito dei folli, accettando l'idea di tornare in quel posto per fare altre ricerche e comprenderne il mistero.
Fu stabilito però che saremmo sempre rimasti compatti, e se del caso ci saremmo stretti nella stessa tenda, perché nessuno avrebbe potuto affrontare da solo quella boscaglia sinistra e minacciosa.
Fu così che tornammo nel giardino abbandonato, nei pressi del lago, preparandoci ad affrontare la notte, prendendo tutte le precauzioni possibili.
Prima di lasciare il villaggio, avevamo addirittura acquistato un paio di forconi da contadino.
Io e Tonnison sembravamo la scorta della Regina, quale ormai si atteggiava la signora Frazer, sicura del fatto suo e abbastanza al riparo con due giovanottoni come noi.
Ci stringemmo intorno al falò, mentre tutto intorno si propagavano rumori inquietanti.
Avevamo organizzato una specie di fortino: avremmo chiuso la Frazer dentro la sua tenda, insieme al manoscritto, per sottrarla a quelle presenze notturne, che sicuramente ci scrutavano nell'ombra, mentre noi avremmo vegliato a lungo con i forconi bene in vista, per scoraggiare eventuali assalti.
La seconda tenda era di fatto inutilizzata, ma l'avevamo tirata su per dare l'idea di un accampamento più grande.
«Su, venite a dormire...», sussurrò la Frazer, dall'interno della tenda.
Era ben protetta, di fatto inattaccabile, almeno al momento.
Voleva delle emozioni e le aveva trovate.
Ci stringemmo dentro, mentre il falò andava spegnendosi.
La minaccia nell'ombra era palpabile. Sarebbe stato facile smarrire la ragione, se non fosse stato per la presenza rassicurante di Anna.
Era grassa, formosa e calda. Impossibile avere paura con lei vicino.
Il brivido di poter essere attaccati, da un momento all'altro, da entità sconosciute, e di dover difendere la Regina, ci trasmetteva una particolare eccitazione.
Ci accontentevamo di sfiorarla, inebriandoci al più tenue contatto, come chi sorseggia appena un vino pregiato non ha il coraggio di trangugiarlo.
L'alba arrivò senza che fossimo mai riusciti veramente a dormire.
Eravamo più stanchi della sera precedente.
Ma molto eccitati.
Ci stiracchiammo intorpiditi fuori della tenda, cercando in qualche modo di risvegliarci.
Anna ci stava preparando la colazione, intanto.
Ci contemplò con simpatia.
Lei sembrava riposata, distesa, segno che era riuscita a dormire.
Aveva parecchi anni più di noi e poche settimane ancora, ma emanava un fascino imperioso che ci stava contaminando al pari di quell'atmosfera malsana che permeava tutto.
Tuttavia non percepivo concorrenza o competizione con Tonnison, perché Anna non era una donna qualsiasi, ma la Regina della situazione, e nessuno di noi due sembrava avere l'animo di corteggiarla.
Troppa differenza di età, e poi conoscevamo il suo destino: non potevamo legarci a una donna senza futuro, benché ancora piacente e decisa a rimanere in gioco il più a lungo possibile.
Adesso dovevamo decidere se perlustrare i dintorni lasciando incustodito il campo, oppure smontare le tende e riposizionarci altrove.
Optammo per la prima ipotesi.
Portando con noi solo lo stretto necessario, e tra questo c’erano anche i due forconi, girovagammo nel giardino abbandonato tenendo la solita formazione: Tonnison davanti, Anna in mezzo, e io a chiudere la fila.
«Aspettate...».
La Frazer aveva notato qualcosa...
Si sfilò sulla destra e si accovacciò intorno a degli strani funghi.
«Non credo siano commestibili...», disse Tonnison.
«Lo so... ma mi servono.
Per favore, potete raccoglierli?».
Non era un'operazione difficile, ci pensai io.
La giornata proseguì senza particolari emozioni, con la Frazer, però, che si era toccata la pancia più spesso del solito.
Ritornati all'accampamento, non trovammo niente di insolito.
Anna rinunciò alla cena e questo ci fece preoccupare.
Si infilò nella tenda e ci chiese di lasciarla sola.
Da parte nostra cominciammo a vigilare sull'accampamento, armati di forcone.
Quella sera le ombre intorno a noi sembravano meno oscure.
La Frazer uscì dalla tenda e si mise seduta contro il tronco di un albero.
Uno di noi le andava sempre dietro.
Sembrava aspettare qualcosa.
E aveva gli occhi strani.
A un tratto cominciò a vomitare.
Tonnison si chinò su di lei.
«Non è niente, lasciami perdere».
Mi venne un terribile sospetto.
Controllai... e purtroppo il sacchetto con i funghi era vuoto...
Mi avvicinai subito al mio amico.
«Sono molto tossici i funghi di oggi?».
«Abbastanza».
E un attimo dopo mi fissò basito.
Anche lui aveva capito.
Perché lo aveva fatto?
Finora era sembrata molto attaccata alla vita, vogliosa di vivere bene le sue ultime settimane...
E poi perché adesso?
No, forse c'era dell'altro.
«Non voglio morire...».
Anna mi stava rispondendo.
«È solo un esperimento...
Se dovesse funzionare...», si interruppe per vomitare ancora, «io rimarrò qui... da sola...».
«Da sola? Ma sarebbe pericoloso!», protestai.
«E allora... rimarrete con me.
Non guarirò... ma devo fermare il tumore... prima che sia troppo tardi: mi sta salendo in bocca, ce l'ho dappertutto...
Ma io non voglio morire... ce la farò...
Questo sarà il mio Regno... qui lotterò fino alla fine... insieme a voi due.
Adesso voglio... che mi conosciate nel profondo...», era affannata, «uno dopo l'altro... e poi... mi giurerete fedeltà... fino alla morte...
Avanti...».
Divaricò le cosce, toccandosi il ventre, e ci invitò all'assalto.
Fu una notte di follia.
Tra quelle ombre oscure e le blande fiamme del falò morente.
Aveva deciso di non arrendersi e di battere sentieri occulti, piuttosto che morire nel proprio letto.
Quel giardino morto da tempo era l'ambiente ideale per lei.
Sarebbero morti per sempre, o rinati insieme.
Lettore, se vuoi conoscere l'attrice che ha ispirato questo racconto, clicca qui.
Il racconto è un tributo alla sua bellezza, carisma, personalità.
Gli aspetti negativi sono introdotti per mere esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico.
Il ruolo della protagonista va assimilato a quello dell'attrice rispetto a un film.
La devozione alla persona in questione, da parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta.
CONTRO
LE DONNE-SQUALO
di Salvatore Conte (2019-2022)
È un caso molto difficile e il tempo sta già finendo!
Stando alla richiesta di riscatto, la polizia ha meno di un giorno per ritrovare la giovane ereditiera dei diamanti - Mathilde Lancour - prima che venga assassinata.
Per fortuna del padre, tra gli investigatori incaricati (di nascosto) c'è anche l'Agente 007, perché si sospetta che dietro il sequestro vi sia lo zampino, anzi la pinna dorsale, delle famigerate Donne-Squalo (dette anche pescecagne), un clan di grosse predatrici, un'organizzazione segreta molto potente che minaccia l'intero mondo!
Quando la minaccia si fa globale, i migliori servizi segreti entrano in azione e la loro licenza di uccidere vale ovunque...
L'ultimatum dei rapinatori scade fra 22 ore esatte: alla mezzanotte del nuovo giorno!
C'è poco tempo per spremere gli informatori e seguire le piste che potrebbero aprirsi.
In città i delinquenti non mancano, ma ve ne sono due in netta ascesa e sono entrambi donne: Squalo Biondo (!) e la Sbottonata (!).
Godono di protezioni eccellenti e sono difficili da incastrare, se non ci sono prove più che convincenti; perché il Giudice non si lascia convincere facilmente, quando c'è da metterle dentro. Due tipe così, se pure non ci sono dietro loro, di sicuro sanno qualcosa.
Per 007 il lavoro si presenta alquanto complicato, la matassa difficile da sbrogliare in così poco tempo!
La prima idea è quella di fare il giro dei night-club per vedere di fare uscire qualche chiacchiera.
Purtroppo, però, le bocche sono cucite, chi sa o intuisce qualcosa rimane abbottonato.
Tutto il contrario di Anna Frazer, la vecchia puttana che ha messo su un impero economico basato sul crimine e che si rende facilmente riconoscibile per via dei suoi camicioni allegri e allentati fino allo stomaco (!).
Benché non più giovanissima, è la donna che tutti vorrebbero sposare: ricca, possente, ingrassata il giusto, con la carne molle e le tette a penzolo.
Gli viene proprio voglia di interrogarla di persona.
Purtroppo però per lui, James Bond viene a sapere che la signora Frazer stavolta ha trovato pane per i suoi denti da squalo ed è finita in fuorigioco (!).
Un tommy-gun l'ha crivellata di colpi all'uscita da un locale (!!).
«Figli di puttana!», ha gridato con la pistola in mano, ma non c'è stato niente da fare: è partita la sventagliata e l'ha raggiunta in pieno!
I suoi uomini l'hanno trasportata in fin di vita (!) all'ospedale, ma i medici sono ottimisti: pare che non se la caverà (!!).
Resta da stabilire se vi sia un nesso con il rapimento di Mathilde Lancour.
007 corre in ospedale per cercare di strapparle qualcosa, magari un altro bottoncino, prima che tiri le cuoia, ma i medici lo gelano: la donna è in piena agonia (!!); non operabile, è ricoverata in terapia intensiva, con poco da vivere.
È una doccia fredda per 007: la Sbottonata sta per morire.
Intanto, però, il tempo passa e si sono fatte le 4 della notte: mancano 20 ore allo scadere dell'ultimatum.
A questo punto, Bond decide di mettere sotto torchio uno dei suoi informatori.
Non sarà facile cavargli qualcosa: c'è paura nell'aria. Chiunque abbia rapito Mathilde ha occhi ovunque e fa maledettamente sul serio. Non è facile estorcere denaro a un magnate dei diamanti.
Nonostante le tangibili pressioni, infatti, 007 non ottiene nulla e l'orologio segna le 6 del mattino.
Bond non ha niente per le mani, neanche uno straccio di indizio!
Adesso, però, qualcosa si muove.
La bella Chana Jones - alias Squalo Biondo - scortata da diversi pescicani, è stata avvistata all'ospedale, dove si è recata a far visita alla Sbottonata (!); pare abbia ordinato al chirurgo di turno, a quattrocchi, di tirarle fuori dalla pancia una maledetta dozzina di pallottole (!!).
Il quadro comincia a reggere.
Ma non c'è tempo per cercare prove vere e proprie.
Bisogna incalzarla. Farsi dire dove l'ha nascosta.
L'ipotesi è che abbia agito in società con la Sbottonata, e che forse entrambe siano Donne-Squalo affiliate alla feroce organizzazione; tuttavia, qualcun altro, tagliato fuori dall'affare, avrebbe reagito nella maniera che si è saputo: imbottendo di piombo la Frazer!
Squalo Biondo lascia l'ospedale imprecando, perché la Sbottonata potrebbe lasciarci la pelle da un momento all'altro (!!).
Lei, però, sembra aver fretta di rientrare alla base.
Si è rifatta notte, è il suo momento.
007 entra in azione.
La Frazer non è ancora spirata, anche se si attende il peggio (!!). L'ospedale è assediato da curiosi e giornalisti.
La Jones ha dovuto abbandonarla al suo destino, evidentemente ha molto da fare.
Scavalca il muro di cinta ed entra nella sfarzosa villa di Squalo Biondo, avvicinandosi alla grande piscina in cui è solita nuotare; anche in questo preciso momento...
Il revolver cromato di Chana Jones è sempre a portata di mano, a bordo vasca. Quando il boccone è indigesto per le proprie mascelle, una buona dose di piombo è in grado di mandar giù qualsiasi amarezza...
A pochi metri dalla piscina in cui nuota Squalo Biondo, ve n'è un'altra popolata da squali senza capelli.
Gli amici di Chana sono preziosi operatori ecologici per lo smaltimento di rifiuti umani. Non fanno domande e la procedura è semplice: se gli dai da mangiare, mangiano.
«Come sta Anna?», esordisce provocatorio Bond.
«Le rimane poco... se muore, mi chiamano; ma per quello che le è arrivato addosso, ha lottato alla grande...», la corpulenta, maestosa bionda-platino affiora dall'acqua, senza mostrare eccessiva meraviglia.
«Ha la pelle spessa, infatti... ma stavolta temo che non se la caverà a buon mercato».
«Sembra quasi che tu l'ammiri...».
«È una bella donna, perché negarlo. Ha classe, e un fascino fuori dal tempo».
«Già... tu te ne intendi... ma sta per morire...», glielo ricorda aprendo le mascelle.
«Senza dubbio.
Ma ti consiglio di stare lontano da quel cannone, ho delle domande da farti», con il piede lo allontana leggermente, per evitare equivoci.
«Penso già di conoscerle, le tue domande, Bond...», rimarcando il nome, facendo scoppiare la B come un palloncino. «So che ti piace andare in giro a scassarle a tutti quanti. Tuttavia non so niente che possa interessarti, mi dispiace».
In quel momento uno dei suoi scagnozzi avvista l'uomo a bordo piscina.
Ma non ha il coraggio di sparare all'istante, perché potrebbe trattarsi di un ospite segreto.
«Ehi, tu! Chi cazzo sei?».
È una cicciona in trench nero, molto allentata, con un sorriso sardonico scolpito sulla faccia da pacioccona: una vera donna-qualo in pinne e tette.
FLOP
Bond invece non indugia: la raggiunge allo stomaco, neutralizzandola.
«Leila!», impreca Chana.
«Bond... James Bond...», 007 le risponde adesso, da vero gentleman.
Squalo Biondo ne approfitta per balzare fuori dall'acqua e allungare la mano bagnata sul revolver.
È uno squalo anfibio, non c'è dubbio.
FLOP
BANG
Un colpo alla bionda, in pieno petto (!!), e uno, biondo, all'aria, per la tangente...
Non voleva ammazzarla, doveva parlare prima, ma è stato costretto.
La donna rotola pesante nella vasca e a braccia larghe va alla deriva verso il centro della piscina (!!), con l'acqua intorno che cambia colore!
Lo sparo, però, ha allertato altri scagnozzi.
Viene tirata subito fuori.
La scena è concitata (!).
Bond osserva da lontano.
La bionda è spiaggiata a bordo vasca (!).
I suoi provano a tamponare il buco (!).
Qualcuno si occupa anche di Leila.
Arrivano ambulanze e polizia.
Quasi subito le calano il lenzuolo in faccia (!!).
L'autolettiga riparte a bassa velocità, diretta all'obitorio (!!).
Leila invece parte per l'ospedale.
«Manca un'ora a mezzanotte e guardate che casino!», impreca il capo della polizia.
La mattina dopo, la ragazza viene liberata.
Il padre ha pagato a mezzanotte meno cinque.
Gli scagnozzi avevano istruzioni chiare, e le hanno eseguite.
Chana Jones è stata trasferita in terapia intensiva, dopo una notte agitata all'obitorio (!).
Pare che 007 non dovrà subire il rimorso di aver ucciso l'ultimo esemplare conosciuto di squalo biondo.
Adesso ha tempo per interrogare di persona la Sbottonata (!), che ha ripreso conoscenza dopo un pericoloso travaglio.
Comunque ha deciso di andarci piano.
Se deve crepare, meglio stia zitta...
La giustizia può attendere.
E
poi c'è quella cicciotella simpatica che ha quasi tolto di mezzo per sbaglio...
«Ciao, Leila... hai presente chi sono?».
Bond posa i fiori accanto al letto.
«Certo... mica... uhh.... mica mi hai sparato... agli occhi...».
«Non ti sforzare...».
«Prima... mi fai quasi fuori... ohh... e poi... vieni a trovarmi...».
«E perché no?».
«Non dirmi... che ti piace... una come me... uhh... tu sei un fico...».
«E che vuol dire?
Tu sei un pezzo di fica, Leila».
«Adulatore... uhh...
Io sono... una zoccola... ahh...».
«Con una puttana come te, mi sto buono e calmo».
«Hai bisogno… ohh… di una ragazza…».
«Esatto», le tampona la fronte.
«Anch’io… mi calmo… ahh… con uno stronzo… come te…».
«Brava, ma stai calma...».
«Allora... si fa... uhh... una vasca... insieme...?», lusingata dalle premure.
«Anche due, bellezza...
Però calmati... non ti sforzare...», le asciuga le tempie e il collo grasso, con gesto affettuoso.
«Devo... rimettermi in tiro... prima...».
«Sei uno squalo ferito, Leila; ma non rimarrai uccisa; ti tirerò fuori dai guai.
Ti aspetto fuori da qui, grassa e allentata...».
La giustizia può attendere sempre di più.
Lettore, se vuoi conoscere l'attrice che ha ispirato questo racconto, clicca qui.
Il racconto è un tributo alla sua bellezza, carisma, personalità.
Gli aspetti negativi sono introdotti per mere esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico.
Il ruolo della protagonista va assimilato a quello dell'attrice rispetto a un film.
La devozione alla persona in questione, da parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta.
di Howard Phillips Lovecraft e Salvatore Conte
(1923-2023)
La Notte di Walpurgis, la Vigilia di Maggio, è sempre un incubo nella città di Arkham, infestata dalle streghe.
Succedono cose terribili e, spesso, capita che spariscano anche un paio di persone. Quest'anno sono stati ritrovati morti una studentessa della facoltà di scienze occulte dell'Università Miskatonic, Asenath Waite, e un bambino, Ladislav Wolejko.
La Polizia di Arkham, che brancola da sempre nel buio, ha deciso stavolta - per reagire alla pressione dell'opinione pubblica - di richiedere la collaborazione di un'investigatrice privata nota per i suoi metodi sbrigativi e molto popolare in città per la sua matura avvenenza: Pamela Shoop.
La velocità, nella risoluzione del caso, è essenziale: passata la Notte di Walpurgis, le piste da seguire svaniranno e i colpevoli torneranno nelle tenebre fino al prossimo Sabba, quando riprenderà una nuova catena di morti.
L'indagine è ispirata alle storie: "I sogni nella casa stregata", "La cosa sulla soglia", "L'innominabile" e "Due bottiglie nere", di Howard Phillips Lovecraft, nonché ad Arkham Noir.
La Shoop inizia l'inchiesta da Casa Crowinshield, intorno alla quale il bambino ucciso andava spesso a giocare.
Il proprietario risponde gentilmente alle sue domande, ma non è di nessun aiuto.
La scaltra, navigata investigatrice sente puzza di bruciato: quella indifferente disponibilità non la convince affatto; nessun idea, nessun sospetto da segnalare.
Ha una gran voglia di perquisirla quella casa, ma senza dare troppo nell'occhio.
Raggiunge l'Università e fa qualche domanda, fino a quando salta fuori che il bibliotecario, il dott. Armitage, conosce bene il proprietario di Casa Crowinshield.
In sua compagnia, torna dunque sul posto, e mentre i due prendono a conversare, con la scusa di andare al bagno, si mette a curiosare.
Arriva fino in soffitta, dove nota un ambiente più piccolo, sigillato e inaccessibile.
La cosa appare molto strana e sospetta.
Mentre cerca di capirne qualcosa in più, viene morsa da un ratto!
È una grossa seccatura, dovrà farsi vedere da un medico e perdere tempo prezioso.
Nel frattempo, si terrà la mano in tasca.
«È stata una cosa lunga, mi dispiace», si giustifica, con toni più da caserma che da bella donna.
Fa qualche altra domanda, per giustificare la sua visita, ben sapendo che non otterrà alcuna risposta utile.
Intanto, però, un pezzo del puzzle finale sembra essere andato al suo posto.
La Shoop si arrovella al pensiero di quel misterioso sottotetto, quando dal vicolo in cui si è appostata, sul retro della casa, sente cigolare sinistramente delle assi di legno: il rumore proviene più o meno da quel punto!
Quella casa è davvero troppo strana...
L'investigatrice va trovare un suo amico occultista, un certo Howard Lovecraft: forse lui è in grado di aiutarla, forse conosce qualche aneddoto misterioso che la riguardi.
Pamela Shoop non rimane delusa: dalla soffitta di Casa Crowinshield, non di rado sono filtrate all'esterno delle strane e inquietanti luci viola, che secondo Lovecraft appartengono a manifestazioni demoniache.
Naturalmente la Polizia di Arkham non ha mai dato peso a queste congetture, ma alla Shoop la pista sembra promettente, anche se il solo pensiero che il piombo delle sue pallottole possa non bastare, le mette la sudarella addosso.
Lovecraft le consiglia di parlare con Randolph Carter, che è anche più dentro di lui in queste genere di cose.
L'investigatrice sfodera tutto il suo fascino e mette sotto torchio il rinomato occultista.
A seguito del colloquio, quasi un interrogatorio, addolcito dalle forme procaci, il quadro si fa sempre più chiaro, anche se mancano ancora delle prove.
La Shoop è a un punto morto in questa indagine. Decide allora
di dedicarsi maggiormente al caso della studentessa di scienze occulte, anche
perché i due omicidi devono essere collegati.
Riparte quindi dal domestico di Casa Waite, un certo Moses Sargent: l'investigatrice vuole sapere se la ragazza assassinata uscisse in orari insoliti, se qualcuno in particolare venisse a cercarla, se qualcosa nel suo atteggiamento fosse cambiato negli ultimi tempi.
Le risposte non sono convincenti. Il maggiordomo ha l'aria stralunata e una luce malata negli occhi.
La Shoop rientra in ufficio per fare il punto della situazione: non ha una segretaria, né un segretario, fa tutto da sola.
Il telefono squilla, ma l'interlocutore non ha molto da dire: un sinistro, reiterato gorgoglio è l'unico suono restituito dall'apparecchio. Una telefonata minatoria sui generis. Vuol dire, comunque, che la pista è quella giusta, e che le domande al domestico hanno disturbato qualcuno.
A questo punto decide di ritornare in Casa Waite, per dare un'occhiata più approfondita: accompagnata dal riluttante padre della povera ragazza - Ephraim Waite, un esperto di scienze occulte, anzi un vero e proprio stregone - scopre nella camera della studentessa una tana di ratti... ancora loro... certo ce ne sono ovunque ad Harkham, ma la doppia circostanza è più che sospetta.
La Shoop conosce anche Lauren Waite, sorellastra di Asenath e molto più grande di lei: una cessona inquietante, degna del padre.
Quasi minacciandoli, li convince a ispezionare la tana, anche rompendo la parete.
L'intuizione dell'investigatrice si rivela vincente, perché all'interno delle assi di legno viene rinvenuto il Necronomicon (!), un famoso libro di occultismo, considerato rarissimo, se non addirittura un pezzo unico.
I topi lo hanno misteriosamente risparmiato: il tomo è perfettamente integro.
Perché si trovi lì è ancora presto per dirlo, ma la scoperta è di fondamentale importanza!
Anche se il libro sembra quasi rimbombarle nella testa, la Shoop comincia a sfogliarlo e la sua attenzione viene colpita dalla raffigurazione dell'isolotto disabitato che sorge al centro del Miskatonic River, il fiume che attraversa la città.
Girano strane voci su ciò che accade di notte su quell'isolotto, e ora la Shoop si rende conto che deve nascondere qualcosa di orrendo.
Decide quindi di fare un sopralluogo, ma non scopre niente.
A questo punto non le rimane che tornare da Carter con il Necronomicon.
La Shoop si è infatti tenuta il libro maledetto, nonostante le vibrate rimostranze del signor Waite.
Randolph Carter le conferma che Ephraim Waite è un adoratore del demonio e che sua figlia Lauren è una strega, anzi la più pericolosa.
L'investigatrice svolge una ricerca negli archivi cittadini e scopre che Asenath Waite è stata adottata... e che la moglie dello stregone è morta in circostanze oscure...
Lauren è figlia unica.
Il quadro è pressoché completo.
Ce n'è abbastanza per fare rapporto alla Polizia di Arkham, anche se mancano delle prove conclusive.
Bisognerà pazientare ancora un po', aspettare che padre e figlia facciano un passo falso.
La Shoop rientra in ufficio e lo ritrova sottosopra: stavolta è lei ad aver ricevuto visite.
Ma crede di sapere cosa stessero cercando... un libro che adesso depone sulla sua scrivania.
La tenda si scuote e appare la brutta faccia di Moses Sargent, il domestico di Casa White!
Le
mette le mani al collo e sta per strangolarla.
POW... POW... POW...
Tre colpi di revolver rimettono le mani a posto.
THUD
Il bestione non voleva proprio mollare.
Ma adesso è andato.
Proprio come il Necronomicon!
Infatti sulla scena c'è anche Lauren, che ne ha approfittato per involarsi con il libro maledetto.
Fatte le scale, e uscita sulla strada, comincia a correre verso l''angolo dell'isolato, dove sembra attenderla qualcuno, vestito di scuro, a bordo di un sidecar.
«Ferma o sparo!».
E pensare che quell'oggetto in fondo è suo...
Tuttavia Pamela Shoop non ha tempo per le sfumature, un bambino e una ragazza sono stati uccisi da una setta misteriosa, e lei deve fare giustizia.
POW
Il primo colpo è mirato alla spalla.
Ma quella non sembra nemmeno averlo sentito.
La figlia di Ephraim Waite è una specie di bestia: una ragazza massiccia e corpulenta, con tanta carne addosso, che talvolta può anche salvare la pelle...
POW
È necessario un secondo colpo alla schiena.
Lauren Waite, con il libro sottobraccio, si scompone, caracolla per un paio di metri, ma poi riprende l'andatura veloce di prima.
POW
Un altro colpo nella schiena.
La donna sui 45 caracolla come poco prima, la camicetta rosa pallido chiazzata vistosamente da tre grosse macchie illuminate dai lampioni della strada.
Ma stavolta stenta a riprendere il giusto equilibrio.
D'altra parte è arrivata a breve distanza dal sidecar.
Piegata in due, sta ormai per schiantarsi a terra, un braccio proteso davanti a sé, l'altro ostinatamente intorno al libro, il baricentro del corpo del tutto fuori controllo.
Il sidecar, però, sgassa a tutta e appena il corpo di Lauren si abbatte sul carrozzino, riparte a razzo!
La cessona è finita con la faccia al posto delle gambe e con il sedere al posto della testa.
La Shoop non ha più dubbi: alla guida c'è il padre.
Una strega e uno stregone, a bordo di un sidecar molto profano.
Inutile tentare un inseguimento. Tanto sa dove trovarli.
Una all'obitorio, l'altro dietro qualche parete.
In meno di mezzora la Shoop è già a Casa Waite.
La Polizia le lascia condurre il gioco.
Ephraim nega tutto: di notte è facile sbagliarsi, lui non ha mai guidato neppure una bicicletta, la figlia è partita in serata per Kingsport.
Nel mentre è costretta a sorbirsi queste fandonie, lancia l'occhio su un sarcofago verticale che adorna lo studio dello stregone.
Ai suoi piedi cola un liquido denso...
Sembra sangue...!
«No!».
Istintivamente apre il sarcofago e viene abbracciata dal pesante corpo di Lauren!
Il padre l'ha sistemata lì dentro!
«Maledetta!», esclama Ephraim. «Me l'hai ammazzata...».
L'investigatrice si divincola dal pesante abbraccio e trascina il corpo sulla poltrona più vicina.
«Chi ha ucciso la sua figlia adottiva?», lo incalza la Shoop.
«Voi sapete troppo...
È stato Moses».
«E il bambino, chi l'ha ucciso?».
«È sempre Moses che faceva il gioco sporco. Se non è tornato, vuol dire che è morto».
«Sì, non ci vuole lo stregone... come suol dirsi.
E vostra figlia, che ruolo aveva in tutto ciò?».
Mentre attende una risposta, la guarda.
La testa affondata sul petto, quasi dentro la scollatura della camicetta, le gambe scomposte e le braccia larghe che protendono dai bordi della poltrona: una grossa bambola di pezza buttata via alla rinfusa.
«Era molto ambiziosa. Doveva prendere il mio posto, alla mia morte».
«C'è nessun altro nella banda?».
«Nessuno. Almeno tra i vivi...».
Mentre continua a interrogarlo, fissandolo negli occhi, si sente stringere il collo.
In pochi istanti le manca l'aria, tanto è forte la stretta.
Non riesce a vedere chi l'ha attaccata.
Sta per morire, solo questo riesce a capire.
Ha il revolver nella tasca del giubbotto, ma le pistole sparano davanti alla canna; l'unico obiettivo raggiungibile è lo stregone, però le mani sono certamente di qualcun altro.
Ucciderlo non le avrebbe impedito di morire.
O sì?
In quella folle indagine, tutto sembra uscire dall'ordinario.
POW
Tanto vale provare.
Un colpo in mezzo agli occhi mesmerizzanti, l'ultimo atto possibile prima del buio.
Una testa che si abbatte sulla scrivania.
Delle mani che si allentano.
Un corpo pesante che le si affloscia contro la schiena.
Si volta.
Di nuovo quell'abbraccio!
Un lampo ed è tutto chiaro, mentre torna aria nei polmoni.
La rimette sulla poltrona, stavolta con un pizzico di compassione.
Perché è ancora viva.
Il padre l'aveva ipnotizzata.
Un po' per tenerla in vita, ma soprattutto per usarla contro di lei, come un'arma letale, che stava per rivelarsi tale.
Adesso Lauren ha freddo, il grasso da cessa che la riveste non le basta più per tenersi la pelle addosso.
La Shoop le fa mandare giù un sorso di whisky e fa una telefonata.
«Ho chiamato l'ambulanza, anche se non te lo meriti...
Ma non farti illusioni, se anche dovessi cavartela, ti aspetterebbe la sedia elettrica».
«Io... non ho ucciso... nessuno... io...», sbavando sangue dalla bocca.
«Sei complice di una banda criminale e di chissà quanti omicidi».
«Pamela... non essere... severa...», lo sguardo spaventato... allucinato...
Occhi mesmerizzanti come quelli del padre, il cui cadavere è ancora caldo. Anche troppo...
«Forse è meglio se ti accompagno all'ospedale, Lauren. Non vorrei tu...», sullo sfondo delle sirene, la Shoop - visibilmente preoccupata - le appoggia una mano sul ventre, come se avesse un buco anche lì. «Alla Polizia spiegherò tutto io...».
«Ti propongo…un patto…», si aggrappa con le
unghie all’ultima superficie di vita, seppur liscia e scivolosa come una vetrata
bagnata d’olio.
«Non credo tu sia nella posizione di propormi niente di interessante».
«Ti sbagli… cough…», tossisce preziosi aliti di vita. «Se mi salvi la vita… ti
farò vivere in eterno... la tua…».
«Una proposta piuttosto interessante, non c’è che dire», Pamela la guarda
ironicamente.
«Non abbiamo... molto tempo… ascoltami…», le unghie si stanno spezzando.
«In fondo ultimamente ho ascoltato storie così assurde che posso anche correre
il rischio di sentirne un’altra». Adesso la fissa senza ironia, come a rivedere
gli avvenimenti delle ultime ore. «Parla... ma in fretta, perché la polizia e la
morte stanno facendo a gara per venirti a prendere».
«Il Necronomicon… prendilo…», indica il tavolo a tre gambe davanti a lei; il
libro è stato nascosto in piena vista. «E prendi... anche me…», si sforza di
alzarsi dalla poltrona, facendo leva con entrambe le mani sui braccioli.
«Che intenzioni hai?», a fatica Pamela riesce a rimetterla in piedi.
«Portami alla libreria…».
«Ci provo», la sospinge come un’auto in panne con tre pallottole nella
carrozzeria. «Vuoi leggere un passo della Bibbia per redimerti prima di
morire?», accenna un sorriso più che altro per farsi forza.
«Prendi il sesto libro… partendo da destra… sulla seconda fila…».
«Questo?».
«Sì… tiralo via…».
Lo sfila e la libreria si muove girandosi su sé stessa come un palcoscenico che
cambia scenografia.
«Non proprio il massimo dell’originalità», osserva. «Perlomeno è funzionale a
risolvere il primo dei due problemi», la stanza è già rischiarata a
intermittenza dal blu dei lampeggianti.
«Il secondo problema... lo risolviamo... dall’altra parte…», Lauren sembra avere
ripreso forza all’improvviso, sa che deve scomparire il prima possibile oltre il
passaggio aperto dalla rotazione della libreria.
«Mi hai portato all’inferno?», Pamela si ritrova completamente al buio con la
parete che si chiude automaticamente dietro di loro.
«La luce… alla tua destra... c’è un interruttore…», Lauren conosce bene quel
posto, e se questo è davvero l’inferno, lei è di casa.
«Eccolo», e davanti si accende una visione che pare uscire dai più terribili
racconti onirici, un insieme di forme e colori che sembrano provenire da
dimensioni sconosciute, da universi così mostruosi che la mente umana non
oserebbe neanche immaginare. «Mio Dio… dove ci troviamo?», l’investigatrice
appoggia le spalle al muro, come a cercare protezione da quell’orrore
inaspettato.
«Lascia stare il tuo Dio… qui forse... non oserebbe entrare nemmeno lui…»,
Lauren è invece rigenerata da quella vista.
Una stanza enorme illuminata da una luce rossa che corrompe i muri, i pavimenti,
i bassi soffitti e tutto quello che c’è attorno come un untore che appesta ogni
cosa che tocca, e due corridoi che si allungano fino a perdersi ciechi sul fondo
del lato opposto.
E lungo i corridoi, piccoli altari sui cui ripiani sono sistemati vasi
trasparenti e teche di vetro contenenti creature dall’aspetto inimmaginabile:
alcune immobili, altre vive di una vita che è comunque morta, esseri abominevoli
e terrificanti, incubi e succubi che hanno trovato il modo di varcare la soglia
dei sogni per arrivare fin qui. Orrori di ogni genere, creati dalle fantasie di
esseri diabolici che niente hanno a che fare con l’ordine delle cose terrene
conosciute agli uomini.
Le pareti sono invece ricoperte da raffigurazioni oscene che nessuna mano umana
saprebbe dipingere o immaginare, con occhi dentro altri occhi che guardano
ovunque, e corpi che si divorano fra loro ballando sabba sconosciuti, mentre
fuochi infernali sembrano bruciare vivi gli stessi muri.
All’ingresso due enormi sculture messe una di fronte all’altra, mostruosità
informi pensate al contrario, con mani al posto dei piedi e teste rivolte
all’indietro, creature abominevoli provenienti da chissà quali indicibili
abissi.
«Riapri questa maledetta parete!», Pamela le punta contro la pistola. «Subito!».
«Il nostro patto…», riesce a tenersi in piedi da sola. «Prima c’è da
rispettare... il nostro patto…», fa un lungo respiro come a inalare forza da
tutto quello che la circonda.
«Dove stai andando?», tenendola sempre sotto tiro la guarda esterrefatta mentre
si muove a piccoli passi verso i corridoi.
«Qui…», e s’inginocchia dentro un cerchio dai contorni di fuoco al cui interno è
raffigurato un trono posto al centro dell’universo con il Dio Azathoth seduto
sopra. «Prendi quelle due bottiglie nere…», fa un cenno verso l’altare più
vicino.
«Mi gira la testa…», una forza più potente della sua volontà sembra ipnotizzare
Pamela. «Queste?», barcollando, le prende senza ribattere.
«Sì… aprile e svuotale sulle mie ferite…», sempre inginocchiata, si toglie la
camicia inzuppata di sangue, lasciando la schiena scoperta. «E mentre lo fai...
leggi la penultima pagina del Necronomicon…».
Esegue spersonalizzata, un guscio vuoto, dentro un’anima che non possiede più.
«Ahhh…!», le polveri contenute nelle bottiglie si rovesciano sulla schiena di
Lauren facendo echeggiare nella stanza il suo terribile urlo di dolore, e mentre
una fuliggine verdastra è emanata dal suo stesso corpo, Pamela recita in una
cantilena ipnotica le terribili frasi scritte sul libro.
«Che tutti gli Dei Esterni e il caos strisciante vengano in mio aiuto!», Lauren
invoca follemente il Cosmo, mentre si ode una musica suonata da flauti
infernali, con un sottofondo di voci che sussurrano blasfemie indicibili. «Sì…
sì… sì!», euforica, si rialza dal cerchio magico, con la schiena perfettamente
liscia: i buchi delle pallottole sono scomparsi, così come le ferite, chiuse e
perfettamente invisibili.
«Dove sono…?», Pamela posa il libro sull’altare, la lettura è terminata.
«Sei nell’unico posto dove potresti essere».
«Non mi sento bene…», cerca un sostegno, tutto davanti a lei gira così
vorticosamente da mischiare ogni mostruosità in un’unica poltiglia di colori e
forme indistinguibili.
«Appoggiati a me», adesso è Lauren a sostenerla, le parti si sono capovolte, al
pari dell’universo di questa terribile notte. «È ora di tornare nell’altra
stanza».
«La polizia… di là…», Pamela sembra avere un momento di lucidità.
«Non preoccuparti», tocca un punto della parete attivando di nuovo il
palcoscenico dell’assurdo, che le riporta dall’altra parte. «Qui ormai non c’è
più nessuno. Perlomeno vivo».
Un corpo decapitato sul divano e altri tre smembrati a terra, a insanguinare
pavimenti e tappeti persiani: questo è tutto quello che rimane dei poliziotti.
«Figlia mia…», Ephraim le tende una mano. «Sapevo che saresti riuscita a farlo,
il tempo era oramai venuto».
«Sì, padre, ho compiuto il sortilegio», gli passa una mano sulla fronte,
anch’essa perfettamente ripulita dalla ferita d’arma da fuoco. «Adesso siamo
completamente in possesso del Caos».
«E lei?», l’uomo indica Pamela, seduta su di una sedia e persa completamente nei
sortilegi della strega. «Che cosa vuoi farne?».
«Lei prenderà il posto di Moses», la guarda quasi con tenerezza. «Saprà
sicuramente servirci meglio di quello stupido domestico».
«Sei sicura di quello che dici, Lauren?».
«Certo padre, ha già superato la prova», lo tranquillizza. «E poi i patti vanno
sempre rispettati».
«Già… specialmente quelli con il diavolo», e di fronte a uno specchio il vecchio
sorride a sé stesso, mentre il Miskatonic River continua a scorrere buio nella
notte di Arkham.
VERIFICARE LA DATA DI SCADENZA
di Salvatore Conte
(venerdì 29 novembre 2019 - venerdì 6 dicembre 2019)
Ho impiegato una settimana a metabolizzare la morte di Pegah.
Sono cinico, lo so, è lo stesso tempo che è servito a lei per metabolizzare le due pallottole che s'era presa al posto mio. Per poi crepare un minuto dopo.
GIORNO 0
(VENERDÌ)
Se riesco a chiudere l'affare e a rifilargli a prezzo intero una villa che non vale niente, per me è fatta. Saldo il mio debituccio e mi rimetto in carreggiata.
Altrimenti un bel paio di scarpe rigide, color cemento, non me le leva nessuno.
Per fortuna c'è la mia bambola a incantarli.
Ci sa fare, Pegah Bekhsh. Ceca dalla nascita, ne ha fatta di strada per arrivare qui.
È una stimata, qualificata agente immobiliare; ma quei gonzi anziché controllare interni e impianti, si soffermano sulle pertinenze esterne...
Hanno chiesto un robusto sconto, è vero, ma ci guadagnerei lo stesso.
L'importante è fargli mandare giù il boccone.
Il boss sta per uscire di prigione.
E quando saprà della casa di famiglia rivenduta a estranei dopo la confisca, non ci metterà molto a fare un'offerta che non si può rifiutare agli incauti acquirenti...
Non si trovava neppure un agente che volesse trattarla.
Il Municipio si accontenta di poco, commissione e ricarico vanno agli intermediari.
Per fortuna con le norme sulla privacy si riescono a nascondere tante cose.
E poi questi hanno la testa fra le nuvole.
O meglio, fra le cosce di Pegah...
Manca poco all'appuntamento, bisogna ancora chiudere alcuni dettagli. E poi loro, una coppia di amici, sanno di non rimetterci nell'attesa...
In genere faccio finta di fare qualche telefonata, così lascio campo libero a Pegah e alle sue cosce.
Sento in lontananza il rumore di un'auto, dovrebbero essere loro, la via è isolata.
Prendo la socia sottobraccio e dalla veranda cammino verso il cancelletto della villa.
Una staccionata in legno, non molto alta, corre lungo il perimetro.
È un pomeriggio tranquillo e forse si potrebbe chiudere l'affare oggi stesso.
Però non sono loro...
Un braccio si allunga fuori dal finestrino.
ZIIP
ZIIP
Faccio appena in tempo a buttarmi addosso Pegah!
A mo' di giubbotto antiproiettile!
Perché i colpi erano diretti a me...
La macchina tira dritto, per fortuna.
Dannati bastardi...
«Non
è niente, tesoro...», le due pallottole l'hanno raggiunta all'addome, ma se non
sento dolore vuol dire che sono rimaste dentro, sepolte in quel cuscinetto di
carne. «Andiamo dentro...».
Per fortuna sembra quasi non essersi fatta niente. Cammina tranquillamente da sola. Inoltre la maglia nera che indossa sotto il giubbotto verde è perfetta per l'occasione: anche a livello estetico non si nota praticamente nulla di anormale.
Eppure sembrerebbero due calibro 38 a giudicare dai buchi sulla pelle...
In bagno trovo tutto il necessario: disinfetto per bene le ferite e le tampono altrettanto bene. E in fretta.
«Non è meglio... chiamare un'ambulanza?», mi chiede la bambola.
«Vuoi scherzare? Saranno qui a momenti.
Non possiamo far saltare l'affare. Sai il casino che uscirebbe fuori?
Su... una come te metabolizza tutto, Pegah. Poi stasera cucino io.
Oggi terrai abbottonati giubbotto e cosce, così capiranno che è giunto il momento di darsi una smossa.
E appena chiudiamo l'affare, ti porto da un amico molto bravo per una visita di controllo».
Un clacson.
«Ecco, che ti dicevo? Sono loro.
Non preoccuparti... qualunque cosa succeda, diremo che hai le tue cose». Le tampono il labbro con il fazzoletto. «E che le gengive ti sanguinano. Con tutto questo lavoro non hai tempo per il dentista».
«Ma... quanto potrà durare... tutto questo?».
«Fino a quando sarà necessario, Pegah. Nessuno ci ha dato scadenze. Ma dobbiamo vendere a tutti i costi. O la prossima volta ci faranno la pelle sul serio.
Non lamentarti per due suppostine e non dimenticare chi ti ha messo nel giro che conta...
Altrimenti te le ritrovi nello stomaco le prossime due... e allora dovrai chiudere la saracinesca sul serio...».
Anche se forse non sarei capace di farlo, infilo la mano nella tasca del trench e premo la canna del revolver contro la fodera, per farle vedere che non scherzo... e che deve stare attenta a non farmelo venire duro dalla parte sbagliata...
GIORNO 1
(SABATO)
Non si sono accorti di niente. E ormai anche i dettagli sono andati a posto. La firma del contratto è dopodomani: poi hanno tre giorni per pagare e ricevono le chiavi.
Dunque, salvo imprevisti, per venerdì prossimo entrano nella villa.
È quasi fatta, devo solo sperare che non ci riprovino (a farmi fuori) prima di quella data.
Intanto faccio una ricerca su internet per vedere cosa dare a Pegah per quelle due punturine che ha rimediato al posto mio.
Potrei chiamare Frank e interessarlo della cosa, è un ottimo medico anche se radiato dall'albo, ma non saprei come pagarlo, sono al verde e non voglio altri creditori alla porta in questo momento. Per adesso la bambola non ha particolari problemi, ha avuto solo un paio di rigurgiti di poco conto, cose che possono capitare anche per una cattiva digestione.
L'ho messa davanti alla tv a riposare, preparo io da mangiare, cos'altro può pretendere?
Per non farla sbattere troppo, siamo rimasti nella villa, ma venerdì prossimo spero proprio di andarmene.
In questo week-end Pegah deve riposare molto, così lunedì sarà in forma al momento della firma e i due gonzi non avranno ripensamenti.
GIORNO 2
(DOMENICA)
Oggi c'è la partita in tv.
È il match dell'anno, la partita decisiva per il Philadelphia: la semifinale in gara unica dei play-off scudetto.
Ci gioco sopra gli ultimi 50 dollari, ma perdo pure quelli, perché l'Atlanta vince due a zero... hanno bucato la nostra porta per due volte...
Il raddoppio dell'Atlanta, giunto nel finale, stronca le ultime possibilità del Philadelphia.
Questo dannato punteggio mi ricorda qualcosa...
Il Philadelphia ha beccato due brutte palle... e c'è rimasto secco.
È fuori, a differenza di Pegah che è ancora in partita.
Anche oggi è riuscita a gestire il tutto senza isterismi.
Abbiamo pure scopato sul divano, tanto per rifarmi delle due palle nella porta sbagliata: alla fine, quindi, si è presa pure queste...
Insomma... la difesa di Pegah tiene.
La partita, però, non è finita... e non vorrei che quella di oggi fosse un brutto segno.
GIORNO 3
(LUNEDÌ)
Il grande giorno è arrivato.
Cosa mai potrebbe andare storto?
Me lo ripeto ogni due secondi mentre li aspettiamo.
Pegah è in forma e più abbottonata che mai.
In ogni caso la morbida ciccetta della pancia nasconde bene i tamponi intorno ai buchi.
Ho dovuto cedere un po’ sul prezzo per non tirarla troppo alla lunga, ma il
margine di ricarico rimane più che interessante.
Saranno loro a rimetterci, quando il boss verrà scarcerato e messo agli arresti
domiciliari per problemi di salute.
Avrà bisogno di un domicilio e anche urgentemente.
Problemi loro. Dovranno accontentarsi, suppongo, di un decimo di quanto
sborseranno a me.
Io e Pegah saremo troppo lontani per ricevere i loro reclami…
Eccoli, dunque!
Cosa mai potrebbe andare storto?
GIORNO 4
(MARTEDÌ)
È fatta!
La firma c’è.
Spero non sia fatta anche Pegah, perché oggi la vedo stanca.
Se continua così, domani chiamo Frank.
Tanto i soldi devono arrivare entro giovedì, oppure l’accordo è nullo.
Ho fatto finta che vi sia la coda tra i potenziali acquirenti.
Sono bravo in queste cose.
Ma in realtà non c’è nessuno.
Chi comprerebbe una casa del genere? La casa appartenuta al boss, il quale sta
per uscire dal carcere a causa di un vizio di forma, o di salute, chi lo sa, che importa.
Se stai fuori, puoi anche morire; ma se stai dentro, la tua salute diventa
talmente preziosa…
La salute di quelli ammazzati dal boss, poi, è andata da un pezzo.
Anch’io stavo per perderla, ma ci si è messa di mezzo Pegah, e all’ultimo momento
l’ho ritrovata.
Adesso deve reggere almeno fino a venerdì, alla consegna delle chiavi, perché
altrimenti mi bloccano il conto per frode.
Dopo quel momento, il rischio (altissimo) passa a loro.
GIORNO 5
(MERCOLEDÌ)
Oggi
ho chiamato Frank.
È venuto con l'ecografo mobile, è stato gentile.
Mi tira in disparte.
«L'ecografia ha rilevato un
accorpamento ematico, un grosso grumo di sangue, intorno a una delle due
lesioni».
«Le lesioni sarebbero i buchi?».
«Quelli, sì».
«E questo significa problemi?».
«Significa che Pegah sta morendo.
L'emorragia la ucciderà».
«Ma che dici?!», cerco di non alzare troppo la voce. «Pegah non muore, ha il
fisico».
«Tutti abbiamo una scadenza; più o meno lunga. Ma si riferisce alla confezione
integra».
«Uhm... e quando scadrebbe adesso la mia bambola?».
«Con esattezza non si può dire, ma non le rimane molto».
«E se la trasportassimo in ospedale?».
«Non cambierebbe un granché, anzi le cose potrebbero precipitare con un
trattamento aggressivo».
«Senti, Frank... non ho ancora incassato la compravendita...
A me basterebbe che reggesse un altro paio di giorni: è fattibile? Puoi darle qualcosa?».
«Le darò qualcosa, ma non posso
garantirti niente».
Il mio amico radiato le fa una siringa, anche se non so di cosa e non mi
interessa saperlo, purché se la stiri un altro po'.
Perché, da quel che ho capito, Pegah è fatta.
Dovrò trovarmene un'altra, e non sarà facile. È stata una gran puttana.
Non mi ha nemmeno rimproverato di aver preso due pallottole al posto mio.
O è sicura di cavarsela, oppure è pazza.
«Adesso il problema torna a te, Jack.
Per me sono 500 dollari».
«500...?! Hai fumato?
Non ho ancora incassato... te l'ho detto...».
«Te li metto sul conto».
«Sei un amico, Frank; davvero...».
GIORNO 6
(GIOVEDÌ)
Cristo!
Hanno fottuto il legittimo proprietario dell’immobile…
E io che pensavo di averli fregati…
Invece sono loro ad avermi fregato!
Hanno ottenuto un forte sconto sul valore del bene, sapendo già che non
avrebbero avuto reclami.
Bah… tanto meglio anche per me, ormai.
Devo solo aspettare l’accredito dalla banca.
Il tempo non passa mai in questi casi.
Non posso nemmeno distrarmi con Pegah, perché mi sembra diventata una statua di
cera. Mi dà l’impressione che se la toccassi, rischierebbe di sciogliersi.
Ma non appena consegnerò loro le chiavi, la porterò io stesso da Frank e subito.
GIORNO 7
(VENERDÌ)
Sto aspettando di compiere l’ultimo atto
dell’impresa: consegnare le chiavi ai nuovi proprietari, questa strana coppia di
amici.
Perché hanno pagato; ottenendo un forte sconto, che non avrebbero dovuto avere,
ma hanno pagato.
Stavolta è davvero fatta.
Mi dispiace solo che riusciranno a godersela, sono cinico, l’ho detto.
Io e la bambola aspettiamo guardando la tv, seduti sul divano del salotto.
Si è fatta un po’ pallida negli ultimi giorni.
Sembra una zombi, la protagonista di “Pegah is Backhsh”, un B-movie mai girato.
Vado a prepararle la medicina che le ha prescritto Frank, che è un po’ il
regista.
Mi sposto in cucina.
«Pegah, abbassa, Cristo!».
Il volume della tv è assordante.
«Pegah… allora?», continuo a chiamarla dalla porta della cucina.
Non ci sente proprio.
Vado lì e le strappo il telecomando dalla mano.
Cosa peraltro non facile, visto che pare incollato alle dita.
Finalmente abbasso il dannato volume.
«Che ti prende, bambola?!
Bambola…», anche la mia voce cala improvvisamente di volume.
Pare non capirmi, sembra non guardarmi.
È interessata solo alla tv...
Stavolta la porto dritta in ospedale. Non voglio che ci lasci la pelle.
«Pegah… che cazzo fai?
Mi crolli proprio adesso?!».
Continua a guardare lo schermo, che però non trasmette niente. L'ho spento.
Comincia a venirmi un dubbio.
Temo sia morta.
Pegah Bekhsh è crepata.
Ha fatto la stessa fine del Philadelphia: ha preso due palle di troppo… tanto
vale prenderla con un sorriso.
È proprio rimasta fottuta, a quanto pare: c'è poco da dire o da fare, quello
stronzo di Frank aveva ragione.
Ora che mi ero quasi convinto a portarla in ospedale, mi crepa in faccia... mi
scoppia tra le mani... puttana...
È stata comunque brava la mia bambola: un colpo era mortale, le ha fatto
esplodere le budella, con scadenza a sette
giorni.
Chiamo subito due persone: uno degli acquirenti e Frank.
Invento una scusa per il primo, posticipando di un’ora la consegna delle chiavi.
E metto una dannata fretta al secondo.
Deve aiutarmi a farla sparire. Adesso i soldi non sono più un problema. Sono un
produttore con la grana.
Frank arriverà subito. Sa che finalmente gli salderò il conto e che in più gli
darò altro lavoro.
La parcheggio da lui e intanto le preparo un bel paio di scarpe, rigide e color
cemento. Un agente immobiliare viaggia molto per lavoro, si allontana spesso,
talvolta per sempre.
Magari è tornata a casa, lei, ceca alla nascita.
L'importante è che ho venduto; saldo il debito e vado in giro tranquillo: non
avrò più bisogno di lei come giubbotto antiproiettile.
Spiacente, bambola, hai pagato un conto che non era il tuo.
Sembra quasi voglia dirmi qualcosa, con quella bocca aperta.
Forse mandarmi a fare in culo. Ma non può più
farlo, ha aspettato troppo.
Io non la tocco finché non arriva Frank: le lascio gli occhi aperti, mi piace
quell'espressione di chi scopre di non essere immortale.
Pensava davvero di salvarsi?
La morte l'ha sorpresa, oppure aveva capito
tutto?
Eppure non mi era mai sembrata tanto bella, quanto adesso, o come in questi
giorni.
Forse pensava di farcela, forse l'ha fatto per fedeltà, una strana forma di
fedeltà, chissà.
Valla a capire.
Le devo molto, ma il tempo per pagare è scaduto.
Frank è arrivato, non mi sbagliavo.
«Okay… te la tengo io qualche giorno: bella stirata nel mio obitorio, a zampe
dritte, col lenzuolo increspato dalle zinne grasse, si manterrà fresca fino
al momento in cui deciderai le modalità del rinvenimento».
«D'accordo, passo a riprenderla io. Trattala bene. E non farti venire strane
idee. È stata la mia bambola».
Intanto mi farò venire qualche idea sulla natura dell'omicidio, ma penso a un
delitto passionale: due colpi nell’utero, di cui uno mortale; agonia breve e
disperata, sotto gli occhi dell'omicida.
Quando la carichiamo in auto passando dal garage, Frank le mette
in faccia una mascherina dell'ossigeno. È strano.
Dice che serve a mantenere il cadavere in buone condizioni, fresco, in modo che
fra qualche giorno sembri appena morta.
Infatti i cadaveri hanno scadenze precise.
Potrei optare per le scarpe di cemento o per un rinvenimento a effetto. Ci vuole
un buon copione.
Intanto che penso, le fa anche un'iniezione. O è la seconda?
La bombola dell'ossigeno è molto piccola, è una bomboletta portatile,
legata direttamente al corpo.
Ossigeno... ossigeno si fa per dire.
Chissà cosa c'è dentro... Frank è radiato e può permettersi di tutto.
Poco importa: di sicuro fra qualche giorno, al massimo una settimana, avrò
trovato il modo di sbarazzarmi del corpo e di dimenticarla per sempre.
Del resto, tecnicamente, non l’ho ammazzata io.
Adesso quel che conta è consegnare le chiavi ai nuovi proprietari.
Penseranno che anche Pegah sia cinica: adesso che ha concluso l’affare... non si fa più
vedere.
Meglio così. Ci crederanno una coppia cinica. Come loro, del resto.
Lei, però, non lo era.
Ma questo rimarrà un nostro segreto.
Mi giro per guardarla un'ultima volta: eri bella davvero, Pegah...
C'è qualcosa, però, che non mi torna.
Gli occhi... adesso sono socchiusi... sembra che dorma...
Gran puttana, mi fa ancora impazzire...
Le allento la camicetta e le stringo le tette.
È ancora calda.
«Ora basta. Dobbiamo andare», la voce è seccata.
Bah... vuoi vedere che il maledetto Frank...
Lettore, se vuoi conoscere l'attrice che ha ispirato questo racconto, clicca qui.
Il racconto è un tributo alla sua bellezza, carisma, personalità.
Gli aspetti negativi sono introdotti per mere esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico.
Il ruolo della protagonista va assimilato a quello dell'attrice rispetto a un film.
La devozione alla persona in questione, da parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta.
di Salvatore Conte (2019-2022)
«Aspetta…
Cristo, l’hai ammazzata!
Sei pazzo a bucare
così Chana Budak?
Era una gran puttana...!
Arrivata molto bene a
60 anni!
Dico sul serio... sei matto a imbottirla di piombo in questa maniera?
Dovevamo solo darle una lezione... un paio di pallottole gestibili...».
«Ebbene... meglio di questa?
Aveva campato pure troppo, la vecchia gallina.
Era minestra riscaldata».
«Il brodo Budak sempre buono, però...».
Il complice del killer si piega sulla donna, ancora in grado di far girare la testa a molti uomini.
«Su, su, Chana… il piombo è finito… niente rifiniture...
Sei bella tosta,
dai... molto abbondante... non fare la vittima...
Tu prendimi una bottiglia... e un paio di cuscini...», rivolgendosi al collega.
«Che cosa vuoi fare?».
«Il cuore è illeso, ci metterà un po’ a crepare.
I polmoni si stanno gonfiando di sangue, bisogna tenerle la testa e il petto sollevati
da terra… passami un altro cuscino... e degli asciugamani».
«Che te ne frega di questa puttana?».
«Quando le ammazzi, bisogna prenderle al cuore, come le vampire.
Altrimenti fanno i capricci…
Si sforzano di vivere, anche se sono già morte...
Bisogna ammazzarle sul colpo. E tu non lo hai fatto».
«Se è per questo, rimedio subito...».
«No, ormai è tardi».
«Comunque l'ho imbottita di piombo, un'altra sarebbe già crepata».
«Infatti».
«Ma se è morta - perché è morta (!) - vuoi dirmi cosa diavolo te ne importa?».
«Una guerriera è sempre da capire…».
«Questa è solo una puttana, non una guerriera».
«Tu sei sicuro che riusciresti a stirartela con… sette… otto… palle in corpo?
Quante ne hai messe?».
«Otto. Per giustiziarla. Comunque non ho intenzione di fare la prova.
Ti lascio un paio di minuti».
«Hai sentito? Dai… calma… respira piano… vedrai che l'aria arriva... ti tengo i
polmoni sollevati...
Non morirai soffocata».
«È crivellata di colpi, non va da nessuna parte».
«Non ti credere, è forte come un toro...
Le hai saldato il
conto, certo, ma è ancora aggrappata alla vita,
deve abituarsi all'idea di aver trovato la morte, di essere rimasta uccisa».
«Vedrai che sarà costretta a farlo molto presto...», e ride, mentre anticipa il
compagno fuori dall'isolata villetta.
«Dai, Chana... su... non abituarti troppo all'idea...»,
mentre le tampona i buchi con gli asciugamani. «Il mio amico è uno
stronzo, ha perso il controllo. Volevamo solo darti una lezione.
Però ti abbiamo chiamato una Black Ambulance: tu sai che significa, vero?
Aspettiamo che ti caricano e poi ce ne andiamo.
Scusa, comunque...».
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Il racconto è un tributo alla sua bellezza, carisma, personalità.
Gli aspetti negativi sono introdotti per mere esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico.
Il ruolo della protagonista va assimilato a quello dell'attrice rispetto a un film.
La devozione alla persona in questione, da parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta.
di Salvatore Conte (2019-2022)
Due giorni fa ho
ricevuto una telefonata parecchio mattutina.
«Pronto...?», sono sempre a letto, allungo una mano alla cieca e rispondo solo
per far smettere gli squilli.
«Anna...?», la riconosco anche addormentato.
«Ho un affare da proporti».
«Dimmi», sentire la sua voce mi fa svegliare immediatamente.
È un po’ che non la vedo di persona, la spio su facebook quando non mi brucia il
profilo: secondo alcuni è ormai una vecchia cessa, però la sua voce mi fa
rizzare ancor prima di alzarmi.
«Ho un bel mucchio di panni sporchi da lavare…
Se riesci a sbiancarli bene ti prendi il 20%».
Accendo il fornello e ci
metto sopra la caffettiera rimasta mezza piena dalla sera prima, anche se in un
altro momento avrei detto mezza vuota.
«Allora,
accetti?», la voce si fa perentoria, da cessa.
«Ti laverò tutto fino a togliere anche l’ultima macchia», non ho mai imparato a
dirle di no.
«Bene.
Dopodomani alle 15, allo stabilimento abbandonato, di fronte al relitto; sai qual è,
ci sei stato la settimana scorsa».
Click.
E il caffè comincia a ribollire insieme al mio sangue.
Lo stronzo del suo capo sa che una volta avevo un debole per lei.
Don Salvatore sa muovere le sue pedine.
Ma niente titubanze: se prova a fregarmi, io la fotto, la cessa!
L’orologio digitale
marca 14:54, sono in macchina con il muso puntato verso lo
stabilimento già da mezz’ora, non mi piacciono le sorprese e a certi incontri
voglio arrivare per primo.
Una Bmw nera scende dalla litoranea e si ferma 10 metri di fronte a me.
In giro non c’è nessuno, la giornata è cupa e la stagione ormai finita.
Per uno come me, che non crede alle coincidenze, è un po' dura da mandare giù: chi guida quella
macchina si chiama preciso come il capo di Anna.
Naturalmente è solo un omonimo di Don Salvatore, una mezza cartuccia che tengo
per le palle e che uso quando mi fa comodo, come oggi.
Una volta conobbe un mio contatto, Leila, che mi mette in lavatrice un po’ di grano dalle parti di Jounieh, dove c’è un bel casino.
Da
allora non fa che chiedere di lei.
Con quel che rimedia dal suo giretto balordo, Leila lo prenderebbe per un
profugo di Gaza: ci vuole ben altro per starle appresso.
Ma non lo vuole capire. Si illude, sognando il colpo grosso, di poterci
arrivare.
Però, se io prendo il 20, lui avrà il 3, e di questo passo Leila porterà la
dentiera, quando avrà i soldi per ottenere un appuntamento privato.
In fondo, però, senza queste illusioni, vivrebbe anche peggio.
Dunque, seppur lo volessi, non potrei avere rimorsi.
Gli ho raccontato un sacco di fregnacce e lui sembrava crederci.
Gli ho perfino raccontato che in una sparatoria s'era beccata due pallottole in pancia; Leila aveva reagito e allora i sicari s'erano messi in testa di non lasciarle scampo.
Gliela mettevo sotto forma di chat e lui ci ricamava sopra.
«Vana un cazzo!», rispondeva rabbioso. Su certe cose, anche se inventate, non potevo tanto scherzare.
L'avevano risparmiata e s'era ripresa, infatti. Magari per incontrare lui.
Ogni tanto gli ripeto che questa Leila è solo una cessa del cazzo come tante, anche se in versione libanese; ma non c'è niente da fare: per lui è speciale, è una cessa non plus ultra.
Rimetto in moto e mi infilo in una stradina sabbiosa che aggira lo
stabilimento e finisce sulla spiaggia.
“Divieto di balneazione”: un cartello di legno è l'unica presenza
tangibile, oltre al mare di fronte e al vecchio relitto arrugginito; il resto
della scena se lo prende tutto la diroccata struttura dismessa da anni, da
quando la fogna è scoppiata e nessuno l’ha più aggiustata.
Cessi rotti, vecchi divani e ciarpame vario affiorano tra i liquami che raggiungono il mare.
Già... proprio il posto ideale per le cesse di Don Salvatore, le sue amazzoni di cellulite. Perché di certo Anna non sarà sola.
Sta arrivando un suv Audi, vediamo chi c'è sopra...
Si aprono tre portiere, due davanti e una dietro; m'infilo la pistola dietro la schiena e scendo anch'io.
Davanti a me tre persone: un uomo, il boss, Don Salvatore... è un onore per me che
si sia scomodato di persona; e due donne, anzi due cesse: Anna Frezzante... detta per ovvi motivi la Sbottonata... e
la famosa Nada Giansanti... due grosse big...
Anna si è affermata a New York, lavorando per Bob Saviano, ma poi ha deciso di tornare.
Nonostante l’età e la cellulite, è sempre pesantemente sbottonata, non porta il reggipetto e il seno le ciondola in basso dentro un camicione rosa;
una cinta nera le stringe in dentro la pancia molle: un classico espediente da
vecchia stronza; i capelli si sono fatti grigi,
forse per i troppi pericoli scampati, ma lei
non sembra aver cura di tingerli; una beretta, infilata aggressivamente nella cinta,
completa il look importante, da doppio punto esclamativo.
La cessa accanto a lei, Nada, porta i jeans strappati come avesse 30 anni di
meno e una magliettina verde tesa allo spasimo da due
boccioni che sembrano in procinto di cascarle sulle ginocchia. È logora e sfatta,
tanto da non sfigurare nemmeno accanto ad
Anna.
Conte si è portato le cesse migliori a sua disposizione: la cosa mi puzza...
Anna e Nada sono due
Supercesse, che nessuno ha mai il coraggio di togliere di mezzo.
«Ciao, Emiliano», Don Salvatore lascia la parola alla Frezzante; ha mantenuto il
suo cognome per poco, perché era stata vicina a
sposare il boss, ma pare che alla fine Saviano abbia preferito non accollarsi
una donna sfatta e ormai in declino; digerita la
bocciatura e tornata in patria con la cellulite intatta,
ora Anna ha di sicuro messo nel mirino Conte e cerca di
mascherargli la differenza d'età con il suo atteggiamento da strappona.
«Ciao, Anna.
Non c’era bisogno di tanta compagnia, anche se sono onorato di una presenza così
prestigiosa...», alludo chiaramente a Don Salvatore e lo saluto con un leggero
cenno del capo.
«Anche tu hai compagnia, vedo…».
Guardo verso di lui.
«Con tutto il rispetto, Sal ha sempre la testa fra le nuvole, non è di alcuna
compagnia».
«Perché, cos’ha tanto da pensare?».
«È fatto così: solo una persona potrebbe aiutarlo, ma vive lontano».
«Ti ho detto mille volte che la raggiungerei laggiù, se mi chiamasse!».
«Ecco… a queste cazzate pensa».
«Senti, Emiliano, il capo è qui per un affare, non per giocare…».
«Certo, certo, era solo per rompere il ghiaccio…».
«Sei rimasto il solito cazzone di sempre…», non c’è humour nella sua voce, la
cosa mi puzza sempre di più. «Veniamo al dunque: Nada… la valigetta…», pare
proprio che
Anna abbia messo le mostrine da colonnello…
La cessa tettona esegue, prendendola e appoggiandola sul cofano; quindi la apre
e la gira verso di me.
«Sono dieci milioni.
Come ti ho detto, se fai un buon lavoro, un
bel po' di questi bigliettoni
rimarranno tuoi.
Ma niente scherzi...».
«Ti ho mai fregato?».
Stavolta non ha la risposta pronta.
Un altro segnale che non mi piace.
«Due milioni rimangono a me, giusto? D'altronde avrò delle spese...».
«Due milioni».
L'affare è fatto, la commissione è buona, Leila dovrà allargare le cosce a Jounieh...
Sto per mandare Sal a prelevare la valigetta, ma il movimento di Don Salvatore
che torna dentro l’abitacolo mi puzza davvero troppo.
L’Audi dev’essere blindata.
«Nada... puoi consegnare la merce...».
«Subito...».
Dalla valigetta spunta una uzi!
RAT-RAT-RAT
Parte la raffica, ma riesco a buttarmi a terra scansando le pallottole per una
questione di centimetri.
BANG
BANG
Intanto Anna dà una mano alla collega cessa con la sua beretta.
Il suo obiettivo è Sal: sembra che tra noi ci sia ancora un po’ di rispetto, ma
la linea è molto sottile ed è destinata a rompersi.
Chi? Perché?
Chi ha dato l’ordine di farmi fuori? E per ottenere cosa?
Leila si è messa con Don Salvatore, e così il boss risparmia sui costi di
intermediazione e si prende anche il giro delle
lavanderie?
Oppure ho pestato i piedi a qualcuno? A volte mi capita...
Riesco a dilatare un istante di tempo, facendomi mille domande, mentre le
pallottole di Nada incalzano.
Ma intanto la mano è scattata in automatico sulla mia beretta.
«Bastarde...!», sento Sal che impreca da terra.
BANG
BANG
E sparo.
Sulla maglietta di Nada si aprono due buchi: uno in pancia, l'altro sul petto...
Urla di rabbia e cerca di guadagnare il riparo dell’auto, la uzi ancora
sottobraccio. Colpita, ma non affondata.
Ho una frazione di secondo per capire come stia andando l’altra semifinale.
BANG
Sal riesce a esplodere un colpo, ma Anna non si fa fregare, ripiegando agile,
nonostante la stazza, dietro l’abitacolo del veicolo.
BANG
L’Audi è blindata: il
secondo colpo di Sal scheggia appena il parabrezza.
«Maledetti cani!», il labbiale è chiarissimo.
«Falli fuori, Anna!», Don Salvatore si incazza di brutto,
abbassa il finestrino e ordina alla sua Supercessa
di fare sul serio.
E le passa qualcosa...
È un’altra uzi!
Ma adesso almeno siamo riparati dietro le nostre auto.
Non sono blindate, però...
RAT-RAT-RAT
La raffica di Anna copre anche i miei pensieri.
... è meglio di niente...
Ormai siamo allo scontro diretto. Mi ha sparato addosso.
Credo che
Sal sia illeso, ma è difficile che mi serva un buon assist.
La partita decisiva è tra me e Anna... e non mi farò scrupoli di bucarle la
carcassa. Ha osato troppo, e da qui se ne andrà
solo con un lenzuolo sulla faccia.
«Allora, hai qualche notizia di Leila?».
Rischiamo di finire ammazzati e questo cretino pensa alla troiona libanese...
Si può essere più scemi?!
«Cristo, spara! Che te ne frega adesso! Se crepi, non la vedrai di sicuro!».
«Fanculo...! Non dirmi che non la senti...! Le hai parlato di me?!».
«Razza di idiota...! Spara! Forse è proprio lei che ci ha fregato!», strillo
perché ho paura che da un momento all'altro gli spari di Anna ricoprano tutto. «L’hai fatta incazzare, per caso?! Scommetto che le hai scritto
qualche sviolinata su facebook...! Lo vuoi capire che non fa per te?!».
«Basta con queste cazzate! Uscite fuori con le mani in alto!
O vi ammazzo come cani rabbiosi!».
Anna, intanto, ci richiama alla dura realtà.
È pronta a finirci con la uzi ben spianata davanti a sé: un plotone d'esecuzione composto da lei sola, ma comunque imponente.
«Lo sai che ti dico?!», anche lui
strilla. «Sbrigatela da solo
con le cesse di Don Salvatore, non so che farmene del tuo 3%...!».
«Andiamo...! Ti prometto che le parlerò...! Anzi mi accompagnerai tu stesso a Jounieh...!»,
meglio non contraddirlo del tutto, in questo momento anche una pistola spuntata
come la sua può far comodo.
«Ehi... tu... hai detto cessa a me? Io sono una fica, bastardo! Io t'ammazzo!».
Sal ha fatto incazzare pure Anna.
RAT-RAT-RAT
BANG
Cazzo! Sal si è ringalluzzito...
L'ha beccata...!
Anna scuote il bacino, ma rimane in piedi. Sa incassare.
RAT-RAT-RAT
La raffica è scombinata, più per proteggersi la ritirata che per attaccare.
È una raffica di paura...
Anna indietreggia, apre lo sportello e si ficca dentro.
Stessa cosa sta facendo l'altra, dalla parte opposta, passando dietro, accanto
al boss.
La strategia cambia!
Quella pazza di Anna si è messa al volante e sta per lanciarci addosso l'Audi come fosse un ariete da
guerra!
Dobbiamo trovare un altro riparo e alla svelta...
Inutile sparare in questo momento.
Comincio a correre lungo la grande spiaggia, subito seguito da Sal.
Pochi istanti dopo l'Audi di Conte parte di scatto, bruciando le gomme, e si
getta al nostro inseguimento come un toro furioso.
Vedo i denti digrignati di Anna attraverso il parabrezza.
Vuole proprio ammazzarmi...
Sembra che la pallottola di Sal l'abbia fatta incazzare sul serio.
Il suv si muove abbastanza bene pure sulla sabbia, dannazione...
Devo far fuori Anna o quella mi ammazza.
Mi dispiace, tesoro.
Ma sei troppo pericolosa.
Il vecchio relitto è ancora troppo lontano.
È lì dalle Guerre Puniche, forse anche da prima.
Devo agire subito. Devo ammazzarla, ma non riesco a capire come.
Che idiota!
Le gomme!
Le gomme non sono blindate...
Il suv si ribalterà, partirà una raffica accidentale e lei rimarrà uccisa, crivellata di colpi. Lei, il suo boss, e l'altra cessa.
La estrarranno cadavere.
Me l'immagino sulla lettiga, imponente e corposa, caricata sull'ambulanza con il lenzuolo in faccia, increspato più dalla pancia che dal petto, diretta all'obitorio per una macabra autopsia: la fine della Supercessa...
Scarto improvvisamente di lato, mi butto a terra e prendo la mira.
BANG
BANG
Non può essere!
L'ho presa...!
Sì, l'ho presa, ma le ruote sono di gomma piena...
Non mi resta che correre!
La barcaccia sarà il nostro fortino.
D'estate ci gironzolano i bagnanti, ma adesso non c'è nessuno.
Come se non bastasse, da queste parti tutti si fanno i cazzi propri e nessuno farà troppo caso agli spari.
Lo scafo del relitto è pieno di buchi, come una forma di groviera.
Entrare all'interno è abbastanza facile, uscirne sarà più difficile; il tetano un problema secondario.
Conte è uscito dal guscio: si tiene stretta Nada, anche per farla stare in piedi, ma soprattutto per proteggersi dietro la massa di ciccia.
Anna lo precede, una mano sulla uzi, l'altra sull'addome: non credo che la pallottola di Sal sia uno scherzo; la Supercessa barcolla: un po' per la sabbia sotto i piedi, un po' per tutto il resto.
Tutti e tre hanno la mitraglietta sottobraccio.
Sul volume di fuoco non si discute, non c'è partita.
Qui dentro non si vede niente: di sicuro sta per succedere un gran casino; una raffica sparata alla cieca, in senso stretto, può combinare un macello.
«Prendiamoli in mezzo...», sussurro a Sal, scollandomi da lui.
Appena sono abbastanza lontano, me ne esco dal lato opposto.
Adesso non devo far altro che aspettare: se sono fortunato, mi ritrovo da solo con una bella Audi a disposizione.
Una o due raffiche, sparate in uno spazio così ristretto, non risparmieranno nessuno.
«Non mi faccio ammazzare per te... se prima non mi dici dove pescare Leila...».
Cristo...
I miei trucchi non lo fregano più, mi ha seguito fuori...
«Sai cosa penso? Conte non ha niente contro di me, ce l'ha con te...».
E comincia a ragionare.
«Me lo dici, prima di crepare, come faccio ad agganciare Leila?».
«Fattelo spiegare da Conte...».
BANG
BANG
BANG
RAT-RAT-RAT
E sparo addosso a Nada, che ha cercato di sorprenderci, aggirando lo scafo.
La raffica punta al cielo. Troppo in alto.
La Supercessa di Conte rotola sulla sabbia compatta, fino al limite della risacca, dove finisce a braccia larghe, in segno di resa. Però ha avuto fegato, ha combattuto fino alla fine.
Adesso non è più un problema. Colpita e affondata.
Poi si sente uno sgommare sordo sulla sabbia: il suv si sta allontanando.
E una voce di donna, anzi di cessa.
«Emiliano... non sparare...
Sto morendo...
Il tuo socio... m'ha beccato al fegato...», la voce di Anna proviene dall'interno dello scafo.
Dunque Conte ha deciso di lasciare la partita, abbandonando la Frezzante al suo destino. Un'altra bocciatura per la vecchia cessa.
«Fanculo... speravo proprio di vederti agonizzare...».
«Mi hai rotto, non ti dico niente nemmeno da morto», so che questa cosa di Leila lo fa incazzare da morire. Può diventare molto pericoloso. «Però anche la vecchia Anna non è male... aiutala... sta morendo, non hai sentito?».
Rimane indeciso, so come mandarlo in crisi.
«Sbottonata... mi senti? Sei famosa nel giro...
Mi sto avvicinando... non fare pazzie o dovremo spararci addosso un'altra volta...
Prima non volevo farlo... mi hai costretto.
Voglio dare un'occhiata alla tua ferita... sarebbe assurdo se la Sbottonata rimanesse uccisa in questa maniera: per salvare la pelle a uno stronzo come Conte...».
Non giunge alcuna risposta, purtroppo.
Forse Anna è andata sul serio.
Maledetta...
Intanto do un'occhiata a Nada: un altro relitto sulla spiaggia; ha qualche sussulto, ma devono essere gli ultimi; l'acqua del mare le arriva addosso a cadenza regolare, portandosi via ogni volta un pezzo di pelle, oltre al sangue che cola dai buchi.
«Mi hai sentito, Anna? Se sei viva, non sparare».
L'idiota di Sal mi toglierà ogni dubbio.
«Emiliano! È viva! Vieni... le ho preso la mitraglia, è inoffensiva adesso...».
E va bene... andiamo a vedere la fine di Anna...
Una foto sul cellulare me la voglio tenere.
«Allora... vediamo questo buco, bellezza...».
RAT-RAT-RAT
Cazzo...
Sal mi ha fregato... possibile che...
«Emiliano... non è stato il tuo socio...», la cessa mi legge nel pensiero. «Sta dormendo...».
Allora chi?
«E nemmeno io...».
Allora chi?
Sento la suola di uno scarpone sul volto.
Un riflesso di luce mi risponde.
Perché?
La domanda è diventata questa.
«Non hai diritto a saperlo».
Adesso è lui che mi legge nel pensiero.
Allora non è una vendetta, altrimenti l'avrei saputo.
Nonostante diverse pallottole in corpo, sono ancora lucido.
«Ehi, un momento... fatelo parlare prima...», questa è la voce di Sal.
«Anna! Fallo fuori!
Anna!».
BANG
BANG
THUD
Due spari seguiti da un tonfo.
Io non posso essere.
Anna e Sal, difficile.
Allora chi?
Beh... lo scarpone non mi fa più male.
«Se non contatti subito Leila e non le dici qualcosa di giusto, giuro che t'ammazzo!», l'unica cosa certa è il brutto muso di Sal che mi ringhia addosso.
Penso che svenire, o crepare, sia ormai l'unica soluzione.
«Emiliano...», sento la voce stremata di Anna: ma c'è o ci fa?
Se prima di svenire, o crepare, dovessi azzardare un'ipotesi, penso che siamo rimasti tutti fregati...
BANG
Gli ho fatto saltare la testa, così non potrà più mentire, né pensare di farlo.
In questo momento il cervello malato di Emiliano si ritrova appiccicato a piccoli pezzi sulla ruggine della barcaccia abbandonata.
Tanto con lui sarebbe stato inutile.
«Sal... aiutami... gnhh... sto morendo...».
La voce della Sbottonata è pressante, spaventata, non credo stia fingendo, anche se è sicuramente una grande attrice.
«Mi dispiace... ti allento la cinta...».
«No... meglio di no... gnhhh... mi tengo compatta...».
«Hai ragione... tu sei la Sbottonata... non puoi morire...
Io non volevo... stavo pensando a Leila...».
«Leila... uhhhnngh... ti piace così tanto...»,
con la bocca aperta, a fiato corto, sta morendo!
«Anna... calmati!», le tampono il fegato con una mano, provando affetto per lei.
La Sbottonata mi sta crepando in faccia!
Il ferito sembro io...
«Leila è una donna stupenda, ma anche tu mi piaci. Ora devo pensare a te...
Te l'ha mai detto nessuno che sei una gran puttana?».
«Fino a quarant'anni... ero uno strafiga... poi... gnhhh... poi mi sono sfondata...».
«Sei sempre una gran troia, Anna... sei la Sbottonata... sei la Frezzante... la Frezzante Saviano Conte... la donna dei più grandi boss... la sicaria degna della Spectre...».
«Sì... tu almeno... mi capisci... gnhh... sono la numero uno... ma adesso... cago duro... gnhhh... cago sangue... ho paura...», con gli occhi sbarrati, allucinati.
«E bravo... mi hai già dimenticato per questa mezza troia...».
Prima la voce, poi la faccia.
Parla perfettamente l'italiano.
Sono pietrificato. Gli occhi sbarrati, allucinati.
Inutile tentare il minimo pensiero.
Come quando è tutto fermo, inutile spingere, bisogna aspettare.
O le emorroidi ci presentano un conto sanguinoso.
Trattandosi di cesse, poi, il paragone è molto stretto.
«Mi dispiace, Anna. Questo idiota non ha torto: sei una massa di grasso sbottonato. Nessuna è come te. Nemmeno io.
Ma non c'è posto per tutte e due nell'Organizzazione.
Perché il re è morto e la regina è una sola.
Addio, puttana!».
«No, aspetta!», provo a intercedere in favore di Anna, ma Leila si pianta sulle gambe e si prepara a scaricare la sua uzi sulla Supercessa.
Non le lascerà scampo.
BANG
L'eco del colpo risuona a lungo all'interno dello scafo.
Tutto rimane fermo.
Leila con la uzi sottobraccio.
Anna seduta di schiena contro la struttura, l'espressione sospesa, la macchia scura sul camicione sbottonato fino allo stomaco.
Emiliano a terra, con il cervello sparso in giro.
Conte a terra, ma con la testa intera.
Poi, con un senso infinito di liberazione, come in quel preciso, fatidico momento...
«Anna!».
THUD
Leila è crollata sulle ginocchia, con le mani giunte sullo stomaco, sopra il trench nero.
Nada ha fatto capolino da uno dei buchi della groviera.
Anna guarda il cielo con occhi fissi e bocca spalancata.
È una mattanza di cesse.
Leila crolla al tappeto.
Nada si affloscia.
Anna rimane impassibile.
«Non dirmi che sei crepata...»
Mi faccio cadere la testa in mezzo alle tette sbottonate e mi lecco il sudore freddo che trasuda dalla carne morta, come fosse un cono gelato.
«Ghh... nnghh...».
La vecchia troia non rimane indifferente.
Non mi rimane che chiamare l'autospurgo.
Esternamente si presenta come un mezzo industriale, ma internamente mette a disposizione diversi posti letto suddivisi in due sezioni: ospedale e obitorio, a seconda delle esigenze. Serve a bonificare la scena del crimine da stronzi e cesse, e a sospendere le ostilità tra pezzi di merda.
È in servizio da diversi anni, dopo l'accordo segreto siglato sotto l'egida del Ministero agli Interni, con lo scopo di evitare scene da Far West o Chicago anni '30.
Viene scortato da agenti dell'intelligence fino alle cliniche private convenzionate con il servizio.
Un autospurgo, in un mondo di merda come questo, non sfigura in alcun luogo; inoltre è l'ideale per tenere lontani i curiosi: puzza e infezioni fanno paura a tutti.
Poi si vedrà dentro quale cessa pisciare.
di Omero e Salvatore Conte (-2020-2020)
Il re non si era ancora appalesato, menava in stracci per la casa, osservando chi dovesse colpire, giunto il momento [Od. 18.310/350).
A turno ravvivavano la fiamma le serve del paziente Ulisse.
A
esse rivolse il discorso lui stesso, l’alunno di Zeus, Ulisse dai molti
espedienti:
“Serve
di Ulisse, di un padrone che da tempo è via,
andate su nelle stanze della venerabile regina;
a lei vicino dalle rocche filate la lana
e lei
tenetela allegra,
sedute nella sua stanza grande,
o
pettinate i bioccoli con le mani;
io intanto provvederò a fare luce a tutti costoro.
Se anche volessero attendere Aurora dal bel trono,
non l’avranno vinta su di me; sono molto paziente”.
Così disse e quelle risero e si guardavano tra loro.
Lo rimproverò in modo turpe Melanto dal bel volto:
le diede vita Dolio, ma provvide a lei Penelope,
che
la allevò come una figlia e le dava ninnoli, letizia al cuore;
e tuttavia non aveva nell’animo dolore per Penelope,
ma si mischiava con Eurimaco e ne era amante.
Odisseo ne rimirava le forme di donna, lui che la ricordava acerba e magra.
Ella dunque rimproverò Ulisse con parole ingiuriose:
“Poveretto, straniero. Devi avere la mente
sconnessa,
che non vuoi andare a dormire nella bottega di un fabbro
o in una loggia pubblica, ma stai qui a parlare,
baldanzoso in mezzo a molti uomini,
né hai nell’animo timore alcuno.
Forse il vino ti ha preso la mente,
oppure la tua mente è stata sempre così, e perciò ora straparli.
O forse sei fuori di te perché hai vinto Iro, quel vagabondo?
Bada che presto non si levi qualcun altro migliore di Iro,
che dopo averti picchiato tutta intorno la testa con mani pesanti
ti butti fuori di casa insozzato di molto sangue”.
Allora guardandola torvo le disse Ulisse dai molti espedienti:
“Vado subito a dirlo a Telemaco, cagna,
quello che tu dici, e proprio qui ti taglierà a pezzi”.
Così disse, e con le sue parole spaventò le donne.
Per
la sala andarono via e a ciascuna si sciolsero per la paura
le giunture delle membra: credevano che dicesse cose vere.
Tuttavia la bellezza rendeva scusabili le offese agli occhi del distruttore di città.
Il re non guardò la sua serva con gli occhi del giudice:
le
forme di donna pesarono più delle ingiurie.
Lui restò fermo presso i bracieri a ravvivare la fiamma, guardando tutti;
ma il cuore altre cose agitava nel suo intimo:
cose
che poi non rimasero incompiute.
Non lasciò Atena che i pretendenti superbi, inescusabili,
si astenessero dall’oltraggio maligno,
voleva che ancora di più penetrasse dolore nel cuore del Laerziade Ulisse.
Fra essi Eurimaco, figlio di Polibo,
prendendo le parti della sconcia amante, ma spoglio delle sue forme,
cominciò a parlare, schernendo Ulisse, e riso suscitò nei compagni.
Gli stolti ridevano di sé stessi, ignorando la sorte: l'alito del fuoco li evitava, la mente non vedeva la fiamma [Od. 19.51/95).
Invece nella sala restava lui, il divino Ulisse,
ai pretendenti
strage meditando con l’aiuto di Atena.
Ella venne dal talamo, la saggia Penelope,
simile ad Artemide o all’aurea Afrodite.
Vennero dalla loro sala le serve dalle bianche braccia:
portarono via molto pane e le mense e le coppe,
da cui avevano bevuto i pretendenti tracotanti.
E lei, Melanto, rimproverò Ulisse ancora una volta, di nuovo:
“Straniero, ancora darai qui fastidio tutta la notte
andando in giro per la casa e spiando le donne?
Su, vai fuori, miserabile, e goditi il pasto,
o presto fuori ci andrai anche bruciacchiato da una torcia”.
E di nuovo il distruttore di città non volle guardarla con giustizia precoce.
Nella sua arroganza vide la sofferenza; e l'invidia.
Non era più una giovinetta Melanto: chiedeva ninnoli agli dei, prima di farsi canuta.
Voleva essere spiata, sì, ma non da un mendico, ignorando chi fosse costui.
Era disposta a sfidare le leggi e gli uomini,
come lui stesso, il multiforme ingegno, aveva fatto e dovuto scontare.
Nella sua alterigia, il distruttore di rocche vedeva un'immagine di sé stesso.
Tuttavia doveva spaventarla, se voleva evitarle l'ira crudele di Atena, di sé e dei suoi.
Pur senza negare omaggio alle forme di donna accresciute nei lunghi anni della sua assenza,
quali rigoglii di flora ottenuti senza fatica;
quale il fico dai morbidi frutti quando cresce tra le pietre, senz’acqua e mano d’uomo alcuna.
Forme prive di saggezza ma pari a quelle di Penelope.
La guardò bieco e a lei parlò il molto astuto Ulisse:
“Sciagurata, perché mi vieni addosso così, con rabbia in cuore?
Forse perché sono sporco e indosso misere vesti,
e vado mendicando tra la gente? È il bisogno che mi spinge.
Questo è l’aspetto dei mendicanti e dei vagabondi.
Una volta anch’io abitavo, felice fra tutti, in una casa ricca e spesso davo ai vagabondi,
qualunque fosse il loro aspetto e di qualunque cosa bisognosi giungessero.
Avevo servi innumerevoli e molte altre cose,
con cui gli uomini vivono bene e sono chiamati ricchi.
Ma Zeus Cronide indusse rovina, io credo con piena intenzione.
E tu ora, donna, augurati che anche tu un giorno non perda
tutto lo splendore per cui ora fra le serve ti distingui,
e che la padrona adiratasi non ti prenda in odio
e che non torni Ulisse, giacché ancora è giusto sperare.
Se quello, così, è morto e il suo ritorno non è più da attendere,
c’è però ormai, per volere di Apollo, un tale figlio, Telemaco:
in casa nessuna delle donne può tenergli nascoste
le sue scelleratezze, perché non è più un bambino”.
Così disse, e lo udì la saggia Penelope.
Rimproverò l’ancella, e chiamandola per nome le disse:
“No, sfacciata, cagna svergognata, non mi sfugge
il capolavoro che stai facendo e che laverai con la tua testa.
Ben sapevi ogni cosa, da me stessa l’avevi udito,
che questo ospite a casa mia volevo interrogare su mio marito: sono presa da fitto dolore”.
Quando tutto fu compiuto, l'ira si dissolse come la nebbia fugge il Carro del Sole.
Odisseo fece riaprire le porte della grande sala - luogo di strage - e fece chiamare Euriclea, l'anziana nutrice, giacché andava completata l'opera [Od. 22.401/460).
Trovò ella Ulisse in mezzo ai corpi degli uccisi,
di sangue e lordura bruttato, come un leone,
che ha divorato un bue nella campagna e va via
e tutto il suo petto e le guance da un lato e dall’altro
sono insanguinati, ed è terribile vederselo di fronte:
così Ulisse era imbrattato ai piedi e, di sopra, alle mani.
Come lei vide i corpi e il sangue immenso,
un grido di giubilo stava per elevare: grande impresa ella vide;
ma Ulisse la trattenne e la fermò, sebbene lei lo volesse.
E a lei parlando disse alate parole:
“Nel tuo cuore gioisci, vecchia mia; trattieniti, non elevare grida di gioia;
è cosa empia manifestare vanto su uomini uccisi.
Costoro il destino degli dei li ha abbattuti e le loro iniquità;
a nessuno degli uomini sulla terra prestavano l’onore dovuto,
fosse buono o cattivo chi da loro arrivava;
perciò per i loro misfatti hanno subito brutto destino".
E mentre diceva queste cose,
il distruttore di città vide Melanto piangere sul corpo spento del suo nemico: Eurimaco.
E la vide cercare il ferro, pallida in volto.
Non essendovi armi senza padrone, cercò di svellere un dardo dal suo corpo.
Ma il multiforme ingegno scalciò il braccio tremante e la colpì con mano aperta,
affinché in lei crescesse l'odio e la vendetta montasse sul dolore.
“Lo condurrai all'Averno, dirai che lo comanda il re,
dopo tornerai alla casa e accetterai la tua sorte”.
L'alunno di Zeus tratteneva la destra con la sinistra e la sinistra con la destra,
timoroso - dopo tanto sangue - di salvare l'empia ancella,
e timoroso al pari di spegnere la stolta immagine di Penelope:
quale delitto - più dell'altro - avrebbe sfregiato gli dei?
Tornò dunque da Euriclea:
“Ma su, dimmi tutto per bene delle donne qui in casa,
quante non mi portano rispetto e quante sono innocenti”.
Allora gli disse la cara nutrice:
“E dunque, sì, figlio, tutto per bene ti dirò il vero.
Cinquanta donne serve tu hai in casa:
ad esse abbiamo insegnato a fare lavori,
a cardare la lana e a sopportare il peso di schiavitù.
Di queste, dodici in tutto hanno preso la via dell’impudenza,
e non rispettano me e nemmeno Penelope stessa;
Telemaco è cresciuto che è poco e prima la madre
non permetteva che desse ordini alle serve.
Ma ora io voglio salire alle splendide stanze di sopra
e dire tutto alla tua sposa: a lei il sonno un dio ha mandato”.
A lei rispondendo disse il molto accorto Ulisse:
“No, non svegliarla ancora; invece tu di’ che vengano qui
alle donne che prima cose indecorose ordivano”.
Così disse, e la vecchia era già andata, attraversando la sala,
a riferire alle donne e dir loro di far presto.
Telemaco e il bovaro e il porcaro
chiamò a sé Ulisse e disse loro alate parole:
“Ora cominciate a portar via i corpi e date l’ordine alle donne.
Poi i bellissimi seggi e i tavoli occorrerà
con l’acqua e con spugne porosissime pulire.
Dopo che avrete rimesso in ordine tutta la casa,
portate le serve fuori della sala ben costruita,
in mezzo fra la rotonda e la cinta ben fatta del cortile.
Colpitele allora con le spade affilate finché a tutte toglierete
la vita e non ricordino più Afrodite, di cui si davano pensiero
sottomesse ai pretendenti e a loro di nascosto si univano”.
Così disse, e le donne arrivarono tutte, in gruppo,
con terribili lamenti e versando pianto abbondante.
Egli stesso, il distruttore di città, vide che ne giunsero undici.
Per prima cosa portarono fuori i corpi degli uccisi,
e li posero giù sotto il portico del cortile ben recintato, appoggiandoli l’uno sull’altro.
Dava ordini lo stesso Ulisse, sollecitandole; e quelle, costrette, i corpi portarono fuori.
E poi i seggi bellissimi e i tavoli con l’acqua e con spugne porosissime pulirono.
Infine, il multiforme ingegno versò inavvertito nuova lordura e costrinse Melanto a toglierla.
Dunque, sollecitati, Telemaco e il bovaro e il porcaro condussero fuori le serve,
in mezzo fra la rotonda e la solida cinta del cortile:
le serrarono nella strettoia, da dove non si poteva scappare.
Quando ella comprese la nera sorte delle empie compagne, e fu presto, si volse verso il suo padrone: «Ti scongiuro, fammi cadere di tua mano...!».
Odisseo le oppose il palmo aperto e parlò così: «Ti ho concesso di sotterrare il tuo amante. Fino ad allora non sarai toccata da alcuno. Gli sei stata fedele nella morte, questo ha sottratto qualcosa alla tua empietà; ma nessuna spugna può abbastanza per te».
Così Odisseo, re e supremo giudice fra i mortali, la umiliava, spingendola a partire.
Egli non si convinceva di sopprimere l'immagine cresciuta nella sua casa.
Venne al re un giovane, chiedendo di poter seppellire una serva ribelle.
«Qual è il suo nome?».
«Melanto».
«Perché vuoi ucciderla? Che grave offesa ti ha arrecato?».
«Nessuna, mio re. Ha solo rifiutato di essere servita.
Ma io credo sia morta per mano di altri, forse per vostro decreto».
Il multiforme ingegno non ebbe bisogno di altre ciarle.
«Avvicinati».
Gli sussurrò all'orecchio ciò che doveva fare.
Fu così che resa sepoltura a Eurimaco, nottetempo, il giovane condusse Melanto al porto.
La serva aveva occultato il bel volto come una lebbrosa, per salvarsi e tentare la sorte in altro luogo, costretta ad accettare la scorta del ragazzo.
«Dove siamo diretti?».
«Non lo so».
«Non sei tu che comandi?».
«No».
«Non ti importa sapere dove sei diretto?».
«No».
«Dunque passo da un padrone all’altro».
«Io non ti sono padrone, ma servo».
«Hai tratto vantaggio dalla situazione, te la intendi col re».
«Niente affatto: l’ho visto una sola volta in vita mia».
«E allora perché ha mandato te ad avvisarmi?».
«Non lo so, è lui il re».
«Di certo gli hai riferito la tua insana passione per me».
«Neanche una parola gli ho riferito.
Ho solo chiesto di poterti seppellire, credendoti morta».
«Lo vedi? L’ha capito subito!».
«Certo, è il re, il distruttore di città, vuoi non capisca un umile giovane come
me?».
«E perché non mi ha fatto uccidere?».
«Tu gli piaci, gli è mancato il coraggio».
«A Odisseo? Al distruttore di città? A re Ulisse sarebbe mancato il coraggio?».
«La donna scuote l’uomo più di ogni altra cosa».
«Se gli piaccio così tanto, perché non mi ha preferito a Penelope?».
«Un re famoso come lui non può permettersi oltre: è già moltissimo che ti abbia
in un certo qual modo graziato.
A Itaca si faranno presto delle domande. I sotterratori reclameranno la tua
fredda bellezza.
«Diranno che sono fuggita».
«Tu sola? Chi può fuggire all’ira di Odisseo?.
Penelope lo perdonerà, perché lei ti ha voluto bene. Ma ne rimarrà gelosa e lo
terrà d’occhio».
«Lo vedi che te la intendi col re?».
«Ma niente affatto: sono argomenti che qualunque persona, benché umile, può
agitare nella mente. Anche uno che non vale niente come me».
«Non ho mai detto che non vali niente.
Dissi che non siamo adatti l’uno all’altra».
«Se non valgo per te, non valgo niente».
«Questo l’hai aggiunto tu».
«Ma sotto imposizione delle cose: vuoi forse negare l’esistenza del mondo?».
«Lo vedi? Con te è impossibile parlar chiaro.
Sei più giovane di me e non hai una posizione: perché mai dovrei affidarmi a
te?».
«Non ti ho chiesto questo: so bene che sei degna di un re.
Fatti servire, però.
Gli amici leali sono rari a questo mondo. Anche una persona umile può venir
comoda a una regina: guarda Ulisse di chi ha avuto bisogno, una volta tornato…».
«E sia… tanto ne siamo costretti.
Sarai il mio fratello minore, e se avrò fortuna, il mio ministro».
Salko la riverì col capo.
La serva aveva un servitore.
«Parlami, dunque, Sacerdotessa di Artemide.
Qualunque cosa tu debba dirmi».
«E sia.
Giungerai nell'Isola di Arianna.
Servirai a Corte.
Il Re di Naxos smarrirà il lume nei tuoi occhi.
Tu sarai Regina.
Tu rimarrai vedova.
Ma il tuo potere non sarà lungo.
Sarai rovesciata.
Il ferro ti succhierà il sangue.
Gli occhi, un tempo superbi, saranno gravati dalla morte.
Il ferro crudele ti avrà invecchiato di venti primavere: sulla barca sembrerà una morte naturale, da vecchiaia.
Perché il tuo servo ti ricondurrà a Itaca.
E verrai ricondotta a Ulisse».
«In che momento morirò?».
«Questo non è dato sapere.
Almeno a te».
«Io non finirò così.
Il ferro non mi fa paura.
Il ferro non mi ucciderà.
Tornerò a Itaca da Regina».