Teleagonia

La Maldita

Willer si fa scudo

Fine di una Messalina

Jack sfida la vecchia puttana

Zothique: La prostituta di Oroth

Zothique: Assalto all'Oasi Maledetta

Ilsa e Anna nel Triangolo Maledetto

TeLEAGONIA

di Salvatore Conte (2024)

         

12 marzo 2012

EFFERATO OMICIDIO ALLE PORTE DI ROMA
POLITICO LOCALE BRUTALMENTE SGOZZATO

«Ha letto i giornali, signora Frascata?».
L'interrogatorio informale al quartiere Tuscolano di Roma era cominciato.
«Io non ne so niente. Ci frequentavamo da poco».
«Non mi sembra molto impressionata dalla sua perdita…».
«Io lo chiamavo Antonio: è sicuro che stiamo parlando della stessa persona?».
«Sappiamo che lei frequentava il deceduto, Antinoo Marcelletti, ma ciò non esclude che lei frequentasse anche un Antonio».
«No, deve essere lui. Lo sapevo che aveva un nome strano».
«E non è turbata dalla sua morte?».
«In fondo mi rimane un buon ricordo di lui, no…?», e mostrò allusivamente l'anello con diamante che portava alla mano.
«Quel dito potrebbe essere un ottimo movente e magari anche l'arma del delitto…

Lui lo voleva indietro e lei si è lasciata prendere la mano... per non farsi prendere il dito...».
«Non dica sciocchezze, Commissario.
Io non avevo nulla da restituire, ma solo da incassare…».
«Eh già… di bocca buona il povero Antinoo…
Le conviene collaborare, signora Frascata. Non conosciamo ancora il movente del delitto. Lei rischia di diventare scomoda a qualcuno».
«Cosa…? Io?!
Io conduco una vita riservata, Commissario».
«Riservata... o sbottonata…?».
La Frascata, trafitta dallo sguardo, allacciò il bottoncino critico della sua avvolgente camicetta bianca.

Sembrava un grosso cioccolatino da scartare e sciogliere in bocca.
«Commissario…», volutamente incerta, in attesa di essere aiutata.
«Commissario Telegono Ingravallo, Squadra Mobile».
«Ah sì… un altro nome strano…

Te-le-go-no…?! Mi scusi, ma non l'ho mai sentito prima», una risatina futile accompagnò la sagace rivelazione.
«Infatti andava di moda una quarantina di secoli fa; mentre il suo, a quanto pare, va di moda sempre...».
«Veramente non lo so... lei trova...?», ridacchiò ancora.
«Lei fa onore al suo nome... lei è l'incarnazione del suo nome...
sorella di Didone... amante di Enea...».
«E lei come sa tutte queste cose?».
«Le insegnano all'Accademia di Polizia...

Insomma, lei non crede che il suo nome, addosso a lei, significhi qualcosa?».

«Sì, penso significhi che mi chiamo Anna».
«Capisco, signora Frascata.
Lei si tiene abbottonata soltanto con me…?», in risposta arrivò un sorrisetto di lungo corso. «Veniamo alle cose serie, dunque. Antinoo Marcelletti era impegnato nella costituzione della nuova Città Metropolitana di Roma Capitale: gliene ha mai parlato?».
«Non capisco di che cosa stia parlando».
«Glielo spiego subito: il Marcelletti appoggiava la linea politica secondo cui la carica di Sindaco Metropolitano di Roma dovrebbe spettare - automaticamente - al Sindaco di Roma-Campidoglio, il comune centrale di Roma, quello che oggi è il Primo Municipio, il centro storico insomma.

Viceversa, un'altra fazione politica sostiene che il Super-Sindaco debba essere eletto in seno a tutti i sindaci della vecchia Provincia di Roma, in una sorta di conclave laico.
In quest'ultima ipotesi, potrebbe avvenire, ad esempio, che il Sindaco di Frascati diventi il Sindaco Metropolitano di Roma, un po' come se Roma stessa divenisse parte della provincia di Frascati, ovvero della provincia del Tuscolo...».

«Ma che Tuscolo e Tuscolo, Commissario Telegono…
Perché non mi chiama, se ha qualcos'altro da raccontarmi…», e gli consegnò il suo biglietto.
«Mi chiami lei, se le venisse in mente qualcosa di utile per le indagini, signora Frascata...», e ricambiò il biglietto con il suo.
«Ma questa è una frase da telefilm…».
«Non le piacciono?».
«Non li vedo più, sono noiosi», e si umettò lievemente il labbro inferiore.
«Ha ragione. Arrivederla, signora Frascata.

Ah... la sa una cosa...?

Il mio nome, Telegono, e quello del suo ragazzo, Antinoo, sono collegati tra loro dalla figura di Ulisse...».
«Non era il mio ragazzo...

Commissario... la chiamo se mi venisse in mente qualcosa di utile per le sue indagini...».
«Certamente... arrivederla a presto, signora Frascata».

12 aprile 2012

COZZE FATALI PER AMMIRAGLIO A RIPOSO
UNA TRAGICA FATALITÀ?

«Lei ci ricasca per la seconda volta nel giro di un mese, signora Frascata.
E stavolta non può dirmi che lo frequentasse da poco, perché stavolta si tratta del suo ex-marito, l'Ammiraglio Ulisse Giannini.

In più è emerso il collegamento che io stesso avevo ipotizzato alla sua (non trascurabile) presenza».
«Infatti non lo frequentavo affatto. Era finita da molto tempo: perché allora mi sarei divorziata? Per l'esattezza, saranno dieci anni che non lo vedevo».
«Beh, ormai temo che non lo vedrà più».
«Poco male, non posso dire di aver versato lacrime amare su quella pagina di giornale».

«Lei legge i giornali?».

«Si fa per dire, no?».
«Stiamo facendo analizzare le cozze assassine: l'Ammiraglio era ancora una persona in vista e non mi torna che intorno a lei si sia prodotto il secondo cadavere in appena un mese».
«Non intorno a me, Commissario. Io non ero né con il primo, né con il secondo: intorno a me avevo altro».
«E chi per l'esattezza?».
«Non credo la riguardi».
«Per il momento, forse no. Ma si tenga a disposizione, signora Frascata.
E si guardi le spalle…».

28 aprile 2012

L'interrogatorio, sempre più informale, faceva tappa dal Brigante Gasperone, ad Ariccia.
«Allora, ci mettiamo insieme o no?», le sussurrò furtivo.
«Ma sei matto? Se non tua madre, potrei sembrare tua zia…».

«Però dell'Ammiraglio sembravi la figlia...», replicò sagace lui, mentre lei faceva penzolare fanatica le tette sfatte, malcelate nella profonda scollatura della camicetta, umettando al contempo il labbro inferiore.

Nonostante i suoi 46 anni, non portati benissimo, i chili in eccesso e l'aspetto consumato, rimaneva una donna che piaceva subito, anche il più distratto doveva arrendersi e rivedere i suoi termini di paragone; volgarmente, questo tipo di donna era detta una sorca... un pesante apprezzamento che celava un titolo onorifico, nella doppiezza del linguaggio popolare.
«Non sono matto… mi piaci... non puoi essermi madre... non sei tanto vecchia... né io tanto giovane...

Ma l'Ammiraglio poteva essere tuo padre...».
«Con il tuo stipendio, però... ce la faresti a mantenermi? Io amo le cose belle e costose... lui mi passava gli assegni... adesso ho finito...».
Era cinica e a lui piaceva anche per questo: avevano superato rapidamente tutte le ipocrisie del caso.
«Accendo un mutuo e ti sistemo dentro Villa Lusi, con vista sul lago; andrà presto all'asta: ti piacerebbe?».

       

«Sì, ho capito... bella... imponente...

Sarebbe degna di me. E tu anche».

Approfittò dell'apertura di credito per un bel bacino, con la mano a muoversi sulla morbida pancetta della Frascata, non potendo né salire, né scendere. Doveva arrestarsi, il colmo per un Commissario; era in una fraschetta.

«Allora è fatta... intanto continuiamo a vederci, no...? C'è sempre da interrogare...».

«Senza impegno, però. Io non ho solo te, Commissario...».

Si era ritratta, senza temere di apparire sgradevole; voleva fatti per spendersi davvero.
«Cambiamo discorso, signora Frascata...

Ti aggiorno su alcune strane coincidenze che ho rilevato nelle mie indagini.
Ebbene, l'attuale Papa è tedesco è ha assunto il nome di Benedetto XVI».
La procace quarantaseienne lo inquadrava con occhi scettici.
«I Conti di Tuscolo assursero al trono papale nel 1012, 1.000 anni fa, con il nome di Benedetto VIII. Otto è la metà di sedici. Mille è la metà di duemila.
La loro ascesa fu dovuta all'alleanza con il partito imperiale. L'Impero aveva sede in Germania.
Troppe coincidenze per essere vere coincidenze.

Oggi abbiamo un Papa tedesco che ha lo stesso nome del primo Conte di Tuscolo assurto al trono papale perché filo-tedesco, e con il progressivo del nome pari al doppio esatto di quello.

Se per assurdo dovesse dimettersi poi... si ripeterebbe il caso di Benedetto IX, un altro Conte di Tuscolo...».

«Aspetta...

Lo sai cosa mi sembrano questi... caro...», in modo carezzevole, prendendogli per un attimo la mano, quasi scusandosi con lui per i modi bruschi di prima. «A me sembrano algoritmi... ho il diploma di perito... l'ho preso al Fermi di Frascati», ammiccando con quegli occhi nocciola da Baci Perugina.

La Frascata aveva dalla sua l'estrema praticità di una donna pienamente realizzata.

«Algoritmi...?».

Ingravallo era basito.

«Il caffè lo metti su in un certo modo, è sempre quello.

Il computer fa sempre le stesse cose, non ti può stupire come una bella donna...

La storia è ripetitiva, prevedibile e noiosa: tre attributi tipici di un computer...», e per manifestare il più netto contrasto, si tirò su una zinna con la mano a coppa.

Ci mancò poco che il cameriere non dovesse raccogliergli il labbro da terra.

Ingravallo, vedendo entrare nella grotta l'agente Di Maggio, fece appena in tempo a cambiare registro: «Allora... neanche il vino dei Castelli le scioglie la lingua, signora Frascata?».
«Commissà… c'è un matto che se vò buttà de sotto, a du passi de qua… sta a parlà de cozze, boh...».
«Ma che dici, Di Maggio?!
Andiamo. Venga anche lei, signora Frascata».
I tre giunsero tosto al ponte d'Ariccia.
«Ecco… giusto a voi due stavo a cercà…!», esordì il matto.

Ingravallo preferì non interromperlo.
«Tutti sapemo com'è morto Antinoo, rompeva il cazzo a 'na bella fija... sì, a 'na bella fija de 'na mignotta... ma Ulisse... 'o sapete com'è morto Ulisse?
Nun ve state tanto a preoccupà, ve dico: quando sarà er momento, avoja... co du cozze bone da morì, er sor Ulisse se leverà er pensiero, ve dico...

Ve dico, sì... ma 'o sapete chi l'ha detto?
L'ha detto un tale cecato de nome Tiresia…
E mò ve dico 'n'artra cosa a voi due, che me sembrate madre e fijo, 'a madre bonazza a zonzo cor fijo…».

«Sentito...?», sussurrò la madre d'Ingravallo, nell'orecchio del figlio.
«Voi du artri v'avete da mette insieme! Questo ve lo raccomanna Diana 'a Riccia, bella e riccia come Circe bella de ciccia» chiosò lo svitato. «Oh! Qui stamo a casa sua, nun la fate incazzà!».

«Sentito...?», Ingravallo si prese la rivincita.

«Ma che ve ce vo 'n'argoritmo pe davve 'n bacio? Ma 'ndo cazzo semo arivati, oh!».

«Dobbiamo accontentarlo, o farà qualche pazzia...», sussurrò il Commissario alla Frascata, in tono quasi professionale, procurandosi al contempo di stringerla a sé.

«Ah! Si è buttato!», era però destino che il Commissario non riuscisse né a baciare la Frascata, né a distogliere il folle.

L'ubriaco barcollò e cadde nel vuoto.

Anna lanciò un grido.

«Commissà... ma quanto è alto il ponte?
Non si è manco sentito er botto...», osservò Di Maggio.
«È un ponte senza fondo...
Di Maggio, mi faccia il piacere... lo vada a prendere... si faccia aiutare dai vigili...».
«Che schifo... sarà ridotto una poltiglia...».
«Non più di noi, Anna», rispose sottovoce il Commissario.
Poco dopo, dal parapetto del ponte riemersero il matto e l'agente Di Maggio, il primo sotto il braccio del secondo.
«È un vecchio trucco circense.

Ma non sempre funziona...

           

Allora... ci mettiamo insieme o no? Lo dice pure er matto…

Guarda che sennò me butto de sotto...».

La risata di Anna valeva un mezzo sì.

11 maggio 2012, ore 10

«Commissà… Commissà…! Hanno accoltellato la Frascata!», l'agente Di Maggio fece irruzione nell'ufficio del Commissario Ingravallo.
«Hanno…
Hanno…
S'è fatta ammazzare!?», bianco all'istante.
«Pare de sì. La stanno a portà morta all'ospedale: è partita rigida, però nessuno se vo' prende 'a responsabilità...».

«Ma…».
«L'hanno trovata con un cortello nella schiena, ma prima de arendese, deve avé lottato…
Sul posto ce stanno i Carabinieri…».
«Almeno quello...», accasciandosi sulla scrivania, come se la coltellata l'avesse presa lui.

11 maggio 2012, ore 13

«Ci sono troppe coincidenze, Di Maggio...

E se l'assassino fosse un algoritmo?».

11 maggio 2012, ore 16

«Ma insomma... ho già detto tutto ai Carabinieri, stamattina…!», obiettò la portinaia.
«Sia cortese… ci racconti quello che ha visto…».
La vecchia si voltò e iniziò faticosamente a salire le scale.
«Qui abitava l'assassino», disse indicando la porta con i sigilli, sita al primo piano dello stabile. «Arrunte Pallavicini, detto l'Etrusco. La vittima invece stava ar quinto. Stava da sola, ma c'era 'n certo via-vai… stavolta 'nvece s'è smossa lei e 'sta cosa alla sora Anna nun ha portato mica bene…

Lo sanno tutti come annava in giro... un camicione bianco da donna importante... cor collo alto... sembrava 'na papessa... du bottoni chiusi in panza... e basta! Niente sotto, niente sopra... du bottoni! Ve potete immaginà le zinne...

Ma la mignotta nun voleva morì! Ce doveva avé sette spiriti come li gatti, perché ha aperto la porta e gli è scappata via su pe' le scale. Quel poraccio pe' finilla d'ammazzà s'è dovuto fa du piani».
«Ma lei allora ha visto tutto?!».
«No, ho sentito gli strilli: ho visto l'Etrusco che scendeva giù cor coltello in mano e la camicia sporca de sangue! M'ha visto ed è scappato via».
«E lei allora è salita su a vedere…».
«Io finché nun se decidono ad aggiustà l'ascensore, su nun ce vado, pure se ammazzano tutti gli inquilini, che poi nun sarebbe un soldo de danno…».

Il Commissario Ingravallo stava osservando le macchie di sangue cerchiate col gesso sulle scale.

«Perché la vittima non è fuggita dabbasso, anziché salire le scale?».

«Po esse che c'era qualcuno che scendeva, ma che poi s'è cagato sotto...».

«Tanto per essere chiari, lei ci ha raccontato tutto quanto il fatto, però ha visto solo l'Etrusco che scappava».
«E scusateme se è poco! Poi il fatto l'hanno ricostruito i colleghi vostri de stamattina: so' poliziotti pure loro, in fonno in fonno, no?
C'era una macchia de sangue all'ingresso dell'appartamento e 'sta processione de macchie fino al terzo piano, dove lei stava tutta rannicchiata. Ma nun v'hanno detto niente a voi?».
Intanto erano faticosamente arrivati al secondo piano.
Il Commissario si chinò su una larga chiazza di sangue rappreso, pure contornata dal gesso dei Carabinieri.
Macchie più piccole proseguivano sulle scale.
«Basta così, signora. Molte grazie, proseguiamo da soli.
Che cosa nota, Di Maggio?».

Ingravallo, attraverso il meccanico linguaggio professionale, cercava di gestire lo stato di shock.
«Dal primo al secondo piano le macchie so piccole e scajonate... e molto vicine alla ringhiera.

Dal secondo al terzo, sembra che abbiano sgozzato un vitello, Commissà!».
«Brillante.
E poi?».
«In effetti... se la Frascata è stata trovata con un cortello nella schiena... come ha fatto la portinaia a vedé un cortello nelle mani dell'Etrusco?».
«Brillante.
C'è altro?».
«Le macchie di sangue so belle sane: l'Etrusco invece, nello scenne le scale de corsa, avrebbe dovuto calpestanne almeno qualcuna...».
«Perfetto».
«Passiamo all'ospedale, Commissà?».
«No, passiamo in fraschetta.

Ma prima in ufficio».

11 maggio 2012, ore 20

«Rilegga».
«Cinque ferite da taglio, di cui una letale. Tutte di direzione e profondità diverse, una sull'avambraccio sinistro, superficiale, un'altra…».
«Qui ha cercato di proteggersi. È riuscita a proteggersi», precisò il Commissario.
«Un'altra sulla regione mammellare, le altre due…».
«Questa è quella grave, quella della pozza al secondo piano; poi ha reagito, si è ripresa, si è tamponata con la mano e si è trascinata fino al terzo».
«Le altre due sulla regione scapolare. L'ultimo…».
«Queste sono la seconda e terza ferita, quando si è voltata di spalle per fuggire: forse una ancora all'interno dell'appartamento e l'altra sulle scale».
«L'ultimo, il colpo letale, vibrato sul dorso, all'altezza dei reni», l'agente Di Maggio aveva concluso.

«Quando leggi, leggi bene».

«Grazie, Commissà».
«Rileggiamo anche la descrizione dell'arma».
«L'arma ritrovata infissa sul corpo della Frascata è un lungo coltello a lama bitagliente compatibile con una sola delle ferite aperte; le altre tre sono state inferte con un'arma a lama monotagliente. In queste ultime, infatti, si ha da una parte un angolo acuto, corrispondente al taglio della lama, dall'altra uno arrotondato corrispondente alla parte non tagliente».

«Abbiamo sentito i cugini, ora sentiamo er Cecato de Frascati».

11/12 maggio 2012, ore 24/0

Nuovo interrogatorio informale al Grappolo d'Oro di Frascati: all'interno del grottino, veniva ascoltato Omero, il vecchio cecato.
«Chi è l'assassino, Omero?».
«Quell'Arrunte è 'n infame, ma nun è Macbeth. Ce vole 'na grandezza pure ner male. 'O ritroveranno morto pe' le fratte de Velletri.
Nun aveva previsto tutto quer sangue... e la difficoltà de sfonnà 'na zozza come 'sta Frascata, che se voleva salvà a tutti i costi...

Però ce deve stà quarcuno che conosce bene 'sta stronza, perché nun s'è fidato... lei pensava de salvasse a cosce de fori e d'arivà de sotto alle scale... ma poi s'è vista arivà sotto n'artro cortello... ha ripreso a core a tutta callara... pe de sopra... ma quell'artro era più pratico, Commissà... l'ha fatta core un po'... e poi l'ha sfonnata de brutto... 'a mignottona se voleva salvà... ma ha fatto l'urtimi du gradini e l'ha s'è stirata... è rimasta co 'e cosce de fori... che zozza...».

Di tanto in tanto, Ingravallo versava grappoli nel bicchiere.

«Detto questo, Commissà... si ho sbajato quarcosa... è perché nun ce vedo bene».

«Omero, quanti erano i figli di Ulisse?».

«Du fiji de du mignotte».

12 maggio 2012

ACCOLTELLATA A MORTE L'EX MOGLIE DELL'AMMIRAGLIO GIANNINI

MA LUI HA UN ALIBI DI FERRO

«Speriamo che l'algoritmo stia al gioco, Di Maggio.

Sta a noi contagiarlo con una buona dose di follia».

13 maggio 2012, ore 9

«Commissà, pensi che roba... i Carabinieri hanno arrestato er fijo de l'ex marito de la Frascata... me so fatto manna tutto er faxe... insomma... come si dice...».
«Telemaco Giannini».
«Sì, quello... allora non serviva...
Comunque pe falla breve è emerso che è lui l'assassino... insomma... come si dice...».
«Lasci perdere, Di Maggio, proseguo io.
L'Ammiraglio Giannini aveva di fatto diseredato il figlio, tramite l'ex moglie: in sede di divorzio, aveva ottenuto di versare assegni meno pesanti, offrendole a compensazione, con effetto dopo la sua morte, le proprietà di famiglia, tenuto conto della differenza di età importante tra i due.
Il figlio ha covato rancore a lungo e quando ha saputo che il padre aveva pochi mesi di vita, si è deciso ad agire.
Per coprire l'omicidio principale e liberarsi della Frascata, ha confuso le acque con elementi rituali ed esoterici assolutamente irrilevanti. Ad esempio gli omicidi cadenzati il 12 di ogni mese dell'anno 2012.
La Frascata ha reagito con tutte le sue forze, ma è arrivata in ospedale perché così aveva deciso lui, affinché morisse il giorno dopo, cioè il 12 maggio, dopo una lunga e sofferta agonia, quasi telecomandata dall'assassino. Ciò avrebbe impressionato molto gli investigatori e l'opinione pubblica, dirottando l'indagine verso ambienti satanisti, esoterici, o massonici.
La stessa Frascata, pure avesse ripreso conoscenza, non avrebbe potuto lanciargli accuse, infatti non sospettava nulla e girava senza apprensione.
Il suo era un piano ben congegnato.
Telemaco Giannini e l'algoritmo mandante non hanno commesso alcun errore».
«Algoche... Commissà...?

Ma allora cosa l'ha tradito?».
«L'algoritmo custode della signora, forse.

Forse Telegono, il fondatore di Frascati?
Non ci sono coincidenze, Di Maggio.
Un bacio può modificare la sequenza.
E anche una buona dose di follia.
Di Maggio... ma quant'è bona la Frascata...?!».

LA MALDITA

di Salvatore Conte (2024)

     

     

Roberta Ramos si è sollazzata abbastanza, adesso è pronta per un'altra scorribanda.

Il potere che ha raggiunto non le basta; vuole sempre di più.

Possente, selvaggia, diabolica, è considerata indistruttibile.

La chiamano la Maldita.

Nessuno è mai riuscito a sorprenderla, non ha mai incassato piombo, e se anche accadesse, tutti pensano che sarebbe in grado di gestirlo senza problemi.

C'è chi la considera un bisonte sacro, vista la forza devastante che la sua immagine incarna.

Di questo passo potrebbe mettere le mani sull'intero Messico.

E ha già un piano per conquistare Novasol.

Roberta sta usando Lampez per farsi strada, ma prima o poi si libererà anche di lui, prima che lui tenti di liberarsi di lei.

I due finiranno per scannarsi a vicenda.

Intanto, però, la Ramos si gode i suoi successi.

Soltanto il misterioso Chato ha avuto il coraggio di impensierirla.

Lei e Lampez hanno messo una grossa taglia sulla testa di quel guastafeste. Due feroci delinquenti che mettono una taglia su un cittadino onesto: succede anche questo in Messico.

E alla fine il miraggio dell'oro paga: el Chato è un tale Ubaldo Argentiras, un pezzente idealista che frequenta di nascosto niente meno che la bella figlia del Governatore di Muñoza; il nome è Isidora.

Non appena la Ramos apprende tutto ciò, scatta la trappola: è lei stessa che durante un convegno d'amore tra i due, tramortisce Ubaldo e fa possedere Isidora da un toro imbufalito, che la uccide con il suo micidiale fallo, lungo quanto un bastone da passeggio.

Il padre della ragazza crede che a ucciderla sia stato il suo amante, e così lo tortura a morte.

Ma anche in fin di vita, Ubaldo professa la sua innocenza; e allora il suo aguzzino comincia a capire il proprio errore; vaga impazzito nel deserto e finisce per incontrare proprio Lampez e Roberta.

        

        

Con la presa del Governatorato di Muñoza, Lampez e Roberta sono all'apice della loro potenza.

Il piano adesso è quello di allargare l'Impero.

Ma non tutto fila per il verso giusto.

        

        

        

        

        

È proprio una muchacha, Estella, che fa una sconvolgente rivelazione alla diabolica Ramos: «In un punto remoto della Sierra... è custodito un tesoro, Roberta. Oltre il deserto, a miglia e miglia da qui. È il tesoro che el Rajo accumulò in anni e anni di grassazioni, di rapine».

Estella è stata la donna del bandito, e non ci mette molto a convincere l'avida Ramos.

     

I timori di Lampez si rivelano tuttaltro che infondati.

La spedizione viene bersagliata dai guai: mancanza d'acqua, clima rovente, misteriose sparizioni di alcuni uomini rimasti isolati dal gruppo, malori, sabotaggi e funeste apparizioni di avvoltoi e spettri.

Non manca davvero nulla. E il peggio deve ancora arrivare.

        

        

In mezzo a questi tragici sospetti, gli incidenti si susseguono, falcidiando gli uomini di Lampez e Roberta. Serpenti velenosi, belve feroci, scorpioni: sembra che tutti gli animali del deserto si siano uniti contro un solo nemico.

I feriti vengono abbandonati al loro destino, gli ultimi superstiti si ammazzano tra loro per accaparrarsi la poca acqua disponibile. La banda di Lampez e Roberta, il loro esercito personale, è ormai polvere. Polvere nel deserto.

La stessa Ramos è ormai impazzita dalla rabbia e dalla paura. Sa di aver fallito, di essere finita, ma non vuole ammetterlo. Si stringerà intorno alla sua colt per scacciare i fantasmi che la opprimono e le minacce di morte.

La massiccia bonona è fottuta, sembra invecchiata di 10 anni, ma conserva un briciolo di lucidità. È la più dura a crepare, insensibile a tutto, interessata solo a salvarsi.

     

     

     

Ubaldo e Isidora, e i tanti morti senza pace, le vittime invendicate della banda di Lampez e Roberta: tutti costoro reclamano giustizia.

Li hanno attirati qui sotto le spoglie di Luis ed Estella, con il miraggio di un tesoro inesistente...

E ora Lampez e Roberta devono pagare!

Già si predispongono a scannarsi reciprocamente, scambiandosi le fatali accuse, nel disperato tentativo di alleggerire la propria posizione di fronte al consesso dei morti.

     

L'alito della morte soffia su Roberta Ramos!

È venuto il suo turno!

La maledizione dei morti la condanna!

Un freddo gelido la penetra in corpo da capo a piedi e le annuncia la fine!

La fine di tutte le sue ambizioni e di lei stessa, la potente Maldita!

Ora anche Roberta ha paura!

La massiccia bonona - dalle zinne pesanti e le camicie sbottonate - non vuole crepare!

È ora di dimostrare se veramente sia indistruttibile!

        

        

        

        

        

        

        

        

        

La Maldita si ostina a provarci, ma ha riportato una profonda lesione all'utero, e non può andare molto lontano. Un bisonte l'ha incornata con qualcosa di ancora peggiore delle stesse corna.

Non è lungo quanto quello - proverbiale - del toro, ma poco ci manca. Se ne ricavano perfino bastoni da passeggio di quasi un metro. È letteralmente in grado di finire in bocca, rimanendo dentro.

     

Ma Roberta si tiene in vita con il miraggio della salvezza; forse è davvero indistruttibile.

Il tesoro non le interessa più, il suo tesoro è diventato l'ultimo pezzo di pelle che si ritrova addosso.

Anche gli spettri hanno smesso di tormentarla, la vendetta è ormai consumata.

Nella sua follia, però, la Ramos insegue una via di scampo.

«I fantasmi... non possono spararmi... Lampez... è crepato... sono l'ultima... sono invincibile...».

Striscia al riparo di una roccia e nel suo disperato delirio si butta sabbia nella vagina, cercando di tamponare l'emorragia, trascurando però che la ferita è interna.

È sola, farfuglia fra sé, schiumando rabbia.

«Quella troia fantasma... pensava di uccidermi... ma il bisonte... non ce l'ha come il toro... non ha spinto tutto... nessuno può fermare Roberta Ramos... ricomincerò da capo... con un'altra banda... un altro socio...».

La Maldita si aggrappa al fisico, mantenendo in vita l'illusione, meramente fittizia, di raggiungere un villaggio.

«Non finirà così... nessuno può fermarmi... quel cane è crepato... io non farò la stessa fine...», Roberta ripete il suo mantra preferito, quasi fosse una preghiera rivolta al demonio.

Vuole ottenere una via di scampo. Insiste fino all'ultimo.

E il diavolo sembra darle ragione, perché all'orizzonte si intravede una nuvola di polvere.

Se non è un altro miraggio, se non è un altro spettro, presto ci saranno visite.

Né l'uno, né l'altro, infatti, ma un disertore in carne e ossa. Uno a cui non va a genio di crepare per le guerre degli altri.

L'intesa è immediata, l'apostolo del demonio si dà da fare.

Alla Ramos basta poco per mantenersi in vita: l'acqua le restituisce più di una speranza.

«Insieme faremo grandi cose... ho molto oro da parte... tireremo su una banda... voglio tornare ad ammazzare... ho sete di sangue... voglio tutto il Messico... stavolta...», mormora eccitata, con il sangue che le cola dalla vagina come avesse il mestruo, e la bava alla bocca, vogliosa di salvarsi a tutti i costi.

«Il Messico sarà tutto nostro, potente Maldita...».

Il bisonte sacro annuisce.

WilLer si fa scudo

di Pasquale Ruju, Sandro Scascitelli e Salvatore Conte (2013-2023)

       

       

       

       

      

Per evitare la pallottola del bandito, Willer si fa scudo del pezzo di donna davanti a lui e Amabel Collins, alias Janet Frexi, paga con la vita il brutto tiro del Ranger, rimanendo uccisa a terra.

È lei, infatti, a beccarsi una fucilata nello stomaco: un colpo che non le lascia scampo.

Lo sparo rimbomba nella stanza come un tuono di morte, moltiplicato tre volte.
Grazie al provvidenziale scudo, Willer fa in tempo a piazzare la risposta, dritta al cuore.
Intanto, però, una maledetta fucilata ha mandato lunga a terra Janet Frexi, che malgrado la stazza pare rimasta stroncata.
La formosa sagoma ha fatto da scudo a Tex Willer!

Assorbito lo shock, Janet si gira ventre a terra e comincia a strisciare verso la porta.
Non ha obiettivi concreti, ma non può rimanere ferma ad aspettare la morte.
Un’altra, al suo posto, si sarebbe già arresa.

La sua unica possibilità è quella di supplicare il suo nemico.
È uscito in veranda con la piccola serpe, sarà obbligato ad ascoltarla.
Se la sua vita è finita, complicherà quella di Willer fino all'ultimo respiro.
Janet Frexi tira fuori tutto il fiato che le resta, nella speranza di commuovere il Ranger...

«Aspettami qui, Felicia. Non può averne per molto».

Il Ranger è costretto a rientrare in casa e ad assisterla.
È pur sempre una donna, ed è ferita a morte.
La stende sul letto e le tampona il buco.

La botta è stata forte.
«Per tua sfortuna... non sono ancora crepata... cough...

Io... ti ho salvato il culo... stronzo...

Questa cazzo di pallottola... cough... era indirizzata a te... sono morta per te...».
«Stai calma… non correre...», la tranquillizza il granduomo.
«Tranquillo... voglio provarci... cough... cough... chiama... subito... un dottore...».
«Bevi, intanto...», l'aiuta a mandare giù un po' di whisky.
«Ce l'hai... mai avuta... cough... una donna...?».
Il Ranger si incupisce.
«Ti ha lasciato... vero...?
È morta…?», affannando con occhi allucinati. «Potresti... metterti... con me... cough... cough...  io... ho la pelle dura...».
«Non sei male, donna.

Ma se anche ce la fai, cosa di cui dubito, ti aspetta la corda».
«No… se mi copri tu... cough... dirai... che... si sono… ammazzati... fra loro... cough... cough...».

«E gli altri che hai ucciso?».

«Gli altri... non li troveranno... mai...», un ghigno sinistro le increspa le labbra.
«Perché dovrei farlo? Io sono Tex Willer, il Ranger del Texas».
«Andiamo... sei cieco...? Cough... una come me... non la trovi più... cough... cough...».

Willer è intrigato: ha voglia di vivere, potenza e l'età giusta per lui.
Il Ranger si avvicina alla porta.
«Felicia...! Vieni dentro!
La cosa va per le lunghe...».
La Frexi, nonostante tutto, mantiene il controllo.
Ha fisico ed esperienza, due fattori molto importanti in questi casi.
E anche una buona dose di arroganza; occorre anche quella.

«Però non dovrai crearmi problemi», le sussurra Willer, tornando sul loro discorso.
«No... certo… perché dovrei…».
«Bueno.
Ora devi riuscire a non crepare, o l’accordo sarà nullo».
«Tu non preoccuparti… procurami un dottore… cough... cough... e ne verrò fuori…».
Janet è sicura di sé, il fisico la sostiene, l’esperienza le suggerisce di non mollare.

Però il buco è grosso e le certezze cominciano a sfaldarsi.

«Quei cani... in fondo al pozzo... mi chiamano... cough... mi aspettano... cough... vogliono... trascinarmi giù... in mezzo a loro... cough... cough... io li sento...!».

«Non farti suggestionare, cara...», e le pianta una mano sulle zinne, prendendosi subito un anticipo. «Sei brava con queste camicie...

Domani all’alba convocherò qui uno stregone, alzando segnali di fumo in cielo.
Intanto, per superare la notte, mastica questa…».
Willer le fornisce droga in foglie tagliuzzate.
«Sono la tua donna... Tex... cough... questo è ciò che conta...

Il mio vero nome... è Janet...», e mastica nervosamente, sforzandosi di mantenere il controllo, ansiosa di andare avanti, soddisfatta di aver raggiunto l'obiettivo e messo le mani sul famoso Willer.
«Sto di là con la ragazzina, Janet. Se ti senti qualcosa, chiama. Verrò subito».
Il Ranger esce in veranda con Felicia.
«Se è cattiva, perché l'aiuti?», gli domanda la ragazza.
«Perché è una bella donna, e ha le ore contate».
«Ma è cattiva... e quando morirà, sarò contenta».
«Sei molto dura, Felicia».
«Tex... Tex...!», Janet lo chiama, la voce è pressante.
Willer è subito al suo capezzale.
«Sto male... stammi vicino...».
«Bueno. Rimango qui.
Cerca di stare calma, Janet...».
«Non mollo... stai tranquillo... cough... cough...
Sono... la tua donna... insieme... staremo bene...», la Frexi è ancora convinta di salvarsi, o almeno vuole farlo credere. «Che ti ha detto... quella vipera... cough... voglio saperlo...».
«Niente di importante».
«È cattiva...», con esperienza preme le mani sullo stomaco. «Sarebbe capace... di spararmi... e di farla finita... cough... cough...».
«Nessuno ti toccherà, Janet. Né corda, né piombo».
Il tono è deciso, da farla bagnare.

E le spreme le zinne.
«Sono tua... sei fortunato... cough... tiro i freni per te...».

«È quasi l’alba, Janet. Vado fuori a preparare il falò».
«Felicia... portala con te… quella… cough... è capace… di farmi la pelle…».
«Ancora non è morta?», gli chiede la ragazzina.
«No. È una pellaccia».
«A te piace anche se è cattiva?».
«È pur sempre una donna, te l’ho detto, Felicia.

Janet pensa che tu la uccideresti.
È così?».
«Sì, perché è cattiva. Tu mi daresti la tua pistola?».
Se la guarda.
«Non dire sciocchezze. È già morta».
«Mi ha fatto molto male. Vorrei vederla morta subito».
Il fumo sale alto nel cielo spettrale dell’alba.
Willer può tornare al capezzale di Janet.
Fatica ancora a credere che si tratti della sua donna. Però gli piace, non può negarlo.
È una donna diversa dalla sua Lilith, ma anche molto bella e ostinata: estenuando la sua agonia, respingendo la morte, ha dato un senso alla sua vita.
«Tra poco lo stregone sarà qui, ti giocherai le tue carte».

Aquila della Notte ringrazia l'uomo della medicina che ha risposto alla sua convocazione.

Ha fatto un buon lavoro.

E per sdebitarsi gli fa un regalo, visto che è scortato da due guerrieri.

«Prendila. È tua».

«Aquila della Notte sempre generoso...».

«Avevi ragione su quella serpe...».

«Tutte le mie vittime... erano degli infami...

Tex... se non sbaglio… hai tre pard...
Io... sarò il quinto... so sparare... e uccidere...».
«E incassare...
Bueno, Janet...
Sarai il quinto pard».

FINE DI UNA MESSALINA

di Salvatore Conte (2024)

IL PRESAGIO

Aveva sognato di ritrovarsi con le budella di fuori.
Un presagio funesto che non l’ha fermata.
Troppa l’ambizione, troppa la sete di potere.

LA FINE

«La falsa matrona Frexa Messalina ha preso ferro! E bello lungo...! E due volte! Due!».

L'amministratore del gruppo plebeo "Tutti i cazzi de Roma" strilla per le vie della Città portando la fatale notizia.

«Si può sapere che cazzo stai dicendo? Non si sente niente», un tale lo ferma, il messaggio non arriva, l'orecchio non prende, disturbato dal frastuono dell'Urbe.

«Frexa Messalina... la grossa matrona... dovresti conoscerla...».

«E allora...?».

«L'hanno tolta di mezzo...».

«Che cosa?!».

«È finita nella congiura del fratello. Due pretoriani l'hanno stroncata col ferro; un colpo per uno, per condividere la responsabilità: i consoli del ferro... ti piace?».

«Giove benedetto! Dici sul serio?».

«Lo sanno tutti che lei non c'entrava un cazzo con gli affari del fratello, ma si sa che le donne ci vanno sempre di mezzo... e poi giocare col gladio, a Roma, si sa... è troppo pericoloso...

Non le mancava certo l’ambizione, ma non aveva gli intestini per rischiare tanto, sebbene adesso dicano che li abbia tirati fuori…!», un sorriso sardonico e impietoso, a corollario dell’efferata battuta. «Quello stronzo del fratello, poi, il ferro non l'ha ancora preso. È stato portato a palazzo per essere interrogato. Sono coinvolte decine di personalità».

«Ma la matrona... Messalina... è morta subito?».

«No, ha un fisico da bestia, si sta ancora consumando. Pare stia salutando gli amici più intimi. Se ti sbrighi, fai in tempo a salutarla anche tu...», finisce tra sé, perché l'altro è già partito, sembra calzare i sandali di Mercurio.

Quando la vede, Publio tira un sospiro di sollievo: Frexa Messalina non è ancora cadavere.

La prestante matrona è seduta nell'atrio, stretta in mezzo a due serve, che l'aiutano a tenersi dritta, le tamponano il sangue sul labbro e le portano alla bocca del vino per tenerla su; con una mano non lasciano mai la pancia della padrona, premendovi sopra delle bende, cercando di contenere le perdite; sotto di quelle la matrona ha due paia di labbra nuove.

La condanna è stata spietata.

Sorpresa nelle sue stanze, le hanno affondato il gladio in corpo.

Ha provato a sbottonarsi, ma è stato inutile.

Il volto è pallido, conscio della fine; e pur tuttavia lascia trapelare un sorriso; forse perché la finta matrona è contenta di non esserci rimasta secca sul colpo e di avere il tempo per salutare famigliari, amici e amanti.

Statua vivente di Giunone, erede delle famose e venerate matrone latine, pur senza aver generato, Frexa Messalina riceve le ultime adulazioni.

Le baciano i piedi, disperandosi per la sua sorte.

«Reverendissima Messalina... ditemi cosa io possa fare per voi...».

«Publio... ci sei anche tu... amico mio...

Scrivi la verità... sono coinvolta anch'io...

Ho chiesto pietà... ma quelli... hanno colpito...», un attimo di pausa e di affaticamento, Frexa rivive il momento con gli occhi spalancati, come se la colpissero di nuovo. «Non un colpo... ma due... avevano paura... dovevano... spartire il delitto... e c'ho rimesso io... io... io un colpo... me lo tenevo...», sussurra la possente Frexa, con rimpianto e paura. «Ti basta… per scrivere…?».
«Forse avevano paura che un colpo non bastasse per uccidervi.

Comunque a me basta. Ma voi?
Un carnefice, un’avvelenatrice, non avete chiamato nessuno?».
«Se mi muovo… potrebbero tornare… e poi… a che servirebbe…

Amico mio... fammi andare avanti… non ho molto tempo…», ha fretta, si gestisce, ma sa di essere finita.
Publio lascia spazio agli altri in coda. Sono tanti.
Altri baci sui piedi.
Frexa Messalina è venerata come una dea.
«La falsa matrona è sulla Porta di Dite! È impegnata nell'estrema lotta! Ha preso ferro! Due volte! Due!», l'amministratore del gruppo "Tutti i cazzi de Roma" aggiorna la situazione per le vie della Città, tenendo i seguaci con il fiato sospeso per la tragica sorte della famosa matrona. Sia pure sbudellata dal ferro, ci si chiede se continuerà a lottare e quanto potrà resistere, così prestante come tutti la ricordano: era solita infatti passare tra loro, sempre imponente e ben tenuta, quasi sciolta - per grazia degli dei - dal dovere di invecchiare. Passava tra loro con la sua tipica tunica chiusa da borchioncini centrali, sempre però in buona parte allentati, tanto da essere chiamata "la Sborchiata".
Agli amici di Messalina si aggiungono i curiosi, che vogliono conoscere dal vivo la situazione della moribonda. Non vogliono farsi raggiungere passivamente dalla notizia della sua fine: vogliono in qualche modo partecipare all'evento e ascoltare le grida degli intimi, quando la situazione giungerà al culmine, con la possente matrona che lotterà fino all'ultimo prima di arrendersi. Tutti infatti ne conoscono l'ambizione e l'arroganza, che saranno le ultime a essere spente dal gladio.
Si crea fermento, quasi tumulto.
Tutti vogliono vederla, prima da viva, e poi, persa l'estrema lotta, da cadavere.
Gli amici sono finiti, Messalina ha fatto il suo dovere, loro il proprio; ora sarebbe pericoloso far entrare anche la plebe; i pretoriani tornerebbero per negarle gli ultimi respiri e lei non li vuole buttare via.
Tuttavia, la plebe, anche se imbelle, assicura un certo grado di potere, e nessuno a Roma l’ha mai sottovalutata.
È così che Frexa Messalina cerca comunque di averne qualche vantaggio, disponendo di farli entrare di nascosto, dal retro, un po’ per volta.
È un azzardo, ma non può semplicemente mandarli via. Forse quell’entusiasmo morboso per una famosa matrona che muore, potrà trasmetterle una scintilla di vita, che a lei è indispensabile per trascinarsi ancora avanti.
Anche Publio è rimasto nei paraggi, in attesa di assistere al momento fatale, allorquando Messalina dovrà arrendersi all’incombente destino.
La situazione, tuttavia, non è critica al punto di far presagire un crollo imminente della prestante matrona latina, che riesce ancora a ritardare l’imbarco sul traghetto di Caronte.
Quello la nota sulla sponda e le va incontro, lieto di portarla a bordo, abituato com’è alla solita feccia.
Ma lei, all’ultimo, gli scivola via, e in quei pochi attimi sopraggiungono a decine, da ogni parte del mondo, perché la Porta di Dite è sempre aperta e ha varchi ovunque.
Caronte non la vede più, deve accontentarsi della solita feccia.
La plebe ossequia Frexa Messalina, portando omaggi e spendendo sacrifici al suo capezzale. Tutti sono stati perquisiti da un muscoloso schiavo numida, perché la matrona ha i suoi nemici e qualcuno potrebbe approfittarne per abbreviarne le pene.
La morente chiama a sé Publio.
«Ora chiudo le udienze…
Vai da Vatsapio… e digli… che mi sono aggravata…
Oppure… quelli... torneranno a spegnermi…
E poi torna… perché il freddo mi invade… e non terrò… lontano… Caronte… a lungo…».
«La matrona Frexa Messalina non ce la fa più! Ha l’occhio fisso all’Olimpo! È persa ormai l'estrema lotta! La gran donna, incorrotta dopo quasi sessanta stagioni, indirizza ai suoi intimi gli ultimi sospiri!», Vatsapio diffonde nell’etere capitolino le ultime notizie sulla sorte della moribonda.
Intanto i pretoriani eseguono perquisizioni, arresti e condanne.
Il complotto è definitivamente sventato.

Ormai rimane in sospeso un solo fatto...

Non c’è solo Vatsapio nell’Urbe, con il suo gruppo immortale “Tutti i cazzi de Roma”.
C’è pure Pasquino, con i suoi aggiornamenti fulminei, le notizie dell’ultima ora su tutti i muri più in vista della Città.

Dopo le udienze, la matrona si è chiusa nella sua casa, con la gente di Roma fuori dalla porta, ad aspettare il culmine della tragedia.

Ma la plebe è impaziente, vuole notizie, preme, bussa alla porta.

«La matrona è vigile, sta bene, non ha paura», una delle generiche dichiarazioni dei servi, impegnati a calmare gli animi.
Lei è distesa sul letto, gli occhi sbarrati sulla porta (come dovesse aprirsi e inghiottirla), tesa e grave, quasi imbarazzata.
Intorno a lei, il carnefice, l’avvelenatrice e Publio Annio, uno dei suoi segretari, forse il più devoto, che ne raccoglie gli ultimi fiati.

Il carnefice le ha risistemato alla meno peggio le budella, bendandola con una fasciatura rigida: almeno adesso non si vedono più.

L'avvelenatrice ha cercato di stabilizzarla, per farle guadagnare un po' di tempo, quanto non si sa.

Publio prende appunti sulle ultime ore della matrona, le ultime parole, le ultime reazioni: come affronta la fine, insomma, affinché i posteri ne siano informati.

Tutto serve per rendere decorosa la sua morte, come merita una donna di questo genere.

Bisogna cercare di farle vivere tutti i fiati che le rimangono, senza buttare via nemmeno un granello della clessidra: è il modo supremo per rispettare la sua importanza e la sua lotta; anche se non vi sono possibilità di modificare il verdetto della sorte.

Accompagnarla alla fine, alla Porta Fatale, concedendole tutte le divagazioni possibili: questo l'ultimo servizio.

Non c'è altro da fare per la bella matrona. Solo divagare.

«Publio... non allontanarti...», la morente ha paura, è umano.

«Sono qui, non mi muovo».

«Volevo tentare... ancora... ma...».

«Ma...?».

«Sono arrivata... ho perso...».

Publio sa che ha ragione, e non risponde.

Nella clessidra i granelli sono tutti da una parte.
Caronte la sta trascinando sulla barca fatale, anche senza obolo; le offre un passaggio.

Il fiato è sempre più corto, il panico la blocca, Plutone la chiama.
Le palpebre cadono pesanti sugli occhi annebbiati.

«Coraggio, venerata matrona... rinsaldate le forze!», ma quella è ormai sovrastata dal suo destino.

«Publio…», sussurra il nome con voce dolente e allarmata, ha la fine scritta sul volto, «il momento… non lo decido io... è finita… muoio...», la bocca si spalanca…
«MATRONA!», urla il segretario, così forte che tutti possono sentirlo.

«Giunone… aiutami...», biascica gutturale a bocca aperta la potente Frexa, «mu...o...i...o… aiu...to… mu...o...», non finisce nemmeno, è l’ultimo fiato, la bocca rimane spalancata...

La situazione è precipitata, Messalina ha chiesto aiuto, ma non c'era più niente da fare.

La delusione è grande.

«MATRONA!», la chiama ancora, non si è arresa fino all'ultimo, ha chiesto disperatamente aiuto.
I servi moltiplicano le grida, il panico dilaga tra la folla in attesa.

«Per Plutone!
Che dici, sarà crepata?».
«Per forza, non hai visto che era cotta?
L’hanno sventrata con tre o quattro colpi di gladio, roba da non crederci.
Ha fatto la grande fino all’ultimo e poi è andata a crepare per conto suo, con i servi che ci tranquillizzavano per evitare tumulti, come se noi non sapessimo che si stava consegnando a Plutone».
«Che donna…! Possibile che sia finita?».
«Non senti come strillano i servi?».
«Aspettiamo che esca il cadavere».
«Certo... e chi si muove?».
«Qualcuno dice che i colpi sono stati due…».
«E che differenza farebbe? Se anche fosse, ti sembrerebbero pochi? Hai mai visto un gladio da vicino?
È più alto di un bambino di dieci anni; ed è largo quanto la mano di un adulto.
Si può sopravvivere, se si ha molta fortuna, solo a un colpo e se non è affondato bene, lo sanno tutti.
A lei invece gliel’hanno messo tutto dentro. Se fosse accaduto a un’altra donna, l’avrebbero ritrovata divisa in due pezzi.
Non so quale demone le abbia retto il gioco fino adesso, ma di certo la cosa è durata fin troppo e adesso è finita; anche se mi sentirò tremare le gambe vedendola passare cadavere.

Sembrava non invecchiare mai, quasi eterna e indistruttibile, così simile a Giunone».
«E invece era una mortale come noi e il gladio l’ha distrutta».
«No, mortale come noi, proprio no».
«Lo so, lo so, lo so bene. Ma pare abbia perso l'estrema lotta anche lei».
«Una vera lotta non c’è mai stata, il suo destino era segnato sin dall’inizio, il gladio non perdona, il gladio ha costruito l’Impero e il gladio lo distruggerà».
«Dovevi fare la Sibilla».
«Certe cose, dette da un uomo, non sembrerebbero né credibili, né misteriose.
Le donne... o sono tutto, o sono niente, a Roma».
«Oggi niente, purtroppo per la nostra bella matrona sborchiata.
Era gentile con noi quando passava, le piaceva essere adulata.
Ormai è finita, comunque. Non ci resta che accompagnarla al sepolcro».

Vatsapio e Pasquino si involano per la Città.
La notizia arriva ovunque in un baleno.

Le voci si spargono, tumultuose, confuse.

Frexa Messalina ha lottato con tutte le sue forze, ma è rimasta uccisa.

È spirata, o comunque vicinissima a farlo, tirata senza speranza negli ultimi spasmi di una fatale agonia giunta all'epilogo...

La disperazione dilaga, non c'è più niente di fare, la tragedia è consumata.
Si attende ora di vedere il cadavere.

L’Imperatore non immaginava che la caduta di Messalina avrebbe generato tanto cordoglio.
Un certo timore si insinua a corte.
Gli umori repressi della plebe sono pericolosi.

A Bruto non giovò l’uccisione del padre.

E qui a perire c'è la matrona più famosa di Roma.
I pretoriani vengono spediti a prelevarne il corpo.
Ma non riescono a entrare, quattro di loro sono linciati dalla folla; sono giunti impreparati, con troppa arroganza, nelle anguste vie dell'Urbe, formicolanti di plebei infuriati: anche il gladio è piegato dalla rabbia.
Nella confusione generale, non si riesce nemmeno a verificare la notizia, a capire se contenga una lieve esagerazione o un ravvicinato vaticinio, o se risponda a cadavere sborchiato, che sia pur ancor caldo, sia destinato a freddarsi, a poco a poco, insieme alle ultime, vaghe speranze di intravedere o apprendere una reazione nella prestante matrona annientata dal gladio.

Di tutto questo approfittano alcuni congiurati, tuttora scampati alla retata, che infiammano la plebe e la spingono verso il palazzo, con il corpo sbottonato di Messalina al seguito, finalmente tornata visibile. La borchia contro il gladio.

Caricato su una lettiga, è oggetto di morbosa attenzione; un braccio della sventurata cade a penzoloni dal bordo, è evidente che la bella matrona non ha più il controllo; nonostante tutto, l'avvelenatrice prova ancora a inalarle dei sali, o chissà quale altro intruglio; spes ultima dea: si spera in una sua tardiva reazione, in un sussulto disperato, nella sua voglia di protrarre la lotta; il braccio viene tirato su, per una questione di rispetto.

A deludere le speranze di una ripresa in extremis, quella bocca spalancata e incredula, indiscutibilmente cadaverica.

In molti urlano, quando riescono ad avvicinarsi alla lettiga, vedendola schiantata e incapace di reagire.

La lettiga che trasporta il corpo della famosa matrona si arresta.
«Popolo di Roma... Frexa Messalina è morta!

Uccisa dal gladio, sventrata dal ferro!», e la indica platealmente, abbandonata inerte sulla lettiga. «L'ira di Giunone è sopra le nostre teste!».
Un’orazione non certo raffinata come quella di Marco Antonio, ma pur sempre efficace, diretta alle pulsioni della massa.
Il blocco di comando dei Pretoriani vacilla.
In tali casi è essenziale puntare sulla quadriga vincente.
Vengono consultate d'urgenza le Sibille: se cadono le borchie di Frexa, cadranno gli scudi di Roma.
Oscuri come sempre gli auspici, di scarso conforto alle pragmatiche decisioni.

Bisogna scegliere con lo stomaco. E col gladio.

Dopo un breve scontro interno ai Pretoriani, viene giustiziato il vecchio Imperatore e acclamato successore il fratello di Messalina.

L'hanno stabilito le sorti del ferro, come tante altre volte a Roma.
La folla è placata. Dalla pancia della matrona è uscito non un figlio, ma l'Imperatore! Per tale alto destino, era stata esonerata da Giunone.

C'è fermento intorno al cadavere, giunto in lettiga sul Campidoglio.

L'avvelenatrice ci lavora ancora.

Ha ricomposto la bocca, l'espressione è meno tesa, la sventurata matrona appare meno infelice.

Si cerca di cogliere un sospiro, un baleno negli occhi, un auspicio.

Si spera di annunciare - tramite la rete di Vatsapio e le Pasquinate dell'ultima ora - che la lotta prosegue.

««CESARE!»».

A breve distanza dal corpo della sorella, la folla acclama il nuovo Imperatore.

««Guardate!»», le Sibille indicano un prodigio: intorno alla lettiga di Frexa Messalina si sta formando un ristagno d'acqua scura, melmosa, puzzolente.

Un plebeo lancia una moneta nell'acqua.

E quella, anziché affondare, rimane a galla, come fosse di pomice.

«Un rantolo!», urla l'avvelenatrice, subito seguita da un'acclamazione.

Caronte aspetta.
La sua barca è sempre piena.
E trasporta la solita feccia.

JACK SFIDA LA VECCHIA PUTTANA

di Salvatore Conte (2024)

Tra Whitechapel e Shadwell, 1888.
Ha lasciato la sua locanda - La Scrofa Bianca - e sta tornando a casa.

       

È tardi, la nebbia è padrona della notte.
A stento distingue il muro in mattoni del Tobacco Dock.

  

Il tacchettio degli stivali sul ciottolato risuona grave nell'etere plumbeo: è l’unica nota di vita in una notte lugubre e di luna nera.
Benché velato dalla nebbia, il volto della vecchia Chana trapela inconfondibile, noto e prestigioso nei due malfamati quartieri.

Qualche dettaglio usurato tradisce il peso dei 50 anni sul groppone, ma per il resto c'è tanta roba, tanto da guardare, tanto da squartare.
Impellicciata a mestiere, l'esperta locandiera - avanti con gli anni, ma non decrepita - costeggia a suon di tacchi il lungo perimetro del Tobacco Dock.

Chana è possente e presuntuosa, si considera senza rivali in tutta Londra.

Ha sempre tanta bella carne addosso e ai suoi clienti lascia fare quasi tutto... che si divertano... purché paghino...

Dai più facoltosi si fa accompagnare nelle sue stesse camere.

A cinquantanni ha perso un po' di smalto, ma si tiene abbastanza bene e nessuno è in grado di trovarle un difetto.

Senza dubbio si è appesantita e imbolsita, ma sempre sulla falsariga giusta: quando c'è il sole riunisce i clienti migliori in un villa di Greenwich, e tutto va a posto.

La Scrofa Bianca è sempre piena.

E lei non riesce a nascondere la propria ossessione: conoscere ogni dettaglio sugli omicidi di Jack; ai clienti più fedeli non esita a mostrare la sua collezione di articoli di giornale.

  

Ma per sé stessa non ha paura: ha fatto molti soldi, vive in una bella casa, vanta amici influenti e si considera un'intoccabile.

Dalla nebbia emerge un signore elegante, con cappello a cilindro e mantello nero.
Poteva andarle molto peggio.
Chana, comunque, non avrebbe avuto paura.
C’è chi la definisce una cinghialona, in virtù del fisico massiccio. Difficile metterle le mani addosso contro il suo volere.
Qualcosa le dice che quell’uomo le parlerà.
«Mi scusi, signora...».
Il suo sesto senso aveva ragione.
«Che vuole…», non si fida, il sesto senso continua a lavorare.
«Ha notato, per caso, se l’ingresso al Tobacco Dock è ancora aperto?».
«Veramente… con questa nebbia... non ci ho fatto caso, mi dispiace».
SZOCK

«Anche a me…».
Una mano sulla bocca, l’altra intorno al pugnale.
Un movimento fulminante, che sorprende anche una come lei, abituata ai colpi bassi.
«Sta buona... o ti apro fino all’orecchio...», è lì infatti che le sussurra la severa ammonizione.
Swishh...
Estrae il coltello, lungo e affilato, quasi un bisturi, e la trascina all’interno del Tobacco Dock, attraverso una porticina all’uopo scassinata.
I magazzini del tabacco sono un vero e proprio formicaio, ma le formiche torneranno solo fra qualche ora.
A questo punto, nelle viscere del labirinto, può anche strillare.
Ma non lo fa, è troppo intelligente per farlo.
«Che vuoi farmi? Sei pazzo?», la coltellata, sebbene profonda, l'ha appena scalfita: Chana sta in piedi normalmente, la voce è nitida.
«Io sono Jack, mia cara…», e le mostra allusivamente il lungo pugnale.
«Jack!?».
Solo il nome l’ha già ammazzata.
Adesso sì che Chana ha paura.

Ma anche eccitazione per essere stata scelta, forse è questo che voleva, in fondo.

Però implora... implora una salvezza, che sembra impossibile pronosticare.
«Ti prego, non farlo... cos'è che cerchi...?».
«Fammi lavorare... o sarà peggio per te.
Io so dove colpirti...
Se ti agiti, è peggio: rischi di farti ammazzare...».
Lo guarda attonita.

«Ma io sono Chana...! Non ti dice niente il mio nome?».

«Mi dice molto infatti».
E procede...
«Questo strumento è poco più di un coltellino nella tua pancia da scrofa.
Sei una cinghialona, Chana. Non te la passi affatto male. Il tuo soprannome te lo meriti».
«Tu... mi conosci... e sai che io... volevo conoscere te...».
«Le altre le ho prese a caso, con te ho scelto».
«Perché... perché...», spaventata dalla sua sicurezza.
«Lo capirai da sola.
Togliti la pelliccia. O potrei sbagliare».
Le concede il tempo di farlo da sé.
Lui quello di guardarla.
Infine procede.
«Ora ricordati le mie parole», si avvicina.
Potrebbe strillare, ma non servirebbe a niente; solo a innervosirlo.
Potrebbe lottare, ma anche lui ha un fisico massiccio, da aristocratico ben tenuto; ed è un uomo; ed è armato; ed è un assassino; ed è Jack.
Potrebbe guadagnare qualche secondo, forse un minuto, ma lui diventerebbe efferato, sarebbe in qualche modo costretto a sgozzarla, o a squartarla.
No.
Per quanto apparentemente folle, è meglio stringere i denti e lasciarlo agire. Assecondarlo. Fare quello che ha chiesto: lasciarlo lavorare.
Potrebbe essere un chirurgo alla ricerca di emozioni violente, erotiche, estreme; potrebbe essere una Vergine di Norimberga in carne e ossa; lo scoprirà presto.

SZOCK
Swishh…
SZOCK
Swishh...
SZOCK
Swishh...
Un trittico serrato di coltellate, tutto nella pancia di Chana.
Ed è pronto a colpire ancora...
«No... ti prego... basta... basta…», e si muove di schiena intorno al pilastro di mattoni, quasi alla chetichella, con le gambe ancora sicure; l'azione è surreale, non è una fuga vera e propria, è un tentativo di convincerlo a lasciarla perdere.
«Non ho finito, mi dispiace».
L'agguanta e prosegue il lavoro.

SZOCK
Swishh...
SZOCK
Swishh...
SZOCK
Swishh...
Le coltellate sono profonde, gli occhi di Chana strabuzzano dalle orbite.
Ma la vecchia puttana rimane in piedi, ha raccolto la sfida.
E Jack infierisce.
Sempre al ventre.
SZOCK
Swishh...
SZOCK
Swishh...
SZOCK
Stavolta glielo lascia dentro.
«Ti prego... basta...».
«Non toccarlo...», Chana si è portata le mani sul pugnale. «È rischioso toglierlo.
Ci penso io».
Swishh...
La vecchia puttana è ancora in piedi, si puntella con la schiena contro il pilastro del magazzino.
«Non fare quella faccia.
Non è ancora il momento di crepare.
Lo vedi?
Te l’ho messo dentro dieci volte, ma stai ancora bene.
Potresti anche tornare a casa sulle tue gambe, come stavi facendo.
Basterebbe però che io ti aprissi un po’ per metterti in difficoltà.
E aprendoti ancora di più, la tua vita andrebbe in fumo... hai colto l'ironia?
Ci lasceresti la pelle, ma non subito.
Una come te tornerebbe a casa anche con le budella in mano.
Ma non è detto che io debba arrivare a tanto, anche se qualche pezzetto sporge già.
Sei la donna più stronza e dura a crepare che mi sia capitata finora.
E su questo non avevo molti dubbi.

Dovremmo diventare soci, io e te.
Voglio darti una possibilità che non ho mai concesso a nessun altra.
Fanne buon uso.
Ma c’è una precondizione…».
«Quale...».
«Questa».
SZOCK
Le infligge l'ennesima coltellata, entrando dal fianco, fino a sfiorarle la spina dorsale.

Chana spalanca la bocca, attonita, quasi indignata.

La vecchia puttana teme di aver incassato un colpo mortale.

«Rimanere in piedi dopo l'undicesima pugnalata.
E questa è un po' più dura delle altre...».
Chana si spreme per mantenere il controllo di sé, nonostante abbia una gran voglia di crollare a terra.
Swishh...
La precondizione è soddisfatta.
«Io ho finito.
Ora sta a te lavorare.
Vediamo che sai fare...
Ma devi rispettare le mie regole.
Niente ospedale, intanto.
E non è una regola restrittiva.
Sono dei macellai.
Lì non avresti scampo.
Anche la povera Emma Smith c'ha lasciato la pelle.
Era stata brava a trascinarsi fino a casa, ma il ricovero al London Hospital le è stato fatale.
La tua locanda è vicina, è lì che devi tornare», l'aiuta a rimettersi la pelliccia e gliela chiude. «La nebbia ti nasconderà.
Non dovrai chiamare aiuto.
Se chiamerai aiuto, verrò ad aprirti: hai inteso bene?
Giunti a questo punto... sarebbe un vero peccato doverlo fare.
Se qualcuno si accorge di te, tu prosegui.
Ai tuoi dipendenti racconterai che è stato il tuo amante, ma che non vuoi denunciarlo e nemmeno che si sappia niente in giro, oppure la polizia ci lavorerà di fantasia e la locanda verrà chiusa.
Farai chiamare il dottor Watson, troverai il suo biglietto da visita nella tasca: è il miglior medico di Londra - escluso il presente, naturalmente - ed è una persona per bene; le due cose sono raramente collegate tra loro.
Se non sarai crepata, dovrai tornare a servire ai tuoi tavoli entro tre giorni, perché io ci sarò e dovrai servire anche me.
Queste sono le regole.
Non fallire, perché non avresti un'altra possibilità.
Spero che tu riesca.
Perché così diventeresti mia socia.
E ora va', sei libera...
Ti accompagno alla porta...».
«Sei... uno squarta...tore... gentiluomo... o mi stai... prendendo... in giro...», le gambe non sono più sicure e la voce nemmeno.
«Sono efferato, ma non crudele.
E niente è più crudele di una bugia.
Andiamo, Chana. Da qui devi proseguire da sola.
La mia parola è più sicura della mia mano».
La sagoma massiccia della vecchia puttana, leggermente ingobbita, va a confondersi nella nebbia.
«È incredibile... m'ha lasciato... andare... ora... devo farcela... non devo mollare...», sussurra tra sé, nel tentativo di darsi forza.
L'esperta locandiera seguirà le regole, perché così facendo diventerà la socia di Jack, allargando a dismisura il suo potere.
Sa che non lo prenderanno mai.
E anche lei non deve farsi prendere.
Ma la morte non è certo ottusa e corrotta come Scotland Yard.
Non si può passarle una mazzetta, non basta montare un depistaggio, non si può confonderla tanto facilmente.
Chana trema.
Avrà molto da sudare, prima di uscirne pulita.
E fra tre giorni dovrà servire ai tavoli.

Sa che non può fallire, che dovrà esserci e ci sarà; anche a costo di farsi mettere - cadavere - su una sedia a rotelle, e di farsi spingere in mezzo ai tavoli con la bava alla bocca e gli occhi vitrei.

La vecchia puttana sa che alla Scrofa Bianca ci sarà da servire un cliente speciale. Molto esigente.

E che lei non potrà deluderlo.

ZOTHIQUE:

LA PROSTITUTA DI OROTH

di Salvatore Conte (2024)

II marito era crepato, e lei s’era presa la sua taverna.
Senza troppe difficoltà.
Donna di taverna lo era sempre stata.
Finalmente adesso era la padrona.

Del destino, però, nessuno è padrone.
La famosa Jolly Whore stava male.

Le sue zinne giravano impresse su una carta speciale del mazzo, per tutte le taverne di Zothique.

Kleo Mozh lo nascondeva a tutti e ci riusciva bene, perché non voleva scatenare il panico.
Ma la malattia che le faceva vomitare sangue era con ogni probabilità mortale. E non avrebbe tardato a presentarle il saldo.
Aveva consultato un curatore di Ummaos, affinché non se ne sapesse nulla a Oroth, ma il responso era stato negativo: il curatore non aveva cure.
Una sera, però, aveva vomitato davanti agli avventori, e ormai - a Oroth - non si parlava d’altro: Kleo stava crepando.

Lei stessa ne prese tragicamente coscienza.

Donna allo stato puro, potente, formosa, prestigiosa, era l'attrazione principale della città portuale di Xylac.

Aveva ricevuto attenzioni anche da personaggi in vista, ma adesso che si temeva una sua rapida fine, aveva perso potere d’acquisto.
Lei, però, continuava a lavorare come niente fosse, servendo ai tavoli e prostituendosi nelle sue stesse camere.

Ciò le dava l'illusione di poter andare avanti, nonostante tutto.
Si diceva, però, ormai, che si cominciassero a vedere - tra gli avventori - anche dei negromanti, evidentemente interessati a proporle soluzioni - per così dire - a lungo termine…
Un cadavere di quel genere faceva gola.
Continuava dunque ad avere i suoi corteggiatori, ma ne era cambiato il tipo.
La potente Kleo, però, non aveva intenzione di crepare tanto presto.
Li faceva servire, senza dar loro soddisfazione.
Il tempo, tuttavia, giocava a favore di questi.
Infatti, un giorno, mentre era al mercato, Kleo si accasciò a terra.
Subito soccorsa, venne trasportata su una lettiga fino alla sua taverna.
Quella sera, dopo molto tempo, disertò i tavoli.
L’assenza non passò inosservata.
Molti avventori se ne andarono a bivaccare altrove.
I consumi calarono vistosamente.
Durante il giorno era un via-vai di visite.
A decine, da tutta la città, venivano a portarle qualche regalino, sperando di vederla e di avere notizie sulle sue condizioni.
«Scusa se te lo chiedo, bella donna: da quanto tempo sei malata?», le chiese un vecchio, al seguito di un avventore abituale.
«Chi sei... non… non ti conosco...», non respirava bene, parlava con affanno.
«Mi chiamo Plin e mi hanno parlato di te».
«Sono mesi… mesi… che tiro avanti…».
«Ma adesso non ce la fai più, vero?».
«Ho paura… vecchio Plin...

Mio marito... vuole portarmi con lui... da Thasaidon... ma io... non mi lascerò prendere...».

«L'hai ucciso?».

«Sì... era un porco...», confessò senza quasi rendersene conto.

«Come?».

«L'ho avvelenato... lentamente... nessuno l'ha scoperto...», la confessione era completa; gli altri, però, sembravano non ascoltare.

«Ma ci sono delle voci in città...».

«Non importa... non ci sono prove... vecchio Plin...

Ma non parliamo di quel porco...
I negromanti… mi hanno promesso la resurrezione… se mi uccido in una certa maniera…», qualcosa nella serena compostezza di quel vecchio la invitava a parlare.
«Quale maniera?».
«Con un coltello magico...
Devo piantarmelo nello stomaco… e aspettare…».
Fissò gli occhi nel vuoto, come se già sentisse il pugnale affondato nella pancia, immersa negli ultimi momenti della sua vita.
«Io aspetterei a farlo, se fossi in te. Tu non vuoi morire».
«Io non voglio crepare… ma quando vedrò la morte in faccia… che altra possibilità avrò…?».
«Cerca di non farti ammazzare, intanto.
I negromanti potrebbero metterti fretta…», concluse sinistramente Plin; e fece per andarsene.
«Aspetta... perché non rimani...».
«Sono vecchio...».
«Potresti darmi buoni consigli...

Quando starò meglio... ti servirò gratis... per un lungo giro del sole...», come tutti i moribondi aveva dei momenti di euforia.
«Il mio consiglio te l'ho dato.
Tornerò domani».
Tra i seguaci di Jolly Whore c’erano anche soldati e mercenari.
Kleo chiese ad alcuni di loro di formare una guardia contro i malintenzionati; dispose controlli anche in cucina; e comunque si faceva assaggiare il cibo, l’acqua e il vino.
Tuttavia, le sue condizioni si aggravarono.
C'era molta preoccupazione intorno a lei, quasi panico da parte dei seguaci più devoti.
Sapevano che era una gran donna, dalla fibra robusta e la volontà ferrea, e che non avrebbe mollato tanto facilmente, ma le sue condizioni non promettevano nulla di buono.
La gran puttana di Oroth fece chiamare uno dei negromanti, Zotor di Ilcar, e cominciò a parlargli.
«Non voglio... morire… per sempre...».
«Se è questo ciò che vuoi, non succederà!», garantì solennemente il mago.
«Quanto tempo ho... ancora...», gli chiese, senza nascondere il terrore che la opprimeva.
«Non molto. Devi prepararti».
«Ma io... non voglio crepare...», protestò schietta.
«Devi farlo, almeno un po', se vuoi vivere per sempre».
«Non sono... ancora pronta... Zotor... ho troppa paura...».
«La morte, quando verrà, non ti darà altro tempo, non ti farà scegliere.
Verrà e basta».
«Lo so... è così... ma io… voglio... provarci ancora...».
Kleo non si era ancora convinta.
Continuava a lottare, anche se non sarebbe servito a niente.
C'era da scommettere che un suo ulteriore aggravamento avrebbe tenuto tutti con il fiato sospeso.
Non era tanto facile dare il colpo finale a un donnone potente come lei.
Sarebbe stata una tragedia in piena regola, come quella dei tempi leggendari.
La taverna tornò ad affollarsi, anzi i posti non bastavano: l’odore della morte era un potente richiamo.
Sapere che al piano di sopra l'arrogante Kleo Mozh lottava per tirare avanti, metteva l'argento vivo addosso.
In caso di aggravamento fatale, la notizia sarebbe arrivata subito e avrebbe fatto dilagare un febbricitante panico.
Jolly Whore non poteva opporsi alla morte, alla fine anche una troia come lei avrebbe ceduto, ma non si poteva ancora sapere quando, con esattezza.
C'era chi sperava che fosse presto, per godersi subito lo spettacolo della prostituta di Oroth definitivamente stroncata dalla malattia e le scene di panico dei seguaci; e c'era chi sperava che fosse il più tardi possibile, per godersi altre serate di fremente attesa.
Lei, la diretta interessata, la zoccola di Oroth, a sua volta provava una goduria quasi carnale, un'eccitazione mortale, nel sapere di tante persone raccolte nella sua taverna, e anche fuori, in uno stato di febbrile incertezza e delirante devozione.
Sperava di non crepare tanto presto anche per questo: sentirsi ancora importante; la più potente, la più adorata; la zoccola e la prostituta della città.
Una sera si sentì un po' meglio; e allora - con l'ausilio di una sedia mobile - tornò a sorpresa a servire ai tavoli, suscitando enorme stupore e frenesia.
Era pallida e affaticata, ma se la cavò molto bene nel suo vecchio lavoro.
Aveva voluto dimostrare di non essere ancora del tutto fottuta.
Prima a sé stessa, poi ai suoi clienti, e infine ai negromanti.
Kleo ci provava, tentava di prendere le misure alla sua brutta e oscura malattia, anche se sapeva - dentro di sé - di non avere scampo e di illudersi stupidamente, solo perché spaventata dall'idea di morire.
La prostituta di Oroth non ci stava, e quella sera - se non altro - l'aveva dimostrato a tutti.
La notizia dilagò fulminea per la città: la grande zoccola si era ripresa, forse non era condannata; aveva servito ai tavoli; non sembrava fottuta.
I negromanti ne erano quasi scontenti.
«Non dovresti illuderti, Kleo», le rammentò Zotor. «Questa è una malattia che non scherza, che non lascia scampo».
«Comprendo che tua sia un negromante, amico mio; un grande negromante. E non intendo illudermi, infatti. Ma se mi rimane un po' di liquore, me lo bevo tutto, prima di cedere. Sono la prostituta di questa città», gli rammentò Kleo.
La troia aveva rialzato la testa dalla tomba prematura in cui molti, a Oroth, l'avevano già sepolta.
Anche i notabili che l’avevano in precedenza adulata, tornarono a farsi vivi, incuriositi.
Volevano sapere.
Volevano sapere se la prostituta fosse davvero in grado di riprendersi.
Volevano sapere se stesse seguendo una qualche cura e chi l'avesse eventualmente impartita.
Kleo, però, tornò ad aggravarsi, gelando l'euforia che era montata incontrollabile nei giorni precedenti.
Non si era più fatta vedere in sala, sudava freddo, lottava disperata, stava perdendo.
Circolavano adesso voci funeste sul suo conto.
Kleo stava per mollare.
Era pallida, triste, quasi rassegnata.
Ogni volta che dal piano di sopra scendeva qualcuno, chi stava sotto chiedeva di lei.
Se dal piano di sopra proveniva uno schiamazzo, si temeva fosse lo sconforto per la fine di Jolly Whore.
La situazione presso gli avventori era ormai esasperante: nella taverna si respirava un'aria satura di morte, si temeva perfino che la mignotta fosse già cadavere e che la sua sorte fosse tenuta nascosta.
Quando, intorno a mezzanotte, ci fu un via-vai di curatori e notabili, calò il gelo fra i tavoli.
Kleo era mancata, trapelò questo, ma non era ancora cadavere.
Ci provava ancora, respirava, era tenuta in vita dai curatori, accorsi prontamente per offrirle qualche valido palliativo.
La sua sorte, però, era appesa a un filo.
La notizia dilagò per tutta la città, suscitando clamore: stavolta la bella puttana non ce la faceva più.
Dopo una lunga lotta, si arrendeva.
Notabili e curatori rimasero nella taverna fino all'alba, insieme alla maggior parte degli avventori, che affrontarono la nottata bevendo alla salute di Kleo.

Il nuovo giorno non la vedeva ancora cadavere.
La gente bivaccava a oltranza nella taverna, e anche fuori.

Venivano anche da altre città, dove si era pensato a una burla fino all'ultimo.
I servi della prostituta raccoglievano monete a più non posso.
Ostinatamente attaccata a un brandello di vita, Kleo aveva intorno a sé una moltitudine di persone.
Di tanto in tanto riprendeva conoscenza e sussurrava qualche parola sconclusionata.
Era chiaro comunque che non ci stava a crepare, avrebbe lottato ancora, niente coltello magico nello stomaco, almeno per il momento.
Dal piano di sopra, un seguace faceva gesti, rivolto di sotto: una sorta di cronaca mimata dell'agonia di Kleo.
In quel momento, a esempio, richiamava concitato l'attenzione e mimava la prostrazione fatale della puttana.
Un cupo silenzio, carico d'attesa, gravò sulla sala.
Il seguace mimò adesso che la prostituta era riuscita a riprendere aria, liberando il sollievo dei clienti.
In molti si chiedevano che senso avesse guadagnare qualche ora.
Ma per lei un senso c’era.
Il vecchio Plin la stava aiutando.
Forse, senza di lui, sarebbe già morta.
Solo vivendo fino all’ultimo, si poteva sperare, le aveva detto.
E intanto moriva godendo, tenendo tutti inchiodati.

ZOTHIQUE:

ASSALTO ALL'OASI MALEDETTA

di Salvatore Conte (2024)

«Non ho voglia di crepare, Dago.

Ci sono andata molto vicino, e non voglio ricascarci».

«Credi che io ne abbia voglia?

Il piano è perfetto: riuscirà, e saremo ricchi. Sarebbe da stupidi perdere un'occasione simile».

«Può anche darsi che tu abbia ragione, e non ti nascondo che la prospettiva di sistemarmi per il resto della vita mi alletti.

Ma ho ancora problemi con le mie budella, non sono più quella di un tempo...».

«Non dovrai fare alcuno sforzo particolare, all'occorrenza c'è la mia spada...».

«Ci conosciamo da poco.

Porterò con me un paio di succubi; ma non sono dei guerrieri, mi faranno solo compagnia».

«Come vuoi, sono felice tu abbia scelto di diventare ricca».

«Io ho detto sì a nome di tutti e due, Birk».

«A volte Anafra sembra non reggersi in piedi. Sei sicuro che ce la faccia?».

«Scherzi?

Galeor ha fatto un capolavoro.

Anafra si sta riprendendo completamente.

Sai che l'ha sospesa a lungo prima della putrefazione, e intanto le ha ricostruito le budella usando i maggiolini operai; ce li ha ancora dentro.

Anafra ha ancora qualche acciacco, ma la sua ambizione è rimasta quella di sempre; e si fida soltanto di noi».

«Non sputo sopra all'argento e tantomeno sopra ad Anafra.

La tua risposta è stata giusta...

Anche se rischieremo la pelle, sempre meglio di star qui a non combinare niente!».

«L'hai detto, amico mio!

Le zinne di Anafra valgono qualsiasi rischio!».

Il piano era senza dubbio ben congegnato e si era andato formando quasi da sé.

Dago conosceva bene il tratto di deserto, tra Yoros e il Tasuun, infestato dai Ghorii. Infatti aveva trovato un modo per ammansirli: gli consegnava cadaveri prelevati dai cimiteri di Zothique. Ne erano ghiotti.

In cambio riceveva qualche ora di libertà per setacciare il deserto alla ricerca dei tesori perduti dalle carovane attaccate e massacrate dai Ghorii.

Non aveva raccolto molto, finora, ma il caso di Spun gli aveva ridato fiducia.

Quella stessa carovana doveva nascondere molti altri tesori, di certo - in quelle circostanze - non poteva aver portato via tutto.

Dago aveva bisogno di una complice come Anafra, perché il suo status di Sceriffa l'avrebbe protetto da controlli e perquisizioni, che per lui erano un rischio più letale degli stessi Ghorii. C'era infatti il supplizio per i trafficanti di cadaveri, sia a Yoros che nel Tasuun, e quasi ovunque nel Continente.

È sempre tempo di sciacalli a Zothique.

La prima parte del piano era filata liscia.

Un paio di ispezioni erano state ammorbidite dalle stella e dalle zinne di Anafra, ormai famosa ben oltre Cincor.

Ma la seconda si stava rivelando perfino migliore.

La banda dei 4 ebbe la fortuna di capitare tra i Ghorii, a distanza di poche ore dal loro ultimo massacro.

Gli avvoltoi indicavano chiaramente la direzione da prendere.

Il raccolto fu impressionante...

C'era talmente tanto oro che a stento riuscirono a caricarlo, benché avessero un carro a disposizione!

«Non ricordavo che ci fosse un'oasi da queste parti...», disse Dago, sulla via del ritorno, quasi al tramonto.

Il sole morto di Zothique allungava su di loro funebri ombre purpuree.

«Che importanza ha? I cavalli hanno bisogno di riposo, l'oro pesa...», la risposta di Anafra. «E poi è quasi buio, passeremo lì la notte...

Non va bene?».

«Va bene, va bene...», ma il tono di Dago era perplesso.

Penetrati nell'oasi, forse a causa dell'oscurità incombente, il gruppo si ritrovò immerso in un ambiente alquanto insolito e per  certi versi inquietante.

La vegetazione era anomala, e il colore che spiccava maggiormente - forse per un gioco di luci provocato dal tramonto - era il rosso, accompagnato da un sinistro celeste.
Dalle pozze d'acqua si diffondeva una nebbiolina luminosa.

L'oasi offriva comunque un valido riparo, pertanto i 4 montarono il campo e si abbandonarono a un sonno ristoratore.

Al mattino, Anafra si confidò con Dago: «Ho l'impressione che ci stiano osservando...».

«Anch'io...».

«Ed è un po' troppo buio per essere giorno, non trovi?».

La luce filtrava da spazi angusti, era come se la vegetazione, già fitta, si fosse infoltita in una sola notte.

«Questa storia non mi piace, Anafra.

Andiamocene».

Però il carro non riusciva più a passare attraverso la fitta vegetazione, e di certo non potevano abbandonare l'oro.

Dago avanzò a piedi fino al limite dell'oasi, ma anche così non riusciva ad uscirne! Rovi e liane, improvvisamente cresciute, sbarravano il passo.

Avrebbe potuto estrarre la spada, ma preferì ricongiungersi ad Anafra, temendo di restarne separato. Fu quasi colto dal panico.

«Deve trattarsi di un sortilegio...

Inutile usare la spada, hai fatto bene a trattenerti.

Dobbiamo esplorare l'oasi: dev'esserci qualcuno o qualcosa al suo interno...».

«Va bene, ma senza mai dividerci...».

Anafra si stirò addosso la camicia d'ordinanza, sempre sbottonata fino allo stomaco, gonfiando le zinne: nessuno poteva sfuggirle.

Si rese conto in quel momento di essere come l'oasi: solo un po' più piccola...

Separandosi controvoglia dall'oro, i 4 si addentrarono nell'oasi.

Il terreno era molto irregolare. Pozze di fanghiglia ribollente si alternavano a tratti compatti. Una nebbiolina endemica strisciava ovunque. Inquietanti getti di vapore sbuffavano qua e là, senza coerente giustificazione.
Il colore rosso continuava a prevalere. Le forme della vegetazione erano singolari, esotiche, aliene.
Di forme animali, invece, non vi era traccia.

«Dago, questa oasi sembra non finire mai...».

«Ma allora... che camminiamo a fare?», rispose l'avventuriero.

«Camminiamo in attesa di qualche evento», confermò Anafra.
«Shhh… c’è qualcosa…».
Le fronde della vegetazione stormirono.
Apparve una donna.
L'evento.

«Chi sei?», domandò la Sceriffa.
«Sono Lunalia di Xylac, Regina del Tasuun».

«Lunalia?!
Non è possibile.

La Regina è morta nel crollo di Miraab, molto tempo fa».

«Ti dico che sono la Regina Lunalia, straniera».

In ogni caso era bellissima, sotto ogni aspetto.

La stessa Anafra reggeva a stento il confronto.

Per un attimo la misteriosa figura fissò Dago.

Nel guardarla, gli girò la testa.

«Noi... stiamo esplorando il deserto... in cerca di tesori», uno strano impulso lo spinse a parlare.
«Ti sembra un deserto questo?».
«Un deserto...? No, certo che no... ma tutto intorno... c’è il deserto. O almeno c'era...», sembrava confuso.«Tu sei sola? Vuoi unirti a noi?
».

Era lui che chiedeva, o lei stessa che si faceva le domande?

«È da molto che sono sola.
Un po’ di compagnia mi darà piacere…», gli occhi grigi di Lunalia brillarono sinistramente.

Adesso erano in cinque.

Il gruppo si riunì intorno al bivacco.
«Con noi sei al sicuro, Lunalia.
Se vuoi, puoi raccontarci la tua storia».
L’invito di Dago venne subito raccolto.
«Sono giunta sino a qui, dopo il crollo di Miraab, scortata da poche guardie.
Il tempo è per tutti un nemico inesorabile.
Io, però, non mi sono arresa.
È vero, la senilità mi aveva minato. A Miraab non si parlava che di mia figlia, la principessa Ulua.
Non era giusto.

Io non mi sono mai arresa nella mia vita.

Tutti i re di Zothique mi hanno conteso. Non potevo scomparire nel nulla.
Ecco perché sono giunta sino a qui, dove ho trovato quello che cercavo: un fungo che curasse la mia malattia...», una risata malata chiosò l'argomento.
«Sei dunque proprio tu la leggendaria Lunalia!

Sì, la tua bellezza non può appartenere che a Lunalia stessa!», Anafra lo guardò sconcertata. «Che pensi di fare ora? Dove sono le tue guardie?», proseguì Dago.
«Le mie guardie sono morte, uccise dalla malattia
».

«Che malattia?».

«Quella da cui io sono guarita». Il fuoco del bivacco sembrò spegnersi di colpo. «Quanto a ciò che intendo fare… intendo curarmi per sempre...

Ma adesso… raccontami di te e dei tuoi amici. Cosa vi ha spinti in questo deserto?».
«Siamo alla caccia di tesori perduti».
«Vi auguro di riuscire nelle vostre imprese.

Ora, però, mi sento un po’ stanca… vi prego di scusarmi... il fungo lenisce gli effetti della malattia, ma rimane tanta stanchezza...».

Lunalia si ritirò nella tenda messa a sua disposizione.

I suoi movimenti erano goffi e incerti, come quelli di una persona molto anziana, benché apparisse più giovane di Anafra.

Il mattino, se così poteva chiamarsi, portò un nuovo evento.

I cinque dell'Oasi Maledetta si ritrovarono circondati da una decina di cadaveri in uniforme, putridi e bagnaticci. Le insegne del Tasuun erano facilmente riconoscibili.

Avanzarono verso il campo con la spada sguainata.

Solo Dago era all'altezza di affrontarli, ma era solo contro 10.

E per di più lento, impacciato.

Pensò per un attimo di utilizzare il fuoco, ma quello si spense subito dopo il suo pensiero.

In quel mentre, la risata malata di Lunalia sembrò stormire le fronde della vegetazione come una brezza thasaidica.

«Uccidila!», ordinò secca a una delle guardie, puntando Anafra con gli occhi.

La Sceriffa rivolse un rapido sguardo a Dago, senza aspettarsi alcun aiuto, perché sapeva che ormai aveva ceduto all'influsso della strega.

D'altra parte, lei stessa abusava di questo potere da una vita.

SZOCK

Però si sbagliava.

Lo capì quando vide, incredula, la daga dell'avventuriero immersa nella pancia di Lunalia.

La Regina mugolò un lamento innaturale, un terribile stridio fatto di rabbia e rancore.

«Maledetta...», sibilò disperata, appena dopo, rivolta ad Anafra.

Dago infatti era sotto il suo controllo, ma aveva sottovalutato il suo attaccamento alla Sceriffa: finora non vi era stato nessun assalto nei suoi confronti, almeno all'interno dell'oasi.

L'avventuriero, da parte sua, scosso dal pericolo incombente su Anafra, aveva subito preso la decisione giusta: colpire Lunalia per fermare i suoi cadaveri.

Le guardie si erano infatti paralizzate, cosa del resto normale per dei cadaveri, compresa quella che avrebbe dovuto colpire Anafra.

Il fuoco del bivacco aveva ripreso vigore.

Le fronde dell’Oasi cominciarono a diradarsi. Il sole purpureo di Zothique filtrava abbondante.

Dago usò la fiamma per bruciare - non certo viva... - una delle guardie, come esempio per gli altri cadaveri, che lentamente, molto lentamente, ritornarono nel fitto della macchia.

Lunalia crollò sulle ginocchia.

E quindi strisciò disperata verso il fuoco, quasi a cercare un'ultima fonte di calore. Ma si dissolse in cenere pochi attimi dopo, come avesse bruciato per ore.

La vegetazione si diradò completamente.

Rimanevano solo arbusti secchi, rovi, qualche pozza e un piccolo stagno, attorno a cui crescevano centinaia di funghi rossi maculati di bianco, e sul quale galleggiavano numerosi cadaveri.

«Quando ne aveva bisogno, faceva uccidere i malcapitati che giungevano qui per fare una sosta; e ne beveva il sangue, per mantenersi addosso una parvenza di vita; e con la putrescenza dei cadaveri alimentava il fungo maledetto.

Il fungo che guarisce dal tempo... e che cresce vicino ai cadaveri...», Dago faceva delle ipotesi.

«Allora ricordami di ripassare da queste parti, fra una ventina di anni... e di cercare quel fungo...».

«Purché funzioni anche sugli uomini...».

«Certo, perché non dovrebbe?».

E si fece stringere i fianchi e impalare, semplicemente usando la sguardo, al di là delle ipotesi.

L'assalto che finora era mancato, e che aveva tratto in inganno Lunalia, giunse adesso, seguito da quello dei succubi.

A pochi metri dalla sua cenere.

ILSA e ANNA

NEL TRIANGOLO MALEDETTO

di Salvatore Conte (2023)

Modena, 2 aprile 1945.
«Me l’ha portata troppo tardi, Colonnello.
È invasa dal cancro».
«Come l’Europa…».
«Non escludo possa sopraggiungere la morte già nelle prossime ore».
«Ma… io pensavo… le rimanesse almeno un mese…».
«Mi dispiace, ma è arrivato al pancreas.

Però se cominciassimo subito la mia cura... e se la paziente riuscisse a resistere per il tempo necessario a conseguirne i primi benefici… diciamo che potrebbe sopravvivere qualche settimana, forse alla fine della guerra.
Con il mio farmaco il tumore verrebbe rallentato, quasi fermato, appena prima del colpo di grazia: gli ultimi tre giorni possono diventare tre settimane.
Ma nessuna speranza di salvarla, sia chiaro.
Me l’ha portata troppo tardi».
«Tre settimane non sono poche.
Sarebbero sufficienti per quello che ho in mente...
Iniziamo subito la cura, dottore.
Il marco ha perso potere d’acquisto, ma questo compenserà i vostri sforzi...
».

Ilsa Von Thurn mostra un lingotto d'oro al medico italiano.
«Via, Colonnello… non vorrà offendermi, spero.
Mi rammarico solo di non poter fare di più per il Maggiore Frentzen».
«Vi porterei volentieri con me, dottore, ma è meglio che qualcuno rimanga; anche se, con i cattocomunisti, temo, non vi troverete a vostro agio».

«So come badare alla feccia, Colonnello.

Piuttosto, debbo arguire che lei sia in partenza?».

«Esattamente, dottore.

Non appena riuscirete a stabilizzare il Maggiore, toglierò il disturbo».

«Nessun disturbo, davvero».

«Vedete... dottore... noi non siamo né la destra, né la sinistra.

Noi siamo la testa...».

«Credo di afferrare il concetto, Colonnello.

Ma mi lasci dire che mi dispiace molto per il Maggiore, avrei preferito seguirla personalmente fino alla fine».

«Non mi rimane difficile crederlo.

In qualche modo, però, vi farò sapere quanto sarà durato il mio ufficiale subalterno, prima di arrendersi...».

«Gliene sono grato.

E tuttavia... ho suggerito a un mio giovane assistente di mettersi a sua disposizione, Colonnello».

«Molto bene.

Anna deve ricevere il meglio fino alla fine».

Triangolo delle Bermude, 2 maggio 1945.

«È finita, Anna. Sei sopravvissuta al III Reich».

«E... a questa tempesta...?».

Anna è una maschera di cera; stretta intorno a sé stessa, le prova tutte prima di mollare.

«Non cedi, vero?».

«Voglio crederci... fino alla fine...», la faccia spettrale di chi combatte una guerra impossibile da vincere. Dopo Berlino, sta per cadere anche la Frentzen. «Ma ricordati... che voglio risvegliarmi...».

«Appena saremo in America, sarai ricoverata in una delle migliori cliniche: e se anche fosse tutto inutile, sarai ibernata e risvegliata dai nostri scienziati».

«Colonnello... il mare è troppo grosso, dobbiamo puntare sulla vicina isola».

«Come si chiama?».

«Ehm... veramente... non è segnata sulle mappe».

«Ne prenderemo possesso noi, allora.

Procedete pure, Capitano».

Il vecchio Capitano Ben Morris ha la fortuna di avvistare una profonda insenatura nell'isola, quasi un porto naturale.

L'imbarcazione è in salvo.

Cessata la tempesta, Ilsa Von Thurn rivela il suo piano: «Esploreremo l'isola, prima di andarcene.

Voi, Capitano, rimarrete qui, insieme al nostromo.

Ma occhi bene aperti...

Tutti gli altri sbarcheranno con me».

Detto-fatto, viene calata una lancia.

Il paesaggio è tropicale, incontaminato, per ora nessuna traccia di presenza umana.

L'ex Colonnello Von Thurn, arma in pugno, guida la piccola colonna.

L'avvenente puttanone nazista è come sempre sbottonato con studiata indifferenza.

In fondo, lei non si è ancora arresa.

È seguita da un altro biondo, il giovane e aitante timoniere Luke Halpin.

Viene poi la carrozzina del Maggiore Anna Frentzen, bella cinquantenne invecchiata con gusto, ma spremuta dalla malattia, che l'ha annientata con la forza devastante di un bombardamento a tappeto. Ha in bocca l'ultima sigaretta del condannato a morte.

È spinta dal dottor Luigi Di Brutto, giovane allievo dell'anziano luminare modenese.

Anche lei non si è arresa.

Chiudono la fila l'industriale tedesco ribattezzato Jack Davidson e la moglie Beverly.

«Mi scusi, Colonnello... si può sapere cosa spera di trovare in questo accidente di posto?», la domanda viene dallo pseudo-Davidson, ormai spazientito dalla lunga scarpinata nella giungla.

«Mister Davidson...», il tono è ironico, «non la incuriosisce il fatto che quest'isola non sia riportata su nessuna carta nautica?».

«E perché dovrebbe? Abbiamo perso l'intera Europa... e l'Africa...».

«Vero, ma... le abbiamo perse perché i dettagli sono spesso trascurati.

E poi qui l'unico a potersi lamentare sarebbe il Maggiore Frentzen», le asciuga il sudore dal collo.

«Almeno lei se ne sta seduta».

«Ne farebbe volentieri a meno.

Ma parlavamo di dettagli...», Ilsa smuove un fascio di liane aggrovigliate tra loro.

«E questa... che roba è...?».

«È una colonna classica.

Forse un'eruzione vulcanica ha riportato alla luce qualcosa di importante, Mister Davidson».

«Senz'altro lo è, Colonnello. Organizzeremo una spedizione non appena arrivati in America».

«Prima, però, effettuerò un sopralluogo.

Il Maggiore Frentzen e il Dottor Di Brutto rimarranno con me.

Voi tre, invece, potete rientrare.

Mister Halpin, siete in grado di rifare il percorso al contrario?».

«Penso di sì».

«Anna, voglio vedere se riusciamo a trovare qualcosa per te.

La spingo io, Dottore».

«Non pensi che... quegli idioti...», la voce affaticata, incerta, il volto spettrale, «possano ripartire... senza di noi...?».

«Solo io conosco dove approdare, mia cara».

I tre entrano nell'antica struttura: sembra un tempio classico.

Ma niente tecnologia, come forse sperava la Von Thurn.

«Ilsa...».

«Anna... cosa c'è...?», si riavvicina.

«Aiutami...», ha una crisi.

La Von Thurn le asciuga pazientemente il collo, facendole sentire la sua presenza.

La Frentzen è alla fine.

«Devi stare calma, Anna. Continuare così e andare avanti».

«Mi sento strana... sto male...», sta perdendo i sensi.

«Dottore!», lo chiama come un soldato del corpo di guardia, imperiosa, quasi rabbiosa.

Il giovane medico apre subito la borsa: tutti i palliativi possibili sono messi in campo.

La Frentzen è semi-incosciente: forse è l'avvio dell'agonia fatale.

«Vieni fuori da lì!», un altro ordine, rivolto a una colonna.

È uno zombi, ma Ilsa non si scompone minimamente.

Orrori ed esperimenti estremi erano la normalità fino a poche settimane prima.

«Appartieni a questa antica civiltà?», non la sorprende che fossero molto avanti nelle scienze negromantiche.

La creatura annuisce blandamente.

«Che attività svolgevi in vita?».

«Io... guaritore...», la sapienza universale dei morti permette al cadavere vivente di superare la barriera linguistica.

«Allora è l'inferno che la manda, dottore...

Ho bisogno di sapere come curavate il tumore».

«Tumore... malattia rara... noi curare... con seme di albicocca... impossibile sopravvivere».

«Albicocche? Quello stupido frutto?

E dove le trovo, adesso?».

«Colonnello... ieri sera, prima della tempesta, le abbiamo consumate a cena...

Se non erano le ultime...».

«Ha ragione, dottore.

Torneremo subito indietro, insieme al suo collega.

Dottor Zom... avrà presto un altro tempio...».