



Tele(a)gonia
Come muore un puttanone
La Maldita
Il ritorno della Diablera
Willer si fa scudo
Fine di una Messalina
Jack sfida la vecchia puttana
Zothique: La prostituta di Oroth
Zothique: Assalto all'Oasi Maledetta
Troppo poco piombo
Hessa e Hanna nel Triangolo delle Bermude


TeLE(A)GONIA
di Salvatore Conte (2014)
12
marzo 2012.
EFFERATO OMICIDIO ALLE PORTE DI ROMA
POLITICO LOCALE BRUTALMENTE SGOZZATO
«Ha letto i giornali, signora Frascata?».
L'interrogatorio informale al quartiere Tuscolano di Roma era cominciato.
«Io non ne so niente. Ci frequentavamo da poco».
«Non mi sembra molto impressionata dalla sua perdita…».
«Io lo chiamavo Antonio: è sicuro che stiamo parlando della stessa persona?».
«Sappiamo che lei frequentava il deceduto, Antinoo Marcelletti, ma ciò non
esclude che lei frequentasse anche un Antonio».
«No, deve essere lui. Lo sapevo che aveva un nome strano».
«E non è turbata dalla sua morte?».
«In fondo mi rimane un buon ricordo di lui, no…?», e mostrò allusivamente
l'anello con diamante che portava alla mano.
«Quel dito potrebbe essere un ottimo movente e magari anche l'arma del
delitto…
Lui lo voleva indietro e lei si è lasciata prendere la mano...
per non farsi prendere il dito...».
«Non dica sciocchezze, Commissario.
Io non avevo nulla da restituire, ma solo da incassare…».
«Eh già… di bocca buona il povero Antinoo…
Le conviene collaborare, signora
Frascata. Non conosciamo ancora il movente del
delitto. Lei rischia di diventare scomoda a qualcuno».
«Cosa…? Io?!
Io conduco una vita riservata, Commissario».
«Riservata... o sbottonata…?».
La
Frascata, trafitta dal suo sguardo, allacciò il bottoncino critico della
sua avvolgente camicia bianca.
Sembrava un grosso cioccolatino da scartare e far sciogliere
in bocca.
«Commissario…», volutamente incerta, in attesa di essere aiutata.
«Commissario Telegono Ingravallo, Squadra Mobile».
«Ah sì… un altro nome strano…
Te-le-go-no…?! Mi scusi, ma non l'ho mai sentito prima», una
risatina futile accompagnò la sagace rivelazione.
«Infatti andava di moda una quarantina di secoli fa; mentre il suo, a quanto pare,
va di moda sempre...».
«Veramente non lo so... lei trova...?», ridacchiò ancora.
«Lei fa onore al suo nome... lei è l'incarnazione del suo nome...».
«E lei come sa tutte queste cose?».
«Le insegnano all'Accademia di Polizia...
Insomma, lei non crede che il suo nome, addosso a lei,
significhi qualcosa?».
«Sì, penso significhi che mi chiamo Anna».
«Capisco, signora Frascata.
Lei si tiene abbottonata soltanto con me…?», in risposta arrivò un sorrisetto di
lungo corso.
«Veniamo alle cose serie, dunque. Antinoo Marcelletti era impegnato nella
costituzione della nuova Città Metropolitana di Roma Capitale: gliene ha mai
parlato?».
«Non capisco di che cosa stia parlando».
«Glielo spiego subito: il Marcelletti appoggiava la linea politica secondo cui
la carica di Sindaco Metropolitano di Roma dovrebbe spettare - automaticamente -
al Sindaco di Roma-Campidoglio, il comune centrale di Roma, quello che oggi è il
Primo Municipio, il centro storico insomma.

Viceversa, un'altra fazione politica sostiene che il Super-Sindaco debba essere
eletto in seno a tutti i sindaci della vecchia provincia di Roma, in una sorta di conclave laico.
In quest'ultima ipotesi, potrebbe avvenire, ad esempio, che il Sindaco di
Frascati diventi Sindaco Metropolitano di Roma, un po' come se Roma stessa
divenisse parte della provincia di Frascati, ovvero della provincia del Tuscolo...».
«Ma che Tuscolo e Tuscolo, Commissario Telegono…
Perché non mi chiama, se ha qualcos'altro da raccontarmi…», e gli consegnò il
suo biglietto.
«Mi chiami lei, se le venisse in mente qualcosa di utile per le indagini, signora
Frascata...», e ricambiò il biglietto con il suo.
«Ma questa è una frase da telefilm…».
«Non le piacciono?».
«Non li vedo più, sono noiosi», e si umettò lievemente il labbro inferiore.
«Ha ragione. Arrivederla, signora Frascata.
Ah... la sa una cosa...?
Il suo cognome sarebbe perfetto per designare la "Città
dei Castelli".
Dovrebbe proporne l'istituzione formale.
Lei ne sarebbe una splendida insegna...».
«Commissario... la chiamo se mi venisse in mente qualcosa di utile per le sue
indagini...».
«Certamente... arrivederla a presto, signora Frascata».

12 aprile 2012.
COZZE FATALI PER AMMIRAGLIO A RIPOSO
UNA TRAGICA FATALITÀ?
«Lei ci ricasca per la seconda volta nel giro di un mese, signora Frascata.
E stavolta non può dirmi che lo frequentava da poco, perché stavolta di tratta
del suo ex-marito, l'Ammiraglio Ulisse Giannini».
«Infatti non lo frequentavo affatto. Era finita da molto tempo: perché allora mi
sarei divorziata? Per l'esattezza, saranno dieci anni che non lo vedevo».
«Beh ormai temo che non lo vedrà più».
«Poco male, non posso dire di aver versato lacrime amare su quella pagina di
giornale».
«Lei legge i giornali?».
«Si fa per dire, no?».
«Stiamo facendo analizzare le cozze assassine: l'Ammiraglio era ancora una
persona in vista e non mi torna che intorno a lei si sia prodotto il secondo
cadavere in appena un mese».
«Non intorno a me, Commissario. Io non ero né con il primo, né con il secondo:
intorno a me avevo altro».
«E chi per l'esattezza?».
«Non credo la riguardi».
«Per il momento, forse no. Ma si tenga a disposizione, signora Frascata.
E si guardi le spalle…».

12 maggio 2012.
L'interrogatorio, sempre più informale, faceva tappa dal Brigante Gasperone, ad
Ariccia.
«Allora, ci mettiamo insieme o no?», le sussurrò furtivo.
«Ma sei matto? Potrei essere tua madre…», ma fece penzolare fanatica le tette
sfatte,
malcelate nella profonda scollatura della camicetta, umettando al contempo il
labbro inferiore.
Nonostante i suoi 46 anni, non portati benissimo, i chili in
eccesso e l'aspetto consumato, rimaneva una donna che piaceva subito, facile,
così com'era; volgarmente detta "una sorca".
«Non sono matto… mi piaci... non puoi essermi madre... non sei tanto vecchia...
né io tanto giovane...».
«Ma col tuo stipendio... ce la faresti a mantenermi? Io amo le cose belle e
costose...».
Era cinica e a lui piaceva anche per questo: avevano superato rapidamente tutte
le ipocrisie del caso.

«Accendo un mutuo e ti sistemo dentro Villa Lusi,
con vista sul lago; andrà presto all'asta: ti piacerebbe?».
«Sì, ho capito quale. Sarebbe degna di me. E io mi accenderei per te».
Approfittò dell'apertura di credito per un bel bacino, con la
mano a muoversi sulla morbida pancetta della Frascata, non potendo né salire, né
scendere. Doveva arrestarsi, era in una fraschetta.
«Allora è fatta... intanto
continuiamo a vederci, no...? C'è sempre da interrogare...».
«Senza impegno, però.
Io non ho solo te, Commissario...».
Si era ritratta, senza temere di apparire sgradevole; voleva
fatti per spendersi davvero.
«Cambiamo discorso, signora Frascata...
Ti aggiorno su alcune strane coincidenze che ho rilevato nelle mie
indagini.
Ebbene, l'attuale Papa è tedesco è ha assunto il nome di Benedetto XVI».
La procace quarantaseienne lo inquadrava con occhi scettici.
«I Conti di Tuscolo assursero al trono papale nel 1012, 1.000 anni fa, con il
nome di Benedetto VIII. Otto è la metà di sedici. Mille è la metà di duemila.
La loro ascesa fu dovuta all'alleanza con il partito imperiale. L'Impero aveva
sede in Germania.
Benedetto VIII morì nel 1024, a lui succedette un altro Conte di Tuscolo e poi
ancora un altro - nel 1032 - con il nome di Benedetto IX.
Troppe coincidenze per essere vere coincidenze.
Oggi abbiamo un Papa tedesco che ha lo stesso nome del primo Conte di Tuscolo
assurto al trono papale perché filo-tedesco, e con il progressivo del nome pari al
doppio esatto di quello; inoltre, fra 12 anni, nel 2024, Benedetto XVI potrebbe pontificare
in un anno che recherà numero doppio rispetto a quello del suo lontano
predecessore Benedetto VIII, Papa nel 1012; oppure potrebbe dimettersi come
Benedetto IX, marcando un'altra clamorosa
coincidenza.
In teoria un Benedetto XVIII potrebbe pontificare nel 2064, anno che recherà numero
doppio rispetto a quello in cui si insediò Benedetto IX, Papa nel 1032».
«Non ho mai sentito una storia tanto noiosa…», commentò irritata la Frascata.
«Allora... ci mettiamo insieme o no?», divagò Ingravallo.
Rispose con una smorfia sibillina. Anche sfatta di cellulite, con quegli occhi
nocciola da Baci Perugina e la bocca da succhiatrice, Anna Frascata se la tirava parecchio.
«E
poi, vedi... non è strano che Roma e Frascati
abbiano gli stessi colori?».

«A Roma mi sembra prevalga il
grigio, veramente...».
«Ed è Roma che li ha presi da Frascati, non viceversa, come
sembrerebbe ovvio».
«A me non sembrerebbe ovvio. Le star più famose spesso copiano
dai pesci piccoli».
«Brava, Anna... è proprio così, infatti.
I colori sono quelli dell'oro e della porpora di Elissa,
sorella di Anna, fissati insieme, dalle sue stessi mani.
Ed è pure singolare che a Frascati
abbia dimora la sede più importante della Banca d'Italia, a Monte Compatri
quella dei Servizi Segreti, e così via...
Insomma il cielo degli uomini. Quanto a quello stellato, a
Monte Porzio Catone l'Osservatorio italiano, a Castel Gandolfo quello vaticano,
a Frascati l'Osservatorio europeo: un po' strano, non trovi? Tutto a Frascata,
tutto sul Porpora».
«Non so cosa ci sia tanto da
osservare, poi».
«Hai ragione, io la stella più luminosa posso perfino
sfiorarla...», e cercò di strappare un bacio.
«Il termine è quello giusto, Commissario: sfiorare, ma non
toccare... limitarsi a osservare...», ritraendosi dall'improvvisa sortita.
Ingravallo, vedendo entrare nella grotta l'agente Di Maggio,
cambiò registro: «Allora... neanche il vino dei Castelli vi scioglie la lingua,
signora Frascata?».
«Commissà… c'è un matto che se vò buttà de sotto, a du passi de qua… sta a parlà
de teremoti...».
«Ma che dici, Di Maggio?!
Andiamo. Venga anche lei, signora Frascata».
I tre giunsero tosto al ponte d'Ariccia.
«Ecco… giusto a voi due stavo a cercà…!», esordì il matto.
Ingravallo cercò di capire chi fossero i due, ma non lo
interruppe.
«Tutti sapemo com'è morto Antinoo, ma Ulisse 'o sapete com'è morto?
"A Ulisse la morte verrà dolce dal mare, lo coglierà indebolito da bella
vecchiaia": 'o sapete chi l'ha detto?
L'ha detto un tale cecato de nome Tiresia…
E mò ve dico 'n'artra cosa a voi due, che me sembrate madre e fijo, 'a madre
bonazza a zonzo cor ber fijo…».
«Visto...? Pure i matti lo
capiscono...», annotò
acida la madre d'Ingravallo, rivolta al figlio.
«Voi v'avete da mette insieme! Questo ve lo raccomanna Diana 'A Riccia, bella e
riccia come Circe bella de ciccia», chiosò lo svitato.
«Mica tanto matto...»,
sussurrò Ingravallo alla Frascata.

«Ma c'è stato er teremoto, 'o sapete?
Er
primo co' 'a Guera de Troia, e qui ce n'avemo una, bella grassa: ammazza...! Er
paganesimo bello temperato se annò a fà fotte.
Er secondo co' quer zozzone de Costantino. Dar paganesimo
patriarcale ar monoteismo misogino de rito cristiano.
E mò er terzo, er Sacrificio dell'Undici cor Nove, er
paganesimo occulto de rito ebbreo. Co' 'n pursante
so crollate du tori: quella de Costantino e quella de Pietro, quella de Yorke e
quella de Nova Yorke. Da sotto le du tori è uscito l'Euro, l'Eurotowere, 'a nova
tore.
C'hanno messo 600 anni pe' fa caming aute... ma alla fine se
so dichiarati...!
C'è stato er teremoto, ve
sto a dì...!».
Detto ciò, l'ubriaco barcollò e cadde nel vuoto.
D'altra parte, York fu provincia Romana, mentre oggi Roma è
provincia Newyorkese.
La storia è impeccabile.
«OH!! Ma è terribile…!», esclamò la Frascata, da pochi passi.
«Commissario... ma quanto è alto il ponte?
Non si è nemmeno sentito il botto!», osservò acutamente la donna, anche lei un
po' alticcia.
«È un ponte senza fondo, signora Frascata.
Di Maggio, lo vada a prendere... si faccia aiutare dai vigili...».
«Oh, che schifo... sarà ridotto una poltiglia!».
«Non più di noi, Anna», rispose sottovoce il Commissario.
Poco dopo, dal parapetto del ponte riemersero il matto e l'agente Di Maggio, il
primo sotto il braccio del secondo.
«Ma…?!», Anna non capiva.
«È un vecchio trucco circense, signora Frascata.
Il comune d'Ariccia pensa pure ai matti...».
E poi, sussurrando: «Allora... ci mettiamo insieme o no? Lo dice pure er matto…
Guarda che sennò me butto de sotto...».
E lei, spietata, alzò gli occhi al cielo, subordinando ogni impegno ai promessi
rogiti notarili.

11
giugno 2012, ore 8.16.
«Commissà… Commissà…! Hanno accoltellato la Frascata!», l'agente Di Maggio fece
irruzione nell'ufficio del Commissario Ingravallo.
«Hanno…
Hanno…!!
S'è fatta ammazzare!?», bianco all'istante.
«Pare de sì. La stanno a portà morta all'ospedale: è partita senza né battito né
respiro...».
«Ma… com'è possibile...?!».
«L'hanno trovata con un cortello nella schiena, ma prima de arendese deve avé
lottato…
Sul posto ce stanno i Carabinieri…».
«Incredibile... s'è fatta ammazzare…», e sprofondò nella poltrona.

11 giugno 2012, ore 17 circa.

«Ma ho già detto tutto ai Carabinieri, stamattina…!», obiettò la portinaia.
«Sia cortese… ci racconti quello che ha visto…».
La vecchia si voltò e iniziò faticosamente a salire le scale.
«Qui abitava l'assassino», disse indicando la porta con i sigilli, sita al primo
piano dello stabile.
«Arrunte Pallavicini, detto l'Etrusco. La vittima invece stava sur superattico.
Stava da sola, ma c'era 'n certo via-vai… Stavolta 'nvece s'è smossa lei e 'sta
cosa alla sora Anna nun ha portato mica bene…
Ma ce doveva avé sette spiriti come
li gatti, perché ha aperto la porta e gli è
scappata via su pe' le scale. Quel poraccio pe' finilla d'ammazzà s'è dovuto fa
artri du piani».
«Ma lei allora ha visto tutto?!».
«No, ho sentito gli strilli stamattina presto, io abito proprio sotto
quest'appartamento. Mi sono infilata la vestaglia e sono uscita sulla porta: ho
visto l'Etrusco che scendeva giù cor coltello in mano, la camicia sporca de
sangue! M'ha visto ed è scappato via».
«E lei allora è salita su a vedere…».
«Io finché nun se decidono ad aggiustà l'ascensore, su nun ce vado, pure se
ammazzano tutti gli inquilini, che poi - levato quel bravo ragazzo al terzo
piano, se chiama David, detto er Cabalista - nun sarebbe un soldo de danno…».
Il Commissario Telegono stava osservando le macchie di sangue
cerchiate col gesso sulle scale.
«Tanto per essere chiari, lei ci ha raccontato tutto quanto il fatto, però ha
visto solo l'Etrusco che scappava».
«E scusateme se è poco! Poi il fatto l'hanno ricostruito i colleghi vostri de
stamattina: so' poliziotti pure loro, in fonno in fonno, no?
C'era una macchia de sangue all'ingresso dell'appartamento e 'sta processione de
macchie fino al terzo piano dove lei stava tutta rannicchiata. Ma nun v'hanno
detto niente a voi?».
Intanto erano faticosamente arrivati al secondo piano.
Il Commissario si chinò su una larga chiazza di sangue rappreso, pure contornata
dal gesso dei Carabinieri.
Macchie più piccole proseguivano sulle scale.
«Basta così, signora. Molte grazie, proseguiamo da soli.
Che cosa nota, Di Maggio?».
«Dal primo al secondo piano le macchie sono piccole e rade, e molto vicine alla
ringhiera. Dal secondo al terzo sembra che abbiano sgozzato un vitello».
«Brillante.
E poi?».
«In effetti, se la Frascata è stata trovata con un coltello nella schiena, come
ha fatto la portinaia a vedere un coltello nelle mani dell'Etrusco?».
«Brillante.
C'è altro?».
«Le macchie di sangue sono perfettamente integre: l'Etrusco invece, nel
discendere le scale di corsa, avrebbe dovuto calpestarne almeno qualcuna».
«Perfetto».
«Passiamo all'ospedale, capo?».
«No, passiamo in fraschetta, ma prima si faccia mandare dai cugini copia del
referto medico, con la descrizione delle ferite».
11 giugno 2012, ore 20 circa.
«Rilegga».
«"Cinque ferite da taglio, di cui una letale. Tutte di direzione e profondità
diverse, una sull'avambraccio sinistro, superficiale, un'altra…"».
«Qui ha cercato di proteggersi. È riuscita a proteggersi», lo interruppe il
Commissario.
«"Un'altra sulla regione mammellare, le altre due…"».
«Questa è quella grave, quella della pozza al secondo piano; poi ha reagito, si
è ripresa, si è tamponata con le mani e si è trascinata fino al terzo».
«"Le altre due sulla regione scapolare. L'ultimo…"».
«Queste sono la seconda e terza ferita, quando si è voltata di spalle per
fuggire: forse una ancora all'interno dell'appartamento e l'altra sulle scale».
«"L'ultimo, il colpo letale, vibrato sul dorso, all'altezza dei reni"», l'agente
Di Maggio aveva concluso.
«Rileggiamo anche la descrizione dell'arma».
«"L'arma ritrovata infissa sul corpo della Frascata è un lungo coltello a lama
bitagliente non compatibile con le altre ferite, che sono state inferte con
un'arma a lama monotagliente. In queste ultime, infatti, si ha da una parte un
angolo acuto, corrispondente al taglio della lama, dall'altra uno arrotondato
corrispondente alla parte non tagliente"».
«Implicazioni. In lingua italiana».
«Anna Frascata è una donna navigata, ma ancora avvenente. Vive sola e di
professione fa la casalinga. Di conseguenza frequenta un'umanità maschile assai
varia, ma quasi sempre dietro lauto compenso. L'Arrunte forse le procacciava gli
amanti giusti. Ma qualcosa tra i due si rompe, forse il cliente si è lamentato
di lei, forse lei del cliente, forse comincia a girare anche la droga, sta di
fatto che scoppia una lite. L'Arrunte perde la testa e brandisce un coltello da
cucina di quelli con il taglio solo da un lato. Lei scappa su per le scale
anziché per strada, perché per le scale c'è qualcuno che la potrà difendere.
L'Etrusco la insegue e la ferisce, piccole tracce di sangue che salgono dal
primo al secondo piano. La raggiunge e le dà un bel colpo, non mortale, si badi
bene, ma che le fa perdere molto sangue, infatti sul pianerottolo del secondo
piano c'era una larga macchia. A questo punto il Pallavicini scappa
terrorizzato, dal secondo al primo piano c'è solo quella sottile linea di
macchioline e fortunosamente lui non ne calpesta nessuna. Lei è ancora viva, e
si trascina ferita fino al terzo piano dove c'è chi la può salvare: David
Sallusti, il Cabalista, magari tante volte respinto, ma sempre
innammoratissimo…».
«Lingua italiana, Di Maggio».
«Scusi, Commissà.
Sempre innamorato della bella vicina. Ma David Sallusti ha passato la notte
fuori e non è ancora rientrato. Stremata e frustrata, la Frascata crolla a terra
sul pianerottolo, ma fino a questo punto la vittima è più spaventata che colpita
a fondo.
Il colpo fatale, quello che la spedisce morta all'ospedale, arriva adesso:
mentre è riversa a terra, a faccia avanti, cercando di riorganizzare le idee,
rialzando speranzosa il capo, sopraggiunge fulmineo l’assassino e le assesta
spietatamente il colpo di grazia. Un colpo secco, diretto ai reni, a spezzarla
in due e a troncare la sua resistenza, visto che si ostinava a rialzare la
testa.
A questo punto la Frascata è stravolta dalla testa ai piedi: come morsa da un
cobra, quasi per forza d’inerzia, quasi a scaricare l’estrema rabbia, la vittima
annaspa ancora per un paio di gradini, poi viene sorpresa dal grande freddo, si
sente inchiodare a terra; ha appena il tempo di capire che è finita, si
rattrappisce su sé stessa, cercando di organizzare le ultime forze, e così viene
ritrovata.
L’assassino la osserva impassibile: il lavoro è concluso».
«E chi sarebbe l'assassino?».
«Uno dei piani alti».
«Brillante.
Ma incompiuto.
Ho sentito lei, ora sentiamo er Cecato de Frascati».
11/12 giugno 2012, ore 24/0 circa.
Nuovo interrogatorio informale al Grappolo d'Oro di Frascati: all'interno del
grottino - condotto dall'ostessa Isabella, occhi di fuoco e tette bene in vista
- veniva ascoltato Omero, il vecchio cecato.
«Chi è l'assassino, Omero?».
«Quell'Arrunte è 'n infame, ma nun è Macbeth. Ce vole 'na grandezza pure ner
male. 'O ritroveranno domani, morto pe' le fratte de Velletri.
Nun aveva... non aveva previsto tutto quel sangue e la difficoltà di uccidere un
corpo solido e in buona salute come quello di Anna Frascata. Lascia il lavoro a
metà, la donna ferita non troppo gravemente sulle scale e fugge con il coltello
in mano.
Allora il Cinese scende con un coltello a lama doppia, preso di fretta dalla sua
cucina ben fornita, e finisce la Frascata con una coltellata selvaggia sul
pianerottolo dove è distesa ferita. La guarda un'ultima volta, ormai soddisfatto
di averla stesa per sempre e raggomitolata su sé stessa, e se ne risale ai suoi
piani».
«Il Cinese?!».
«Lui».
«Di Maggio, passi la soffiata ai cugini.
Perché?».
«Un raptus. Quel corpo ancora solido, quella donna ostinata, prepotente,
maliziosa, ambigua, viscerale. A lui non l'aveva mai data. I cinesi non le
piacevano. Lui non sopportava più di vederla nel suo stesso palazzo. Aveva
pagato Arrunte per farla fuori, o quantomeno per darle una bella lezione, ed era
in ansia da risultato. Ha sentito strillare, la mignottona era sfuggita
all'agguato, era ferita, ma forse non abbastanza per crepare. A questo punto
doveva decidere. Allora è scattato il raptus: il lavoro l'avrebbe finito lui. E
ha colpito una sola volta, ma per ammazzarla davvero».
«E io che credevo di aver trovato la mia Penelope...».
«Un mignottone non è una Penelope.
Dimenticala.
È stata colpita a morte.
Tu sei Telegono, ma ti sembrano questi i tempi di Italo?
No.
Non un nuovo figlio. Piuttosto verrà la morte. Non qui, dimora dei supremi, ma
altrove ovunque.
Penelope ha mancato l'appuntamento. Non vogliono che tu la incontri.
Ma se può consolarti, la Nuova Torre non arriverà all'età di Anna. Entro il
secolo saranno fermati.
Detto questo, addio, Telegono infelice, non chiedermi altro, perché nun ce vedo
bene».
«Un'ultima cosa, Omero: che medicina per dimenticarla?».
«La Fides: servi gli Dei e sarai servito».
Era ormai notte fonda quando Telegono Ingravallo rientrò a Roma. Ma non
dimenticò di passare per l'ospedale. E ci trovò anche David, il Cabalista. Anche
lui non se n'era dimenticato.
Lettore, se vuoi conoscere l'attrice che ha
ispirato questo racconto, clicca qui.
Il racconto è un tributo alla sua bellezza,
carisma, personalità.
Gli aspetti negativi sono introdotti per mere
esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico.
Il ruolo della protagonista va assimilato a
quello dell'attrice rispetto a un film.
La devozione alla persona in questione, da
parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta.


COME MUORE UN PUTTANONE
di Salvatore Conte (2014-2022)

È una cessa, anzi ormai una vecchia cessa.
Una bellezza pesante, marcata,
torbida, eccessiva.

Di uomini se ne è mangiati parecchi, ma adesso è toccato a lei, è lei a essere
mangiata, da un tumore che si è allargato inesorabile.
Ormai è solo una questione di
tempo.
Chana Gorman non toccherà i 60, al
prossimo compleanno non c'arriva.
Si prepara al grande salto cercando di tirare avanti il più possibile,
semplicemente facendo finta di niente.
Sorretta da un fisico possente, si
illude di andare per le lunghe, smentendo i medici; e sta già preparando la
grande festa del 60°.
Ma a me non mi frega. So che ne ha
per poco. E che quando vedrà la morte in faccia, anche lei avrà paura.
Se ancora si regge in piedi è perché
non è arrivato al pancreas. Ma ci arriverà. E quello sarà il colpo di
grazia.
I medici non le hanno nascosto
nulla. Lei sa tutto nei minimi particolari. Tuttavia non può far altro che
aspettare e augurarsi che l'agonia sia lunga. Una come lei lotta fino
all'ultimo, non si lascia andare, ha sempre rabbia da scaricare su qualcuno o
qualcosa.
Ora che non le manca molto, mi fa
nostalgia pensarci. È da un po' che
non la incrocio più, anche se mi informo sempre su quello che combina.

La ricontatto per proporle un
affare. Ha sempre bisogno di soldi, è probabile che - pur controvoglia - sia costretta ad
accettare.
Non è più sgargiante come qualche anno fa, ma a parte il passo un po' goffo e un
certo pallore funesto che le traspare sul volto, riesce a mascherare ancora
abbastanza bene il mostro che le sta divorando le budella.
Tuttavia ammette lei stessa di avere qualche problema di salute piuttosto serio.
In effetti si tocca ripetutamente l'addome, anche per farsi compatire.
Le solite astuzie della vecchia
cessa.
So bene di cosa si tratti, ma fingo
di stupirmi e di rimanere in ansia.
Nonostante
il suo caratteraccio, vorrei poterla aiutare; ma so che c'è poco da fare, e
lo sa anche
lei.
Dopo il drink, comincio a entrare in argomento.
«Mi serve un bravo autista, per un colpetto facile-facile».
«Ho qualche acciacco, non sono più
quella di un tempo».
«Rimani la numero uno nel giro…».
Mi guarda diffidente.
«Qual è la mia parte?».
«Un terzo della torta».
«E la
torta... quanto è grande?».
«Abbastanza da mangiarci, ma non da
rimanerci strozzati…
Non daremo troppo nell’occhio,
insomma».
«Ci sto. Ho bisogno di soldi», e si
tocca per l’ennesima volta l'addome.
Vuole che le chieda perché.
«Che hai Vuoi dirmelo?».
«Ho un tumore. Mi sta uccidendo.
Oggi sto davvero male. Ma
sarò pronta per il colpo».
«Non si può fare niente?».
«E che cosa?
Tu lo sai che cosa?
Allungo il brodo ormai da parecchio.
E lo farò ancora. Voglio andare avanti,
non ti preoccupare.
Non mi ammazzo.
E non mi faccio ammazzare».
«Quanto tempo ti hanno dato?».
«Troppo poco, ma vedrò di allungarmi,
non ti preoccupare».
«Devi dirmi per quanto ne hai,
Chana. Questa notizia non me l'aspettavo», mentendo spudoratamente.
«Non dirmi che ti interesso
ancora...».
«Sei sempre una gran donna».
«Non lo so con esattezza. Ma voglio
arrivare al mio 60°ompleanno, anche con le flebo».
«Se non erro, mancano sei mesi...»,
sempre stata ambiziosa la vecchia Chana.
«E allora?», mi guarda con aria di
sfida.
«Se tu m'avessi chiamato...».
«Che avresti fatto?».
«Però voglio esserci quando mancherà
poco».
«Manca già poco, te l'ho detto...
Chi altro c'è nell'affare?».
«Emiliano».
«Perché hai pensato a me?».
«Perché sai guidare e hai un aspetto
rassicurante».
«Tu cerchi qualcosa, vero, Carlo?»,
mi inquisisce peggio di un sostituto procuratore.
«Dovresti sapere che sono un
professionista e che non mischio mai gli affari con
questioni personali», bisogna sempre negare.
«Ci sto solo perché ho bisogno di
soldi», fredda fino all'ultimo.
«Sei l'autista della banda, il resto
non conta».
Il muro rimane alto e non ci sarà
più tempo per provare a sgretolarlo.

Di fronte a noi abbiamo la filiale
di Ostia del Banco Laziale.
La Gorman è
una super cessa anche oggi: camicetta a fiori a maniche corte - anzi senza
maniche, che le lascia le braccia grasse bene in vista - sbottonata da vecchia
troia;
tanto per non dare troppo nell'occhio.
Lei rimane in macchina, io ed
Emiliano entriamo.
Va tutto liscio fino all’uscita.
Rapine ce ne sono tutti i giorni. È
routine per gli impiegati. E conviene pure alla banca, che esagera nel
denunciare l’ammanco e fa la cresta sull’assicurazione. L’assicurazione, a sua
volta, risarcisce con soldi sporchi, rimettendoli in circolo. Senza contare,
poi, il business delle guardie giurate.
Insomma, alla fine, è un gioco che conviene a tutti.
Anche se non tutti lo sanno, purtroppo.
C’è sempre chi ignora le regole.
Come la guardia che ha riconosciuto
la Gorman da qualche foto segnaletica rimastagli impressa nel cervello: la
vecchia cessa è inconfondibile.
Il poliziotto si avvicina, sta per
estrarre.
BANG
Chana lo anticipa, ha una pistola
nella borsetta.
Lo fa secco.
Ma ce n’è un altro: i poliziotti
sono sempre in due.
BANG
Chana non sbaglia un colpo,
becca anche il secondo.
BANG
Ma questo non è ancora secco, e le
spara contro da terra.

BANG
Sono io a saldargli il conto.
È andata.
Chana parte bruciando le gomme.
Fuggiamo verso sud.
Ci aspetta una roulotte, in un
campeggio vicino ad Anzio.
«Quei bastardi volevano fregarci…
Brava Chana!», Emiliano si
congratula; ha preso posto dietro, con il sacco dei soldi.
La Gorman, però, non risponde. E non lo
guarda. E non guarda nemmeno me.
Continua a guidare con gli occhi
fissi sul parabrezza.
C’è qualcosa che non mi quadra.
Ancora un paio di curve a tutta
velocità, e poi, all’improvviso, accosta, fermandosi in una
piazzola sterrata.
«Uhhh...»,
Chana si china sul volante, fino a toccarlo con la fronte.
«Che cazzo ti succede?», forse è il
tumore che le presenta il conto.
«Quel bastardo...
m’ha preso...».
«Che cosa?!».
La tiro su, rimettendola con la
schiena contro il sedile, e allungo la testa verso la portiera...
Altro che tumore, s’è presa una
pallottola nel fianco. Il proiettile del poliziotto ha bucato la carrozzeria
dell'auto e pure la sua.
«È grave?»,
Emiliano sporge la testa fra i due sedili.
È allibito. Anche lui ha
un debole per Chana.
Non rispondo alla domanda.
«E adesso che si fa...?», vuole
saperlo da me.
«Fa un male cane...
ohhh...».
«Ti portiamo da un
dottore... sta' calma...», la tranquillizzo,
asciugandole il sudore con un fazzoletto.
«Carlo… guida tu… brucia… ahhh…
brucia da impazzire… uhhh…
Con quello... che sto passando...
ohhh... ci mancava pure questa... ahhh... non voglio morire... aiutami...»,
supplica, disperata.
«Guido io, sta' tranquilla»,
mi scambio di posto con lei.
«Ohhh... fa'
piano...», lo scambio è doloroso, la pallottola
le ha scavato la pancia; non è uscita, ma ha fatto molta strada, da un
fianco all'altro, anticipando il tumore.
Chana è rimasta uccisa, dico a me
stesso, malinconicamente.
La vecchia cessa non morirà di
cancro.
E adesso a lei chi glielo spiega?
Speriamo lo capisca da sola e non faccia tante storie.
«Fa un male cane… ma io... ahhh… non voglio crepare... prima del tempo...»,
figuriamoci... credeva pure di
gestire il tumore...
«Che cazzo vuol dire?», Emiliano è
all'oscuro di tutto.
Glielo dico.
«Non lo sai che sta crepando di
cancro?».
«Cosa? Chana è condannata?
E quanto le rimane?».
«È alla fine.
Chi lo direbbe, vero? La super
cessa maschera bene fino all'ultimo...».
«Dove ce l'ha?».
«Nell'intestino, e sta per arrivare al pancreas».
«Come lo sai... ahhh... il
pancreas... no... uhhh... è fulminante... non avrei scampo...».
Ormai non c'è più tempo per le
bugie, Chana. Meglio se ti togli il pensiero.
«E tu l'hai coinvolta in un colpo? Andava curata...».
«Non si può fare niente. Solo
aspettare».
«E adesso?».
Riparto con una sgommata.

La Gorman si lamenta mentre spingo
sull’acceleratore.
«Uhhh... Carlo... mi sento morire... ahhh...
fermati...», la vecchia cessa stacca una
mano dalla pancia e me l’allunga sul ginocchio.
Entro in una stradina laterale e
mi
fermo all’ombra degli alberi.
«Cambia le targhe, intanto».
Rimanendo al mio posto, le asciugo il sudore
che le cola lungo il
collo e finisce nel petto....
La super cessa si agita come
una biscia.
«Carlo... lo sapevo... di avere... poco
tempo... ohhh... ma non... così poco... ahhh...».
«Chana, che vuoi
fare?».
«Non voglio... crepare...»,
raccoglie le forze. «Carlo... portami alla roulotte... ahhh...
provo... a stabilizzarmi... ohhh...», ha ancora birra.
Metto in moto e riparto.
Anzio è vicina: pur evitando la
litoranea, siamo quasi arrivati.
È un campeggio in pineta a pochi
chilometri dal mare.
«Eccoci nel nostro nido, amore…», la
sollevo di peso dal sedile, simulando un atto galante.
Entrati nella roulotte,
chiudiamo bene tutte le tendine e accendiamo la tv.
«Contali».
Mentre mi occupo di lei, Emiliano si
occupa di loro.
L'ho messa comoda sul letto a due piazze:
stravaccata a gambe aperte, una
mano sulla pancia, l’altra larga, schiena sostenuta dai cuscini, quasi fosse
rimasta in macchina. E le ho imbottito la camicia di ovatta, anche se i problemi
sono sepolti dentro...
La super cessa, da parte sua, è stata di parola: ha
cercato di stabilizzarsi, e in qualche modo c'è riuscita.
«Non molli mai, vero, Chana?».
«Ho il fisico.... Carlo... il fisico
risponde... hanno detto... poche settimane... ma non mi bastano... ohhh...
voglio rientrare in gioco... se il pancreas... rimane pulito... uhhh... e se...
mi assesto...», si tiene la mano sulla pancia, come a
controllare le mosse fatali della pallottola che la sta uccidendo.
«Ci sono troppi "se" nel tuo piano,
bellezza.
In ogni caso, c'è un posto anche per me
nel tuo gioco?».
Le asciugo il sudore, dalla fronte e
dal collo, e la mano scivola sempre più giù, nella profonda scollatura...
«È per questo… che mi hai cercato… vero…
ohhh...».
Beccato.
«Per questo, sì. Non dirmi che non
l'avevi capito...».
«Cristo, Carlo!», Emiliano si
comporta come se Chana non esistesse. «Lo sai quanti sono?
Sono sette milioni e mezzo!».
«Ecco perché ci hai messo tanto...».
Sono decisamente troppi.
Mi aspettavo un colpetto da
due-trecentomila, al massimo da un milioncino, sono questi i numeri di una filiale.
Emiliano sprizza gioia da tutti i
pori, ma qui la cosa rischia di finir male.
La filiale aveva in custodia i soldi
di qualche pesce grosso.
E di chi, se non della Banda?
La conferma arriva dal televideo.
[ 21.55 ] ULTIM’ORA
Rapina di Ostia: clamorosi
sviluppi
Il direttore della banca
rapinata questo pomeriggio si è suicidato con un colpo di pistola alla testa
nella sua abitazione romana. Lascia la moglie e tre figli.
Quasi nello stesso momento è stato sequestrato un top manager del Banco Laziale,
responsabile della divisione Roma Ovest.
Grazie alle telecamere, gli
inquirenti hanno appurato la presenza di una donna all'interno del commando
criminale. Finora infruttuose le battute della polizia.
|
L'Organizzazione si è mossa
subito.
Stanno pensando a una talpa, uno
della rete che ha fatto il furbo, commissionando una rapina troppo tempestiva.
E hanno sequestrato il capo
divisione per farlo cantare. L’altro non ha retto alle minacce.
Non credono a una semplice
coincidenza, quale in effetti è stata.
Né potrebbero mai credere al mio
irragionevole interesse per una cessa malata di cancro e giunta alla fine.
[ 23.32 ] ULTIM’ORA
Rapina di Ostia: morto il
manager sequestrato
È stato ritrovato morto il manager del Banco
Laziale sequestrato in serata.
Desta molta preoccupazione la
scia di sangue che ha fatto seguito alla rapina di questo pomeriggio nella filiale di Ostia
del noto istituto bancario, costata la vita a due agenti di polizia.
Ancora senza esito le
ricerche dei rapinatori.
|

Il
manager non ha cantato e lo hanno fatto fuori.
L'Organizzazione è incazzata nera.
Sembra la trama di un vecchio film
girato dall’ultimo indipendente di Hollywood: Don Siegel, il Leone americano.
Anch’io sono un indipendente, in
fondo. L’unica differenza sta nel fatto che la mia Nadine regge meglio il
piombo.
E che io non l'ho lasciata crepare.
Vado nel bagnetto a scaricarmi.
Bussano.
«Il foglio d'ingresso, signori...», da fuori arriva una voce.
Tutto si svolge in pochi attimi.
FLOP
FLOP
«NO!», è la voce di Chana!
FLOP
FLOP
Apro la porta del bagnetto con i
pantaloni ancora calati...
BANG
Cazzo, è l'Americano!
Barcolla, ma non stramazza.
E cerca di reagire...
BANG
Devo rincarare la dose.
Adesso ha due palle addosso.
E stramazza.
Non sorride più, Johnny l'Americano...
Come ha fatto Emiliano a non riconoscerlo!?
Quell'imbecille c'è
cascato, gli ha aperto e ha firmato la sua condanna a morte.
La sua e quella di Chana...
C'hanno già trovato.
Due pallottole sono arrivate a lui.
Mentre le altre due - ancor prima di
avere il coraggio
di guardare - so bene a chi siano andate...
Istintivamente si è fatta scudo con
un cuscino, come fosse una corazza: gli occhi
vitrei al cielo non si accorgono della mia presenza,
anche se i rantoli non sono finiti.
Ci sono piume d'oca sparse dappertutto.
Ho tempo solo per un ultimo
sguardo alla super cessa.
La mia pistola ha fatto rumore e
devo sloggiare di corsa.
Addio, Chana. Anche stavolta è
andata male.

[ 00.47 ] ULTIM’ORA
Rapina di Ostia: sparatoria
in un camping
Regolamento di conti nei pressi di
Anzio, sul litorale romano, nel corso della quale ha perso la vita uno dei tre
rapinatori ricercati per il colpo alla filiale del Banco Laziale. Anche la donna del commando,
identificata in Chana Gorman - pregiudicata cinquantatreenne, malata
terminale di cancro - è stata colpita a morte e ha raggiunto in fin di vita
l'ospedale.
Rinvenuta per intero la refurtiva, stimata in poco più di
100.000 euro. Ancora latitante il terzo componente del commando.
|
Mi sembra un po' incompleta.
Ma la Banda, si sa, arriva dappertutto.
Non hanno infierito su Chana. La
cessa è rispettata, non è lei che volevano.
Meglio così.
Non si sa mai. La voglia di
vivere è una droga molto potente, ti trasforma in zombi ancor prima di morire
del tutto. Quello che poi l'aspetta, lo sa.
Insomma hanno speso altri 100.000
solo per la messa in scena.
Poi ci sono da contare le
mazzette a giudici, servizi e stampa, per tenere tutti buoni.
Quindi saranno incazzati neri.
Eppure è
stata tutta una coincidenza.
«Questo evitiamo di dirglielo,
dottore».
Tutto è avvenuto, infatti, solo per far colpo su
un puttanone, che un brutto tumore passato al pancreas avrebbe ucciso in pochi
giorni.
Ma adesso l'avrebbe saputo. E non
avrebbe rinunciato al viaggio della disperazione in qualche clinica di lusso, per
farsi svuotare da tutto quello schifo marcio: budella, pancreas e annessi.
Qualche finanziatore - una così,
che ha ancora voglia di soffrire - l'avrebbe trovato di sicuro.
Lettore, se vuoi conoscere l'attrice che ha
ispirato questo racconto, clicca
qui.
Il racconto è un tributo alla sua bellezza,
carisma, personalità.
Gli aspetti negativi sono introdotti per mere
esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico.
Il ruolo della protagonista va assimilato a
quello dell'attrice rispetto a un film.
La devozione alla persona in questione, da
parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta.


LA MALDITA
di Salvatore Conte (2016-2018)



Roberta
Ramos si è sollazzata abbastanza, adesso è pronta per un'altra scorribanda.
Il potere che ha
raggiunto non le basta; vuole sempre di più.
Possente, selvaggia,
diabolica, è considerata indistruttibile.
La chiamano la Maldita.
Nessuno è mai riuscito
a sorprenderla, non ha mai incassato piombo, e se anche accadesse, tutti pensano
che sarebbe in grado di gestirlo senza troppi problemi.
C'è chi la considera
un bisonte sacro, vista la forza devastante che la sua immagine incarna.
Di questo passo
potrebbe mettere le mani sull'intero Messico.
E ha già un piano per
conquistare Novasol.
Roberta sta usando
Lampez per farsi strada, ma prima o poi si libererà anche di lui, prima che lui
possa liberarsi di lei.
I due finiranno per
scannarsi a vicenda.
Intanto, però, la
Ramos si gode i suoi successi.
Soltanto il misterioso
Chato ha avuto il coraggio di impensierirla.
Lei e Lampez hanno
messo una grossa taglia sulla testa di quel guastafeste. Due feroci delinquenti
che mettono una taglia su un cittadino onesto: succede anche questo in Messico.
E alla fine il
miraggio dell'oro paga: el Chato è un tale Ubaldo Argentiras, un pezzente
idealista che frequenta di nascosto niente meno che la bella figlia del
Governatore di Muñoza, il nome è Isidora.
Non appena la
Ramos
apprende tutto ciò, scatta la trappola: è lei stessa che durante un convegno
d'amore tra i due, tramortisce Ubaldo e fa possedere Isidora da un toro imbufalito,
che la uccide con il suo micidiale fallo, lungo quanto un bastone da passeggio.
Il padre della ragazza
crede che a ucciderla sia stato il suo amante, e così lo tortura a morte.
Ma anche in fin di vita, Ubaldo professa la sua innocenza; e
allora il suo aguzzino comincia a capire il proprio errore; vaga impazzito
nel deserto e finisce per incontrare proprio Lampez e Roberta.


Con la presa di Muñoza, Lampez e
Roberta sono all'apice della loro potenza.
Il piano adesso è
quello di allargare l'Impero.
Ma non tutto fila per il verso giusto.





È proprio una muchacha, Estella, che fa una
sconvolgente rivelazione alla diabolica Ramos: «In un punto
remoto della Sierra... è custodito un tesoro, Roberta. Oltre il deserto, a
miglia e miglia da qui. È il tesoro che el Rajo accumulò in anni e anni di
grassazioni, di rapine».
Estella è stata la donna del bandito, e non ci
mette molto a convincere l'avida Ramos.

Il presagio di Lampez si rivela tuttaltro che infondato.
La spedizione viene bersagliata dai guai: mancanza d'acqua,
clima rovente, misteriose sparizioni di alcuni uomini rimasti isolati dal
gruppo, malori, sabotaggi e funeste apparizioni di avvoltoi e spettri.
Non manca davvero nulla. E il peggio deve ancora arrivare.


In mezzo a questi tragici sospetti, gli incidenti si
susseguono, falcidiando gli uomini di Lampez e Roberta. Serpenti velenosi, belve
feroci, scorpioni: sembra che tutti gli animali del deserto si siano uniti contro
un solo nemico.
I feriti vengono abbandonati al loro destino, gli ultimi
superstiti si ammazzano tra loro per accaparrarsi la poca acqua disponibile. La
banda di Lampez e Roberta, il loro esercito personale, è ormai polvere. Polvere
nel deserto.
La stessa Ramos è ormai impazzita dalla rabbia e dalla paura.
Sa di aver fallito, di essere finita, ma non vuole ammetterlo. Si stringerà
intorno alla sua colt per scacciare i fantasmi che la opprimono.
La massiccia bonona è fottuta, ma conserva un briciolo di lucidità. È
la più dura a crepare.



Ubaldo e Isidora, e i tanti morti senza pace, le vittime
invendicate della banda di Lampez e Roberta, reclamano giustizia.
Li hanno attirati qui sotto le spoglie di Luis ed Estella, con
il miraggio di un tesoro inesistente...
E ora Lampez e Roberta devono pagare!
Già si predispongono a scannarsi reciprocamente, scambiandosi
le fatali accuse, nel disperato tentativo di alleggerire la propria posizione di
fronte al consesso dei morti.

L'alito della morte soffia su Roberta Ramos!
È venuto il suo turno!
La maledizione dei morti la condanna!
Un freddo gelido la penetra in corpo da capo a piedi e le annuncia la
fine!
La fine di tutte le sue ambizioni e di lei stessa, la potente
Ramos!
Ora anche Roberta ha paura! La massiccia trentenne non vuole crepare!









La Maldita
si ostina a provarci, ma ha riportato una profonda lesione all'utero, e non può andare molto lontano.
Un bisonte l'ha incornata
con qualcosa di ancora peggiore delle stesse corna.
Non è lungo quanto quello - proverbiale - del toro, ma poco ci
manca. Se ne ricavano perfino bastoni da passeggio di quasi un metro.
È letteralmente in grado di finire in bocca, rimanendo
dentro.

Ma Roberta si tiene in vita con il miraggio
della salvezza. Il tesoro non le interessa più, il suo tesoro è diventato
l'ultimo pezzo di pelle che si ritrova addosso.
Anche gli spettri hanno smesso di tormentarla, la vendetta è ormai
consumata.
Nella sua follia, però, la Ramos insegue ancora una via di
scampo.
«I fantasmi... non possono spararmi... e Lampez... è crepato...
posso farcela...».
Striscia al riparo di una roccia e nel suo disperato delirio si
butta sabbia nella vagina, cercando di tamponare l'emorragia, ignorando però che
la ferita mortale è interna.
È sola, farfuglia fra sé,
schiumando rabbia.
«Quello stupido fantasma... pensava
di uccidermi... ma il bisonte... non ce l'ha come il toro...
l'ho sentito... ce l'ha bestiale anche lui... ma non sono ancora crepata... nessuno può
fermare Roberta Ramos... ricomincerò
tutto da capo... con un'altra banda... un altro socio...».
La folle
pistolera, infilzata dal fallo del bisonte fin quasi in
bocca, e fiaccata dal deserto e le infernali tribolazioni, è ormai
in fin di vita, ma - delirando - non sembra rendersene
conto.
La
Maldita si aggrappa al fisico, mantenendo in vita
l'illusione, meramente fittizia, di raggiungere un villaggio.
«Non
finirà così... nessuno può fermarmi... quel cane è crepato... io non farò la
stessa fine...», Roberta ripete il suo mantra preferito, quasi fosse una
preghiera rivolta al demonio. Vuole ottenere una via di scampo. Insiste fino
all'ultimo.
E il
diavolo sembra darle ragione, perché all'orizzonte si intravede una nuvola di
polvere.
Se non è
un altro miraggio, se non è un altro spettro, presto ci saranno visite.
Né l'uno,
né l'altro, infatti, ma un disertore in carne e ossa. Uno a cui non va a genio di crepare
per le guerre degli altri.
L'intesa
è immediata, l'apostolo del demonio si dà da fare.
Alla
Ramos basta poco per mantenersi in vita: l'acqua le restituisce più di una
speranza.
«Insieme
faremo grandi cose... ho molto oro da parte... tireremo su una banda... voglio
tornare ad ammazzare... ho sete di sangue... voglio tutto il Messico
stavolta...», mormora eccitata con il sangue che le cola
dalla fica come avesse il mestruo e la bava alla bocca, vogliosa di salvarsi
a tutti i costi.
Ma non riesce più a opporsi al destino, si fa prendere
dalla disperazione.
«Ho
paura... non voglio crepare...
chiama uno stregone... presto...», avvelenata dal panico, con il tipico
cambio d'umore di un moribondo.
«Chiamo
subito
lo stregone.
Il
Messico sarà tutto nostro, potente Maldita...».
{Amen...
ma adesso sbrigati...}, farfuglia con la lingua arricciata sotto il palato.
Bocca spalancata e occhi vitrei, sventrata,
incornata dal dio, conosciuto il bastone divino, insegue il miraggio della salvezza.
Lettore, se vuoi conoscere l'attrice che ha
ispirato questo racconto, clicca
qui.
Il racconto è un tributo alla sua bellezza,
carisma, personalità.
Gli aspetti negativi sono introdotti per mere
esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico.
Il ruolo della protagonista va assimilato a
quello dell'attrice rispetto a un film.
La devozione alla persona in questione, da
parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta.


IL RITORNO DELLA DIABLERA
di Salvatore Conte (2011-2018)
È
l’anno 1882.
Il cadavere del notaio John Walker, con studio a Phoenix, in Arizona, viene
ritrovato orribilmente mutilato del cuore accanto a un idoletto azteco
raffigurante il Dio Quetzalcoatl, nella sacra forma del Serpente Piumato.
Alcuni testimoni affermano di aver visto allontanarsi dal luogo del delitto una
donna dai capelli bruni.
L’orribile omicidio scatena un putiferio e i cittadini di Phoenix si organizzano
per una spedizione punitiva contro i villaggi indios al confine con il Messico.
Lo Sceriffo Jeff Ferguson cerca di riportare la calma nella sua
città e intanto sviluppa un’indagine fra gli esponenti eruditi e gli ambienti
esoterici della comunità al fine di formulare ipotesi sul movente e la matrice
ideologica del delitto.
Attestazioni malevoli indirizzano Ferguson verso un giovane indio, di nome
Calixto, ritenuto esponente di una setta azteca votata al Dio Quetzalcoatl.
Interrogato dallo Sceriffo, il giovane nega ogni responsabilità e spiega che la
volontà di Quetzalcoatl, il divino Serpente Piumato, è contraria ai sacrifici
umani, che sono invece associati ad altre divinità azteche; in particolare, la
piccola comunità di fedeli da lui guidata, ha messo al bando il culto del Dio
Tezcatlipoca, istigatore di sacrifici umani e degenerato fratello di
Quetzalcoatl.
Calixto si impegna ad aiutare lo Sceriffo nelle ricerche degli autori del
delitto commesso a Phoenix, ma intanto giunge notizia che anche in Messico sono
stati commessi efferati delitti simili a questo, e Ferguson decide di allargare
la sua indagine oltre i confini dello Stato, sostenendo di averne il diritto in
quanto il delitto Walker è avvenuto sotto la sua giurisdizione.
Calixto fornisce allo Sceriffo Ferguson un riferimento utile alle sue indagini:
a Hermosillo, in Messico, potrà incontrare un suo amico, un caballero messicano
di nome Pablo Fernandez, simpatizzante del culto azteco di Quetzalcoatl, il
quale - a sua volta - è in contatto con una sacerdotessa azteca di nome Mitla,
detta la Diablera, attiva nella regione della Sierra Madre Occidentale.
Calixto aggiunge che - secondo notizie da lui ricevute - un nutrito gruppo di
indios sta provvedendo al restauro di un buon numero di templi aztechi in tutto
il Messico settentrionale.
Lo Sceriffo Ferguson lascia la responsabilità dell’ufficio al suo Vice più
anziano e insieme ad alcuni volontari si dirige verso sud, in direzione del
confine con il Messico.
Nei pressi di Tucson, il gruppo al comando dello Sceriffo Ferguson viene
raggiunto da una coppia di cavalieri, composta da un uomo che porta il
distintivo della nota Agenzia Pinkerton e da una donna ben matura, ma ancora
avvenente.
La donna è
Chana Dobbs, una ricca proprietaria terriera che imbraccia con
disinvoltura il winchester, la quale esibisce a Ferguson un documento
che la incarica di rappresentare gli interessi della famiglia Walker nelle
indagini sull’omicidio del loro congiunto, ovunque siano svolte.
L’uomo è Doug Wilkinson, Agente speciale dell’Agenzia Pinkerton, assunto dalla
Dobbs per farsi coadiuvare nel proprio incarico.
Oltrepassato il confine con il Messico, la spedizione punta su Hermosillo.
Contattato Pablo Fernandez, e grazie alle informazioni da questi ricevute, lo
Sceriffo Ferguson è in grado di delineare uno scenario sempre più preciso ed
inquietante: in undici diverse località messicane, compresa Hermosillo stessa,
sono avvenuti altrettanti orrendi omicidi rituali, con le vittime mutilate del
cuore e una donna dal lungo mantello scuro avvistata in maniera ricorrente sul
luogo del delitto, oltre alla circostanza della costante presenza di idoletti
del Dio Quetzalcoatl rinvenuti accanto ai corpi straziati delle vittime, tutte
di sesso maschile.
Per il momento viene scartata l’ipotesi di rivolgersi alle autorità messicane.
Ferguson ritiene preferibile contattare la sacerdotessa azteca di nome Mitla,
ossia la Diablera, che è in buoni rapporti con Fernandez.
Il gruppo galoppa sulla pista che conduce alla località di Moctezuma,
addentrandosi nella Sierra Madre Occidentale.
Lungo il percorso, viene intercettato da una pattuglia di rurales, impegnata,
unitamente a molte altre unità, in una battuta su larga scala avente l’obiettivo
di individuare il covo di una setta azteca capeggiata da una donna india,
ritenuta responsabile di una lunga serie di efferati omicidi.
Tuttavia Ferguson mantiene il più completo riserbo sugli scopi del suo ingresso
in Messico e riesce a disimpegnarsi dalle non gradite attenzioni dei rurales
messicani.
Il giorno seguente, durante l’attraversamento di una gola, il gruppo viene
attaccato.
Ne scaturisce un violento scontro a fuoco, in cui Wilkinson e Fernandez rivelano
la loro abilità con le armi; ma anche la Dobbs mostra di sapere usare il
winchester.
Nella sparatoria vengono feriti a morte tre volontari di Phoenix; Ferguson e
Fernandez si sganciano dall’assedio per cercare di sorprendere alle spalle i
cecchini che sparano sul gruppo da posizione favorevole; dopo un lungo e
pericoloso aggiramento, e una sparatoria ravvicinata, i due riescono infine a
prevalere; nessuno degli assalitori è disposto ad arrendersi e nessuno di questi
sopravvive; prima di crollare a terra, ricevono numerosi colpi di pistola.
Gli attaccanti si rivelano essere degli indios; le pupille molto dilatate e
l’innaturale aggressività e resistenza mostrate nello scontro, portano a
ritenere che abbiano assunto una potente droga prima dell’assalto.
Seppelliti i caduti, il gruppo riprende la marcia all’interno della Sierra
Madre, fino a quando - sotto la guida di Pablo Fernandez - non raggiunge una
grotta che funge da rifugio e tempio alla temuta Diablera.
Creduta morta tempo prima, dopo l’incursione di due gringos, in realtà si era
semplicemente data alla fuga, facendo apparire il proprio cadavere davanti ai
loro occhi per disilluderli e sottrarsi alle loro colt.
Tornata con maggiore prudenza alla sua attività, aveva incaricato Fernandez di
sondare l’affidabilità dei gringos che avessero fatto domande su di lei.
La grotta è disseminata di teschi, ma della Diablera non vi sono tracce recenti.
Fernandez legge alcune iscrizioni azteche presenti nell’antro e spiega ai suoi
compagni che Mitla è una sacerdotessa del culto di Mictlancihuatl, la Regina
azteca dell’Oltretomba.
Lo Sceriffo Ferguson decide di ispezionare a fondo la grotta e scopre che da
questa si diparte un intricato labirinto di tunnel naturali che sembrano
perdersi nel ventre stesso della Sierra.
Il gruppo si divide per ispezionare quanti più cunicoli sia possibile, alla
ricerca di un qualunque indizio utile alle indagini e al ritrovamento di Mitla,
ed è proprio lo Sceriffo Ferguson, rimasto solo, che - con profondo stupore - si
ritrova davanti al corpo inanimato, disteso a terra con gli occhi chiusi, di una
bellissima donna india dai lunghi capelli neri.
Passato il primo momento di stupore, Ferguson si china per toccare il corpo a
terra, ma appena sfiorato, questo assume la forma di un serpente, i cui occhi si
aprono e fissano l’uomo, prima di perdersi nell’oscurità, accompagnati da un
fruscio sinistro.
Lo Sceriffo, paralizzato dalla sorpresa, non accenna ad alcuna reazione.
Giunta la sera, Ferguson confida la propria esperienza a Fernandez e Wilkinson;
la Dobbs viene informata da quest’ultimo.
Durante la riunione, Pablo Fernandez fornisce altre informazioni: si è venuto a
sapere, infatti, che un ricchissimo fazendero messicano sta finanziando il
restauro di tutti i templi aztechi della regione; ciò sta avvenendo d’accordo
con gli indios locali, di vera o presunta discendenza azteca, che si sono
riuniti intorno alla figura di un temuto gran sacerdote del Dio azteco degli
abissi infernali, Tezcatlipoca, fratello-nemico di Quetzalcoatl.
Il gran sacerdote si è segretamente proclamato massima guida del risorto popolo
azteco, costituendo sotto di lui un collegio sacro composto da dodici sacerdoti
aztechi, tutti di sesso maschile, vietando altresì alle donne l’esercizio attivo
della religione.
Così, con questo pretesto - continua Fernandez - il gran sacerdote ha proibito a
Mitla di frequentare le rovine degli antichi templi aztechi e le ha imposto di
rinunciare a ogni ufficio religioso.
Ferguson chiede al messicano di poter visitare uno dei templi in corso di
restauro.
Giunti presso uno di questi, un tipico teocalli di forma piramidale, i
componenti della spedizione reagiscono con grande stupore alla perfetta opera di
restauro, ormai conclusa.
Il gruppo è ricevuto con molta cordialità dal sacerdote azteco preposto al
tempio, che è anche uno dei dodici componenti il collegio sacro istituito dal
gran sacerdote di Tezcatlipoca.
Il sacerdote cerca di convincere i visitatori che i recenti omicidi sono opera
di una setta fuori controllo, devota a Quetzalcoatl, e guidata da una donna che
si fa chiamare Mitla; la loro negazione dei sacrifici umani è solo una copertura
per distogliere i sospetti da sé, e la strega che li guida intende rivaleggiare
con il gran sacerdote di Tezcatlipoca, che è l’unico erede legittimo dei grandi
sacerdoti aztechi.
Il religioso nega ogni volontà di complotto da parte della rinata comunità
azteca; lo scopo delle opere di restauro è quello di affermare - del tutto
pacificamente - i diritti dei discendenti aztechi e ottenere dal Governo
messicano il riconoscimento di una speciale autonomia amministrativa e
religiosa, sul modello delle riserve indiane istituite negli Stati Uniti
d’America.
Il sacerdote cita altresì il facoltoso fazendero messicano Don Pedro Gonzalez,
che ha finanziato per motivi filantropici il restauro degli antichi templi
aztechi caduti in rovina, quale esempio degli ottimi rapporti che la rinata
comunità azteca intrattiene con le personalità più in vista della buona società
messicana.
Ferguson rimane intimamente scettico e cerca di farsi condurre all’interno del
tempio, ma non riesce a ottenerne l’accesso, sotto il pretesto che questo è
riservato al clero azteco.
L’Agente Wilkinson non riesce a mascherare le sue perplessità sulla
ricostruzione dei fatti svolta dal sacerdote azteco, ma viene subito zittito
dalla bella Dobbs, che mostra interesse a blandire il religioso con
parole di favore e acquiescenza.
È così che il gruppo guidato dallo Sceriffo Ferguson - meno Wilkinson e la
Dobbs, che si trattengono al tempio, ospiti del sacerdote - fa ritorno alla
caverna di Mitla, seguito a distanza da numerosi indios devoti al gran sacerdote
di Tezcatlipoca.
Ferguson decide di passare la notte all’interno della grotta, nell’attesa di
riprendere le ricerche di Mitla, ma nel cuore della notte stessa, gli indios
sferrano un nuovo attacco, assediando la caverna e costringendo quel che rimane
della spedizione a una disperata resistenza.
Cadono uccisi gli ultimi aiutanti dello Sceriffo.
Ferguson e Fernandez si ritrovano soli.
Quando tutto sembra perduto, appare nuovamente l’immagine della bellissima donna
india dai lunghi capelli scuri, già vista dallo Sceriffo Ferguson, che urla ai
due superstiti di seguirla lungo il dedalo di cunicoli interno alla grotta. Lo
Sceriffo balza addosso all’immagine, cercando di afferrarla, e in effetti riceve
la conferma che si tratta soltanto di un’immagine illusoria, come nella prima
occasione. Tuttavia Fernandez lo incita a seguirla mentre si sposta sempre più
addentro i cunicoli, praticamente all’inferno; oltretutto non sembrano esserci
alternative, visto che gli indios hanno ormai invaso l’ingresso della grotta.
Non appena Ferguson e Fernandez si sono allontanati dall’antro principale della
caverna, un tremendo boato ne sconvolge l’entrata, cancellando la minaccia
rappresentata dagli indios, ma allo stesso tempo rendendo inutilizzabile quella
che è l’unica via d’uscita conosciuta.
L’immagine femminile continua a urlare, con voce che riecheggia tra i cunicoli
come proveniente dall’oltretomba, imprecando di seguirla.
E i due uomini, non avendo alternative, seguono la misteriosa apparizione lungo
un infinito labirinto di strette gallerie sotterranee, fino a quando non
giungono di fronte a una porta di pietra scolpita con simboli aztechi.
Lo Sceriffo Ferguson sta per darsi istintivamente da fare per cercare di aprire
la porta, ma viene subito bloccato dal compagno.
«Può essere molto pericoloso…», ammonisce a bassa voce.
È allora l’immagine della donna che mostra allo Sceriffo quali simboli toccare,
allo scopo - evidentemente - di aprire la porta.
«Se si sbaglia la sequenza, potrebbe scattare una trappola mortale, Sceriffo; si
aprirebbe per noi la porta dell’oltretomba».
Ferguson prende sul serio l’ammonizione del messicano, ma sembra non fidarsi del
suggerimento della donna, temendo di far scattare proprio la trappola mortale.
A questo punto interviene Fernandez, che senza esitazioni, esegue le istruzioni
della donna.
La porta si apre.
E non è quella dell’oltretomba.
Ferguson
è sbigottito e si muove in avanti per varcare la porta, ormai convinto di
potersi fidare; così facendo, non presta alcuna attenzione all’immagine della
donna, ma nell’attraversarla urta inaspettatamente contro qualcosa di solido, e
dopo aver perso l’equilibrio, finisce a terra insieme all’immagine stessa.
«Accidenti, Sceriffo… che approccio…».
Nella frenetica marcia dei due uomini lungo gli oscuri cunicoli, l’autentica
Mitla in carne e ossa, prima nascosta nei meandri del dedalo, ha sostituito la
propria immagine con sé stessa.
Con le sue illusioni, la Diablera aveva beffato anche il famoso Tex Willer,
assetato del suo sangue, facendosi vedere morta.


Senza alcuna presentazione, la potente Diablera spiega che quel condotto segreto porta
ai sotterranei di un tempio azteco, e che al termine di quella stessa notte, nel
preciso momento della nuova alba, i dodici cuori strappati alle dodici vittime
sacrificate per volontà del gran sacerdote di Tezcatlipoca, saranno offerti al
Dio: tutti e dodici contemporaneamente, un cuore in ciascuno dei dodici templi
restaurati con il denaro di Don Pedro Gonzalez, il ricco faccendiere che
sfruttando le sue relazioni con alti esponenti del Governo messicano, ha fornito
protezione politica alla setta azteca capeggiata dal gran sacerdote, allo scopo
di arrivare lui medesimo al potere assoluto.
Giunti sotto il tempio, lo stesso visitato il giorno prima dai due uomini, la
Diablera introduce i compagni all’interno.
Addomesticate un paio di sentinelle, Ferguson e Fernandez si travestono da
celebranti aztechi, sfruttando maschere e costumi rituali rinvenuti nel tempio.
Così i due uomini possono partecipare da vicino alla cerimonia del sacrificio
che si svolge nella sala principale del teocalli; al culmine della stessa, il
sacerdote già incontrato fa il suo scenografico ingresso nella sala, attraverso
la bocca di un idolo gigante, e annuncia a sua volta la clamorosa presenza del
gran sacerdote di Tezcatlipoca, che ha scelto questo tempio quale sacro tra i
sacri, primo tempio tra i dodici del rinato impero azteco; è così che fa il suo
ingresso, nel delirio generale, anche il gran sacerdote, il cui volto rimane
però occultato dalla maschera rituale del Dio infernale Tezcatlipoca; con loro
grande sorpresa, oltre al cuore della vittima già defunta, i due uomini
apprendono, direttamente dalla voce del gran sacerdote, che sarà offerto al Dio
anche un tredicesimo cuore, quello necessario a rendere perfetto il sacrificio,
e che questo cuore sarà estratto ancora pulsante dal petto di una ragazza
messicana vergine: il pugnale di ossidiana brilla di luce sinistra nella mano
del religioso.
Il gran sacerdote aggiunge che l’onnipotente Tezcatlipoca gli ha chiesto di
impinguare il sacrificio della vergine con quello di due cani bianchi, un cane
maschio e un cane femmina, e che la volontà del Dio sarà presto esaudita.
Un attimo dopo, infatti, fanno il loro ingresso nella grande sala, legati e
imbavagliati, proprio l’annunciata ragazza messicana, evidentemente rapita da
uno dei villaggi della regione, l’Agente Wilkinson e Chana Dobbs.
A questo punto Ferguson sta per intervenire alla disperata, ma Fernandez lo
trattiene.
Qualcosa di clamoroso sta infatti per avvenire.
Un grande Serpente Piumato irrompe sulla scena e si avvicina minaccioso al gran
sacerdote. Questi è colto impreparato, il panico lo assale e così decide di
fuggire, tirandosi appresso la Dobbs, usandola come scudo.
Scoppiano tumulti tra i devoti in sala. Sembrano formarsi due fazioni.
Il gran sacerdote, nella confusione generale, raggiunge la gigantesca bocca
dell’idolo e la oltrepassa, portando con sé la donna bianca; quindi aziona la
chiusura, non avvedendosi, o non curandosi del fatto che il sacerdote del tempio
sta cercando di seguirlo; quest’ultimo rimane stritolato tra le fauci dell’idolo
che si chiudono impietose su di lui; ma è proprio grazie all’involontario
sacrificio del sacerdote, che con il proprio corpo ha bloccato il meccanismo di
chiusura, che Ferguson e Wilkinson, liberato da Fernandez, riescono a superare
la bocca dell’idolo e a inseguire il gran sacerdote nei meandri del tempio.
La Dobbs è ormai solo un peso per il religioso azteco.
«Cagna!», le grida contro.
E la fuga prosegue.
Intanto, nella grande sala, imperversa furibonda la battaglia tra le due fazioni
rivali degli indios aztechi, una devota a Tezcatlipoca, l’altra a Quetzalcoatl.
Quando l’esito della lotta è ancora incerto, l’immagine di Mitla appare accanto
all’altare sacrificale, unitamente a un lungo serpente piumato, tutto
avvinghiato intorno al suo corpo, fino alle spalle; uno dei suoi colpisce il
gong presente ai bordi della sala e l’attenzione di tutti i presenti viene
subito attratta dall’immagine della sacerdotessa, che con abile e convincente
solennità esorta gli astanti a deporre le armi e a giurare fedeltà al Gran
Serpente Piumato, l’unico Dio che possa ridare dignità al popolo azteco.
Colpiti dal prodigio del serpente, dall’eloquenza di Mitla e fiaccati dalle
circostanze, gli indios devoti al cruento Tezcatlipoca si inginocchiano davanti
alla sacerdotessa e giurano fedeltà a Quetzalcoatl.
Frattanto, sotto i piedi della Diablera, nei bui sotterranei del tempio,
Ferguson e Wilkinson sono sulle tracce del gran sacerdote.
L’Agente Pinkerton si ritrova addosso la Dobbs. È voltata verso la
parete. Sembra non accorgersi della sua presenza. Sembra concentrata su altro.
Preoccupata da altro.
«Chana…», la chiama l’Agente, con malcelata confidenza.
Non ottiene risposta e allora la volta verso di sé.
Scopre così che l’avida possidente quasi sessantenne si ritrova il pugnale di
ossidiana del gran sacerdote immerso fino al manico nello stomaco.
«Doug…».
«Cristo!».
Le passa subito un braccio dietro la schiena e la mette seduta a terra, con la
schiena contro la parete.
«Io proseguo, Wilkinson», gli comunica lo Sceriffo, dando per scontato che
l’Agente Pinkerton si sarebbe fermato al capezzale della Dobbs.
«Chana… stai calma…», Wilkinson non lo sente neppure, interamente assorbito
dalla donna di fronte a sé.
Le asciuga il labbro e cera di rassicurarla.
«Troveremo un dottore, ma devi stare calma…».
«Doug… sei un idiota… non capisci… che sono… fottuta…».
«Non dire sciocchezze, sei tu l’idiota se pensi questo…», riesce almeno a
strapparle un debole sorriso. Non certo una cura definitiva, ma un tampone,
quello sì.
Ben
presto i pochi superstiti della spedizione partita da Phoenix si ritrovano nella
grande sala del tempio.
C'è
lo Sceriffo Jeff Ferguson, che è tornato indietro a mani vuote; c'è l'Agente
speciale Doug Wilkinson che invece è tornato indietro a mani pienissime; e c'è
l'avida, matura bellezza di Chana Dobbs, anche lei a mani vuote e con un
coltello di ossidiana piantato nello stomaco.
La
Diablera si sta occupando della donna bianca. Il caballero Pablo Fernandez della
ragazza rapita.
«Mi è sfuggito», confessa lo
Sceriffo a Mitla.
«Lo so, lui conosce il labirinto, tu no».
«Ci sono sospetti su chi si nasconda dietro quella
maschera?».
«No,
nessun sospetto; solo una certezza.
Dietro quella maschera c'è il volto di
Don Pedro Gonzalez, l'uomo che sta finanziando la
rinascita della comunità azteca; tanto affascinato dai suoi culti da ergersi a
leader supremo...».
Ferguson rimane basito.
«Come ti chiami... ragazza...?»,
è la Dobbs a domandarlo.
«Mitla».
«Se riesci... a salvarmi la pelle... farò in modo...
che... tutto questo... diventi tuo...».
«E come?».
«La famiglia del notaio... ucciso a Phoenix... io la
rappresento... questo tempio... dovrà risarcirli... sarà confiscato... ma poi...
io... lo lascerò a te... e daremo loro... le briciole... sono ricchi... lo
stesso...», non si parla bene con un pugnale rituale nella pancia.
«E va bene. Mi sei simpatica, vecchia donna bianca dalla
bellezza che non tramonta. Tanto ti avrei servito lo stesso, l'ho fatto da
subito, non te ne sei accorta? Ma non conosco i disegni finali della mia Regina,
so solo che non hai molte possibilità», un'ombra di delusione cade sul volto
tirato della Dobbs.
«Forza ragazza... la vecchia Dobbs ci prova...», ritrovando
il mordente da consumata bagascia di lusso.
Cristallizzata la situazione,
lo Sceriffo Ferguson richiede l’intervento delle
autorità messicane, che prendono in carico il prosieguo dell’indagine.
Pablo Fernandez rimane accanto a Mitla. Mitla e Wilkinson accanto alla
Dobbs, agonizzante e ombra di sé stessa, uccisa o comunque ferita a morte
dal gran sacerdote di Tezcatlipoca, anche se ancora aggrappata - con il fisico,
l'esperienza e l'orgoglio di bagascia sessantenne - agli ultimi sussulti di
vita.
Lo
Sceriffo di Phoenix, Jeff Ferguson, ritornerà da solo.
All'alba si congederà dalla sua
compagnia.
Nella
sua città sarà con ogni probabilità raggiunto dalla notizia via telegrafo del
decesso di Chana Dobbs, fino all'ultimo impegnata a vagheggiare potere e
ricchezza, ma che aveva incassato soltanto fatale ossidiana, rimanendone
stroncata.
Ma
intanto vaga tra i fuochi rituali
accesi ai piedi del teocalli, in una notte avvolta nell’aura di sangue e morte
che ancora stenta a dissiparsi fra le ombre pesanti della Sierra Madre.
E
forse, anche lui stregato da una bagascia che non si arrende, che ci crede fino
in fondo, avrebbe atteso la notizia senza allontanarsi troppo.
Lettore, se vuoi conoscere l'attrice che ha
ispirato questo racconto, clicca
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Il racconto è un tributo alla sua bellezza,
carisma, personalità.
Gli aspetti negativi sono introdotti per mere
esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico.
Il ruolo della protagonista va assimilato a
quello dell'attrice rispetto a un film.
La devozione alla persona in questione, da
parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta.


WilLer si fa scudo
di Pasquale Ruju e Salvatore Conte (2013-2019)
(disegni di Sandro Scascitelli)





Per evitare la pallottola del bandito, Willer si fa scudo del
pezzo di donna davanti a lui e Amabel Collins paga con la vita il brutto scherzo
del Ranger, rimanendo uccisa a terra.
È lei,
infatti, a beccarsi una fucilata nello stomaco: un colpo che non le lascia
scampo.
Lo sparo rimbomba nella stanza come un tuono di
morte, moltiplicato tre volte.
Grazie al provvidenziale scudo, Willer fa in tempo a piazzare la risposta,
dritta al cuore.
Intanto, però, una fucilata che non perdona ha mandato lunga a terra Amabel
Collins, che malgrado la stazza è rimasta stroncata dallo shock fatale.
La formosa sagoma ha fatto da scudo a Tex Willer!




Mentre Willer e
Felicia se ne vanno, la Collins si contorce a terra con lo stomaco bucato,
senza vedere molto davanti a sé.

Ma vuole tentare.
Assorbito lo shock, riesce a girarsi ventre a terra e
comincia a strisciare - con la forza della disperazione - verso la porta.
Non ha obiettivi concreti, ma non può rimanere ferma ad aspettare la morte.
Un’altra, al suo posto, si sarebbe già arresa.
Crede troppo in sé stessa per lasciarsi andare.
Ma ci vuole un piano. E la sua unica possibilità è quella di supplicare il suo nemico.
Non può essere lontano, sarà obbligato ad ascoltarla.
Se la sua vita è finita, complicherà quella di Willer fino all'ultimo respiro.
Amabel Collins tira fuori tutto il fiato che le resta, nella speranza di
commuovere il Ranger...

«Aspettami qui,
Felicia. Non può averne per molto».
Il Ranger è costretto a rientrare in casa e ad assisterla.
È pur sempre una donna, ed è ferita a morte.
La stende sul letto e le tampona il buco.
La botta è stata
forte.
Ha la bocca
impastata di sangue.
Trattiene a stento un fiotto.
Lo sputa
quando inizia a
parlare.
«Per tua sfortuna... non sono ancora crepata...
Io...
ti ho salvato il culo... stronzo...», è la seconda cosa che gli vomita addosso. «Questa pallottola... era indirizzata a te... sono morta per te...».
«Stai calma… non correre...», la tranquillizza il granduomo.
«Tranquillo... voglio provarci... chiama... subito... un dottore...
Voglio... salvarmi... anch'io...».
«Bevi, intanto...», l'aiuta a mandare giù un po' di whisky.
«Ce l'hai... mai avuta... una donna...?».
Il Ranger si incupisce.
«Ti ha lasciato... vero...?
È morta…?», affannando con occhi allucinati, cercando di non vomitare anche
l'anima. «Potresti... metterti... con me... io... ho la pelle dura...
Facciamo un patto... mettiamoci insieme... eliminerò io... le donne cattive...
per tuo conto... tu non spari alle donne...».
«Non sei male. Ma se anche ce la fai, cosa di cui dubito, ti aspetta la corda».
«No… se mi copri tu... dirai... che... si sono… ammazzati... fra loro...».
«E
gli altri che hai ucciso?».
«Gli
altri... non li troveranno... mai... mai...!», un ghigno
sinistro le increspa le labbra.
«Perché dovrei farlo? Io sono Tex Willer, il Ranger del Texas».
«Andiamo... sei cieco...? Una come me... non la trovi più...
Non sono tanto vecchia per te... ho la carne... e sono una gran puttana…
Chiama un dottore... tappami il buco... e mettiamoci insieme...», la Collins
prova a crederci.
Willer
è intrigato: la voglia di vivere, la disponibilità a soffrire e un'età ancora
gestibile, gli danno da pensare.
Il Ranger scuote la testa e si avvicina alla porta.
«Felicia...! Vieni dentro!
La cosa va per le lunghe...».
La Collins, nonostante tutto, mantiene il controllo.
Ha fisico ed esperienza, due fattori molto importanti in questi casi.
E anche una buona dose di arroganza; occorre anche quella.
«Però non dovrai crearmi problemi», le sussurra Willer, tornando sul loro
discorso.
«No... certo… perché dovrei…».
«Bueno.
Ora devi riuscire a non crepare, o l’accordo sarà nullo».
«Tu non preoccuparti… procurami un dottore… e io... ne verrò fuori…».
La Collins è sicura di sé, il fisico la sostiene, l’esperienza le suggerisce di
non mollare.
La morte
- però - la guata da vicino…
«Quei cani... in fondo al pozzo... mi chiamano... mi aspettano... vogliono... trascinarmi
giù... in mezzo a loro... io li sento...!».
«Quanti
ne hai uccisi?».
«Tanti...
non li ho mai contati... ma erano solo... cani... e porci...
Tu... invece...».
«Ti procuro uno stregone, Amabel. Di più non posso fare.
Domani all’alba lo convocherò qui
alzando segnali
di fumo in cielo.
Intanto, per superare la notte, mastica questa…».
Willer le fornisce droga in foglie tagliuzzate.
«Sono la tua donna... adesso... questo è ciò che conta...», e mastica
nervosamente, sforzandosi di mantenere il controllo, ansiosa di andare avanti,
soddisfatta di aver raggiunto l'obiettivo e messo le
mani sul famoso Willer.
«Sto di là con la ragazzina, Amabel. Se ti senti qualcosa, chiama. Verrò
subito».
Il Ranger esce in veranda con Felicia.
La Collins non supererà la notte e lui tornerà libero.
È una bella donna, ma non ha scampo, e lui lo sa.
Sarà un altro macigno sulla sua coscienza, che si aggiungerà
ai tanti di cadaveri di belle donne, morte a causa sua.
«Se è cattiva, perché l'aiuti?», gli domanda la ragazza.
«Perché è una donna, e ha le ore contate».
«Ma è cattiva... e quando morirà, sarò contenta».
«Sei molto dura, Felicia».
«Tex... Tex...!», la Collins lo chiama, la voce è pressante.
Willer è subito al suo capezzale, come promesso.
«Sto male... stammi vicino...».
«Bueno. Rimango qui.
Cerca di stare calma, Amabel...».
«Non mollo... stai tranquillo...
Sono... la tua donna... insieme... staremo bene...», la Collins è ancora
convinta di salvarsi, o almeno vuole farlo credere. «Che ti ha detto... quella
vipera... voglio saperlo...».
«Niente di importante».
«È più cattiva... di me...», con esperienza stringe le mani sullo stomaco, per
mantenersi a galla nel marcio. «Sarebbe capace... di spararmi addosso... e di
farla finita... ma tu non vuoi... vero... Tex...», articolando le dita sul buco,
per sentire in tempo la morte e gestire la fine, provando ancora a mantenere il controllo.
Tecniche di sopravvivenza.
«Nessuno ti toccherà, Amabel. Né corda, né piombo».
Il tono è deciso, da farla bagnare.
La guarda.
E finalmente cede, non resiste più, le allenta un bottone e le mette una mano sulle tette,
dentro la camicetta scollata.
Il granduomo s'è sciolto.
Il Ranger riassapora, dopo molto tempo, il gusto di toccare una bella donna,
forse la più potente in circolazione.
«Sono tua... sei fortunato... tiro i freni per te...».
Willer insiste.
«Bravo... fai pure... sei sulla pista giusta...», lei è contenta, perché così
non si scolla più; l'ha fregato.
È notte fonda, Willer non può allontanarsi neppure un attimo, perché la Collins
potrebbe avere bisogno di lui in qualsiasi momento.
«È quasi l’alba, Amabel. Vado fuori a preparare il falò».
«Felicia... portala con te… quella… è capace… di farmi la pelle…
E torna subito…
Un momento… Tex… ti amo…».
«Anch’io, Amabel…».
Gliel’ha detto.
E non è stato poi così incredibile.
Anche se per poche ore, è stata la sua donna.
Gliel’aveva promesso ed è stato di parola.
La parola di Tex Willer non mente.
Lei quasi arrossisce. Un'assassina, ma pur sempre una donna.
«Ancora non è morta?», gli chiede Felicia.
«No. È una pellaccia».
«A te piace anche se è cattiva?».
«È pur sempre una donna, te l’ho detto, ragazzina.
Amabel pensa che tu la uccideresti.
È così?».
«Forse sì, perché è cattiva. Tu mi daresti una pistola?».
Se la guarda.
«Non dire sciocchezze. È già morta. Quando arriverà la fine, morirà due volte:
non ti basta?».
«Mi ha fatto molto male. Vorrei vederla morta subito».
«Allora aveva ragione…».
Il fumo sale alto nel cielo spettrale dell’alba.
Willer può rientrare al capezzale della Collins.
Fatica ancora a credere che si tratti della sua donna. Però gli piace, non può
negarlo.
È una donna molto diversa dalla sua Lilith, ma anche molto bella e ostinata:
estenuando la sua agonia, respingendo la
morte, ha dato un senso alla sua vita.
«Tra poco lo stregone sarà qui, ti giocherai le ultime carte».
«Tex… ci provo… sono la tua donna… non voglio deluderti…».
«Impegnati, allora».
«Tex… ti amo…».
«Anch’io, Amabel…».
Willer sa che il crollo della Collins si avvicina e perciò si mostra gentile,
non gli costa molto.
È pur sempre una donna che muore, e l’aver tanto lottato le
renderà la fine ancora più amara.
Ma questo è un rischio che lei ha scelto consapevolmente, lusingandosi -
nonostante la fucilata nello stomaco - di poter trovare una via di scampo,
facendo leva sul fisico, l’esperienza e la cattiveria.
Adesso il Ranger non può allontanarsi nemmeno un attimo. Potrebbe ritrovarla
cadavere.
Lo stregone la trova moribonda, non c’è stato un vero e proprio crollo, ma un
aggravamento fatale.
La medicina indiana, pur potente, è arrivata un po’ troppo tardi.
La Collins è in fin di vita.
La bocca aperta, gli occhi spenti e un respiro irreale, molto rallentato.
Lo stregone insiste, ma c’è poco da fare.
Willer non riesce più a contattarla, lei non gli risponde più.
«Ti amo, Amabel…».
Finalmente arriva un sussulto a mo’ di risposta.
L’argomento è di quelli che riaccendono un cadavere, e a lei manca poco per
diventarlo a tutti gli effetti.
Felicia è contenta e non lo nasconde.
Nonostante tutti i suoi sforzi, la Collins è sul punto di lasciarci la pelle.
La cattiveria della ragazzina comincia a infastidire Willer, che l’affida ai
guerrieri indiani che hanno scortato lo stregone.
Il Ranger tiene per la mano la sua donna, che a stento lo percepisce intorno a
sé.
«Tex…».
«Amabel… di’ qualcosa…
Avevi il controllo... mi avevi promesso di venirne fuori.
Devi spremere tutto quello che ti rimane, se vuoi tentare ancora...».
Willer sta mentendo. L’uomo della medicina ha detto che la donna bianca non
vedrà il tramonto.
«Tex... ora… va meglio... è stato… solo... un brutto momento...», la Collins
sembra avere un leggero miglioramento, sicuramente temporaneo.
«C’è molto lavoro da fare, Amabel. Devi spremerti. Lo stregone ti darà altre
cose. Ma niente cedimenti. O sarà la fine. Mi hai capito bene?».
«Tex... io… ti amo... sono… la tua donna...».
«Lo so. Ma potresti rimanere uccisa, Amabel. E allora il nostro patto sarebbe
annullato».
«Lo so... lo so... amore...»,
mentre parla, la Collins articola nervosamente le dita sullo stomaco, per mantenersi reattiva
e cercare di tenere sotto controllo la sua pericolosa situazione.
Basterebbe un attimo di distrazione e finirebbe nel baratro.
Willer sa già che è morta, ma gli piace come combatte. È la cosa di lei che gli
piace di più, e in virtù di ciò comincia a considerarla davvero la sua donna,
ossia una donna degna di lui.
Nell'impenetrabile Tex Willer si fa strada una sincera ammirazione per la moribonda
Amabel Collins.
La grandonna rimane appesa a un fragile equilibrio, che può spezzarsi in qualunque momento.
Ma c’è una certezza: la donna di Tex non vedrà il tramonto.
«Tex... se non sbaglio… hai tre pard...
Io... sarò il quarto... so sparare... e uccidere...».
«E incassare piombo...
Vedremo se piacerai agli altri».
«Sono... la tua donna... nessuno... potrà fermarci...».

«Bueno, Amabel...
Sarai il quinto pard.
Ma non dovrai esporti troppo.
Lo scollo si apre solo per me...».
«Claro... io... sono... la tua donna...».
Ma le ore passano e la fine avanza.
Le condizioni di Amabel si aggravano ulteriormente.
Willer è sempre più preoccupato.
La Collins si sta spremendo, ma non serve a
molto.
Il baratro è aperto e lei ci sta rotolando
dentro.
Occhi appannati e bocca spalancata: ormai le
arriva solo un filo d'aria.
«Sei una puttana, ma ti tengo», Willer fa il
galante e le prende la mano.
«Tex... ti ho mentito... non
riuscirò... a salvarmi...».
«Che dici...».
«Farò la fine...
della tua... Lilith...».
«Non dire sciocchezze... o ti ficco un'altra palla
in corpo».
«Vacci piano... cowboy...», Amabel si è
confessata, voleva vendicarsi, farlo soffrire, e c'è riuscita.
«Amabel... ascolta... lo sapevo anch'io che eri
fottuta...», recuperato il sangue freddo, anche Willer si confessa.
«Fottiti... tu... stronzo...».
«Non stiamo più insieme?».
«Ci stiamo... scannando... come... una coppia
sposata... vuol dire che... funzioniamo... Tex...».
«Addio, Amabel.
Siamo stati insieme».
Le tampona il buco e le asciuga la fronte e il
collo.
E le passa una mano sul seno.
«Ma insomma... quanto ci mette...!», Felicia è
sfuggita al controllo dei guerrieri indiani.
«Piccola cagna...!».
L'irriverente uscita della ragazzina ha il potere
di incattivire la Collins, che ha una sorta di rigurgito.
«Bastarda... non mi vedrà morire... portala
via...».
L'odio può spesso più dell'amore, se amore può
chiamarsi quello di Amabel per Willer.
E il tramonto arriva, con la cattiveria ancora in
corpo.

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Il racconto è un tributo alla sua bellezza,
carisma, personalità.
Gli aspetti negativi sono introdotti per mere
esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico.
Il ruolo della protagonista va assimilato a
quello dell'attrice rispetto a un film.
La devozione alla persona in questione, da
parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta.


FINE DI UNA MESSALINA
di Salvatore Conte (2016-2020)
IL PRESAGIO

Aveva sognato di ritrovarsi con le budella di
fuori.
Un presagio funesto che non l’ha fermata.
Troppa l’ambizione per aver paura di ritrovarsi con le budella in mano.
Troppa la sete di potere per godersi l’acqua pulita che le scorreva nelle
interiora sane.

LA FINE

«La
falsa matrona Chana Messalina ha preso ferro! E bello lungo...! E due
volte! Due!».
L'amministratore del gruppo plebeo "Tutti i cazzi de Roma" strilla per le vie della
Città portando la ferale notizia.
«Si può
sapere che cazzo stai dicendo? Non si sente niente», un tale lo ferma, il
messaggio non arriva, l'orecchio non prende, disturbato dal frastuono dell'Urbe.
«Chana Messalina... la matrona tarocca... dovresti conoscerla...».
«E
allora...?».
«L'hanno
tolta di mezzo...».
«Che
cosa?!».
«È
finita nella congiura del fratello. Due pretoriani l'hanno stroncata col ferro; un
colpo per uno, per condividere la responsabilità: i consoli del ferro... ti
piace?».
«Giove
benedetto! Dici sul serio?».
«Lo
sanno tutti che lei non c'entrava un cazzo con gli affari del fratello, ma si sa che le
donne ci vanno sempre di mezzo... e poi giocare col gladio, a Roma, si sa... è
troppo pericoloso...
Non le
mancava certo l’ambizione, ma non aveva gli intestini per rischiare tanto,
sebbene adesso dicano che li abbia tirati fuori…!», un sorriso sardonico e
impietoso, a corollario dell’efferata battuta. «Quello stronzo del fratello, poi, il ferro non l'ha ancora preso. È stato portato a palazzo per
essere interrogato. Sono coinvolte decine di personalità».
«Ma
la
Messalina... è morta subito?».
«No, ha
un fisico da bestia, si sta
ancora consumando. Prima stava salutando gli amici più intimi. Se ti
sbrighi, farai in tempo a salutarla... anche tu...», finisce tra sé, perché
l'altro è già partito, sembra calzare i sandali di Mercurio.
Quando la vede, Publio tira un sospiro di sollievo: Chana Messalina non è ancora cadavere.
La
prestante matrona è seduta nell'atrio, stretta in mezzo a due serve, che
l'aiutano a tenersi dritta, le tamponano il sangue sul labbro e le portano alla
bocca del vino per tenerla su; con una mano non lasciano mai la pancia della
padrona, premendovi sopra delle bende, cercando di contenere le perdite; sotto
di quelle la matrona ha due paia di labbra nuove.
La
condanna è stata spietata.

Sorpresa nelle sue stanze, le hanno affondato il gladio in corpo.
Ha
provato a spogliarsi, ma è stato inutile.
Il volto è pallido, conscio della fine; e pur tuttavia lascia trapelare un
sorriso; forse perché la finta matrona è contenta di non esserci rimasta secca
sul colpo e di avere il tempo per salutare famigliari e amici.
Statua vivente di Giunone, erede delle famose e venerate matrone latine, pur
senza aver generato, Chana
Messalina riceve le ultime adulazioni.
Le
baciano i piedi, disperandosi per la sua sorte.
«Reverendissima
Messalina... ditemi cosa io possa fare per voi...».
«Publio... ci sei anche tu... amico mio...
Scrivi
la verità... sono coinvolta anch'io...
Ho
chiesto pietà... ma quelli... hanno colpito...», un attimo di pausa e
affaticamento, rivive il momento con gli occhi spalancati, come se la colpissero
di nuovo. «Non un colpo... ma due...! Avevano paura... dovevano... spartire il
delitto... e c'ho rimesso io... io... io un colpo... me lo tenevo...», sussurra
la possente Chana, con rimpianto e paura. «Ti basta… per scrivere…?».
«Forse avevano paura che un colpo non bastasse per uccidervi.
Comunque a me basta. Ma voi?
Un carnefice, un’avvelenatrice, non avete chiamato nessuno?».
«Se mi muovo… potrebbero tornare… e poi… a che servirebbe…
Amico mio... fammi andare avanti… non ho molto tempo…», ha fretta; si gestisce,
ma sa di
essere finita.
Publio lascia spazio agli altri in coda. Sono tanti.
Altri baci sui piedi.
Chana Messalina è venerata come una dea.
«La falsa matrona è sulla Porta di Dite! In suprema cum morte luctatio!
Ha preso ferro! Due volte! Due!»,
l'amministratore del gruppo "Tutti i cazzi de Roma" aggiorna la situazione per
le vie della Città, tenendo i seguaci con
il fiato sospeso per la tragica sorte della famosa matrona. Sia pure sbudellata
dal ferro, ci si chiede se continuerà a lottare e quanto potrà resistere, così
prestante come tutti la ricordano: era solita infatti passare tra loro, sempre
imponente e ben tenuta, quasi sciolta - per grazia degli dei - dal dovere di
invecchiare.
Agli amici di Messalina si aggiungono i curiosi, che vogliono conoscere dal vivo
la situazione della moribonda. Non vogliono farsi raggiungere passivamente dalla
notizia della sua fine: vogliono in qualche modo partecipare all'evento e
ascoltare le grida degli intimi, quando la situazione giungerà al culmine, con
la possente matrona che lotterà fino all'ultimo prima di arrendersi e farsi
cadavere. Tutti infatti ne conoscono l'ambizione e l'arroganza, che saranno le
ultime a essere spente dal gladio.
Si crea fermento, quasi tumulto.
Tutti vogliono vederla, possibilmente da viva e poi, persa la suprema lotta, da
cadavere.
Gli amici sono finiti, Messalina ha fatto il suo dovere, loro il proprio; ora
sarebbe pericoloso far entrare anche la plebe; i pretoriani tornerebbero per
negarle gli ultimi respiri e lei non li vuole buttare via.
Ma la plebe, anche se imbelle, assicura un certo grado di potere, nessuno a Roma
l’ha mai sottovalutata, almeno tra i grandi notabili.
È così che Chana Messalina cerca comunque di ottenerne qualche vantaggio, disponendo di
farli entrare di nascosto, dal retro, un po’ per volta.
È un azzardo, ma non può semplicemente mandarli via. Forse quell’entusiasmo
morboso per una matrona che muore, potrà trasmetterle una scintilla di vita, che
a lei sarebbe indispensabile per trascinarsi ancora un po’ su questo mondo.
Anche Publio è rimasto nei paraggi, in attesa di assistere al momento fatale,
allorquando Messalina dovrà arrendersi all’incombente destino.
La situazione, tuttavia, non è critica al punto da far presagire un crollo
imminente della prestante matrona latina, che riesce ancora a ritardare
l’imbarco sul traghetto di Caronte.
Quello la nota sulla sponda e le va incontro, lieto di portarla a bordo,
abituato com’è alla solita feccia.
Ma lei, all’ultimo, gli scivola via, e in quei pochi attimi sopraggiungono a decine,
da ogni parte del mondo, perché la Porta di Dite è sempre aperta e ha varchi
ovunque.
Caronte non la vede più, deve accontentarsi della solita feccia.
La plebe ossequia Chana Messalina, portando omaggi e spendendo sacrifici al suo
capezzale. Tutti sono stati perquisiti dal muscoloso schiavo numida, perché la matrona
ha i suoi nemici e qualcuno potrebbe approfittarne per abbreviarne le pene.
La morente chiama a sé Publio.
«Ora chiudo le udienze…
Vai da Vatsapio… e digli… che mi sono aggravata…
Oppure… quelli torneranno… a spegnermi…
E poi torna… perché il freddo mi invade… e non terrò… lontano… Caronte… a
lungo…».
«La matrona Chana Messalina non ce la fa più! Ha l’occhio fisso all’Olimpo! È persa
ormai la suprema lotta! La gran donna, incorrotta dopo sessanta stagioni, indirizza
ai suoi intimi gli ultimi sospiri!», Vatsapio
diffonde nell’etere capitolino le ultime notizie sulla sorte della moribonda.
Intanto i pretoriani eseguono perquisizioni, arresti e condanne.
Il complotto è definitivamente sventato.
Nel traffico generale, nessuno ha più tempo di chiedersi se Messalina sia stata
puntuale con Caronte o no. La condanna è stata eseguita: questo importa.
Non c’è solo Vatsapio nell’Urbe, con il suo gruppo immortale “Tutti i cazzi de
Roma”.
C’è pure Pasquino, con i suoi aggiornamenti fulminei, le notizie dell’ultima ora
su tutti i muri più in vista della Città.



Dopo le udienze, la matrona si è chiusa nella sua casa, con la gente di Roma fuori dalla porta,
ad aspettare il culmine della tragedia.
Ma la plebe è impaziente, vuole notizie, preme,
bussa alla porta.
«La matrona è vigile, sta bene, non ha paura»,
una delle generiche dichiarazioni dei servi, impegnati a calmare gli animi.
Lei è distesa sul letto, gli occhi sbarrati sulla porta (come dovesse aprirsi e
inghiottirla), tesa e grave, quasi imbarazzata.
Intorno a lei, il carnefice, l’avvelenatrice e Publio Annio, uno dei suoi segretari,
forse il più devoto, che ne raccoglie gli ultimi fiati.
Il carnefice, tenuto sotto controllo, le ha risistemato
alla meno peggio le budella,
bendandola con una fasciatura rigida: almeno adesso non si vedono più.
L'avvelenatrice ha cercato di stabilizzarla, per
farle guadagnare un po' di tempo, quanto non si sa.
Publio prende appunti sulle ultime ore della
matrona, le ultime parole, le ultime reazioni: come affronta la fine, insomma,
affinché i posteri ne siano informati.
Tutto serve per rendere decorosa la sua morte,
come merita una donna di questo genere.
Bisogna cercare di farle vivere tutti i fiati che
le rimangono, senza buttare via nemmeno un granello della clessidra: è il modo
supremo per rispettare la sua importanza e la sua lotta; anche se non vi sono
possibilità di modificare il verdetto della sorte.
Accompagnarla alla fine, alla Porta Fatale,
concedendole tutte le divagazioni possibili: questo l'ultimo servizio.
Sessanta stagioni, di cui almeno dieci segrete;
due colpi di gladio ben affondati; e ancora tira qualche difficile fiato.
Non c'è altro da fare per la bella matrona. Solo
divagare.
«Publio... non allontanarti...», la morente ha
paura, è umano.
«Sono qui, non mi muovo».
«Volevo tentare... ancora...
Ma...».
«Ma...?».
«Ma... c'è poco da fare...».
Publio sa che ha ragione, e non risponde.
Nella clessidra scorre la polvere, i granelli sono tutti da
una parte.
Chana Messalina, con facile preveggenza, si è aggravata davvero; al punto che Caronte
la sta trascinando sulla barca fatale, anche senza obolo; le offre un passaggio.
Scorre l'ultima sabbia nella clessidra, la situazione si
fa critica.
Il fiato è sempre più corto, il panico la blocca,
Plutone la chiama.
«Publio… sapevamo… che il momento… sarebbe giunto…», sembra
che voglia lasciarsi andare, vinta dalla paura.
«È vero, reverendissima matrona, ma non si è mai pronti a lasciare la lotta».
«Ho provato… a rimandare…», quasi a giustificarsi, «ma non… non ce la faccio
più…», le palpebre cadono pesanti sugli occhi annebbiati.
«Coraggio, venerata matrona... rinsaldate le
forze!», ma quella è ormai sovrastata dal suo destino.
«Ho perso… la suprema lotta… il freddo mi spegne… eppure... ho lottato...», è
l'annuncio della resa.
«Siete stanca, ma potete lottare ancora: forza!»,
la incoraggia il segretario, ma quella nemmeno lo sente, ormai ha quasi fretta
di crepare.
«Publio…», sussurra il nome con voce dolente e allarmata,
ha la fine scritta sul volto, «il
momento… non lo decido... io... è finita… muoio...», la bocca si spalanca…
«MATRONA!», urla il segretario, così forte che tutti possono sentirlo.
«Giunone… aiutami...», biascica gutturale a bocca
aperta la prestante matrona; sta crepando, vede la morte, c'è poco da fare per
lei, «muoio…
a...iuto… mu...o...», non finisce nemmeno, è
l’ultimo fiato, la bocca rimane spalancata...
La situazione è precipitata in poco tempo,
Messalina ha chiesto
aiuto, ma troppo tardi.
La delusione è grande.
«MATRONA!», la chiama ancora, non si è arresa, ha
chiesto aiuto, ma si sapeva quello che sarebbe accaduto.
I servi moltiplicano le grida, il panico dilaga tra la folla in attesa.
«Per Plutone!
Che dici, sarà crepata?».
«Per forza, non hai visto che era cotta?
L’hanno sventrata con tre o quattro colpi di gladio, roba da non crederci.
Ha fatto la grande fino all’ultimo e poi è andata a crepare per conto suo, con i
servi che ci tranquillizzavano per evitare tumulti, come se noi non sapessimo
che si stava consegnando a Plutone».
«Che donna…! Possibile che sia finita?».
«Non senti come strillano i servi?».
«Aspettiamo che esca il cadavere».
«Certo... e chi si muove?».
«Qualcuno dice che i colpi sono stati due…».
«E che differenza farebbe? Se anche fosse, ti sembrerebbero pochi? Hai mai visto
un gladio da vicino?
È più alto di un bambino di dieci anni; ed è largo quanto la mano di un adulto.
Si può sopravvivere, se si ha molta fortuna, solo a un colpo e se non è
affondato bene, lo sanno tutti.
A lei invece gliel’hanno messo tutto dentro. Se fosse accaduto a un’altra donna,
l’avrebbero ritrovata divisa in due parti.
Non so quale demone le abbia retto il gioco fino adesso, ma di certo la cosa è
durata fin troppo e adesso è finita; anche se mi sentirò tremare le gambe
vedendola passare cadavere.
Sembrava non invecchiare mai, quasi eterna e
indistruttibile, così simile a Giunone».
«E invece era una mortale come noi e il gladio l’ha distrutta».
«No, mortale come noi, proprio no».
«Lo so, lo so, lo so bene. Ma pare abbia perso la suprema lotta anche lei».
«Una vera lotta non c’è mai stata, il suo destino era segnato sin dall’inizio,
il gladio non perdona, il gladio ha costruito l’Impero e il gladio lo
distruggerà».
«Dovevi fare la Sibilla».
«Certe cose, dette da un uomo, non sembrerebbero né credibili, né misteriose.
Le donne... o sono tutto, o sono niente, a Roma».
«Oggi niente, purtroppo per la nostra bella matrona.
Se è morta, si è spenta da infelice: di sicuro non si aspettava di finire così».
«Ma i pretoriani non hanno avuto riguardi, non sempre si ha un Burro tra loro.
Messalina ha pagato caro, forse troppo. Non se lo meritava. Era gentile con noi
quando passava, le piaceva essere adulata.
Ormai è finita, comunque. Te l'ho detto. Non ci resta che accompagnarla al sepolcro e aspettarne
un’altra, se gli Dei non ci abbandoneranno. E c’è chi dice che lo faranno
presto».
«C’è chi dice che saremo noi a farlo».
«E che differenza farebbe?
Si curano di noi, se noi lo vogliamo.
E da quel che si è visto oggi, con l'assassinio di Messalina, non mi sembra che
lo vogliamo molto; anche se non c’è limite all’empietà, e almen - oggi - c’è ancor chi
pianga, ossia gente come noi».
«Dovevi fare il poeta».
«Non lo si può fare tutto il giorno, quando mi riesce lo faccio: contento?».
«No, io piango».
«Piangiamo insieme, amico mio».
Vatsapio e Pasquino si involano per la Città.
La notizia arriva ovunque in un baleno.
Le voci si spargono, tumultuose, confuse.
Chana Messalina ha lottato con tutte le sue forze,
ma è rimasta uccisa.
È spirata, o comunque vicinissima a farlo, tirata
sena speranza negli ultimi spasmi di una fatale agonia giunta all'epilogo...
La disperazione dilaga, non c'è più niente di
fare, la tragedia è consumata.
Si attende ora di vedere il cadavere.
L’Imperatore non immaginava che la caduta di
Messalina avrebbe generato tanto
cordoglio.
Un certo timore si insinua a corte.
Gli umori repressi della plebe sono pericolosi.
A Bruto non giovò l’uccisione del padre.
E qui a perire c'è la matrona più famosa di Roma.
I pretoriani vengono spediti a prelevarne il corpo.
Ma non riescono a entrare, quattro di loro sono linciati dalla folla; sono
giunti impreparati, con troppa arroganza, nelle anguste vie dell'Urbe,
formicolanti di plebei infuriati: anche il gladio è piegato dalla rabbia.
Nella confusione generale, non si riesce nemmeno a verificare la notizia, a capire se è stata esagerata, anticipata, o
rispondente a cadavere, che sia pur ancor caldo, sia destinato a freddarsi, a
poco a poco, insieme alle ultime, vaghe speranze di intravedere una reazione
nella prestante matrona annientata dal gladio.
Di tutto questo approfittano alcuni congiurati, tuttora scampati alla retata,
che infiammano la plebe e la
spingono verso il palazzo, con il corpo di Messalina al seguito, finalmente
tornata visibile.
Caricato su una
lettiga, è oggetto di morbosa attenzione;
un braccio della sventurata cade a penzoloni dal bordo, è evidente che la bella matrona non ha più il
controllo; nonostante tutto, l'avvelenatrice prova ancora a farle inalare
dei sali, o chissà quale altro proibito intruglio; spes ultima dea: si spera in una sua reazione, in un sussulto disperato, nella sua
voglia di protrarre la lotta; il braccio viene tirato su, per una questione di
rispetto.
C’è anche chi cerca di ficcarle in bocca l’obolo per
pagarsi Caronte, ma viene fermato.
«Se aspetta un po’, non le farà male».
A deludere le speranze di una ripresa in extremis, quella bocca
spalancata e incredula, indiscutibilmente di cadavere, quello di una matrona
dalle sessanta stagioni, sempre bella e prestante, che ha chiesto aiuto fino all'ultimo, incapace di arrendersi.
In molti urlano, quando riescono ad avvicinarsi
alla lettiga, vedendola schiantata e incapace di reagire.
In loro, infatti, non s'era ancora persa l'ultima
speranza.
La lettiga che trasporta il corpo della famosa
matrona freddata dal gladio si arresta.
«Popolo di Roma... Chana è morta!
Uccisa dal gladio, sventrata dal ferro!
Dal suo ventre gradito a Giunone... da cui un
giorno fortunato uscì un ardito giovane... degno di Cesare e dell'Impero... oggi
è uscito un ferro crudele, che l'ha sbudellata!», e la indica platealmente,
abbandonata inerte sulla lettiga. «È vero...», fa finta di raccogliere un
suggerimento, «Popolo di Roma...! Sono due i ferri! Un'empietà gemella ha
colpito Chana Messalina! L'ira
di Giunone è sopra le nostre teste!».
Un’orazione non certo raffinata come quella di Marco Antonio, ma pur sempre efficace, diretta
alle pulsioni della massa.
Il blocco di comando dei Pretoriani vacilla.
In tali casi è essenziale puntare sul cavallo vincente.
Vengono consultate le Sibille: se cade Chana, cadrà anche Roma; Chana ha
partorito Cesare con un cesareo.
Oscuri come sempre gli auspici, di scarso conforto alle pragmatiche decisioni.
Bisogna scegliere con lo stomaco. E col gladio.
Dopo un breve scontro interno ai Pretoriani, viene giustiziato il vecchio
Imperatore e acclamato successore il figlio di Messalina.
L'hanno stabilito le sorti del ferro, come tante
altre volte a Roma.
La folla è placata. Dalla pancia della matrona è uscito l'Imperatore: prima del
ferro... e dopo il ferro... con un doppio parto.
È caduta lei e anche la vecchia Roma.
Ha partorito Cesare a ventre aperto.
C'è fermento intorno al cadavere, giunto in lettiga sul Campidoglio.
L'avvelenatrice ci lavora ancora.
Ha ricomposto la bocca, l'espressione è meno
tesa, la sventurata matrona appare meno infelice.
Si cerca di cogliere un sospiro, un baleno negli
occhi, un auspicio.
Si spera di annunciare - tramite la rete di
Vatsapio e le pasquinate fulminee - che la lotta prosegue.
«CESARE!».
«CESARE!».
«CESARE!».
A breve distanza dal corpo della madre, la folla
acclama il nuovo Imperatore.
In molti ancora non sanno se la notizia è stata esagerata, anticipata, o rispondente a
cadavere freddo.
Si insiste in vari modi.
Il corpo non è del tutto freddo.
Non si sa ancora, con olimpica certezza, se la notizia è stata esagerata, anticipata, o rispondente a
cadavere morto.
Solo Caronte lo sa.
E aspetta.
Lui sa come passare il tempo.
La sua barca è sempre piena.
E trasporta la solita feccia.
Lettore, se vuoi conoscere l'attrice che ha
ispirato questo racconto, clicca
qui.
Il racconto è un tributo alla sua bellezza,
carisma, personalità.
Gli aspetti negativi sono introdotti per mere
esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico.
Il ruolo della protagonista va assimilato a
quello dell'attrice rispetto a un film.
La devozione alla persona in questione, da
parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta.


JACK
SFIDA LA VECCHIA PUTTANA
di Salvatore Conte (2016-2021)

Tra Whitechapel e Shadwell, 1888.
Ha lasciato la sua locanda - La Scrofa Bianca - e sta tornando a casa.
È tardi, la nebbia è padrona della notte.
A stento distingue il muro in mattoni del Tobacco Dock.
Il tacchettio degli stivali sul ciottolato risuona grave nell'etere plumbeo: è l’unica nota di vita in una notte lugubre e
di luna nera.
Benché velato dalla nebbia, il volto della vecchia Milena trapela inconfondibile:
noto e prestigioso nei due malfamati quartieri.
Impellicciata a mestiere, l'esperta locandiera - avanti con gli anni, ma non
decrepita - costeggia a suon di tacchi il lungo
perimetro del Tobacco Dock.
La cosa più straordinaria è che sotto non ha proprio niente... perché altrimenti
- fra i
tavoli della sua famosa locanda in Whitechapel - le verrebbe troppo caldo...

Ha sempre tanta bella carne addosso e ai suoi clienti lascia
fare quasi tutto... che si divertano... purché paghino...
Dai più facoltosi si fa accompagnare nelle sue stesse camere.
A sessant'anni ormai suonati, ha perso un po' di smalto, ma si tiene abbastanza
bene e nessuno è ancora in grado di trovarle un reale difetto.
Senza dubbio si è appesantita e imbolsita, si è fatta
vecchietta in volto, ma sempre
sulla falsariga giusta, e poi con le sue camicette - bianche e sbottonate - tutto va
comunque a posto. La Scrofa Bianca è sempre piena.
Ai clienti non riesce a nascondere la propria ossessione:
conoscere ogni dettaglio sugli omicidi di Jack; ai più intimi mostra la sua
collezione di articoli di giornale.


Ma per sé stessa non ha paura: ha fatto molti soldi, vive in
una bella casa, vanta amici influenti e si considera un'intoccabile.
Dalla nebbia emerge un signore elegante, con cappello a cilindro e mantello
nero.
Poteva andarle molto peggio.
Milena, comunque, non avrebbe avuto paura.
C’è chi la definisce una cinghialona, in virtù del fisico massiccio. Difficile metterle le mani
addosso contro il suo volere.
Qualcosa le dice che quell’uomo le parlerà.
«Mi scusi, signora...».
Il suo sesto senso aveva ragione.
«Che vuole…», non si fida, il sesto senso continua a lavorare.
«Ha notato, per caso, se l’ingresso al Tobacco Dock è ancora aperto?».
«Veramente… con questa nebbia... non ci ho fatto caso, mi dispiace».
SZOCK
«Anche a me…».
Una mano sulla bocca, l’altra intorno al pugnale.
Un movimento fulminante, che sorprende anche una come lei, abituata ai colpi
bassi.
«Sta buona... o ti apro fino all’orecchio...», è lì infatti che le sussurra la
severa ammonizione.
Swishh...
Estrae il coltello, lungo e affilato, quasi un bisturi, e la trascina
all’interno del Tobacco Dock, attraverso una porticina all’uopo scassinata.
I magazzini del tabacco sono un vero e proprio formicaio, ma le formiche
torneranno solo fra qualche ora.
A questo punto, nelle viscere del labirinto, può anche strillare.
Ma non lo fa, è troppo intelligente per farlo.
«Che vuoi farmi? Sei pazzo?», la coltellata, sebbene profonda, l'ha appena
scalfita: Milena sta in piedi normalmente, la voce è nitida.
«Io
sono Jack, mia cara…», e le mostra allusivamente il lungo pugnale.
«Jack!?».
Solo il nome l’ha già ammazzata.
Adesso sì che Milena ha paura.
Ma anche eccitazione per essere stata scelta, forse è questo
che voleva, in fondo.
Però
implora... implora una salvezza, che sembra impossibile pronosticare.
«Ti prego, non farlo... cos'è che cerchi...?».
«Fammi lavorare... o sarà peggio per te.
Io so dove colpirti...
Se ti agiti, è peggio: rischi di farti ammazzare...».
Lo guarda attonita.
«Ma io sono Milena Velba...! Non ti dice niente
il mio nome?».
«Mi dice molto infatti».
E procede...
«Questo strumento è poco più di un coltellino nella tua pancia da scrofa.
Sei una cinghialona, Milena. Non te la passi affatto male. Il tuo soprannome te
lo meriti».
«Tu... mi conosci... e sai che io... volevo conoscere te...».
«Le altre le ho prese a caso, con te ho scelto».
«Perché... perché...», spaventata dalla sua sicurezza.
«Lo capirai da sola.
Togliti la pelliccia. O potrei sbagliare».
Le concede il tempo di farlo da sé.
Lui quello di guardarla.
Infine procede.
«Ora ricordati le mie parole», si avvicina.
Potrebbe strillare, ma non servirebbe a niente; solo a innervosirlo.
Potrebbe lottare, ma anche lui ha un fisico massiccio, da aristocratico ben
tenuto; ed è un uomo; ed è armato; ed è un assassino; ed è Jack.
Potrebbe guadagnare qualche secondo, forse un minuto, ma lui diventerebbe
efferato, sarebbe in qualche modo costretto a sgozzarla, o a squartarla.
No.
Per quanto apparentemente folle, è meglio stringere i denti e lasciarlo
agire. Assecondarlo. Fare quello che ha chiesto: lasciarlo lavorare.
Potrebbe essere un chirurgo alla ricerca di emozioni violente, erotiche,
estreme; potrebbe essere una Vergine di Norimberga in carne
e ossa; lo scoprirà presto.

SZOCK
Swishh…
SZOCK
Swishh...
SZOCK
Swishh...
Un trittico serrato di coltellate, tutto nella pancia di Milena.
Ed è pronto a colpire ancora...
«No... ti prego... basta... basta…», e si muove di schiena intorno al pilastro
di
mattoni, quasi alla chetichella, con le gambe ancora sicure; l'azione è
surreale, non è una fuga vera e propria, è un tentativo di convincerlo a
lasciarla perdere.
«Non ho finito, mi dispiace».
L'agguanta e prosegue il lavoro.
SZOCK
Swishh...
SZOCK
Swishh...
SZOCK
Swishh...
Le coltellate sono profonde, gli occhi di Milena strabuzzano dalle orbite.
Ma la vecchia puttana rimane in piedi, ha raccolto la sfida.
E Jack infierisce.
Sempre al ventre.
SZOCK
Swishh...
SZOCK
Swishh...
SZOCK
Stavolta glielo lascia dentro.
«Ti prego... basta...».
«Non toccarlo...», Milena si è portata le mani sul pugnale.
«È rischioso toglierlo.
Ci penso io».
Swishh...
La vecchia puttana è ancora in piedi, si puntella con la schiena contro il pilastro del
magazzino.
«Non fare quella faccia.
Non è ancora il momento di crepare.
Lo vedi?
Te l’ho messo dentro dieci volte, ma stai ancora bene.
Potresti anche tornare a casa sulle tue gambe, come stavi facendo.
Basterebbe però che io ti aprissi un po’ per metterti in difficoltà.
E aprendoti ancora di più, la tua vita andrebbe in fumo... hai colto l'ironia?
Ci lasceresti la pelle, ma non subito.
Una come te tornerebbe a casa anche con le budella in mano.
Ma non è detto che io debba arrivare a tanto, anche se qualche pezzetto sporge
già.
Sei la donna più stronza e dura a crepare che mi sia capitata finora.
E su questo non avevo molti dubbi.
Dovremmo diventare soci, io e te.
Voglio darti una possibilità che non ho mai concesso a nessun altra.
Fanne buon uso.
Ma c’è una precondizione…».
«Quale...».
«Questa».
SZOCK
Le infligge l'ennesima coltellata,
entrando dal fianco, fino a sfiorarle la spina dorsale.
Milena spalanca la bocca, attonita, quasi indignata.
La vecchia puttana teme di aver incassato un colpo mortale.
«Rimanere in piedi dopo l'undicesima pugnalata.
E questa è un po' più dura delle altre...».
Milena si spreme per mantenere il controllo di sé, nonostante abbia una gran
voglia di crollare a terra.
Swishh...
La precondizione è soddisfatta.
«Io ho finito.
Ora sta a te lavorare.
Vediamo che sai fare...
Ma devi rispettare le mie regole.
Niente ospedale, intanto.
E non è una regola restrittiva.
Sono dei macellai.
Lì non avresti scampo.
Anche la povera Emma Smith c'ha lasciato la pelle.
Era stata brava a trascinarsi fino a casa, ma il ricovero al London Hospital le
è stato fatale.
La tua locanda è vicina, è lì che devi tornare», l'aiuta a rimettersi la pelliccia
e gliela chiude.
«La nebbia ti nasconderà.
Non dovrai chiamare aiuto.
Se chiamerai aiuto, verrò ad aprirti: hai inteso bene?
Giunti a questo punto... sarebbe un vero peccato doverlo fare.
Se qualcuno si accorge di te, tu prosegui.
Ai tuoi dipendenti racconterai che è stato il tuo amante, ma che non vuoi
denunciarlo e nemmeno che si sappia niente in giro, oppure la polizia ci
lavorerà di fantasia e la locanda verrà chiusa.
Farai chiamare il dottor Watson, troverai il suo biglietto da visita nella
tasca: è il miglior medico di Londra - escluso il presente, naturalmente - ed è
una persona per bene; le due cose sono raramente collegate tra loro.
Se non sarai crepata, dovrai tornare a servire ai tuoi tavoli entro tre giorni,
perché io ci sarò e dovrai servire anche me.
Queste sono le regole.
Non fallire, perché non avresti un'altra possibilità.
Spero che tu riesca.
Perché così diventeresti mia socia.
E ora va', sei libera...
Ti accompagno alla porta...».
«Sei... uno squarta...tore... gentiluomo... o mi stai... prendendo... in giro...»,
le gambe non sono più sicure e la voce nemmeno.
«Sono efferato, ma non crudele.
E niente è più crudele di una bugia.
Andiamo, Milena. Da qui devi proseguire da sola.
La mia parola è più sicura della mia mano».
La sagoma massiccia della vecchia puttana, leggermente ingobbita, va a confondersi nella
nebbia.
«È incredibile... m'ha lasciato... andare... ora... devo farcela... non devo
mollare...», sussurra tra sé, nel tentativo di darsi forza.
L'esperta locandiera seguirà le regole, perché così facendo diventerà la socia
di Jack, allargando a dismisura il suo potere.
Sa che non lo prenderanno mai.
E anche lei non deve farsi prendere.
Ma la morte non è certo ottusa e corrotta come Scotland Yard.
Non si può passarle una mazzetta, non basta montare un depistaggio, non si può
confonderla tanto facilmente.
Milena trema.
Avrà molto da sudare, prima di uscirne pulita.
E fra tre giorni dovrà servire ai tavoli.
Sa che non può fallire, che dovrà esserci e ci sarà; anche a
costo di farsi mettere - cadavere - su una sedia a rotelle, e di farsi spingere
in mezzo ai tavoli con la bava alla bocca e gli occhi vitrei.
La vecchia puttana sa che alla Scrofa Bianca ci sarà da servire un cliente
speciale. Molto esigente.
E che lei non potrà deluderlo.
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ispirato questo racconto, clicca
qui.
Il racconto è un tributo alla sua bellezza,
carisma, personalità.
Gli aspetti negativi sono introdotti per mere
esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico.
Il ruolo della protagonista va assimilato a
quello dell'attrice rispetto a un film.
La devozione alla persona in questione, da
parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta.


ZOTHIQUE:
LA PROSTITUTA DI OROTH
di Salvatore Conte (2017-2020)

II
marito era crepato, e lei s’era presa la sua taverna.
Senza troppe difficoltà.
Donna di taverna lo era sempre stata.
Finalmente adesso era la padrona.
Del destino, però, nessuno è padrone.
Bochra stava male.
Lo nascondeva
a tutti e ci riusciva bene, perché era sempre una gran donna, anche con
più di cinquanta soli sulla fronte.
Ma la malattia che le faceva vomitare sangue era con ogni probabilità
mortale. E non avrebbe tardato a presentarle il saldo.
Aveva consultato un curatore di Ummaos, affinché non se ne sapesse nulla a Oroth,
ma il responso era stato negativo: il curatore non aveva cure.
Una sera, però, aveva vomitato davanti agli avventori, e ormai - a Oroth - non si parlava d’altro:
Bochra stava crepando.
Lei stessa ne prese tragicamente coscienza.
Donna allo stato puro, potente, formosa, prestigiosa, era l'attrazione principale della città portuale di Xylac.
Aveva ricevuto attenzioni anche da personaggi in vista, ma adesso che si temeva
una sua rapida fine, aveva perso potere d’acquisto.
Lei, però, continuava a lavorare come niente fosse, servendo ai tavoli e
prostituendosi nelle sue stesse camere.
Ciò le dava l'illusione di poter andare
avanti, nonostante tutto.
Si diceva, però, ormai, che si cominciassero a vedere - tra gli avventori - anche dei
negromanti, evidentemente interessati a proporle soluzioni - per così dire - a
lungo termine…
Un cadavere di quel genere faceva gola.
Continuava dunque ad avere i suoi corteggiatori, ma ne era cambiato il tipo.
La potente
Bochra, però, non aveva intenzione di crepare tanto presto.
Li faceva servire, senza dar loro soddisfazione.
Il tempo, tuttavia, giocava a favore di questi.
Infatti, un giorno, mentre era al mercato, Bochra
si accasciò a terra.
Subito soccorsa, venne trasportata su una lettiga fino alla sua taverna.
Quella sera, dopo molto tempo, disertò i tavoli.
L’assenza non passò inosservata.
Molti avventori se ne andarono a bivaccare altrove.
I consumi calarono vistosamente.
Durante il giorno era un via-vai di visite.
A decine, da tutta la città, venivano a portarle qualche regalino, sperando di
vederla e di avere notizie sulle sue condizioni.
«Scusa se te lo chiedo, bella donna: da quanto tempo sei malata?», le chiese un
vecchio, al seguito di un avventore abituale.
«Chi sei... non… non ti conosco...», non respirava bene, parlava con affanno,
anche per la paura di crollare, che ormai la condizionava.
«Mi chiamo Plin e mi hanno parlato di te».
«Sono mesi… mesi… che tiro avanti…».
«Ma adesso non ce la fai più, vero?».
«Ho paura… che sia finita… vecchio Plin...
Mio marito... vuole portarmi con lui... da Thasaidon... ma
io... non mi lascerò prendere...».
«L'hai ucciso?».
«Sì... era un porco...»,
confessò senza quasi rendersene conto.
«Come?».
«L'ho avvelenato... lentamente...
nessuno l'ha scoperto...», la confessione era completa; gli
altri, però, sembravano non ascoltare.
«Ma ci sono delle voci in città...».
«Non importa... non ci sono prove...
vecchio Plin...
Ma non parliamo di quel porco...
I negromanti… mi hanno promesso la resurrezione… se mi uccido in una certa
maniera…», qualcosa nella serena compostezza di quel vecchio la invitava a
parlare.
«Quale maniera?».
«Con un coltello magico...
Devo piantarmelo nello stomaco… e aspettare…».
Fissò gli occhi nel vuoto, come se già sentisse il pugnale affondato nella
pancia, immersa negli ultimi momenti della sua vita.
«Io aspetterei a farlo, se fossi in te. Tu non vuoi morire».
«Io non voglio crepare… ma quando vedrò la morte in faccia… che altra speranza
avrò…?».
«Cerca di non farti ammazzare, intanto.
I negromanti potrebbero metterti fretta…», concluse sinistramente Plin; e fece
per andarsene.
«Aspetta... perché non rimani...».
«Sono vecchio...».
«Potresti darmi buoni consigli...
Quando starò meglio... ti servirò gratis per
un sole...», come tutti i moribondi aveva dei momenti di euforia.
«Il mio consiglio te l'ho dato.
Tornerò domani».
Tra i suoi seguaci c’erano anche soldati e mercenari.
Bochra chiese ad alcuni di loro di formare una guardia contro i malintenzionati;
dispose controlli anche in cucina; e comunque si faceva assaggiare il cibo,
l’acqua e il vino.
Tuttavia, le sue condizioni si aggravarono.
C'era molta preoccupazione intorno a lei, quasi panico da parte dei seguaci più
devoti.
Sapevano che era una gran donna, dalla fibra robusta e la volontà ferrea, e che
non avrebbe mollato tanto facilmente, ma le sue condizioni non promettevano
nulla di buono.
La bellona di Oroth fece chiamare uno dei negromanti, Zotor di Ilcar, e cominciò
a parlargli.
«Non voglio... morire… per sempre...».
«Se è questo ciò che vuoi, non succederà!», garantì solennemente il mago.
«Quanto tempo ho... ancora...», gli chiese, senza nascondere il terrore che la
opprimeva.
«Non molto. Devi prepararti».
«Ma io... non voglio crepare...», protestò schietta.
«Devi farlo, almeno un po', se vuoi vivere per sempre».
«Non sono... ancora pronta... Zotor... ho troppa paura...».
«La morte, quando verrà, non ti darà altro tempo, non ti farà scegliere.
Verrà e basta».
«Lo so... è così... ma io… voglio... provarci ancora...».
Bochra non si era ancora convinta.
Continuava a lottare, anche se non sarebbe servito a niente.
C'era da scommettere che un suo ulteriore aggravamento avrebbe tenuto tutti con
il fiato sospeso.
Non era tanto facile dare il colpo finale a un donnone potente come Bochra.
Sarebbe stata una tragedia in piena regola, come quella dei tempi leggendari.
La taverna tornò ad affollarsi anche di sera, anzi i posti non bastavano:
l’odore della morte era un potente richiamo.
Sapere che al piano di sopra la bella Bochra lottava per tirare avanti - ma che
non ce l’avrebbe fatta ancora per molto - metteva l'argento vivo addosso.
In caso di aggravamento fatale, la notizia sarebbe arrivata subito e avrebbe
fatto dilagare un febbricitante panico.
Bochra non poteva opporsi alla morte, alla fine anche una troia come lei avrebbe
ceduto, ma non si poteva ancora sapere quando, con esattezza.
C'era chi sperava che fosse presto, per godersi subito lo spettacolo della
prostituta di Oroth definitivamente stroncata dalla malattia e le scene di
panico dei seguaci; e c'era chi sperava che fosse il più tardi possibile, per
godersi altre serate di fremente attesa.
Lei, la diretta interessata, la bellona di Oroth, a sua volta provava una
goduria quasi carnale, un'eccitazione mortale, nel sapere di tante persone
raccolte nella sua taverna, e anche fuori, in uno stato di febbrile incertezza e
delirante devozione.
Sperava di non crepare tanto presto anche per questo: sentirsi ancora importante
per Oroth; essere sempre la più potente, la più adorata; la bellona e la
prostituta della città.
Una sera si sentì un po' meglio; e allora - con l'ausilio di una sedia mobile -
tornò a sorpresa a servire ai tavoli, suscitando enorme stupore e frenesia.
Era pallida e affaticata, ma se la cavò molto bene nel suo vecchio lavoro.
Aveva voluto dimostrare di non essere ancora del tutto fottuta.
Prima a sé stessa, poi ai suoi clienti, e infine ai negromanti.
Bochra ci provava, tentava di prendere le misure alla sua brutta e oscura
malattia, anche se sapeva - dentro di sé - di non avere scampo e di illudersi
stupidamente, perché spaventata dall'idea di morire.
La prostituta di Oroth non ci stava, e quella sera - se non altro - l'aveva
dimostrato a tutti.
La notizia dilagò fulminea per la città: la bellona si era ripresa, forse non
era condannata; aveva servito ai tavoli; non sembrava ancora fottuta.
I negromanti ne erano quasi scontenti.
«Non dovresti illuderti, Bochra», le rammentò Zotor. «Questa è una malattia che
non scherza, che non lascia scampo».
«Comprendo che tua sia un negromante, amico mio; un grande negromante. E non
intendo illudermi, infatti. Ma se mi rimane un po' di liquore, me lo bevo tutto,
prima di cedere. Sono la prostituta di questa città», gli rammentò Bochra.
La bellona aveva rialzato la testa dalla tomba prematura in cui molti, a Oroth,
l'avevano già sepolta.
Anche i notabili che l’avevano in precedenza adulata, tornarono a farsi vivi,
incuriositi.
Volevano sapere.
Volevano sapere se la prostituta fosse davvero in grado di riprendersi.
Volevano sapere se stesse seguendo una qualche cura e chi l'avesse eventualmente
impartita.
Bochra, però, tornò ad aggravarsi, gelando l'euforia che era montata
incontrollabile nei giorni precedenti.
Non si era più fatta vedere al piano di sotto, sudava freddo, lottava disperata,
stava perdendo.
Circolavano adesso voci funeste sul suo conto.
Bochra stava per mollare.
Era pallida, triste, quasi rassegnata.
La bellona tentava ancora, ma stava per arrendersi.
Ogni volta che dal piano di sopra scendeva qualcuno, chi stava sotto chiedeva di
lei.
Se dal piano di sopra proveniva uno schiamazzo, si temeva fosse lo sconforto per
la fine di Bochra.
La situazione presso gli avventori era ormai esasperante: nella taverna si
respirava un'aria satura di morte, si temeva perfino che la bellona fosse già
cadavere e che la sua sorte fosse tenuta nascosta.
Quando, intorno a mezzanotte, ci fu un via-vai di curatori e notabili, calò il
gelo fra i tavoli.
Bochra era mancata, trapelò questo, ma non era ancora cadavere.
Ci provava ancora, respirava, era tenuta in vita dai curatori, accorsi
prontamente per offrirle qualche valido palliativo.
La sua sorte, però, era appesa a un filo.
La notizia dilagò per tutta la città, suscitando clamore: stavolta la bellona
non ce la faceva più.
Dopo una lunga lotta, si arrendeva.
Notabili e curatori rimasero nella taverna fino all'alba, insieme alla maggior
parte degli avventori, che affrontarono la nottata bevendo alla salute di Bochra.
Il nuovo giorno non la vedeva ancora cadavere.
La gente bivaccava a oltranza nella taverna, e anche fuori.
I servi della prostituta raccoglievano moneta a più non posso.
Ostinatamente attaccata a un brandello di vita, Bochra aveva intorno a sé una
moltitudine di persone.
Di tanto in tanto riprendeva conoscenza e sussurrava qualche parola
sconclusionata.
Era chiaro comunque che non ci stava a crepare, avrebbe lottato ancora, niente
coltello magico nello stomaco, almeno per il momento.
Dal piano di sopra, un seguace faceva gesti, rivolto di sotto: una sorta di
cronaca animata dell'agonia di Bochra.
In quel momento, a esempio, richiamava concitato l'attenzione e mimava la
prostrazione fatale della bellona.
Un cupo silenzio, carico d'attesa, gravò sulla sala.
Il seguace mimò adesso che la prostituta era riuscita a riprendere aria,
liberando il sollievo dei clienti.
In molti si chiedevano che senso avesse guadagnare qualche ora.
Ma per lei un senso c’era.
Il vecchio Plin la stava aiutando.
Occorreva tempo, però.
Forse, senza di lui, sarebbe già morta.
Solo vivendo fino all’ultimo, si poteva sperare, le aveva detto.
E intanto moriva godendo, tenendo tutti inchiodati nella sua taverna.
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Il racconto è un tributo alla sua bellezza,
carisma, personalità.
Gli aspetti negativi sono introdotti per mere
esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico.
Il ruolo della protagonista va assimilato a
quello dell'attrice rispetto a un film.
La devozione alla persona in questione, da
parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta.


ZOTHIQUE:
ASSALTO ALL'OASI MALEDETTA
di Salvatore Conte (2017-2021)

«Che
vuoi, Publius?
Lo sai che non vado con i vivi».

«Non sono qui per scopare, Gorka.
Ti propongo un affare.
Sto mettendo insieme un piccolo esercito e mi interessa che tu ne faccia parte».
«Io? In un esercito?».
«Proprio così.
A parte
il mio amico Birk, e
il suo cane, lo sai chi c'è
dentro?
C'è dentro la Sceriffa Kleo, e... tieniti forte... Anafra... la
nostra amata ex Sceriffa».

«Birk è solo uno scapestrato come
te.
La Sceriffa è un tipo pericoloso,
aggressivo.
E quanto ad Anafra... non era
morta?».
«Birk è un idiota, te lo
riconosco, ma è leale.

Kleo
è pericolosa per gli altri, non per noi.
Cattiveria, ambizione e un gran fisico - ma
niente rispetto al tuo - ci saranno molto utili.
È vero, Anafra era quasi morta, anzi
cadavere; ma Galeor la sa più lunga di Thasaidon. L'alchimista ha fatto un
capolavoro.

L'ha sospesa a lungo
oltre la vita, e intanto le ha ricostruito una
parte delle viscere, usando i maggiolini operai; ce li ha ancora dentro.
Le sue budella sono tuttora sottosopra, Anafra
non è più la stessa di prima, ma la sua
famosa ambizione è rimasta tale, e questo conta parecchio».
«Loro due ti piacciono molto, non è vero?».
«A chi non piacciono due tipe come Kleo e Anafra?».
«Dunque io, al
cospetto di due mostri sacri del genere, che utilità avrei?».
«Tu sei una potenza, Gorka. Nessuno
oserebbe toccarti.
A parte i tuoi morti, certo...».
«Uhm... un esercito per fare
che?».
«Mostri, demoni e predoni non
oserebbero mai toccarti».
«Rispondi».
«Un esercito... per razziare e
usurpare l'Oasi Maledetta!».
Rise incontenibile.
«Sapevo che eri strambo, ma fino
a questo punto...».
«Insieme abbiamo tutto: forza e sete di potere.
Insieme possiamo farcela.
Avanti... non fare la stronza».
«Prima blandisci e poi insulti».
«Non ti ho insultato.
Le parole hanno un senso nel loro contesto; altrimenti finiremmo per tornare a
quei ridicoli vocabolari di un tempo.
“Stronza” - se riferito a te, e detto da me - ha il valore di “abile, forte e
avveduta”».
«E “figlio di puttana” - detto da me, e riferito a te - che valore avrebbe?».
«Quello di un complimento, tipo “simpatico sbruffone”, suppongo».
«Per me invece significa “pezzo di merda”, come da vocabolario antico, visto che
non sono una puttana quale tu pensi.
Io lo faccio per dargli un po’ di vita a questi
morti, lo sai.
Se poi mi portano qualche regalino, che male c’è?».
«Nessuno.
Allora…? In ballo c'è tanto oro e tanto potere...
Il Deserto di Nooth-Kemmor è una miniera di tesori: carovane derelitte, tombe,
città sepolte...!».
«Nooth-Kemmor…? Ma sei completamente pazzo?».
«L'Oasi Maledetta si nasconde
al suo interno: dicono che si sposti di continuo».
«Una volta gli alberi se ne stavano piantati in terra.
Comunque,
se fosse così semplice, lungo la strada per quel deserto si formerebbe una tale
fila da arrivare fino a questa necropoli».
«È pieno di predoni, mostri e demoni, infatti.
Sono questi che tengono lontani i
curiosi.
Allora, ci stai?».
«E a loro... chi penserà?».
«Istruisci una puttanella».
«“Puttanella”?».
«Vuol dire “inesperta seguace, non all’altezza di una perfetta stronza, ma comunque adeguata al servizio
in una necropoli, tenuto conto che anche per i morti non è
sempre tempo di vacche grasse”».
«Bastardo… tutte queste parole dentro una sola?».
«Quante cose, quanti principi, forze e misteri sono dentro te
sola?».
Lo guardò basita.
«Se non troveremo abbastanza oro, ti farò pentire delle tue adulazioni…».
«Accetto la scommessa, sei assunta».

A Zothique, gli sciacalli
avevano vinto; come al solito.
Galeor, l'alchimista di Cith, aveva però trovato la formula: presagendo l'arrivo
di un ispettore dalla capitale, aveva allontanato Chana e Bochra.
Le
donne avevano stabilito di dividersi il tesoro in due parti eguali, tre se
Anafra ce l'avesse fatta; perché Galeor continuava a provarci.
Ma
la Sceriffa inviata da Yethlyreom si era rivelata un osso più duro del previsto:
la perfida Kleo non avrebbe mollato la presa.
L'alchimista trovò una formula anche per questo: un po' per rimettere in gioco
la rediviva Anafra, non più abile a svolgere le funzioni di Sceriffa, un po' per
distogliere la pericolosa Kleo, mise entrambe sulle tracce di un tesoro molto più ricco dell'altro.
Si
rivolse a Publius, un giovane scapestrato di Cith, succube di Anafra, per dare
all'ex Sceriffa un fidato appoggio.
Lei, Anafra, avrebbe tessuto la
tela di un gioco molto pericoloso.
Avrebbe sfruttato l'ambizione e la potenza di Kleo, per arrivare al potere lei
stessa.
Stavolta, però, non avrebbe rischiato niente in prima persona. Utilizzando il
pretesto di essere ormai invalida, con le budella sfasciate e continue emorragie
e infezioni da gestire, avrebbe lasciato agli altri le battaglie, lei avrebbe
solo guardato.
La
nuova Sceriffa di Cith aveva colto l'occasione al balzo: rimandò a Yethlyreom
quattro delle sei guardie che l'avevano scortata, e tenne di stanza nel borgo le
altre due.
Così, con lo stratagemma di inseguire l'assassina di Anafra, avrebbe ottenuto la
sua definitiva affermazione...

Il deserto di Nooth-Kemmor, nell’estremo nord
di Zothique, era immenso.
Caratterizzato da una terra grigio cenere, si diceva infestato da creature di
altri mondi, giunte misteriosamente da sopra e da sotto.
Tuttavia, nemmeno la paura di mostri e demoni riusciva a scoraggiare i molti ladroni
che lo frequentavano.
La
lusinga di leggendarie ricchezze spingeva avventurieri, spiantati e predoni di
ogni risma a tentare la sorte, addentrandosi nei suoi orrori.
I cinque temerari procedevano a piedi. A parte Kleo, ben equipaggiata, e Anafra,
ingobbita su sé stessa, erano tutti armati di comuni
forconi da contadino.
Al seguito avevano un paio di muli, stracarichi di
provviste e attrezzature da campo, tenuti a bada da Jack, il molosso di Birk.
Il sole morto di Zothique allungava alla loro destra funebri ombre purpuree.
Stavano infatti dirigendosi verso nord, tagliando in due il deserto.
Publius e il suo amico erano due
ragazzi spiantati.
Gorka una prostituta delle tombe con un seno
che risvegliava i morti.
Kleo una sceriffa
di natura thasaidica,
un imponente, esuberante donnone, crudele e senza
scrupoli,
che tentava il tutto per tutto per raggiungere
il potere.
Anafra un'ex sceriffa con le budella strappate,
che non aveva accettato la propria fine, e
non rimpiangeva di essersi salvata a qualunque costo.
Poteva sembrare un'accozzaglia di
disperati, ma
nell'apatia mortifera di Zothique riuscire a organizzare qualcosa era già un'impresa.
Si addormentarono esausti e il giorno dopo avvistarono un’oasi che la sera prima
non avevano notato.
Forse era quella che cercavano: l'Oasi Maledetta.
In molti ne parlavano, ma nessuno l'aveva mai descritta in
maniera coerente.
Senza titubanze, decisero di esplorarla.
«Formazione a porcospino», ordinò
Kleo.
Consisteva nel tenersi
strettamente raggruppati, con i forconi e l'alabarda della Sceriffa a formare una selva
di punte, atta a scoraggiare eventuali aggressori.

La vegetazione dell'Oasi era del tutto sconosciuta, come
piombata su Zothique da chissà quale mondo.
Stranamente, il colore che spiccava maggiormente era il rosso, accompagnato da un sinistro
celeste.
L’ambiente che li circondava era inquietante, putrescente.
Una nebbiolina innaturale strisciava nell'ombra.
Procedevano a ranghi serrati, guardinghi ma
allegri, convinti di aver imboccato la strada giusta.
Dopo non molto Gorka si confidò con Publius: «Ho
l'impressione che ci stiano osservando...».

Giunto il pomeriggio, montarono il bivacco e si strinsero intorno al fuoco.
Nessuno di loro si sarebbe allontanato dal campo per niente al mondo.
Anche se probabilmente era ancora giorno, la
vegetazione era così fitta che sembrava notte.
«Qual è il piano, ragazze?»,
Gorka si guardava intorno, come se chiunque potesse ascoltare le sue parole.
«Stanotte faremo dei turni di guardia», la
risposta venne da Kleo.
«Buona idea, ma come faremo a
sapere quando sarà notte?».
«Sarà notte quando ci verrà
sonno.
Il campo è sicuro. L’importante è non allontanarsi
per nessun motivo.
Dobbiamo rimanere compatti».
«Nessuno oserà attaccarci»,
promise Anafra, dal canto suo.
«Ora ho da farvi un annuncio»,
Kleo richiese attenzione.
Non ci voleva molto a dargliela,
imponente com'era, e con la sua camicetta sbottonata fino allo stomaco.
«Dal presente momento, prendo ufficialmente possesso di
questa oasi e ne divengo Imperatrice.
Publius...».
«Somma Kleo, ti incorono
Imperatrice dell'Oasi Maledetta, secondo il tuo potente volere».
Il giovane le impose una corona
posticcia sul capo.
E si inginocchiò.
Gorka e Birk si inginocchiarono
per secondi.
Seguì terza Anafra, non senza
fatica.
Non era insolito a Zothique
usurpare regni e rivendicare imperi.
Il mondo era in aperta
dissoluzione, così usurpatori e conquistatori non apparivano figure tanto
negative come in epoche più remote: rappresentavano un sussulto di volontà, un esperimento di
rigenerazione.
Perciò l'ambizione di Kleo
suscitava simpatia.
«E
adesso… per festeggiare... vogliamo dividere, intorno a questo fuoco, il famoso vino di Yoros?».
I cinque si lasciarono un po' andare,
l’orrore di Nooth-Kemmor incombeva
pesante su di loro, e un buon vino era l'unico antidoto alla paura.
«Ehi, gente... è notte...».
«Come fai a dirlo, Gorka?».
«Mi è venuto sonno...», e rise di
gusto.
Poi tornò quasi seria.
«Ragazzi...
vedete anche voi... quei punti gialli nella nebbia?».
«Per Thasaidon, hai ragione…».
Anche
Jack percepì qualcosa, abbaiando in quella direzione.
«Questa nebbia non si alza mai, sembra parte
del luogo, sembra viva...»,
Anafra stava entrando in una delle sue
trance: era seduta a ginocchia incrociate, con il capo piegato sul petto, e si
premeva la pancia come avesse ancora dentro il coltellaccio di Bochra; aveva il
labbro sempre impastato di sangue, le emorragie fra le sue budella sconquassate
erano continue, e talvolta una coccinella gialla le volava dalla bocca.
Ma si era apparecchiata la salvezza e ne era
entusiasta: lo si vedeva dall'aria soddisfatta e fiera, e dalla cura con cui si
toccava l'addome, incredula di aver beffato il destino, grazie a Galeor.
«Questo
posto somiglia più a una
palude che all'oasi di un deserto.
Ma il campo è sicuro. Nessuno oserà attaccarlo.
Proviamo la formazione a falange!»,
comandò Kleo.
A parte l'Imperatrice e la fragile Anafra, gli altri tre
si allinearono spalla a spalla, con i
forconi protesi in avanti, verso il fitto della nebbia.
«Basta così!
Avranno capito che con noi non è
il caso di scherzare», Kleo sciolse i ranghi e ritornò intorno al falò, versandosi un altro goccio.
«Publius...», l'Imperatrice lo chiamò a
sé. «Ora ho finalmente il potere e voglio mantenerlo. Nessuno dovrà fermarmi.
Predisponi un servizio di sicurezza per questa notte. Voglio che nessuno possa
avvicinarsi alla mia tenda».
Quindi si ritirò, portando con sé
l'ex Sceriffa di Cith.
«Sei una vecchia puttana, Anafra;
ma sei mia...», Kleo le palpeggiò il seno. «Mi fai impazzire...
Ancora non capisco come hai fatto
a salvarti.
Quella voleva ammazzarti...
Ma se la prendo...
Dimmi... pensavi di morire,
vero?».
«Peggio... sono morta davvero».
«Hai toccato la fine... ma ora
sei qui, con me...
Io ho il potere... e lo dividerò
con te...».
«Useremo questi idioti per
diventare sempre più potenti, Kleo...
Ma devo stare attenta, amore
mio... perché potrei aggravarmi...
Le mie budella sono una
minaccia... non sono ancora salva... e non voglio morire...»
«Mi occuperò io di te. Quando
avremo una sede, ti sposterai in lettiga, non dovrai fare alcuno sforzo.
Intanto, qui giacerai con me,
protetta e al sicuro.
Se ti sale in gola troppo sangue,
ti veglierò tutta la notte, ti darò calore e forza...
Ora stringimi a te...».
La strana nebbia dell'Oasi penetrava
anche all'interno delle tende.
Gorka ne era innervosita e non
riusciva a dormire.
«Publius... vieni dentro, devo
parlarti.
Ci sono pericoli là fuori?».
«Molti».
«Allora vediamo di
dimenticarli...», e si sfilò - davanti al giovane - la stretta tunica
verdognola.
«Questo lo chiami
parlare?».
Gli spinse la testa in mezzo ai
grossi seni.
«Anche tu devi soccombere alla
potente Gorka».
«Non chiedo di meglio».
La notte trascorse senza altri incidenti.

«Sicure di voler proseguire?
E se invece ce ne andassimo, piuttosto che tuffarci ancora dentro questa melma?»,
al
mattino Gorka esternò alle compagne i propri dubbi.
«Proseguire o tornare
indietro.
Pensi ci sia qualche
differenza?
Questo luogo è incantato, è chiaro. Sembra avere una sua intelligenza, ci sfida,
e noi dobbiamo accettare la partita», Anafra, da quando era morta, aveva
sviluppato un fine intuito per l'occulto e il macabro.
«Già… una sfida… o una trappola…», Gorka rimaneva perplessa. «Non so davvero
perché mi sia lasciata convincere…».
«È tardi per avere dubbi,
bella.
L'Oasi non lascia fuggire nessuno, dovresti
saperlo.
Dobbiamo sconfiggerla per farlo. E io l'ho
fatto, dichiarandomi Imperatrice.
Perciò non fuggiremo».
Un discorso ambiguo, quasi folle.
Kleo era un'imperatrice di Zothique in
piena regola.
L’oro di Nooth-Kemmor avrebbe finanziato la sua ascesa presso un qualche decrepito regno dell'Ultimo
Continente. Lei l’avrebbe rigenerato con la sua possanza femminea.
Con un buon negromante al suo servizio,
avrebbe mascherato a lungo la vecchiaia, e poi la stessa morte, governando da
piacente cadavere, assorbendo la vita dai sudditi, senza mai cederla del tutto.
Kleo aveva le idee chiare.
La marcia proseguiva.
Né avanti, né indietro.
L'Oasi si spostava con loro.
Né lo spazio, né il tempo avevano sostanza.
Il terreno era molto irregolare. Pozze di fanghiglia si alternavano a tratti
compatti. Una nebbiolina endemica strisciava ovunque. Inquietanti getti di
vapore sbuffavano qua e là, senza coerente giustificazione.
Il colore rosso continuava a prevalere. Le forme della vegetazione erano
singolari, esotiche, aliene.
Di forme animali, invece, non vi era traccia.
«Un momento…», Gorka richiamò l’attenzione dei compagni. «Non vi sembra che
questa oasi, se così si può chiamare, dovrebbe essere già finita? Voglio dire…
non vi sembrava molto più piccola, ieri, a guardarla da fuori?».
«È quanto cercavo di spiegarti, ragazza.
Se questa oasi è incantata, potrebbe
estendersi all’infinito, capisci?».
«Ma allora... che camminiamo a fare?», insistette la prostituta delle tombe.
«Camminiamo in attesa di qualche evento», ribadì Anafra.
«Shhh…», Kleo interruppe la polemica. «C’è qualcosa…».
Le fronde della vegetazione stormirono.
Apparve una donna.
L'evento.

«Chi sei?», domandò l'Imperatrice.
«Sono Lunalia
di Xylac [1·2], Regina del Tasuun».

«Lunalia?!
Non è possibile.
Si diceva fosse vecchia e decrepita già molti soli fa; oggi sarebbe un'orrenda megera; ma è morta nel crollo di Miraab.
Il Tasuun e la sua corte non esistono più».
Un sorriso ambiguo era dipinto sul volto
incantevole, una fluente chioma di
capelli scuri le ricadeva sulle spalle e il petto, in un insieme che parlava da
sé.
«Ti dico che sono la Regina Lunalia, straniera».
Per un attimo la misteriosa figura fissò
Publius.
Nel guardarla, gli girò la testa.
«Noi... stiamo esplorando il deserto... in
cerca di avventure», uno strano impulso lo spinse a parlare.
«Ti sembra un deserto questo?».
«Un deserto...? No, certo che no... ma tutto intorno... c’è il deserto. O almeno
c'era...
Tu sei sola? Vuoi unirti a noi?».
Era lui che chiedeva, o
lei stessa che si faceva le domande?
«È da molto che sono sola.
Un po’ di compagnia mi darà piacere…», gli occhi grigi di Lunalia brillarono
sinistramente.
Adesso erano in sei.

Il
piccolo esercito si riunì intorno al bivacco.
La sedicente Regina era una donna di rara bellezza e imponenza, sicuramente
matura, ma di età ancora fresca, e tuttaltro che decrepita.
«Con noi sei al sicuro, Lunalia.
Se vuoi, puoi raccontarci la tua storia».
L’invito di Publius venne presto raccolto.
Sin da subito ne era stato colpito, avvampando, come avvampava adesso, nel
guardarla e nell’ascoltarla.
«Sono giunta sino a qui, nel deserto di Nooth-Kemmor, scortata dalle mie guardie.
Il tempo è per tutti, o quasi, un nemico inesorabile.
Io, però, non mi sono arresa.
È vero, la senilità mi aveva minato. A Miraab non si parlava che di mia figlia,
la principessa Ulua, che generai per ultima, già vicina alla vecchiaia.
Non era giusto. Non mi sono mai arresa nella mia vita.
Tutti i re di Zothique mi hanno conteso. Non
potevo scomparire nel nulla.
Ecco perché sono giunta sino a qui, dove ho trovato quello che
cercavo: un fungo che curasse la mia malattia...», una risatina malata chiosò
l'argomento.
«Sei dunque tu la leggendaria Lunalia!
Sì, la tua bellezza non può appartenere che a
te!», Kleo, Anafra e Gorka si guardarono sconcertate.
«Che pensi di fare ora? Dove sono le
tue guardie?», proseguì Publius.
«Le mie guardie sono morte, uccise dalla malattia».
«Che malattia?».
«Quella da cui io sono guarita».
Il fuoco del bivacco sembrò spegnersi.
«Quanto a ciò che intendo fare… curarmi
per sempre...
Ma adesso… raccontami di te e delle tue
amiche.
Cosa vi ha spinti in questo deserto?».
«Siamo alla caccia di tesori perduti».
«Vi auguro di riuscire.
Ora, però, mi sento un po’ stanca… vi prego di scusarmi... il fungo lenisce gli effetti della
vecchiaia, ma le energie rimangono quelle di un'orrenda megera...»,
ricalcando le parole di Kleo.
Publius l'aiutò a rialzarsi.
Lunalia si ritirò nella tenda messa a sua
disposizione.
In effetti il passo e i movimenti erano goffi
e incerti, tipici di una persona molto anziana.
Il fuoco rimaneva acceso tutta la presunta notte, attizzato da chi
rimaneva di guardia.
«Che ne pensi di lei?», Publius si rivolse ad Anafra.
«Ho visto come la guardi. Ma stai attento, quella è più pericolosa di una lamia...».
Le parole dell'ex Sceriffa di Cith erano una
sentenza difficilmente commutabile.

Il mattino portò un nuovo evento.
La nebbia infittì e le fronde della vegetazione
intorno al campo, aprendosi, rivelarono una sconcertante visione.
I sei dell'Oasi Maledetta si ritrovarono circondati da una dozzina di cadaveri in
uniforme, putridi e bagnaticci. Le insegne del Tasuun erano facilmente riconoscibili.
Avanzarono verso il campo con la spada sguainata.
«Guarda
se riesci ad addolcirli, Gorka...»,
suggerì Publius.
La prostituta delle tombe, iniziata alla
negromanzia, oppose le braccia.
«Una mente crudele li controlla. Ha
succhiato loro la vita, si è cibata di loro.
Non posso fare niente!».
«E allora combattiamo!», proruppe Kleo. «Li vedete? La loro mente è immersa nel Lete, i
movimenti ne sono rallentati; basterà non farsi sorprendere, e li
respingeremo...
Formazione a falange!».
L'ottimismo dell'Imperatrice si rivelò ben presto
infondato.
Benché con la testa nel Lete, rallentate e
inespressive, le guardie del Tasuun erano infaticabili.
Sebbene respinte, ritornavano all'attacco.
«Il fuoco! Proviamo con il
fuoco!», suggerì ancora Publius.
Ma ancor prima di poterci
provare, si accorsero che il fuoco si era spento.
«Maledizione!», imprecò Anafra.
In quel mentre, tutto intorno a loro, la risata malata di Lunalia
prese a
stormire le fronde della vegetazione come una brezza thasaidica.
Dov'era finita?
La Regina del Tasuun riapparve accanto ai suoi
uomini.

Le guardie di Lunalia erano
pronte a sferrare l’ennesimo attacco.
La linea difensiva a falange si
era ormai sfilacciata, i forconi spezzati; la fuga sembrava
diventata l'unica via di scampo.
Tuttavia, mentre Anafra appariva
in trance, una delle guardie si sfilò dalla formazione
d'attacco e si voltò verso Lunalia, puntandole contro la daga.
«Fermo!», la Regina, impacciata
come una megera nei movimenti, non era in grado di fuggire.
SZOCK
L'ordine, però, non servì a
niente.
Il cadavere le immerse l'arma
nella pancia, fino al manico.
Lunalia abbassò lo sguardo, incredula, portando entrambe le mani
sull'impugnatura della daga.
«Maledetta...», sibilo rabbiosa,
quando lo rialzò.
Aveva capito chi le aveva
sottratto il controllo.
Anafra c'era riuscita: aveva fatto breccia nello spirito
dolente della guardia e attinto alla sua sete di vendetta.
Barcollando incerta, pesantemente ingobbita, Lunalia avanzò a piccoli passi verso il campo.
Le sue guardie stavano perdendo forza, la sola Kleo poteva adesso sbaragliarle senza
difficoltà.
I miseri cadaveri sbandarono nel folto della macchia, ripiegando in
disordine, come al verificarsi di una disfatta.
«Guarda… che ha fatto… la tua amica…», la Regina si rivolse a Publius.
«Adesso non ridi più, Lunalia?»,
infierì Kleo.
Continuò a camminare lentamente, lasciandosi cadere intorno al bivacco, appoggiandosi di
spalla al tronco di un albero, sempre stringendo la daga fra le mani.
Il fuoco tornò improvvisamente a
crepitare.
Stava dando le spalle a tutti.
E quando tornò a voltarsi, non
era più la stessa Lunalia di prima.
Dalla ferita colava uno strano
liquido, più denso del sangue e con venature grigio cenere.

«Le vecchie come me... hanno il sangue cattivo…
Sapete... quanti soli ho visto…?
Io... ho perso il conto…».
La donna di splendente bellezza
da quaranta soli aveva lasciato il posto a una donna decrepita con almeno il
doppio degli astri rossi sul groppone.
Tuttavia rimaneva elegante e
raffinata pur nella vecchiaia ora conclamata.
E comunque il conto non tornava
ancora, poiché Lunalia avrebbe dovuto superare, e di non poco, i cento soli.
A prescindere da quanti fossero
con precisione, se li portava ancora decisamente bene, sebbene il
merito fosse da attribuire, in primis, al fungo maledetto; ma anche alla sua
ostinazione, questo non si poteva negarlo.
Publius si avvicinò, sconcertato,
con il chiaro intento di aiutarla, se fosse stato possibile, mentre Kleo e
Anafra era curiose di sapere tutto.
Fu la stessa Regina a parlare
ancora.
«Questo sangue... è maledetto...
Io... mi sono salvata... costringendo
altri... a morire per me...», la voce era quella di un'orrenda megera
ultracentenaria.
Publius, intanto, le asciugava il
sudore freddo sul collo, non potendo fare molto di più.
Non pensava di estrarre il
pugnale, perché uno shock del genere avrebbe rischiato di ucciderla.
Era meglio se parlava, prima.
Forse avrebbe rivelato qualcosa di importante.
«Il fungo... guarisce dal
tempo... ma cresce... vicino ai cadaveri...
Perciò... li ho ridotti così...
loro... e altri...».
«Maledetta...», l'apostrofò
Kleo.
«Sì...», come avesse ricevuto un
complimento, «sono maledetta... ma... io... avevo... il diritto... di vivere... e
salvarmi... dalla malattia...
Li ho fatti combattere... per
me... uno contro l'altro...
E l'ultimo... si è ucciso...
davanti a
me...».
Non era una confessione
tradizionale in articulo mortis.
Benché sofferente e colpita a
morte, Lunalia voleva esternare tutta la
sua potenza e rimanerne compiaciuta ancora una volta.
«Io... ho cento... ventidue...
soli... non sono... troppo vecchia... ne mostro... la metà...
Io... posso... ancora tornare...
a Miraab... posso tornare... sul trono... vero... Publius...».
Il fatto che nonostante l'età avanzatissima nutrisse ancora ambizione, non
poteva non renderla simpatica, almeno al giovane.
«Ora basta...».
«No!».
SWISH
Kleo, indispettita da quella
folle ambizione, le strappò la daga dalla
pancia.
Lunalia strabuzzò
incredula gli occhi.
«Che hai... fatto...», nel
biascicarlo si
rovesciò a terra con la bocca spalancata.
Sotto il corpo si vide
allargarsi una densa macchia grigio-rossa.
Come impazzita, Lunalia strisciò
furente verso una pozza di fanghiglia e comincio a bere.
Quindi si rovesciò a pancia
sopra, guardandosi disperata la ferita.
Publius le prese la mano nella
sua. Era freddissima. Stavolta non v'erano dubbi che fosse una sua decisione.
«Non voglio... morire...», a 122
soli, Lunalia era ancora assetata di vita.
Si voltò verso la pozza a tornò a
bere in quella putrescente fanghiglia.
Era ancora molto bella,
nonostante il vistoso invecchiamento.
Quando tornò a pancia sopra, boccheggiò rinfrancata,
tradendo una certa soddisfazione: il deflusso del sangue
maledetto stava rallentando.
Tuttavia Lunalia era cinerea. La
Regina era vicina alla dissoluzione totale.
E nel mentre, le fronde dell’Oasi si erano diradate. Il sole purpureo di Zothique filtrava
abbondante.

Passarono altri minuti e la vegetazione si diradò completamente.
Rimanevano solo arbusti secchi,
rovi e un piccolo stagno, attorno a cui crescevano centinaia di funghi rossi
maculati di bianco, e sul quale galleggiavano numerosi cadaveri.
Publius capì da solo quello che doveva
fare.
Raggiunse lo stagno e raccolse
una manciata di funghi.
Quindi li polverizzò sulla ferita
della Regina e rimase in attesa.
Il sangue maledetto che defluiva
dal corpo di Lunalia non solo rallentò ancora fino ad arrestarsi, ma
addirittura invertì il proprio corso, rientrando lentamente nello stesso corpo.
«Ci accompagnerai nel nostro
viaggio e ci svelerai i misteri di Nooth-Kemmor, Regina del Tasuun», disse
imperioso il giovane.
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ispirato questo racconto, clicca
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Il racconto è un tributo alla sua bellezza,
carisma, personalità.
Gli aspetti negativi sono introdotti per mere
esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico.
Il ruolo della protagonista va assimilato a
quello dell'attrice rispetto a un film.
La devozione alla persona in questione, da
parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta.


TROPPO POCO PIOMBo
di Salvatore Conte (2010-2022)
Gloria aveva un piano: migliorare la sua
reputazione eliminando la potente Chana Gorman. Troppi uomini del suo clan, i
Boccanegra, erano caduti vittime del fascino letale di quell’esperta puttana.
Gloria le avrebbe saldato il conto.
In effetti era quotata quasi quanto Chana nell’ambiente. Ma ora lo scontro
finale fra le due seduttrici avrebbe posto fine per sempre al mito della vecchia
Gorman e segnato la sua definitiva affermazione.

Il loro primo e ultimo incontro avvenne di notte, in aperta campagna,
all’interno di un’anonima area di sosta, malamente illuminata.
Chana osservava attenta la giovane e snella bruna, mentre le si faceva vicino. Quell’incontro poteva essere il primo passo verso una tregua tra le famiglie. I
clan Boccanegra e Gorman avevano dominato il commercio della cocaina sulla
Costa Est per 30 anni. Puttane e pezzi grossi avevano piegato egualmente i loro
nasi. Le famiglie avevano provato a schiacciarsi l’un l’altra, ciascuna tentando
di conquistare il monopolio su tutta la Costa Est. Ma solo per riempire le
strade di cadaveri e arrivare a una condizione di reciproca, pericolosa
debolezza.
Quella sera Chana doveva consegnare a Gloria due milioni di dollari in cambio di
un mese di pura cocaina colombiana.
Se questo accordo avesse funzionato, si sarebbe potuta realizzare un’alleanza
completa tra le due famiglie.
Il boss dei Boccanegra, tuttavia, non gradiva affatto l’idea di condividere i
suoi agganci colombiani, men che meno con gli odiati Gorman.
Così Gloria era stata incaricata di far fallire l’accordo con ogni mezzo.
Questo significava la morte per Chana Gorman e per qualsiasi scagnozzo della
sua famiglia.
Chana era informata del pericolo. Si era espressa contro l’accordo, ma eseguiva
gli ordini per rispetto nei confronti del fratello, Fred Gorman.
La potente Chana era già stata ferita un paio di volte e si riteneva fortunata
di aver tagliato il traguardo dei 50 ancora in condizioni perfette.

Sapeva di non poter durare per sempre e dunque
non aveva troppa paura di finire come un giorno sarebbe comunque finita.
Presto
o tardi avrebbe beccato un proiettile di troppo e l’avrebbe accettato.
La vecchiaia le faceva paura: super matura sì, decrepita no.

Nessuna parola fu scambiata. Le due donne sostennero a lungo l’una lo sguardo
dell’altra. Gli occhi di Gloria suggerivano un’intensa, anticipata eccitazione.
Chana aprì la sua valigetta per dimostrare che la promessa dei Gorman era
stata onorata.
Gloria fece altrettanto, rivelando la bianca presenza dei sacchetti di coca.
Ma all'interno della valigetta, sotto la roba, riposava una calibro 45 automatica e
silenziata.
La ragazza appoggiò distrattamente il bordo contro il ventre di Chana.
Una piccola stringa di plastica trasparente era avvolta intorno all’indice della
sua mano.
Doveva solo tirare improvvisamente la mano verso di sé e la pistola avrebbe
riempito del suo carico famelico il vulnerabile intestino della Gorman.
Gli occhi di Gloria non avevano mai brillato così intensamente mentre fissavano
la camicetta sbottonata della rivale: era ancora bella, e sempre elegante,
distinta.
Prima accostò lentamente a sé la mano, poi diede uno scatto improvviso.
FLOP
Chana Gorman, il mito vivente, avvertì il soffio metallico del colpo
silenziato, prima che un dolore caldo la obbligasse a guardarsi la pancia!
Gloria non stava più nella pelle.
L’aveva fregata.
La sua eccitazione, però, durò poco.
SZOCK
La Gorman, mentre con una mano spingeva di lato la valigetta, con l’altra
estrasse fulminea lo stiletto che portava lungo la coscia e lo piantò profondo
nel collo della rivale.
La morte fu quasi istantanea.
Nella sfida mortale fra le due pericolose killer dei clan Gorman e Boccanegra,
era Chana a essere rimasta in piedi.
Gloria era stata eliminata: l’ennesimo cadavere che si aggiungeva alla lunga
lista dei morti ammazzati sulla Costa Est.
Anche Chana Gorman, però, doveva fare i conti con un problema molto serio:
calibro 45, per la precisione; stava cercando di riorganizzarsi.
Aveva più di 65 anni, ma era ancora una donna
molto potente: una vecchia gloria molto ben tenuta.
Rimaneva un mito.
Con i denti digrignati, per la rabbia e la determinazione, la Gorman caricò in
macchina entrambe le valigette, mise in moto e partì a razzo, bruciando le
gomme.
Mentre guidava ripeteva tra sé che mai si sarebbe fatta fottere da una
pallottola sparata da una stronza.
Voleva salvarsi a tutti i costi.
Avrebbe ucciso chiunque si fosse interposto tra lei e la sua salvezza, compreso
il fratello, che forse l’avrebbe fatta liquidare, visto che il buco di Gloria
era un affare serio.
Aveva i soldi e la droga: aveva tutto.
Agli altri raccontava di non aver paura di crepare, che a tutti capitava prima o
poi, ma ora che era toccato a lei, non aveva alcuna intenzione di rimanerci
secca, anche se la pallottola era mortale.
Doveva però arrangiarsi senza finire in ospedale.
Le occorreva una spalla, un uomo di cui fidarsi.
Accostò l’auto e fece una chiamata.
Aveva contattato Johnny, uno dei suoi ragazzi.
Lo aspettò nel luogo convenuto.
Il piano di Chana era quello di far calmare le acque.
Rischiava una ritorsione sia interna che esterna.
Voleva starsene nascosta, farsi curare e tenersi soldi e droga come strumenti di
pressione.
«Cazzo, Chana! Ti hanno beccato!», esclamò Johnny, quando la vide tenersi la
pancia, con le mani impregnate di sangue.
«Non è niente… ho il controllo... muoviamoci…», ma la voce rauca della donna e
il pallore spettrale del volto tradivano la gravità della situazione.
Johnny guidava per raggiungere in tempi brevi un covo segreto e da lì chiamare
un buon medico.
Se la vecchia puttana crepava, si sarebbe ritrovato fra le mani quattro milioni
di dollari. Se la tirava per le lunghe, avrebbe avuto lei.
Insomma, se non lo pizzicavano, gli era andata bene.
Rimanevano, però, troppi “se” sparsi per la strada.
Chana si premeva ambo le mani sull’utero. Le bruciava da morire.
Ma voleva mostrarsi sicura di sé nei confronti di Johnny e così evitava di
lamentarsi.
Non gli avrebbe detto niente fino alla fine.
SKREEKKK…
Improvvisamente un’auto che proveniva dal senso opposto di marcia tagliò loro la
strada.
«Bastardi!», esclamò inferocito Johnny.
Fu costretto a fermarsi, aprì lo sportello e - proteggendosi dietro la portiera
- cominciò a sparare.
La Gorman, benché ferita a morte, fece la stessa cosa sul proprio lato.
Con la forza della disperazione, si tirò su e cominciò a sparare anche lei.
Entrambi i finestrini erano già abbassati, data la serata calda.
E ora sempre più bollente.
Erano in due anche gli avversari.
Johnny riuscì a liquidare il suo dirimpettaio, senza subire danni.
La Gorman non ebbe la stessa fortuna.
«Chana!».
Aveva centrato in fronte il suo diretto avversario, ma si era beccata una
pallottola nello stomaco, crollando addosso alla portiera, le braccia a
penzoloni verso terra.
«Chana!», Johnny ripeté l’urlo.
La ributtò dentro e ripartì bruciando le gomme.
La Gorman era viva, ma sotto shock: bocca spalancata, occhi sbarrati e braccia
molli lungo i fianchi.
Adesso non aveva più alcuna possibilità.
La gran puttana era spacciata.
Li avevano intercettati, ma la corsa proseguiva.
«Chana!», Johnny esplose ancora in quell’urlo ossessivo, ancora più sconvolgente
nel chiuso dell’abitacolo.
«Cough… cough…», la Gorman rispose vomitando sangue.
Adesso aveva grossi problemi da gestire.
«Dannata troia, questa pallottola non ci voleva».
Johnny prese a guidare sempre più veloce, incurante di eventuali pattuglie della
polizia, e di continuo si voltava a guardare la faccia incredula di Chana.
Chiamò il medico direttamente dall’auto, rischiando di finire fuori strada.
«Sta arrivando, stai tranquilla.
Porterà plasma e ossigeno.
Ti sentirai meglio».
Aveva raggiunto il covo e l’aveva stesa sul letto.
Chana Gorman era in fin di vita
Rimaneva uccisa da piombo fatale.
Ma si sarebbe consolato con quattro milioni di dollari.
«È andato… tutto… storto…», le palpebre erano pesanti, fluttuavano, era uno
sguardo molto sexy.
«Hai fatto troppe stronzate, Chana!», Johnny le sbottò in faccia, scaricando
così la sua rabbia.
La Gorman ebbe una convulsione e con la mano destra intrisa di sangue afferrò
l’uomo: «Stronzo… di merda… sono arrivata… a 65 anni…», gli stringeva il braccio
con forza innaturale, «porta… rispetto…».
«Scusami… scusami, Imperatrice…».
Mollò la presa e vagò con lo sguardo sul soffitto della camera.
La bocca sempre più spalancata annaspava alla ricerca di ossigeno.
«Prova a reggere, il medico sarà qui a momenti».
«Ci… sto… provando… idiota…».
Troppo poco piombo per un mito.
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ispirato questo racconto, clicca
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Il racconto è un tributo alla sua bellezza,
carisma, personalità.
Gli aspetti negativi sono introdotti per mere
esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico.
Il ruolo della protagonista va assimilato a
quello dell'attrice rispetto a un film.
La devozione alla persona in questione, da
parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta.


HESSA e HANNA
NEL TRIANGOLO DELLE BERMUDE
di Salvatore Conte (2018)

Modena,
2 aprile 1945.
«Me l’ha portata troppo tardi, Colonnello.
È invasa dal cancro».
«Come l’Europa…».
«Non escludo possa sopraggiungere la morte già nelle
prossime ore».
«Ma… io pensavo… le rimanesse almeno un mese…».
«Se cominciamo subito la mia cura... e se la paziente riesce a
resistere il tempo necessario a conseguirne i primi benefici… diciamo che potrebbe sopravvivere
qualche settimana, forse alla fine della guerra.
Con il mio farmaco il tumore verrebbe rallentato, quasi fermato, appena prima
del colpo di grazia: gli ultimi tre giorni possono
diventare tre settimane.
Ma nessuna speranza di salvarla, sia chiaro.
Me l’ha portata troppo tardi».
«Tre settimane non sono poche.
Sarebbero
sufficienti per quello che ho in mente...
Iniziamo subito la cura, dottore.
Il marco ha perso potere d’acquisto, ma questo compenserà i vostri sforzi...».
Hessa Von Thurn mostra un lingotto d'oro al
medico italiano.
«Via, Colonnello… non vorrà offendermi, spero.
Mi rammarico solo di non poter fare di più per il Maggiore
Franzen».
«La porterei volentieri con me, dottore, ma è meglio
che qualcuno rimanga; anche se, con i cattocomunismi, temo, non vi troverete a
vostro
agio».
«So come badare alla feccia, Colonnello.
Piuttosto, debbo arguire che lei sia in
partenza?».
«Esattamente, dottore.
Non appena riuscirete a stabilizzare il Maggiore,
toglierò il disturbo».
«Nessun disturbo, davvero».
«Vedete... dottore... noi non siamo né la destra,
né la sinistra.
Noi siamo la testa...».

«Credo di afferrare il concetto, Colonnello.
Ma mi lasci dire che mi dispiace molto per il Maggiore, avrei
preferito seguirla personalmente fino alla fine».
«Non mi rimane difficile crederlo.
In qualche modo, però, vi farò sapere quanto sarà
durato il mio ufficiale subalterno, prima di arrendersi...».
«Gliene sono grato.
E tuttavia... ho suggerito a un mio giovane
assistente di mettersi a sua disposizione, Colonnello».
«Molto bene.
Hanna deve ricevere il meglio fino alla fine».


Triangolo delle Bermude,
2 maggio 1945.
«È finita, Hanna. Sei sopravvissuta al III Reich».
«E... a questa tempesta...?».
«Non molli, eh?».
«Provo a crederci... fino alla fine...», la
faccia spettrale di chi combatte una guerra impossibile da vincere. Dopo
Berlino, sta per cadere anche la Franzen. «Ma ricordati... che voglio
risvegliarmi... provale tutte...».
«Appena saremo in America, sarai ricoverata in
una delle migliori cliniche: e se anche fosse tutto inutile, sarai ibernata e
risvegliata dai nostri scienziati».
«Colonnello... il mare è troppo grosso, dobbiamo
puntare sulla vicina isola».
«Come si chiama?».
«Ehm... veramente... non è segnata sulle mappe».
«Ne prenderemo possesso noi, allora.
Procedete pure, Capitano».


Il vecchio Capitano Ben Morris ha la fortuna di
avvistare una profonda
insenatura nell'isola, quasi un porto naturale.
L'imbarcazione è in salvo.
Cessata la tempesta, Hessa Von Thurn rivela il
suo piano: «Esploreremo l'isola, prima di andarcene.
Voi,
Capitano, rimarrete qui, insieme al nostromo.
Ma occhi bene aperti...
Tutti gli altri sbarcheranno con me».
Detto-fatto, viene calata una lancia.
Il paesaggio è tropicale, incontaminato, per ora
nessuna traccia di presenza umana.
L'ex Colonnello Von Thurn, arma in pugno, guida
la piccola colonna.


L'avvenente,
straripante valchiria è come sempre tirata a lucido nella sua perfetta uniforme.
In fondo, lei non si è ancora arresa.
È seguita da un altro biondo, il giovane e
aitante timoniere Luke Halpin.
Viene poi la carrozzina del Maggiore Hanna Franzen,
aristocratica, bellissima cinquantenne, invecchiata di vent'anni dalla malattia,
che l'ha annientata con la forza devastante di un bombardamento a tappeto.

È
spinta dal dottor Luigi Di Brutto, giovane allievo dell'anziano luminare
modenese.
Anche lei non si è arresa.
Chiudono la fila l'industriale tedesco ribattezzato Jack
Davidson e la moglie Beverly.
«Mi scusi, Colonnello... si può sapere cosa spera
di trovare in questo accidente di posto?», la domanda viene dallo
pseudo-Davidson, ormai spazientito dalla lunga scarpinata nella giungla.
«Mister Davidson...», il tono è ironico, «non la
incuriosisce il fatto che quest'isola non sia riportata su nessuna carta
nautica?».
«E perché dovrebbe? Abbiamo perso l'intera
Europa... e l'Africa...».
«Vero, ma... le abbiamo perse perché i dettagli
sono spesso trascurati.
E poi qui l'unico a potersi lamentare sarebbe il
Maggiore Franzen», le asciuga il sudore dal collo.
«Almeno lei se ne sta seduta».
«Ne farebbe volentieri a meno.
Ma parlavamo di dettagli...», Hessa smuove un
fascio di liane aggrovigliate tra loro.
«E questa... che roba è...?».
«È una colonna classica.

Forse un'eruzione vulcanica ha riportato alla luce qualcosa di
importante, Mister Davidson».
«Senz'altro lo è, Colonnello. Organizzeremo una
spedizione non appena arrivati in America».
«Prima, però, effettuerò un sopralluogo.
Il Maggiore Franzen e il Dottor Di Brutto
rimarranno con me.
Voi tre, invece, potete rientrare.
Mister Halpin, siete in grado di rifare il
percorso al contrario?».
«Penso di sì».

«Hanna, voglio vedere se riusciamo a trovare
qualcosa per te.
La spingo io, Dottore».
«Non pensi che... quegli idioti...», la voce
affaticata, incerta, il volto spettrale, «possano ripartire... senza di
noi...?».
«Solo io conosco dove approdare, mia cara».
I tre entrano nell'antica struttura: sembra un
tempio classico.
Ma niente tecnologia, come forse sperava la Von
Thurn.
«Hessa...».
«Hanna... cosa c'è...?», si riavvicina.
«Aiutami...», ha una crisi.
La Von Thurn le asciuga pazientemente il collo,
facendole sentire la sua presenza.
La Franzen è alla fine.
«Devi stare calma, Hanna. Continuare così e
andare avanti».
«Mi sento strana... sto male...», sta perdendo i
sensi.
«Dottore!», lo chiama come un soldato del corpo
di guardia, imperiosa, quasi rabbiosa.
Il giovane medico apre subito la borsa: tutti i
palliativi possibili sono messi in campo.
La Franzen è semi-incosciente: forse è l'avvio
dell'agonia fatale.
«Vieni fuori da lì!», un altro ordine, rivolto a
una colonna.

È uno zombi, ma Hessa non si scompone
minimamente.
Orrori ed esperimenti estremi erano la normalità
fino a poche settimane prima.
«Appartieni a questa antica civiltà?», non
la sorprende che fossero molto avanti nelle scienze negromantiche.
La creatura annuisce blandamente.
«Che attività svolgevi in vita?».
«Io... guaritore...», la sapienza universale dei
morti permette al cadavere vivente di superare la barriera linguistica.
«Allora è l'inferno che la
manda, dottore...
Ho bisogno di sapere come curavate il tumore».
«Tumore...
malattia rara... noi curare... con seme di albicocca... impossibile
sopravvivere».
«Albicocche? Quello stupido frutto?
E dove le trovo, adesso?».
«Colonnello... ieri sera, prima della tempesta,
le abbiamo consumate a cena...
Se non erano le ultime...».
«Ha ragione, dottore.
Torneremo subito indietro, insieme al suo
collega.
Dottor Zom... avrà presto un altro tempio...».
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Il racconto è un tributo alla sua bellezza,
carisma, personalità.
Gli aspetti negativi sono introdotti per mere
esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico.
Il ruolo della protagonista va assimilato a
quello dell'attrice rispetto a un film.
La devozione alla persona in questione, da
parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta.


