La Troia Gigante

La truffa del bottone

LA TROIA GIGANTE

di Edgar Wallace e Salvatore Conte (1927-2023)

PERSONAGGI

Patrick J. Minter, detto Super

sovrintendente di polizia

Jim Ferraby

procuratore distrettuale

Sergente Lattimer

funzionario di polizia

Gordon Cardew

ex notaio

Hannah Shaw

governante di Cardew

Chana

amante di Cardew

Stephen Elson

vicino di casa di Cardew

Luke Mark Sullivan

un vagabondo

I. SUPER PRIMAVERA

II. UNA HANNAH INASPETTATA

III. UNA STRANA CONFIDENZA

IV. UN WEEK-END COMINCIATO MALE

V. DUE PALLOTTOLE

VI. IL PRESENTIMENTO

VII. DUE PAROLE

VIII. EPILOGO INTERMINABILE

I
SUPER PRIMAVERA

(Mercoledì, 14 Maggio 1924)

Fu per mera combinazione che in quella magnifica mattinata di primavera Super si fermò davanti a Barley Stack, la proprietà di Cardew.
In quel momento, infatti, egli ignorava non solo il tentativo di scasso di cui la casa di Stephen Elson era stata oggetto, ma anche l'esistenza di Sullivan, il vagabondo che bighellonava per la dolce campagna circostante.
Ma Barley Stack attirava Super come la luce attira la falena o, meglio ancora, come l'odore della battaglia invita il vecchio cavallo da guerra.
Pure avrebbe dovuto sapere che Cardew, a quell'ora, era già partito per la città. Per quanto si fosse da tempo ritirato dagli affari, aveva conservato l'abitudine di partire per Londra alle nove precise del mattino.
Comunque, Super si fermò a Barley Stack.

Invece di avere con Cardew una di quelle conversazioni nel corso delle quali i due uomini si punzecchiavano a vicenda, pensò che lo avrebbe maggiormente soddisfatto un incontro con Hannah Shaw.

Questa donna, nota principalmente per la sua notevole mancanza di perspicacia, detestava di tutto cuore il vecchio sovrintendente di polizia, arrivando fino a provare, per la natura delle sue funzioni, come per lui stesso, un disprezzo che si guardava bene dal dissimulare.
Era una donna di statura media, corpulenta, per non dire grassa. Gli occhiali da tardona, i modi burberi, la camicetta più ampia del necessario e sempre abbottonata fino al collo, non mettevano certo in valore il suo genere di bellezza; eppure era avvenente e quasi piacevole a vedersi. Il suo viso era regolare e non aveva grosse rughe, per quanto avesse ormai passato la cinquantina.
«Bel tempo, stamattina», mormorò Super con noncuranza, appoggiandosi alla sua vecchia motocicletta, «e che bel giardino! Non ho mai visto tanti garofani e tanti narcisi insieme! Scommetto che avete un giardiniere eccezionale. C'è il signor Cardew?».
«No».
«Scommetto che sta dando la caccia a qualche delinquente», disse Super con un'aria di ammirazione rispettosa che per altro non gli impediva di sorridere a fior di labbro. «Si occupa forse del furto alla Boscombe Bank? Quando ho letto il fatto sui giornali, ho detto a un mio amico: "Qui, per far luce su questo fatto, ci vuole un tipo come Cardew. La polizia non sarà capace di trovare il minimo indizio e quindi..."».
«Il signor Cardew è andato in ufficio, come sapete benissimo, signor Minter (Super era il soprannome del sovrintendente)», rispose seccamente Hannah. «Ha qualche cosa di meglio da fare che occuparsi degli affari della polizia. Noi contribuenti paghiamo perché la polizia faccia il suo dovere, e invece, ditemi a che cosa serve questa banda di gente ignorante e per giunta maleducata!».
«La polizia non può arrivare dappertutto», rispose Super malinconicamente. «Siate ragionevole, signora Shaw».
«Signorina Shaw», corresse impetuosamente Hannah.
«Scusatemi. Ma un diminutivo non si adatta alla vostra imponenza...

E comunque state pur certa che quando penso a voi penso sempre a una signorina. Proprio l'altro giorno dicevo al mio sergente: "Come si spiega che quella donna non si sia ancora maritata? Non capisco. È ancora giovane... è interessante... è in salute..."».
«Forse giovane rispetto a voi.

Comunque io non ho tempo da perdere, Minter...».
«Signor Minter», rettificò gentilmente Super.
«Se avete qualche commissione per il signor Cardew ditemelo e la farò; altrimenti... ho molto da fare».
«Nessun furto?», domandò Super mentre Hannah si allontanava.
«No», rispose lei seccamente, «e se ce ne fossero, non vi manderemmo certamente a cercare».
«Questo lo sapevo; e scommetto anche che a Cardew basterebbe rilevare le tracce del ladro, gettare un'occhiata sul suo libro di... antro... insomma quello, e il povero malfattore quella sera stessa sarebbe acciuffato».
Hannah Shaw lo fulminò con lo sguardo.

«Non fate troppo lo spiritoso e permettetemi di dirvi che a Londra c'è molta gente di fronte alla quale siete ben poca cosa; e se il signor Cardew andasse a trovare il capo della polizia e gli raccontasse la quarta parte di quello che voi dite e fate, non conservereste molto a lungo la vostra uniforme».
Super si guardò le maniche con aria sorpresa.

«Che cos'ha la mia uniforme?», esclamò mentre lei gli chiudeva brutalmente la porta in faccia.
Super non sorrise e non sembrò offeso. Inforcò la sua motocicletta e tornò sulla strada.

Una mezz'ora più tardi dichiarava, strizzando l'occhio al giovane ufficiale di polizia seduto in faccia a lui: «Quando un uomo ha raggiunto il grado sociale che io ho raggiunto, vuol dire che possiede un certo... temperamento. Ebbene, oggi più che mai ho del temperamento. Ora, c'è qualche cosa di primaverile nell'aria e scommetterei che la domenica scorsa ho sentito cantare un cuculo. Orbene, quando i cuculi cantano e le primule spuntano, io ho del temperamento. Ho avuto or ora una conversazione con la bella di Barley Stack e ho la testa piena d'idee sentimentali. Voi mi consigliate d'interrogare quel vagabondo e io vi rispondo che preferirei andare a cogliere fiori sulla riva del fiume».
Super era alto, angoloso e molto disordinato nella persona. La sua uniforme, già vecchia prima della guerra, era stata diverse volte pulita, riparata e rivoltata. Ma il suo viso magro e abbronzato, e le sue grosse e folte sopracciglia grigie gli conferivano una distinzione in contrasto col suo vestito logoro.
C'erano numerosi sovrintendenti di polizia, ma quando negli uffici di Scotland Yard si pronunciava il nome di Super, tutti sapevano che si trattava del sovrintendente Patrick J. Minter.

«Interrogatelo voi, codesto vagabondo», e Super alzò la mano con un gesto da gran signore; poi: «Gli affari seri riguardano ormai il mio passato. Sentendomi invecchiare, ho chiesto di essere relegato in questo angolo di campagna, dove posso allevare conigli e polli e contemplare la natura in tutto il suo splendore e maestà».
La divisione "I" della polizia inglese comprende la parte della periferia di Londra confinante con la contea di Sussex. Essa è notoriamente conosciuta come una divisione assolutamente tranquilla, nella quale non si annoverano altri delitti che il vagabondaggio, la caccia di frodo e gli incendi di covoni di fieno. La polizia di questa regione è chiamata ironicamente dagli ispettori londinesi la "legione perduta".
Super era stato trasferito da Scotland Yard a quella piacevole sede non certo per punizione ma, è meglio parlar chiaro, perché i capi della polizia londinese non potevano più sopportarlo.
Non rispettava nessuno, non era cortese con nessuno. Litigava con tutti, discuteva e, all'occasione, provocava; e siccome, nella gran maggioranza dei casi, aveva ragione, gli altri non lo tolleravano più. Una volta assodato che il torto era dei suoi superiori e non suo, andava strombazzando il fatto venti o trenta volte al giorno.
«Che cosa ci guadagnerei», proseguì, «a occuparmi di quel vagabondo? Una noiosa interruzione nei miei studi. Avete mai sentito parlare di Lombroso? No? Allora voi ignorate tutto ciò che riguarda il cervello di un criminale. I cervelli ordinari pesano... ho dimenticato esattamente quanto pesano, ma il cervello del criminale è più leggero. Portatemi il cervello di quest'uomo e io vi dirò se aveva intenzione o no di penetrare in Hill Brow. E il piede prensile, hanno. Sapevate che il cinque per cento dei criminali hanno il piede prensile? Ignoravate che le teste oxicefaliche sono di moda negli assassini? Andate ad esaminare quel vagabondo e di certo riscontrerete l'asimmetria del suo volto. È un gioco da ragazzi».
Il sergente Lattimer era troppo intelligente per interrompere il suo superiore; ma infine credette di poter parlare.

«Non si tratta di un furto ordinario, capo. Secondo quanto dice Sullivan, il vagabondo, lui non voleva entrare nella casa del signor Elson per rubare denaro. Doveva cercare un'altra cosa...».
«Voleva forse conoscere le prodezze degli antenati di famiglia? Oppure esaminare l'atto di nascita dell'erede? A meno che Elson, americano d'origine, non abbia sottratto il rubino sacro incastrato nell'occhio destro del dio Hokum, e che alcuni sinistri indiani non l'abbiano seguito fin qui, aspettando l'occasione di rientrare in possesso del gioiello.
Ecco un affare per Cardew. Riuscirete a sbrogliarvela da solo, sergente? In tal caso, vi pubblicheranno la fotografia su tutti i giornali e sposerete una cameriera che in seguito si scoprirà che è figliola di duchi, rapita dagli zingari quando era bambina. Avanti, avanti, sergente!».

Super abbandonò il suo subordinato e saltò in sella alla motocicletta. Era stranamente inquieto. E troppo svagato per accorgersi che un'automobile lo stava seguendo.

Dopo un breve giro nella soleggiata campagna, Minter stava per ritornare presso il suo Comando di polizia, quando avvistò un'auto accostata al margine della strada.

Riconobbe subito la figura imponente di Hannah Shaw, ferma in piedi accanto al veicolo.

La donna alzò un braccio al suo indirizzo: «Potete aiutarmi?».

In verità, il suo corpo esuberante, florido, sembrava trovarsi nel suo habitat, in quel luminoso e prospero giorno di primavera.

A dispetto, però, della temperatura molto mite, la camicetta di Hannah era abbottonata, come al solito, fino al collo.

Ce n'era comunque abbastanza per attirare Minter come una mosca su un frutto sfatto.

Il sovrintendente si piegò sulle ginocchia per controllare una gomma dell'auto che sembrava bucata.

La Shaw si fece vicino, torreggiando su di lui.

La sua camicetta era adesso sbottonata aggressivamente fino allo stomaco, e offriva un intrigante spaccato del cadente seno, sul punto di sbocciare come i fiori intorno.

«Fa davvero molto caldo, quest'oggi, signor Minter...

Non lo pensate anche voi?», passandosi la mano sulla camicetta, allentandone ancora di più i lembi.

«Fa davvero molto caldo, quest'oggi, signorina Shaw...», tirandosi in piedi come d'impulso.

«So come mi guardate, Minter...», sussurrò Hannah. «Non sono quella stupida che credete. E non sono una donna passata; mi sono ingrassata, ma così mi piaccio anche di più; non mi manca niente e posso ancora scegliermi gli uomini...», concludendo con un'arroganza non certo infondata.

Super era estasiato.

«Fa molto caldo, Minter. Ho bisogno di un po' d'ombra...», Hannah portò la mano sulla fronte e si avviò verso un folto cespuglio.

Dopo un attimo di esitazione, il sovrintendente la seguì dietro la macchia e la ritrovò a terra, prostrata nell'erba, come se si sentisse mancare.

Super si piegò nuovamente sulle ginocchia.

«Mi sentite, signorina Shaw?».
«Posso sentirvi, come voi potete toccarmi...», e gli guidò le mani a prenderle il petto. «Non siate timido...».

Minter era finito nella ragnatela della Shaw e perse completamente il senso del tempo e dello spazio.

Non sapeva dire se fossero passati cinque minuti o un paio d'ore.

L'unica cosa certa era che Hannah non c'era più.

Si rialzò in piedi e tornò verso la strada.

La Shaw era seduta in auto al posto di guida. La camicetta perfettamente abbottonata fino al collo.

Lo show era finito.

Il sovrintendente sostituì la ruota senza farla scendere dall'abitacolo: «Non credo abbiate bisogno di ripararla...».

«Lo penso anch'io. Deve aver perso pressione all'improvviso, la farò rigonfiare. È stato uno scherzo del destino.

Cose che capitano in una primavera così calda...», ma il suo sorriso era freddo come il ghiaccio. «Se solo non foste un povero poliziotto...

Ad ogni modo, grazie per il vostro aiuto, signor Minter».

E se ne andò come era venuta.

II
UNA HANNAH INASPETTATA

(Mercoledì, 14 Maggio 1924)

«Ho arrestato Sullivan perché si era addormentato nel parco di una proprietà privata.
Ma ormai ha confessato il tentato furto nella casa del signor Elson», il giovane funzionario stava insistendo con il suo superiore, rientrato al Comando dopo un'assenza di oltre due ore.

Super lo fissò con occhi vitrei, come assorbito da un sogno.

«Sì... certo...», scuotendosi dal torpore, «andate... andate e non dimenticate soprattutto di osservargli le orecchie: avete osservato che le orecchie dei criminali e dei paranoici hanno sempre la forma di un parabrezza? L'ho letto in un libro e i libri non mentono. Il mestiere dell'investigatore non è più quello di una volta, sergente. Adesso occorre essere esperti di fisiognomica, e di chimica, e di psi... psiqualcosa».

Quando Super cominciava a parlare era ben difficile farlo smettere.

Il sergente, pur con molto rispetto, emise un lungo sospiro.

«Volete interrogare quell'uomo, Super? Ha confessato un tentato furto con scasso...».

«Ho un'idea migliore. Farò un sopralluogo sulla scena del crimine, secondo i dettami dei nuovi manuali di scienza dell'investigazione perfetta. Se anche lo interrogassi, potrebbe mentire: le tracce sul campo, invece, non mentono».

Super aveva una motocicletta d'aspetto del tutto particolare, che stava a una motocicletta normale come una capanna di frasche sta a Buckingham Palace.
Tuttavia, pochi minuti bastarono al sovrintendente per arrivare a Hill Brow.

Appoggiata la sua moto contro un albero, si diresse lentamente verso la sontuosa villa di Stephen Elson.

Il vestibolo era deserto, ma egli udì due voci, una femminile, con qualcosa di famigliare, e l'altra maschile.

Sembrava provenissero da una stanza che si apriva sul vestibolo stesso e la cui porta era socchiusa. Apparve una mano, le cui dita si posarono sullo stipite di quella porta, ma non l'aprirono.
«Il matrimonio o niente, Steve! È troppo tempo che aspetto il compimento della promessa. Sono stanca di promesse! Del denaro, che volete che ne faccia? Non sono ricca quanto voi?

Ci mancava solo questa vecchia puttana, adesso!».

In quel momento la porta si aprì e Super vide la persona che aveva parlato.

Per quanto non l'avesse vista che di spalle, il sovrintendente riconobbe facilmente Hannah Shaw.
Egli contemplò un attimo la sua figura; poi si allontanò senza fare
rumore.

Hannah non aveva visto neanche la sua ombra.

Per esser più sicuro di far passare inosservata la sua presenza a Hill Brow, Super portò la motocicletta a mano per un bel tratto di strada.

III
UNA STRANA CONFIDENZA

(Giovedì, 15 Maggio 1924)

Jim Ferraby si domandava per quale ragione, per la prima volta da cinque anni che si conoscevano, Cardew l'avesse fatto entrare nel suo ufficio.
L'atteggiamento dell'ex-notaio rivelava chiaramente che l'invito aveva uno
scopo ben determinato. Evidentemente nervoso e preoccupato, camminava in su e in giù per la stanza e di tanto in tanto si fermava davanti al suo tavolino per spostare, senza motivo, un foglio di carta o cambiar di posto a un posacenere.

«Ho pensato a voi tutta la mattina», dichiarò a un tratto, «e mi sono chiesto se dovessi consultarvi o no.

Voi conoscete, vero, la mia governante, Hannah Shaw?».
Jim ricordava perfettamente quella
grassona scortese che si esprimeva a monosillabi; ogni volta che aveva avuto occasione di dir bene di Super davanti a lei, non aveva mai tralasciato di manifestare la sua avversione per il vecchio poliziotto.
Cardew rivolse a Ferraby il suo sguardo penetrante.

«Lo so che quella donna non vi piace. È stata scortese con voi l'ultima volta che siete venuto.
Me lo ha raccontato il mio autista a cui piace chiacchierare.
Indiscutibilmente non è una donna piacevole, pure essa mi conviene per
varie ragioni, non ultima quella di essermi stata affidata, in certo modo, dalla mia povera moglie, che l'aveva raccolta da un asilo di orfani quando era ancora bambina. Salvo le proporzioni, posso paragonare Hannah a quei terrier scozzesi che abbaiano a tutti, meno che al padrone».

Tolse il portafogli di tasca, ne levò un foglio, lo spiegò e lo mise sulla tavola.

«Leggete», disse.
Era un foglio di carta ordinario, che non portava né indirizzo né
alcun'altra indicazione.

Il testo era composto di tre linee manoscritte in lettere maiuscole:

VI HO AVVERTITO GIÀ DUE VOLTE
QUEST'AVVERTIMENTO È L'ULTIMO
MI AVETE RIDOTTO ALLA DISPERAZIONE

Il foglio era firmato "Big-Foot".
«Big-Foot? E chi è questo Big-Foot?», domandò Jim, rileggendo il foglio. «Sono dirette alla vostra governante queste minacce? Ed è lei che vi ha passato questa lettera anonima, o quasi anonima?».
Cardew scosse la testa.

«No. Questa carta è venuta in mio possesso in uno strano modo.

L'ultimo giorno del mese Hannah mi porta in ufficio le fatture dei fornitori e le posa su questa cartella.

Ha l'abitudine di buttarle alla rinfusa nella sua borsa, senza metodo, senza ordine.

La lettera che avete letto si trovava nelle pieghe di una fattura, quella del droghiere, ed evidentemente ce l'ha lasciata lei senza accorgersene».
«Gliene avete parlato?».
Cardew aggrottò le sopracciglia.

«No», rispose. «Le ho spiegato che aveva in me un protettore e che in caso di pericolo non doveva esitare a ricorrere a me per cercare aiuto. Per tutta risposta, lei si è limitata a digrignare i denti, letteralmente: "Io non ho paura di nessuno! So badare a me stessa! Non sono una vecchia ciabatta!"; non c'è altra espressione: ha digrignato i denti.

Hannah sembra ossessionata dall'età e dal peso: si è molta ingrassata negli ultimi mesi; si rende conto di essere ormai una donna passata, in pieno declino, ma non vuole ammetterlo».

«Non si è mai sposata?».

«Mai».

Sospirò profondamente e riprese: «Io detesto le facce nuove e sarei seccatissimo se dovessi perdere Hannah. Se il suo comportamento fosse diverso, l'avrei informata subito della mia scoperta, ma per dirvi la verità, mi sentirei molto, ma molto imbarazzato, se dovessi dirle che una lettera appartenente a lei si trova in mio possesso. Abbiamo già avuto, una volta, una scena molto sgradevole a proposito di qualche cosa di simile e una nuova discussione di questo genere rischierebbe di separarci definitivamente.

Che cosa ne pensate di questa lettera?».
«Secondo me, deve venire da un malfattore qualunque», suggerì Jim. «È scritta con la mano sinistra per contraffare la calligrafia. Io credo che dovreste chiederle spiegazioni».
«Chiedere spiegazioni ad Hannah?», gridò Cardew, spaventato. «Non mi azzarderei mai. No. Tutto quello che posso fare è tenere gli occhi aperti e alla prima occasione, ossia quando Hannah sarà d'umore accettabile, cosa che di solito le succede un paio di volte l'anno, affrontare l'argomento con molta precauzione».
«E perché non vi rivolgete alla polizia?».
Cardew sobbalzò.

«Ossia al sovrintendente Minter, detto Super, non è vero?

E voi credete che io possa rivolgermi a quella specie di poliziotto, stupido e senza immaginazione?

No. Se la lettera in questione nasconde un mistero, credo che sarò capace di metterlo in chiaro da me.

E credo che un mistero esista». Poi, sottovoce: «Come sapete, io possiedo una casetta, una specie di bungalow, sulla spiaggia di Pawsey Bay.

È una vecchia abitazione di guardacoste. La comprai per poche sterline durante la guerra e vi ho trascorso ore gradevoli. Oggi non ci vado che molto di rado e quella piccola proprietà è diventata come la casa di campagna dei miei domestici. Questa mattina sono stato molto sorpreso quando Hannah è venuta a domandarmi se poteva passare il prossimo fine settimana al bungalow. Infatti non solo erano anni che non ci andava, ma ha un vero odio per quel luogo e me lo ripeteva non più tardi di una settimana fa. Ora io mi domando se quest'improvviso viaggio a Pawsey non abbia qualche rapporto con la lettera».

«Fatela sorvegliare da un investigatore», consigliò Jim; poi aggiunse con trasporto: «Da un investigatore privato...

La vostra governante non è così malandata come la ritenete. Forse qualcuno le ha messo gli occhi addosso».

«Ad Hannah?!», esagerando volutamente la sorpresa. «Penso siate troppo indulgente, mio caro Ferraby.

Mi duole dirlo, ma la mia povera governante è ormai un tipo che i teppistelli di Londra definirebbero "vacca smunta" o "vecchia cessa", troppo grassa e sfatta anche per infinocchiare un semplice impiegato di banca.

Comunque non nego che vi siano uomini a cui questo tipo di donna piaccia.

Perciò avevo già quest'idea, ma mi ripugna far spiare Hannah. Ricordatevi che è al mio servizio da quasi quarant'anni.

Naturalmente le ho accordato il permesso che chiedeva.

In generale, Hannah passa il tempo libero a percorrere la campagna in una vecchia Ford che il mio autista le ha insegnato a guidare alcuni anni fa.

Ma non si tratta di un cambiamento d'aria. Io le passo un buon salario e potrebbe permettersi di alloggiare in un buon albergo, senza finire sulla spiaggia di Pawsey Bay; a meno, beninteso, che ella non vi abbia dato appuntamento a questo misterioso Big-Foot.

Mi domando davvero cosa vada a fare laggiù quel demonio di Hannah. Pagherei non so cosa per saperlo.

Qualche volta mi domando perfino se non sia un po'...», e si toccò la fronte con l'indice.
Jim si domandò ancora perché Cardew aveva fatto di lui il suo confidente.

Decise subito che ne avrebbe parlato al vecchio sovrintendente Minter, di cui era buon amico.

IV
UN WEEK-END COMINCIATO MALE

(Venerdì, 16 Maggio 1924)

L'automobile che conduceva Ferraby e Super in direzione di Pawsey aveva appena oltrepassato Horsham, quando cominciò a cadere una pioggia diluviale, subito seguita da lampi e tuoni. I due uomini non avevano ancora scambiato una parola da Londra.

Minter, come se un tuono scoppiato in quell'istante lo avesse distolto dai suoi pensieri, ruppe infine il silenzio: «Credo che faremo bene a tenere gli occhi spalancati questa sera, se vorremo capire quello che succederà. Mi dispiace che Cardew non sia con noi. Che cosa ne pensate della sua assenza?».
«Forse è più coinvolto di quanto voglia far credere. Se ha mantenuto al proprio servizio Hannah Shaw per quarant'anni, qualcosa vorrà pur dire...

E poi quel modo di disprezzarne la matura bellezza e di esagerarne i difetti, mi sembra decisamente sospetto: che gli dia fastidio che lei abbia ricevuto delle attenzioni?

Senza contare che a Londra se la intende con una certa Chana, una vecchia prostituta di lusso...».

«Cardew ha degli strani gusti, signor Ferraby».
La pioggia seguitava a cadere implacabile e i lampi incessanti
illuminavano la via più di quanto non lo facessero i fari della vettura.

«Stiamo per arrivare», osservò Super. «Se non avete nulla in contrario, portate l'auto oltre il villaggio. C'è una specie di cava abbandonata».
«Conoscete il punto?», domandò Jim.
«, ho studiato la carta topografica questa mattina», spiegò l'investigatore. «La casetta di Cardew è situata a due chilometri dal villaggio. Noi ci fermeremo poco prima.

Eccoci... entrate qua dentro e fermatevi, signor Ferraby».
Mentre la vettura
accostava, Lattimer uscì dal folto di un cespuglio e si avvicinò.

«Ancora nessuno», disse, mentre Super e Jim uscivano dall'automobile.
«Come? Ma Hannah Shaw è partita questa mattina!», esclamò Jim.
«M'avrebbe stupito se fosse già arrivata», disse tranquillamente Super. Jim lo guardava stupito. «Eh sì, semplice deduzione», disse l'investigatore con un tono soddisfatto. «Deduzione e logica, e anche un po' di psicologia».
«Ma come avete saputo che non era ancora qui?», insistette Jim.
«Perché Lattimer me l'ha detto per telefono un'ora fa», fu la calma risposta. «E ora, sergente, prendete la lampadina tascabile. Ne avremo bisogno».
La pioggia seguitava a cadere inesorabilmente, per quanto fossero
cessati i lampi e i tuoni. Il fascio di luce di un faro lontano illuminava la strada a intervalli regolari.
Beach Cottage, il bungalow di Cardew, si trovava tra la strada e il mare.
«Siete sicuro che la casa sia vuota?».

«Assolutamente sicuro. La porta è chiusa con un lucchetto».
Super
volle verificare di persona.

Si avvicinò e tentò, senza riuscirvi, di aprire porte e finestre.
«Non verrà più», disse Jim. «Probabilmente s'è spaventata per l'uragano».
Super borbottò qualche cosa di difficilmente comprensibile, ma si capiva
che attribuiva poca importanza agli uragani in certe determinate circostanze.
«Io non sarei così sicuro che non verrà», disse poi chiaramente.

Jim constatava, intanto, di non aver mai contemplato un paesaggio più desolato.
Da una parte il mare; dall'altra, al di là della strada,
la cupa parete di roccia.
«Quelle rocce sono piene di cavità, inaccessibili quasi per tutti», osservò Lattimer.
Lasciarono la casa e ripresero lentamente il cammino verso il punto dove
era stata nascosta l'automobile.
Super si tolse di tasca l'orologio, il cui quadrante fosforescente permetteva di consultarlo.

«Le undici», annunciò. «Aspetteremo fino a mezzanotte, dopo di che vi presenterò tutte le mie scuse».
«Che pensavate di trovare qui?», domandò Jim, formulando così la domanda che aveva fatto a sé stesso durante tutta la sera.
«Difficile a dirsi», brontolò l'investigatore. «Quando una ragazza di cinquant'anni sogna il matrimonio, e quando dice quello che farà se non arriva a maritarsi... allora è una cosa che m'interessa.

Forse mi aspettavo che la Shaw avesse dei problemi, oppure che...», Super afferrò improvvisamente il braccio di Jim. «Dietro quella roccia, svelto!», sussurrò.

Sulla strada erano apparse due deboli luci, due fanali d'automobile.

Nella fretta, Jim fece un capitombolo sul ciglio della strada e si ritrovò in terra accanto a Super.

Dietro di loro, c'era Lattimer.
L'automobile si avvicinava rapidamente e quando passò loro accanto, Jim
ebbe la visione fugace di una donna con un cappello a larghe falde, tutta china in avanti come per concentrarsi sulla guida.

Pochi secondi più tardi l'automobile accostava presso Beach Cottage.

Passò un quarto d'ora, ma anziché veder giungere un'altra auto, come era logico aspettarsi - l'auto del misterioso Big-Foot, o di qualche focoso spasimante - fu il veicolo di Hannah Shaw a riprendere la strada.

Due fasci di luce squarciarono l'oscurità, ma sparirono quasi subito. La vettura lasciò il cottage e risalì la strada nella direzione dalla quale era venuta.

Una volta ancora, i tre uomini scorsero la testa protesa in avanti e il cappello dalle larghe falde.

La Ford si allontanava nella notte ed essi non vedevano più ormai che il fanalino posteriore.
Super si rialzò brontolando.
«Vi chiedo mille scuse», dichiarò. «Le deduzioni e la psicologia fanno a volte brutti scherzi.

Lei entra, esce, scompare e nessuno sa da dove viene e dove va.

Con un po' di fortuna, arriveremo forse a raggiungerla, a pedinarla e a sapere dove andrà realmente.

A meno che... ma spero di sbagliarmi...».

Il sovrintendente cominciò a correre verso il cottage, presto seguito da Ferraby e Lattimer.
Giunto al bungalow, il vecchio poliziotto frantumò la porta con una robusta spallata.

«Super! Ma che succede?», esclamò Ferraby, stupito.

Ma il sovrintendente non aveva tempo per ascoltarlo: era già dentro e squarciava il buio interno con la torcia elettrica.

Si trovava in un piccolo atrio, sul quale si affacciava una seconda porta.

L'aprì ed entrò in un stretto corridoio, che correva lungo la casa, dall'ingresso al retro.

Le prime ad essere visitate dal poliziotto furono due camere che davano a destra del corridoio. Erano camere da letto, ammobiliate con semplicità. I letti erano senza lenzuola né coperte.
Passò
quindi nelle stanze a sinistra. La prima era una sala da pranzo, il cui aspetto non presentava niente di notevole. In una parete c'era una finestrella che evidentemente comunicava con la cucina. La finestrella era chiusa da una piccola imposta.
Ormai non restava da visitare che la cucina, ma la porta era chiusa.
A un tratto, alzò la testa, fiutò l'aria, poi chiamò Jim.
«Sentite qualche cosa?», domandò.
Ferraby esitò qualche secondo.

«È odore di polvere!», esclamò finalmente. «Hanno sparato qui... e non è molto».
«Lo dicevo io...

La porta è chiusa dall'interno».
Tornò nella sala da pranzo. Anche l'imposta della finestrella era chiusa a
chiave.

Ma visto che poteva trattarsi della scena di un crimine, era meglio non buttare giù un'altra porta.

Un vecchio cacciavite arrugginito, trovato da Lattimer, ebbe subito ragione del sottile pannello di legno. L'odore acre della polvere da sparo si fece subito più intenso.
Super era proteso nel vano della finestrella con la sua
torcia e faceva girare lentamente il fascio luminoso all'interno della cucina.

A un tratto il cerchio bianco di luce inquadrò un volto noto...

Una donna era seduta là, per terra, col dorso appoggiato contro la porta e la testa china sul petto.

La camicetta era sbottonata fino allo stomaco, segno che Hannah Shaw aveva cercato di irretire qualcuno.

Non ebbe bisogno di inquadrare la grondante macchia di sangue sulla parete della cucina per capire che la governante di Cardew non aveva avuto scampo.

La primavera era già finita.

V
DUE PALLOTTOLE

(Venerdì, 16 Maggio 1924 / Sabato, 17 Maggio 1924)

Super si ritirò dalla finestrella.

Aveva capito troppo tardi.

«Sergente, andate a cercare un medico... signor Ferraby, volete accompagnarlo? No, restate. Potreste essere chiamato a testimoniare, più tardi.
Non che un medico possa fare molto... ma almeno stilare un referto, quello sì».

«Che cosa è successo?», domandò Ferraby.

«Seguitemi, se siete interessato a scoprirlo», e l'investigatore, con un'agilità insospettabile in un uomo della sua età, passò attraverso la finestrella.

Super tolse il tubo di un lume a petrolio che si trovava sulla tavola, accese la miccia e posò sulla tavola il fiammifero spento.

Jim Ferraby, scolorito in volto, fissava incredulo Hannah Shaw.

«Ma...».

«Non lo so, non l'ho ancora toccata, e non intendo farlo.

Ma a me sembra morta stecchita.

E mi dispiace di non essere stato sempre cortese con lei. In fondo, non era una cattiva donna, per come sono le donne».
«Suicidio?», domandò il giovane procuratore.
«Se è un suicidio, troveremo l'arma, anche se è improbabile che qualcuno si spari due colpi da solo.

No, non è un suicidio.

D'altronde, un suicidio mi avrebbe sorpreso.

È stata assassinata, ma come? La porta è chiusa dall'interno; vedete la chiave? Le imposte della finestra sono chiuse da questa sbarra di ferro».
Sulla tavola c'era una borsetta da signora, che era stata visibilmente frugata, poiché il suo contenuto giaceva in disordine un po' più lontano.

«Cinquantacinque sterline e duemila dollari», constatò Super, dopo aver contato. «E questo mattone, che cosa significa?».

C'era un mattone rosso da una parte, sul quale sembrava appiccicato un disco di caucciù, attaccato a sua volta a una cordicella passata nel suo centro.
«L'impiantito è di mattoni rossi», osservò Jim.
«Sì, ho visto».
Super prese la lampada e si chinò, osservando il pavimento. Nel centro della parte che corrispondeva alla tavola si vedeva una cavità rettangolare.
Il mattone trovato pochi istanti prima la riempiva esattamente.

«Sì... i ragazzi si servono di rotelle come questa, di caucciù o di cuoio bagnato, per sollevare le pietre dei pavimenti. Si vede che anche lei ritirava il mattone in questo modo.

C'era qualche cosa qui dentro, ed è proprio quello che lei era venuta a cercare».

Quindi si avvicinò al corpo di Hannah.

«Impossibile toccarla prima che sia arrivato il dottore», ma si vedeva che stava fremendo per farlo.

«Non avevo mai visto la governante di Cardew così...».

«Così sbottonata, volete dire, signor Ferraby?

Evidentemente era intima con il suo assassino...

È stata colpita due volte da distanza ravvicinata: la prima pallottola in pancia, al bersaglio grosso, per farle capire che non scherzava; questa le è rimasta dentro, perché la signora... è bella grassa; la seconda mirata in pieno petto per schiantarla; questa è uscita dalla schiena, guardate la chiazza di sangue contro il muro... questa è mortale e l'ha uccisa.

Hannah era in piedi, a lato della porta.

Per cercare di fermarlo si è allentata la camicetta; ma non c'è stato niente da fare. Voleva ucciderla e l'ha fatto.

La massa corporea l'ha tenuta in piedi, poi è avanzata obliqua di un passo, ed è franata contro la porta, strano che non l'abbia buttata giù... credo sia morta sul colpo, dopo la seconda pallottola: spesso i cadaveri fanno uno o due passi, per forza d'inerzia, prima di crollare.

Osservate qualche cosa, signor Ferraby, qualche cosa di interessante?».
Jim fece un gesto scoraggiato.

«Ci sono tante cose notevoli che non riesco più a distinguerle».
Il naso di Super si arricciò in modo bizzarro.

«Cardew lo avrebbe notato prima di me... il cadavere non ha né il cappello né il trench.

E sotto quell'attaccapanni... vedete qualche cosa per terra?».
«Un po' d'acqua».
«Sì, un po' d'acqua colata dal trench. Si vede che quando è entrata qui, lo ha attaccato là.

Ora dov'è?
Oh, ecco il dottore...», disse sollevato. «Bisognerà che passi dalla finestrella, e se è un po' grosso, avrà poco da stare allegro».
Viceversa il medico era un uomo giovane e svelto e non fece nessuna fatica a penetrare in cucina.

Per prima cosa ispezionò gli occhi della donna, mezzi chiusi e con l'iride rivoltata all'insù.

La bocca era ancora aperta, come nell'attimo della mortale incredulità di rimanere uccisa, dopo il secondo colpo.

Quindi le passò lo stetoscopio sul cuore e rimase più di qualche secondo in ascolto.

«Il sergente ha parlato di un cadavere.

Comunque avevo già telefonato per richiedere un'autolettiga».

Super e Ferraby si guardarono con aria interrogativa.

«Le somministro adrenalina, nel caso l'ambulanza arrivasse in tempo, ma non credo che riuscirà a raggiungere l'ospedale».

Sì, aveva capito bene: Hannah Shaw non era ancora cadavere, ma lo sarebbe diventata presto.

Super guardò dentro gli occhi senza vita della governante: sembrava un grosso pesce spiaggiato, morente sulla sabbia. E infatti il cottage era proprio sul mare. Curioso destino.

Avrebbe voluto fare qualcosa per lei, ma sapeva che era troppo tardi per chiunque.

Quando l'ambulanza arrivò e la povera Hannah Shaw fu portata via, Super si sentì liberare da un grosso peso.

Solo lui e Ferraby erano rimasti sul posto.

«Siete sicuro di non voler seguire la signora Shaw all'ospedale?

È ancora viva, dopotutto», gli aveva detto Jim poco prima, intuendo che il vecchio poliziotto fosse in grave ansia per la sorte della donna.

«Lattimer le sarà accanto, nel caso improbabile riuscisse a dire qualcosa, ma temo che noi due saremo più utili qui», aveva replicato il sovrintendente, cercando di mostrarsi imperturbabile. «Ma appena finito, correremo dietro all'ambulanza».

Il poliziotto estrasse dalla parete il proiettile che avevano ucciso la governante e lo posò sulla tavola.

«Questa pallottola appartiene a una pistola automatica, calibro 42. D'altronde si tratta di un calibro abbastanza comune; cerchiamo di non trarne deduzioni premature.

Quest'arma non apparteneva certamente ad Hannah Shaw; sono armi che fanno paura alle donne. Inoltre Cardew l'avrebbe saputo».

L'investigatore s'interruppe bruscamente e si mise in ascolto.

Attraverso la finestra giungeva l'eterno lamento delle onde sulla sabbia.

«È il momento di andare, signor Ferraby.

Andiamo a scoprire se l'ambulanza è già diventata un carro da morto».

Il procuratore lanciò un'occhiata alla grottesca macchia sul muro, con tre o quattro linee verticali.

«È stato terribile per lei. Mi chiedo come...».

«Come non sia ancora crepata?

Non se l'aspettava e non era pronta.

La signora Shaw aveva dei progetti... e se li porta ancora addosso; in qualche modo, li ha usati per tapparsi il grosso buco che ha nella schiena...

Questa è psi... psiqualcosa, signor Ferraby».

E stava già correndo verso l'auto.

VI
IL PRESENTIMENTO

(Martedì, 20 Maggio 1924)

Quella mattina Super si era alzato provando una strana eccitazione.

Viveva da giorni nell'incubo di ricevere una fatale chiamata dall'ospedale presso cui era stata ricoverata, in condizioni disperate, Hannah Shaw.

Non le avevano dato molte speranze, ma qualcosa in quella donna era differente da ciò che sembrava.

Super aveva tenuto segreta l'ubicazione dell'ospedale, e per essere ancora più sicuro che niente di peggio potesse occorrere alla povera donna, aveva incaricato Lattimer di sorvegliarla strettamente.

Per tutti gli altri Hannaw Shaw era già morta, rimasta uccisa all'interno del cottage di Cardew.

Quella mattina, infatti, l'ospedale telefonò.

Super fu chiamato con urgenza al capezzale di Hannah, perché la governante aveva ripreso conoscenza, ma era fragilissima e in imminente pericolo di morte.

Il cuore gli pulsò in gola quando la rivide, ma a stento riconobbe la donna nel letto.

Hannah Shaw era invecchiata di almeno 10 anni.

«Super... ricordate... la ruota... il caldo... il fuoco...».

«È stato fuoco per voi, Hannah?».

«Adesso... ho freddo... Super...», la flebile voce di Hannah era carica di ansia.

Intuiva facilmente che si stava giocando tutto, e che le prossime ore sarebbero state decisive; ma che forse la davano già per morta.

«Non voglio... morire...», sussurrò languida.

«Ascoltatemi, Hannah. Non potete parlare a lungo.

Ho bisogno di sapere chi vi ha sparato».

«Non sento... le gambe...».

«Forse tornerete a usarle, non si sa...».

«Quanto tempo... mi rimane...», mormorò disperata, aspettando la risposta a bocca aperta.

«Nessuno lo sa, Hannah. Ma è meglio che mi diciate chi vi ha sparato».

«Che importa... adesso...», divagò la governante, con una folle espressione negli occhi. «Ho perso tutto...».

«No, Hannah...», replicò senza troppa convinzione il sovrintendente.

I medici erano stato chiari: difficilmente avrebbe superato la notte.

«Super... ditemi... la verità...».

Un'infermiera lo tolse dall'imbarazzo, avvertendolo che non poteva trattenersi oltre. La paziente era in condizioni critiche.

La sua voce, che lo chiamava disperata da lontano, lo perseguitò per il resto della giornata, e ancora di più durante la notte.

VII
DUE PAROLE

(Sabato, 24 Maggio 1924)

Cardew aveva preso una decisione. Voleva chiudere Barley Stack, congedare i domestici e affittare una casa a Londra; e passare l'estate all'estero.

Quanto avesse pesato la fine di Hannah in questa sua decisione, non era dato sapere. Ma anche il misterioso avvelenamento del suo vicino, Stephen Elson, non l'aveva di certo invitato a rimanere.

L'ex notaio organizzò una cena d'addio per salutare amici e conoscenti.

E invitò anche Super.

«Sovrintendente... non vi ho ancora domandato che cosa pensiate in merito all'omicidio della mia povera governante. Mi permetterò quindi di domandarvelo questa sera».

L'ora fissata per il pranzo era passata da dieci minuti, quando arrivò Super accompagnato da un ometto dall'aspetto goffo e nervoso.

«Vi presento il mio amico Wells.

Poi vi parlerò di lui».
Cardew strinse la mano che l'uomo gli porgeva.
«E ora», dichiarò l'ex notaio, rivolto ai numerosi commensali, «credo che faremo bene a metterci a tavola».
Servita la minestra, Super prese la parola: «Prima di cominciare il nostro pranzo di addio, voglio dirvi quale professione svolge il mio amico Wells, signor Cardew».
«Confesso che sono abbastanza curioso di saperlo», rispose l'ex notaio.
«Ebbene, signor Cardew, il qui presente signor Topper Wells fa di professione il boia».
Cardew sobbalzò come se fosse stato morso da un serpente.

«Lattimer, non toccate codesta minestra...

Che nessuno la tocchi, perché...».
«Che scherzo è questo, Minter?», ribatté Cardew.
«Perché è avvelenata», concluse Super, ignorando l'ex notaio.
«Avvelenata? Ma che dite?».
«Avvelenata», ribadì Super. «E c'è dell'altro per voi, signor Cardew: una buona notizia e una cattiva.

Quella buona è che non rischiate più di diventare vedovo, perché la vita di vostra moglie è fuori pericolo; la cattiva è che vostra moglie, la signora Hannah Shaw Cardew, sta per diventare vedova...».

Di fronte alla meraviglia generale, il sovrintendente cominciò a svelare i fatti.

«Sì, è proprio il signor Cardew ad aver sparato contro Hannah Shaw.

Lei lo amava, o comunque intendeva migliorare la propria posizione sociale, e perciò voleva sposarlo.

Lui si era sempre rifiutato, ma lei lo teneva in pugno, per via di una lettera terribilmente compromettente che egli aveva scritto anni prima e che lei possedeva.

Ha così deciso di ucciderla il giorno stesso del loro matrimonio, istigato dalla sua amante, una certa Chana, a sua volta interessata a sposarlo, che l'ha aiutato a concepire un diabolico piano.

Cardew e la Shaw si sono infatti sposati a Newbury, in gran segreto, ma con tutta l'ufficialità del caso.

In quanto a lui, dopo essere rientrato in possesso della famosa lettera (era il prezzo del matrimonio), ha assassinato sua moglie. O almeno c'ha provato molto sul serio, sparandole due colpi in corpo, al bersaglio grosso, di cui uno indirizzato al cuore.

Quando dunque i coniugi Cardew si recarono a Beach Cottage nella Ford di lei, egli lasciò sua moglie sul sedile davanti, con non so quale pretesto, e montò dietro. Si rannicchiò su un fianco in modo che i passanti non potessero scorgerlo e che Hannah sembrasse sola nella vettura.

Appena l'ebbe uccisa, o creduto di averlo fatto, egli indossò i suoi indumenti: il cappello a larghe falde e il trench nero, così da far sembrare a chiunque che Hannah avesse lasciato il bungalow».

Cardew non riuscì a trattenere un moto di stizza, sebbene sperasse ancora che si trattasse di un'abile provocazione, ai suoi danni, del vecchio poliziotto.

«Da poco tempo la Signora Cardew è stata dichiarata fuori pericolo.

Ma la cosa strana è che non voleva rivelarmi chi fosse stato.

Ho dovuto lavorare di psi... psiqualcosa per ascoltare dalla sua bocca le due parole fatali: "mio marito"».

«Ma perché tutto ciò? Il signor Cardew è un uomo ricco...», Ferraby mosse un'obiezione da avvocato, come a testare la tesi di Super.

«Ricco? No. Aveva denaro.

Ma come se l'era procurato?

Vi racconterò tutta la storia, allora.

A pochi giorni dalla fine della guerra, un'imbarcazione americana, in una notte di tempesta, fu silurata da un sottomarino tedesco nei pressi della baia di Pawsey.

In quell'epoca, Cardew era rovinato, essendosi impegnato in speculazioni avventate col denaro della sua clientela.

La notte del siluramento, il notaio era a Beach Cottage con Hannah Shaw e aveva già deciso di ucciderla, per poi farla finita e suicidarsi.

Ma prima, con la precisione che aveva conservato nell'esercizio della professione, redasse la confessione di tutte le sue colpe con l'intenzione di mandarla alla polizia. Aveva appena finito quella lettera, quando sentì l'esplosione e si recò sulla spiaggia.

Vide arrivare verso riva una scialuppa con due superstiti.

Quei due uomini avevano con sé una cassa del Tesoro americano.

Uno era mezzo morto, l'altro era Stephen Elson... il facoltoso vicino di Cardew, di recente assassinato.

All'epoca, però, era solo un cow-boy imbarcatosi come marinaio per sfuggire alla polizia americana.

Elson svelò a Cardew il contenuto della cassa, che fu portata sulla spiaggia e nascosta a Beach Cottage.

In quel momento, però, l'altro marinaio cominciò a riprendere i sensi.

A quel punto Elson, con l'aiuto di Cardew, non esitò a liberarsi del compagno.

Hannah Shaw assistette a tutta la scena.

Il notaio intendeva liberarsi anche di lei, ma Elson lo fermò, dopo averla vista.

Quando Hannah si sbottonava la camicetta si sentiva intoccabile e così fu in quell'occasione.

Il denaro, quindi, fu diviso in tre parti.

Ma la Shaw fu anche più scaltra, perché quando Cardew uscì, richiamato dall'esplosione, ella scoprì la confessione che egli aveva nascosto e la tenne per sé. Lui non lo seppe che molto più tardi.
La casa di Barley Stack era coperta d'ipoteche che furono subito estinte. Cardew pagò tutti i suoi debiti e infine vendette il suo studio. Aveva evidentemente di che cosa vivere una volta ritiratosi dagli affari, e avrebbe potuto essere felice per tutta la vita, se Hannah non fosse stata ambiziosa. Ma ella lo era, e voleva prendere il posto di colei che per bontà l'aveva accolta in casa, molti anni prima, quando uscì dall'orfanotrofio. Forte della posizione che le conferivano gli ultimi avvenimenti, Hannah cominciò a far sempre più pressioni all'ex notaio, deludendo fra l'altro Elson che invece stravedeva per lei e l'avrebbe volentieri sposata, nonostante la differenza d'età.

In realtà Cardew meditava da tempo di eliminarla, insieme allo stesso Elson, così da non avere più ombre nel suo passato. E si è deciso a farlo dopo aver conosciuto una prostituta di lusso, di cui si è invaghito.

Peraltro della famosa lettera esiste una copia autenticata ora in possesso di Scotland Yard.

Hannah Shaw non è affatto stupida».

Jim Ferraby, seduto al suo posto con la bocca semiaperta, ammirava Super.

«Siete un genio!», esclamò infine.
«Deduzioni e teorie, e psi... psiqualcosa», spiegò modestamente il super investigatore. «Un punto per me, Cardew!».
«Anche le vostre teorie e le vostre deduzioni, qualche volta sono giuste...», convenne Cardew, sorridendo amaro, mentre le manette si chiudevano fredde intorno ai suoi polsi.

Super non poté fare a meno di pensare, in quel momento, che anche Hannah avrebbe dovuto pagare il suo conto con la giustizia: furto e favoreggiamento, almeno, se non complicità in omicidio e rapina; a parte il risarcimento, naturalmente, ovvero la confisca dei suoi averi.

Ma era sempre meglio di una cassa da morto.

E poi così gli sarebbe finita tra le braccia, pur di sfuggire al carcere.

Hannah Shaw era comunque l'unica ad averla spuntata con qualche pezzo di pelle addosso, dopo una tragica, distruttiva, interminabile storia.

VIII

EPILOGO INTERMINABILE

«Ho provato a fermarlo, sbottonandomi la camicetta, ma non c'è stato niente da fare.

Ha sparato...

Però quando ho visto che voleva colpirmi al cuore, e fulminarmi... mi sono mossa leggermente a sinistra e l'ho fregato... era troppo sicuro di potermi uccidermi con facilità...

Io invece sentivo di potermela ancora giocare... volevo chiamare aiuto... ma non riuscivo a muovermi e a riprendere fiato... poi ho sentito voci intorno a me... ho cominciato a crederci...».

Gli raccontava questo e lui era contento di ascoltarla.

Aveva preso cinque anni con la condizionale; e quale miglior garante del vecchio Super?

La Shaw era tornata signorina dopo l'esecuzione del marito, e la sua libertà vigilata dichiarata non più necessaria, dopo la restituzione di quanto le rimaneva del malloppo sottratto al Tesoro americano; il resto lo avrebbe pagato con l'eredità ricevuta dal defunto marito, che aveva rimesso in piedi un certo giro d'affari. Aveva ancora di che vivere, a parte il modesto stipendio di Super.

O almeno questo credeva lei.

Perché la Shaw si ammalò gravemente, attaccata da un brutto cancro all'intestino, giudicato molto aggressivo, conseguenza di una salute che si era fatta precaria (le due pallottole l'avevano segnata).

Le sue condizioni peggioravano fatalmente, nonostante la costante assistenza di Minter e le ricorrenti visite del medico, che cercava almeno di capire quando la morte si sarebbe fatta imminente, per avvertire il sovrintendente.

Eppure il tumore li aveva avvicinati davvero.

Lui si prendeva cura di lei, lei cercava di non arrendersi e di tirare avanti il più possibile, per non lasciarlo troppo presto solo.

Sapendo che ormai non aveva molto da vivere, Super la scarrozzava in giro come piaceva a lei, nella dolce campagna inglese. Hannah frequentava feste e festicciole di vicinato; non si mostrava né depressa, né rassegnata; si toccava con discrezione la pancia, quando arrivava qualche fitta.

Ma tutti sapevano.

In certi giorni, la Shaw sembrava imbalsamata sulla sua poltrona; la vestaglia aperta e la camicetta sempre sbottonata, ripeteva con occhi fissi: «Non mi arrendo...».

Però il tumore era inesorabile e la stava affossando.

Non c'erano cure, la Shaw reagiva con il fisico e un sorriso forzato, fingendosi sicura di sé, ma il medico aveva avvertito Super: il tempo stringeva (!).

Quando il cancro all'intestino la obbligò a contorcersi nel letto - irrequieta come una grossa biscia sempre in movimento - si lasciò sposare dal vecchio poliziotto e divenne infine la Signora Minter, detta - a tutti gli effetti - la Super Signora.

Cercava un appoggio, sapeva che degli altri uomini non poteva fidarsi, erano interessati solo alle sue tette.

«Non sei un ripiego per me», ebbe il coraggio di dirgli.

Adesso, però, Hannah Shaw aveva davvero paura, aveva capito che mancava poco.

La pancia si era gonfiata di ascite, facendola apparire ancora più grassa.

Le festicciole erano diventate un miraggio. Le sue amiche e i ragazzi della zona, che stravedevano per lei, temevano di avere brutte notizie da un giorno all'altro.

Ma anche ridotta così, sempre più spaventata, tirata e sofferente, era in grado di stupire e impressionare, con il camicione sbottonato fino allo stomaco e la sua voglia di vivere, di gestire la fine senza lasciarsi andare.

Come poteva, cercava di tirarsi su, in poltrona. E riusciva a ridere... come una puttana... con la morte dentro... con il verme che la mangiava...

Hannah non voleva cedere: stava comprendendo che il tumore è come la carie: se non ci va lo zucchero sopra, è tollerabile.

La Super Signora seguiva una dieta particolare, liquida e salina; voleva tirare avanti; le piaceva ricevere le visite di persone in pena per lei, che allungavano gli occhi sulle sue tette sbottonate, o ne erano invidiose.

Super lasciava fare.

«Me l'ha mandato lui questo tumore... ma non voglio morire... la partita non è chiusa...», decisa a salvarsi a ogni costo.

Chiunque passasse a trovarla, non poteva fare a meno di rimarcare come fosse ancora una bella donna, nonostante tutto quello che le era capitato.

Minter era spesso costretto a fornire notizie sulle sue condizioni di salute ai tanti colleghi che glielo chiedevano in vario modo: telefonando, passando di persona, o inviando telegrammi.

Al comando di polizia nacque la bacheca della Signora Super, per tenere tutti aggiornati sulle condizioni di Hannah Shaw; in particolare, Lattimer utilizzò i colori che venivano impiegati sulle strade dal nuovo semaforo elettrificato; un disco verde in bacheca indicava: salute accettabile, sotto controllo, visita facoltativa; un disco giallo: alcune complicazioni, rischio di aggravamento, visita consigliata; un disco rosso: crisi in corso, massima attenzione, visita obbligatoria.

E Super dirigeva il traffico, a bocca aperta quando scattava il verde.

«Sono ancora in partita...

Domani mi tiro su. E sabato alla festicciola».

Hannah voleva dare una prova di forza e lasciare tutti a bocca aperta.

Sarebbe tornata sulla scena.

Una biscia sulla sedia.

In precario equilibrio. Ma sbottonata.

Però Hannah sapeva che il tempo era scaduto e che ogni giorno poteva essere quello buono; con la morte non si può essere arroganti, la sua prova di forza rischiava di essere un fallimento.

Super lasciava fare.

LA TRUFFA DEL BOTTONE

di Edgar Wallace e Salvatore Conte (1929-2023)

L'uomo che Raymond Poiccart fece entrare alla presenza di Manfred aveva l'aspetto di un brillante gentiluomo vicino ai sessant'anni, di certo un ex militare. Era ben vestito e aveva il portamento e il passo di un soldato.
Manfred pensò che fosse un generale in pensione. Ma vide anche dell'altro, oltre all'aspetto esterno. Quell'uomo era distrutto. C'era una certa indefinibile espressione sul suo viso, una tesa angoscia che Manfred, il più attento dei Tre Giusti, captò all'istante.
«Mi chiamo Fole, generale Sir Charles Fole», disse il visitatore, mentre Poiccart gli preparava una sedia, prima di ritirarsi con discrezione.
«E siete venuto a parlarmi del signor Bonsor True», affermò subito Manfred e, vedendo che l'altro si era innervosito, rise. «No, non sono un mago», lo rassicurò con voce gentile. «È solo che sono venute così tante persone a parlarmi del signor Bonsor True. Credo di poter anticipare la vostra storia. Avete fatto degli investimenti in una delle sue imprese petrolifere e avete perso una considerevole somma di denaro. Si trattava di petrolio?
«Di stagno», fece l'altro. «Avete già sentito parlare della mia rovina?».
Manfred scosse la testa.
«No, ma ho sentito parlare della rovina di molti altri gentiluomini che si erano fidati del signor True. Quanto avete perso?».
Il vecchio sospirò.
«Venticinquemila sterline», disse. «Era tutto ciò che possedevo.
Ho consultato la polizia, ma mi hanno detto che non ci sono rimedi per il mio caso. La miniera di stagno esiste davvero e True non ha mentito in nessuna lettera che mi ha inviato».

Manfred annuì.
«Il vostro è un caso tipico, molto comune», asserì. «La verità non si trova quasi mai a portata della legge. Tutte queste truffe iniziano di solito a tavola, quando non ci sono altri testimoni e presumo che, nelle sue lettere, True vi abbia parlato della natura speculativa del vostro investimento e che vi abbia avvisato che non stavate per mettere i vostri soldi in una cassaforte».
«Fu a cena», ricordò il generale. «Io avevo dei dubbi sulla faccenda e allora True mi chiese di cenare con lui al Walkley Hotel. Mi disse che si prevedeva di estrarre enormi quantità di stagno e, sebbene non potesse, per rispetto agli altri soci, anticiparmi l'esatto ammontare di guadagno della Compagnia, mi assicurò che il mio denaro sarebbe raddoppiato in sei mesi.

Per la verità io continuavo ad avere molti dubbi, ma la sua segretaria...».

«Andate avanti, per favore».

«Beh... la sua segretaria, dico la verità, era tutta sbottonata. Mi faceva perdere la testa. Era bella donna, distinta, vedova, sui 50, l'età giusta per... insomma, le zinne, senza reggiseno, le cadevano a penzoloni sulla pancia ben gonfia. Era sbottonata fino allo stomaco; e anche molto bella».

«Quindi avete perso lucidìtà. La donna vi ha fatto delle promesse esplicite?».

«No... solo allusioni... sono stato uno sciocco! Ma era così... bona!».

«Anche questo è un espediente comune, oggigiorno, Sir Fole».

«Ma lei non era comune!», protestò, in maniera retorica, il generale.

«Dunque ne siete ancora soggiogato.

Si chiama Anna Frazer, non è vero?».
Il generale annuì, con espressione rassegnata.

«Se fosse solo per me non mi importerebbe», continuò il vecchio, mettendosi una mano sul fianco, «ma, signor Manfred, io ho una figlia, una ragazza molto vivace che ha, secondo la mia opinione, un brillante futuro davanti a sé. Se fosse stata un uomo, sarebbe diventata uno stratega. Speravo di lasciarle un'ampia sicurezza e invece ora sono rovinato! Non si può fare nulla per consegnare questo criminale, e la sua puttana, alla giustizia?
Manfred non rispose subito.
«Mi chiedo se voi vi rendiate conto, generale, che siete la dodicesima persona che è venuta da noi negli ultimi tre mesi. Il signor True è così ben protetto dalla legge e dalle sue lettere che è quasi impossibile fermarlo. C'è stato un tempo», sorrise debolmente, «in cui i miei amici e io avremmo usato i mezzi più drastici per trattare con questo signore, e la sua puttana (come l'avete chiamata), e credo che i nostri metodi sarebbero stati efficaci. Ma ora», si strinse nelle spalle, «abbiamo delle restrizioni. Temo di potervi promettere molto poco. L'unica cosa che vi posso dire è di tenervi in contatto con me. Dove vivete?».
In quel momento il generale alloggiava in una piccola casa vicino a Truro. Manfred prese nota dell'indirizzo e, pochi minuti più tardi, andò alla finestra mentre il vecchio e stanco militare si avviava lentamente lungo Curzon Street.
In quel momento entrò Poiccart.
«Non so niente degli affari di quel gentiluomo, ma ho la sensazione che abbiano qualcosa a che fare con il nostro amico True.
George, dobbiamo fermare quell'uomo. Questa mattina a colazione Leon stava dicendo che a New Forest c'è uno stagno molto profondo. Un uomo incatenato e ancorato sul fondo potrebbe restare lì per un centinaio di anni. E anche la sua puttana.
Personalmente, io sono contrario all'annegamento... specie delle belle donne... ma...».

George Manfred rise.
«Rispettiamo la legge, mio buon amico. Non ci sarà nessun omicidio, anche se un uomo che ha sistematicamente derubato i suoi simili meriterebbe un destino anche peggiore. Quanto alla puttana, vorrei prima vedere se davvero sia bona come dicono».

Nemmeno Leon Gonsalez riuscì a fornire una soluzione, quando gli parlarono del caso quel pomeriggio stesso.
«La cosa curiosa è che True non ha denaro in questo paese. Ha due conti in banca, ma è sempre scoperto su entrambi. Non sarei sorpreso se avesse un nascondiglio da qualche parte e in questo caso la faccenda sarebbe più semplice. Lo tengo sotto sorveglianza da circa un anno e non è mai andato all'estero. Inoltre ho frugato così spesso nel suo modesto appartamento di Westminster che potrei indicare a occhi chiusi il luogo in cui tiene le sue cravatte».
Tutto ciò accadeva nella primavera del 1925 e dopo questo episodio i Tre non ricevettero altre lamentele sul fraudolento venditore di azioni.
I Giusti non avevano fatto molti passi avanti nella soluzione del problema, quando si verificò la strana sparizione di Margaret Lein.
Margaret Lein non era una persona importante: secondo tutti gli standard sociali, era una persona comune, che si può incontrare in una passeggiata nel West End di Londra. Era una cameriera e lavorava in casa della signora Anna Frazer. Una sera era uscita per andare in farmacia a comprare dei sali profumati per la sua padrona e non era più tornata.
Era una ragazza di diciannove anni, non aveva amici a Londra ed era, come aveva detto lei stessa, un'orfana. E, da quanto si sapeva, non aveva legami mondani. Ma, come sottolineò la polizia, era molto improbabile che una ragazza giovane - anche se non molto attraente, pur sempre bene educata e istruita - avesse trascorso un anno a Londra senza avere conosciuto nessuno.
La signora Anna Frazer, non soddisfatta delle indagini della polizia, chiamò i Tre Giusti in aiuto.

Una settimana dopo la sparizione di Margaret Lein, un famoso avvocato attraversò la linda sala da ballo del Leiter Club per raggiungere un uomo che sedeva da solo a un tavolino accanto alla pista da ballo.
«Salve, signor Gonsalez!», esclamò. «Questo è l'ultimo posto nel mondo in cui mi sarei aspettato di trovarvi! A Limehouse, alle prese con i bassifondi, questo sì, ma al Leiter Club... davvero mi ero sbagliato sul vostro conto».
Leon sorrise, versò del vino del Reno nel calice a stelo lungo e lo sorseggiò.
«Mio caro signor Thurles», disse, «anche questo è un bassifondo.
Quell'uomo grasso che fuma accanto a quella signora robusta è Bill Sikes.
È vero che non scassina le case altrui, però vende azioni fasulle a delle povere vedove illuse ed è diventato ricco grazie ai suoi sporchi affari.

Un giorno o l'altro lo prenderò e gli spaccherò il cuore».
Il rubicondo signor Thurles ridacchiò mentre si sedeva al fianco dell'uomo.
Leon infilò la sigaretta in un lungo bocchino color ambra e sembrava del tutto assorto in quella operazione che portò avanti con la massima cura.
La signora Frazer viveva in un modesto appartamento vicino ad Hanover Court; era una bella vedova bene in carne; sembrava sostentarsi con la pensione del defunto marito, che arrotondava con impieghi saltuari, come quello di segretaria presso la Compagnia del signor True.

Leon - che era un tipo molto curioso, specie in questo caso - aveva fatto moltissime domande sul suo conto, ma non aveva scoperto altro se non che la donna era stata sposata ed ora era vedova.
Tutto quanto Leon sapeva era che la donna si recava spesso all'estero e a volte in posti fuori mano come la Romania. La ragazza ora scomparsa, Margaret, l'aveva sempre accompagnata in tutti i viaggi, almeno quelli più recenti.
Leon fissò la pista da ballo per un po' di tempo e poi fece un cenno al cameriere e pagò il conto. L'avvocato era tornato dai suoi amici. Leon vide il signor Bonsor True al centro di un'allegra tavolata, sorrise tra sé e sé e si chiese se quel truffatore sarebbe stato così allegro se avesse saputo che nella tasca interna dell'abito da sera che lui indossava c'era una copia del certificato di matrimonio che aveva scoperto quella mattina.
Era stata un'ispirazione che aveva portato Leon Gonsalez a Somerset House.
Guardò l'orologio; era tardi e poteva ancora sperare di trovare la signora Frazer.

La sua macchina lo stava aspettando nel parco di Wellington Place e dieci minuti più tardi si fermò davanti alla porta di Hanover Mansions.
Un ascensore lo portò al terzo piano. Suonò il campanello del numero 1009. Una luce si accese e la signora Frazer in persona andò ad aprire la porta, sbottonata fino allo stomaco.

Evidentemente aspettava qualcun altro, perché rimase sbalordita per un momento.
«Oh, signor Gonsalez!». Poi, in fretta, aggiunse: «Avete notizie di Margaret?».
«Forse», disse Leon. «Potrei parlarvi per qualche minuto?».
«È piuttosto tardi, no?», disse con ipocrita accento da puttana, senza minimamente allacciarsi lo spudorato camicione.

«Mi risparmierete un viaggio domani mattina...», insistette Leon, mentre affondava gli occhi nella profonda scollatura.

La donna, subito compiaciuta, lo fece entrare.
Nononostante il tenore di vita della signora fosse modesto, l'appartamento era arredato senza badare a spese.
«Volevo chiedervi», disse, dopo che si furono seduti, «da quanto tempo avete Margaret al vostro servizio?».
«Da più di un anno», rispose lei.
«È una ragazza simpatica?».
«Molto. Ma vi ho già raccontato di lei. La sua scomparsa è stata un brutto colpo per me».
«Era ben educata? Parlava qualche lingua straniera?».

La signora Frazer annuì.
«Parlava francese e tedesco alla perfezione; ecco perché mi era così preziosa».
«Perché l'avete mandata in farmacia a comprare dei sali profumati?».

La donna sembrava impaziente.
«Vi ho già detto, come anche alla polizia, che avevo un forte mal di testa e Margaret stessa si è offerta di andare in farmacia».
«E non c'era un'altra ragione? Non sarebbe potuto andare il signor True?».
«Il signor True? Non capisco cosa vogliate dire».
«True era con voi quella sera; avete cenato tète-à-tète. A dire la verità, avete cenato come marito e moglie».
La donna lo guardò incuriosita.

«Non capisco perché abbiate creato un tale mistero intorno al vostro matrimonio, signora True, ma so che negli ultimi cinque anni voi, non solo siete stata sposata con il signor True, ma siete anche stata la sua socia, nel senso che lo avete assistito nelle sue... ehm... speculazioni finanziarie.
Ora, signora True, voglio che voi mettiate le vostre carte in tavola. Quando andavate all'estero, portavate con voi la ragazza?».
Lei annuì senza parlare.
«Perché andavate a Budapest, a Bucarest e a Vienna? Avevate altri scopi, oltre a quello di divertirvi? C'erano delle ragioni di affari che vi spingevano a muovervi?».
Lei si inumidì le labbra asciutte ma non rispose, sicura del fatto suo; le zinne cedenti a penzoloni sulla pancia da vacca, come descritto fedelmente dai truffati.

«Perché una bella donna come voi, ancora piacente, si è messa con una farabutto?

Parliamoci dunque con maggiore chiarezza. Avete in una di queste città una cassaforte privata in una banca o in un deposito?».

Lei si alzò in piedi, stirandosi addosso il camicione.

«E a voi... cosa importa di tutto questo?

Siete interessato a me... o al denaro...?».
Mentre parlava si sentì bussare alla porta; la donna si voltò.
«Lasciate che apra io», disse Leon e, prima che lei potesse fare un passo, lui aveva già spalancato la porta.
Sulla soglia c'era un perplesso finanziere.
«Entrate, signor True», fece Leon con voce gentile. «Credo di avere delle notizie interessanti per voi».
Nel frattempo la signora era tornata  sedersi.

«Sono molto felice che siate venuto, signor True. Questo signore ha fatto delle insinuazioni sbalorditive su di noi. Lui pensa che noi siamo sposati. Avete mai sentito qualcosa di più ridicolo?».
«Ora, signore», fece Bonsor True nel suo modo pomposo, «qualsiasi cosa volevate dire...».
Leon lo interruppe.

«Vi ripeterò in poche parole ciò che ho già detto a vostra moglie.

Per quello che riguarda il vostro matrimonio è un fatto tanto scontato che non vi mostrerò nemmeno il certificato che ho qui in tasca. Non sono qui per rimproverare voi, True, o questa signora.

E il modo in cui avete truffato la povera gente che ha investito nelle vostre azioni fasulle è un affare che riguarda la vostra coscienza. Quello che voglio sapere è se in alcune città del continente voi avete delle casseforti o dei depositi in cui tenete nascoste le vostre ricchezze».
«Sì, possiedo dei depositi sul continente, ma non capisco...».
«Volete essere del tutto franco con me, signor True?

Le vostre casseforti si trovano a Budapest, Bucarest o a Vienna? E avete l'abitudine di portare con voi le chiavi?».
Il signor Bonsor True sorrise.
«No, signore. Ho dei depositi in certe casseforti. Ma hanno le combinazioni».
«Ah! E per caso non portate i numeri delle combinazioni in tasca?».
True prese dalla tasca un libricino dorato, grande come un francobollo e legato a una catenella di platino.
«Sì, tengo qui le combinazioni; ma perché diavolo dovrei discutere dei miei affari privati con un...».
«È tutto ciò che volevo sapere.
Ora credo di aver capito. E so anche perché avete mandato la signorina Margaret Lein dal farmacista a prendere dei sali.
Erano per voi!».
«È vero, mi sono sentito male», rispose tranquillo il finanziere.
«Il signor True era svenuto», si intromise la signora. «Ho mandato Margaret in camera mia a prendere dei sali, ma non ce n'erano. È stata lei a offrirsi di andare in farmacia».
«Che meraviglioso scherzo! Ora posso ricostruire l'intera storia. A che ora siete arrivato da vostra moglie, quella sera?
«Circa alle sette».
«E avete l'abitudine di bere un aperitivo che vi aspetta sempre già pronto in salotto?».
«Nello studio», lo corresse la donna.
«Voi avete preso il cocktail e siete svenuto all'improvviso. In altre parole, qualcuno aveva messo delle gocce di droga nel vostro aperitivo. Naturalmente vostra moglie non era nello studio.
Quando siete svenuto, Margaret Lein ha esaminato il vostro libricino e ha scoperto le combinazioni che cercava. Era stata molte volte all'estero con la signora e conosceva bene i vostri metodi per ottenere illeciti guadagni».
Il viso di True era livido dalla rabbia. Poi assunse il colore della cenere.
«Le combinazioni! Ha letto le combinazioni! Oh, mio Dio!
Senza dire altro, si precipitò fuori dalla stanza e sentirono la porta d'ingresso che veniva sbattuta.

«Vi sentite soddisfatto?», domandò la donna a Leon, visibilmente eccitato. «Davvero avete pensato che una puttana come me si facesse mettere nel sacco da una puttanella?».

Un'ombra calò sulla fronte del Giusto.

«Che cosa intendete dire?».

«Vi piaccio, non è vero? Troviamo un accordo, allora. Mio marito non farà storie. Ci facciamo comodo, ma niente sentimenti», era affondata nel divano come una troia, sempre sbottonata fino allo stomaco.

«Sono giusto, ma non fesso, signora True.

E solo un fesso potrebbe farsi scappare una donna come voi.

Ci sto, ma dovrete essere quasi completamente mia, signora Anna Gonsalez...».

«Mi sta bene».

E, sollevatasi dal divano in cui languiva stravaccata, gli andò a sbattere in faccia la scollatura del camicione... con tutte le zinne cedenti.

«Voi mi fate impazzire, signora...», furono le ultime parole del Giusto.

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