di Salvatore Conte (2024) Nessuna delle due Bodrille mollava la presa. Erano entrambe convinte di poter avere la meglio. Il diverbio con Chiquita era scoppiato improvviso, in questi casi la droga e la frustrazione giocano brutti scherzi. Spacciatrici, ma anche consumatrici. E Bodrille. E sbottonate. Lavoravano nello stesso albergo di Mexico City. Janet Frexhen, ex spia americana in Libano, aveva sbagliato un uomo dietro l'altro e ora imbolsita come una vacca faceva la fallita di lusso in Messico, spolverando armadi, tavolini e piselli. Chiquita Muñoz, cameriera indigena dalle grosse tette alla ricerca di un salto di qualità. La messicana si pensava una big, e per certi versi lo era davvero. Ma solo nel fisico. Girava per le camere con la camicia d'ordinanza ampiamente sbottonata, per irretire i clienti e farseli amici, e ci riusciva quasi sempre. Nonostante l'evidente sovrappeso, vi era un'armonia complessiva nelle sue forme possenti; lo sguardo metteva allegria e i fluenti capelli corvini, sparpagliati sulle spalle, sembravano sottili tentacoli pronti a ghermire la preda. Per raccogliere tutto questo in una parola, era detta la Bodrilla, un simpatico termine italiano, anzi romanesco, affibbiatole da un turista a suo modo innamorato.
Il termine aveva poi ribattezzato anche la collega americana,
che condivideva con lei diverse caratteristiche, malgrado 30 anni di differenza.
Sullo sfondo la radio sparava alto un pezzo dei Beatles,
che sembrava il Bodrilla theme.
«Fanculo, troia, sarai tu a farti male…!», replicò secca
Janet.
I corpi lottavano
avvinghiati.
Era esploso un colpo e se l'era beccato la Bodrilla
giovane!
Grande e grossa, eppure vulnerabile come tutti. Anzi i corpi
pesanti rotolano bene in discesa, e lei era diretta all'inferno.
Tutto era avvenuto molto in
fretta. A lei in fondo quella troiona lardellosa piaceva... se solo non le avesse fregato i clienti...
Adesso, poi, era più languida
del solito. Non poteva mollare così. Improvvisamente si chiese come mai nessuno fosse ancora intervenuto. D'altra parte la radio era alta; i Beatles e il frastuono caotico della città avevano fatto il resto. E poi la massa corporea della messicana aveva attutito il rumore dello sparo. Colse l'occasione per correre verso la porta ed esporre all'esterno il classico "do not disturb". Anche se la cameriera era ormai dentro. Batteva la fiacca più del solito e non avrebbe più disturbato nessuno.
Quindi tornò a fissare Chiquita. Sono l'unica Bodrilla rimasta, adesso».
Lo sguardo perso nel vuoto, carico di indicibile paura, la bocca rimasta
dischiusa, cristallizzata in un’espressione di incredula rassegnazione, la
chiazza di sangue sulla camicia bianca abilmente sbottonata, il contrasto tra
la massa possente del corpo e il colpo secco che l'aveva stroncata senza
lasciarle scampo, tutto questo rendeva la fatale postura della giovane Bodrilla la visione più tragicamente sensuale
su cui Janet avesse mai posto gli occhi. «Non puoi morire così, bastarda d'una messicana... Non volevo fotterti… lo sai...». Esaurito l'impeto, Janet si tirò in piedi e sferrò un calcio di frustrazione al cadavere, nel fianco.
«Fanculo, Chiquita... sei
fatta...». Forse quella situazione la stava suggestionando.
Si sprofondò nella poltrona,
cercando di riordinare le idee. La fissò, ma Chiquita era completamente immobile.
Era proprio la sua ultima ora.
Quando Janet mollò d’improvviso la presa, la testa di Chiquita
cadde di sasso all’indietro, sulla moquette del pavimento. Forse a causa del
contraccolpo, un grumo di sangue eruttò
dalla bocca della messicana, seguito - in una frazione di secondo - da un grugnito animalesco. Era Chiquita... Stavolta non c’erano dubbi. Stava gemendo. Rapita da quell'agonia irripetibile, Janet non si accorse che la porta si apriva. Era entrato un uomo e le stava spianando contro un revolver. «Che cosa è successo qui?», chiese freddamente. Era il boss di Chiquita. Stava controllando il suo lavoro e aveva il passepartout dell'albergo.
«Che le hai fatto? L'hai ammazzata?!». «Pedro... aiutami… gnhh...». «Mi dispiace, bella mia…», afferrò un cuscino e glielo piazzò sulla faccia. E cominciò a soffocarla! Poi avrebbe pensato a quell'altra. La Bodrilla si dimenava, era ancora possente. Ma Pedro insisteva, l'avrebbe tolta di mezzo a ogni costo, sapeva troppo; e senza usare il revolver. La Muñoz stava allargando le braccia e stirando i piedi! Ne aveva per poco.
Il boss l'aveva liquidata.
Pedro crollò sul cuscino.
Il baccano dei Beatles non era stato sufficiente. L'americana fu crivellata di colpi e venne sbalzata all'indietro, finendo seduta sulla poltrona come avesse scelto lei di di farlo: con una postura perfetta, a parte la testa rivolta in alto e la bocca spalancata, incredula. Forse aveva capito che anche per lei stava arrivando l'ultima ora.
Il turista innamorato un giorno modificò il cartellino dell'albergo, cancellando "do not" e aggiungendo "me". Chiquita chiese a una collega di rifargli la stanza. E quella collega era Janet, che subito colpì la fantasia del turista. Sarà che gli innamorati sono strani, ma quando lesse la notizia gli venne il dubbio che la Bodrilla avesse perso il posto.
di Salvatore Conte (2024) Fred Courtney aveva solo 25 anni ed era orfano di padre, ma insieme alla madre e a una mezza dozzina di vaccari si era impossessato di Tucson. Venuto meno lo sceriffo, era perfino riuscito a imporre l'avvenente madre quale sostituto. Vi erano già dei precedenti nello Stato, nessuna legge vietava alle donne di diventare sceriffo, e con la compiacenza della madre avrebbe ottenuto ancora più potere... La sua taglia, però, aveva raggiunto i quattro zeri e la platea dei cacciatori si era allargata. Infatti aveva commesso l'errore di ammazzare un povero cristo di passaggio e i famigliari avevano presentato denuncia nella città d'origine. Una volta registrata, una taglia aumentava di valore con relativa facilità, a volte solo per il passare del tempo: lo Stato, infatti, non ammetteva che una taglia rimanesse aperta troppo a lungo. E così il giovanotto si era messo nei guai. Non gli restava che fare affidamento sull'amore materno... La Sceriffa Janet Frexhen era già riuscita a dissuadere un paio di bounty-killers, utilizzando le sue famose zinne.
John Walker, invece, non aveva ceduto, si stava mostrando un osso duro. A quel punto Janet studiò un piano. Lo abbordò quella sera stessa, nel saloon principale, davanti a tutti. «Mettiamoci insieme, John… voglio un compagno forte accanto a me... Non dirmi che non ti piaccio…», e si protese in avanti, quasi sfiorandolo con le labbra, più che mai zozza e provocante. Era l'ultima possibilità che gli concedeva. Janet Frexhen era un pezzo raro: oltre i 50, ma ben conservata, formosa, affascinante, con la camicetta da vaccara sbottonata aggressivamente fino allo stomaco e i seni che ci ballavano dentro, cadendo a penzoloni sulla pancia gonfia. Fredda, autoritaria, agli incontri decisivi si presentava con i bottoni allentati, per allungare la scollatura e mettere in soggezione il pistolero di turno. Come quella sera. La stella da Sceriffa faceva il resto.
Era quasi impossibile che cercassero di colpirla: nel West erano poche le donne che sapevano sparare e quelle poche creavano imbarazzo. C'era quindi la possibilità di approfittarne e l’ascesa del figlio, infatti, era dipesa anche da questo fattore. «Non che tu non mi piaccia, Janet... Ma per mantenere un pezzo di donna come te, ci vogliono soldi, molti soldi... E tuo figlio è arrivato a valere 10.000 dollari: una bella somma, almeno per me… Tu, invece, sei stata più prudente, sei rimasta nell'ombra, nessuno va in giro con la tua faccia in tasca, se non per farsi una sega...».
«John... io e te, insieme... valiamo molto più di 10.000 dollari...». «Tu sicuramente vali un patrimonio anche da sola...», Walker stava al gioco, ma c'era del vero in ciò che diceva. «Sei galante, a modo tuo... Ma ho bisogno di una risposta precisa». «Convinci tuo figlio a consegnarsi. Lo porterò a Tombstone, dove avrà un regolare processo». «John, mi deludi... credi ancora che la vita sia un gioco di codici e paroloni. Solo le mie zinne valgono e sono reali. E puoi prenderle, se vuoi..». La tentazione era forte, ma la partita era lunga e Walker non poteva scoprire le carte. «Gli do tempo fino all'alba». «Stronzo...», Janet lo fulminò con gli occhi, gli voltò le spalle e lasciò il tavolo, facendo scattare il segnale convenuto: le ultime trattative erano fallite, bisognava sistemare l’affare in un altro modo. D'altra parte un cacciatore di taglie aveva molti nemici, era inevitabile. E poteva avere una taglia sulla testa anche lui, sebbene non avesse fatto niente di male. Passarono pochi minuti e scattò la provocazione. «Ehi, Jim! Quest'uomo m'ha toccato il culo!». «Alzati, straniero! Fammi vedere come tocchi la pistola!». Tutto fu molto veloce e banale. Solo una parvenza di realtà. La gente sfollava in fretta. Quelli che rimasero seduti ai tavoli dovevano essere parte del gioco. Janet faceva il mazziere, rimanendo in disparte. Lo stallo durò pochi attimi.
Un bandito cercò di sparare da sotto il tavolo. BANG Walker ne fece fuori tre in rapida successione, era veloce.
Un altro seduto ai tavoli e
quello che aveva acceso la provocazione.
CRASH
Una macchia scura - all'altezza
del fegato - imbrattò la camicetta sbottonata.
Aveva sistemato anche lei.
Era stato un bel repulisti, ma ora lo attendevano
10.000 dollari e non voleva farli aspettare troppo. La sua era finita sul lampadario.
Adesso era sazia di piombo.
«Cristo!». Ma c'era anche dell'altro in fondo agli occhi chiari: proprio adesso l'aveva fottuto? L'avesse capito prima, si sarebbe fatta sparare a salve da qualcuno.
Era come se quella pallottola che
aveva cercato di indirizzargli fosse
giunta a segno. «Ti porto su, Janet...», la sollevò da terra, trasportandola al piano superiore. Quando arrivò il segaossa, scosse subito la testa. «Sono solo dei dannati menagrami, dovresti saperlo». Janet, ansimando, si girò a pancia sotto. Sapeva il che dottore aveva ragione, ma voleva spuntare un po' di tempo. Scalciava con gli stivali sul terminale del letto; e premeva con la lingua sotto il palato, cercando di non lasciarsi andare. Intanto, per le strade di Tucson circolava molta apprensione. La sorte della Sceriffa teneva la città con il fiato sospeso.
Si attendeva con ansia febbrile
qualsiasi novità sulle sue condizioni: i più, conoscendola, si aspettavano una
certa resistenza, poi l'aggravamento e la concitazione finale, condita con
qualche disperata invocazione dei sodali più intimi. Lei era una carogna. Lui un giustiziere. Ma alla fine qualcosa era scattato. Janet si alzò il seno con la mano, John le succhiò le labbra impastate di sangue, con la mano che scattò sulle zinne ansanti. A questo punto lei si aspettò le sue scuse. «Mi dispiace, Janet. Io non volevo farlo». Giunsero puntuali. L'aveva ingabbiato. Troppo tardi, certo. Ma c'era riuscita. «Non volevi... eliminarmi... lo so... Ma l'hai... fatto... Adesso... però... ti voglio con me... fino alla fine... Non devi giudicarmi... ho fatto molti soldi… ma non bastavano mai… volevo di più... non potevo fermarmi... è vero... ci sono io... dietro mia figlio... lui è niente... senza di me...». «Non ti giudico. Anch'io sono qui per soldi. Ma c'è una cosa che devo chiederti». «Dilla...».
«C’eri anche tu con
Fred, a Moctezuma, due settimane fa?». «Ne sei certa?».
«John... non ci sono... mai... stata...». La donna si avvicinò.
«Ci sei andato pesante… », riferendosi alle
condizioni di Janet. Quindi non è compito mio toglierle la vita.
Ma ci hai pensato
tu, da quel che vedo…».
Non puoi fare niente per lei?». Le medicò le ferite con degli unguenti che portava alla cinta.
La Frexhen la lasciò fare, non aveva molto da perdere.
Tu tira i freni; e sai cosa significa». «Janet...!», la Frexhen aveva gli occhi sbarrati.
«Calmati... e ascolta... Il cuore pulsa una volta quando la pietra rotola giù dall'alto picco e tocca il fondo; e una seconda volta quando un'altra pietra rotola giù e tocca il fondo: solo quel tanto che basta.
Il resto lo fanno i freni della tua donna, tirati al massimo», concluse Mitla. «Non la muovere e non chiamare stregoni bianchi. Tornerò domani. E forse pure lei». «Se anche tornasse, non avrebbe più un figlio, e sarei io ad averlo ucciso». «Ti prenderebbe lo stesso. L'hai segnata, l'hai marchiata col piombo, come la bestia che è. Ha bisogno di te e molto da farsi perdonare. È madre ma ama soprattutto sé stessa. Credo sappia che la vita va pagata con la morte. Le vipere sono a contatto con l'inferno». Detto questo, la strega lo lasciò solo con i rimasugli di Janet, mentre fuori la gente - ossessionata dalla fine della Frexhen - premeva per sapere, entrare e vedere il cadavere della gran donna. SCIACALLI di Salvatore Conte (2024) Il borgo di Cith, nella regione nord-orientale di Cincor, lungi dall'accrescersi, era ormai morente. Lontano dalle rotte di comunicazione che percorrevano Zothique, incavato nelle profonde gole dei Monti Mykrasian, era sempre più spopolato.
La Sceriffa aveva al suo comando soltanto due uomini. E tanto meno abitare luoghi destinati alla morte. Ci si stringeva nelle ultime città rimaste. Bochra, la possente guerriera, entrò nella taverna e sparse la voce; cercava un ingaggio, perché non c’è epoca che non abbia i suoi avventurieri, almeno per risultati a breve termine.
L'imponente ragazzona girava con la mazza
ferrata e si dava da fare; in molte taverne di Zothique, i giocatori di carte la chiamavano la Regina di
Bastoni.
Era stata accoltellata, e la lama era ancora dentro, nello stomaco, fino al
manico. Era stata sorpresa tra la folla del mercato.
E ora veniva trasportata presso
il gabinetto di Galeor, l'alchimista più importante di Cith.
Restava il fatto che Chana era stata portata via dal
mercato con un coltellaccio affondato per intero nella pancia, e ciò aveva
lasciato interdetta la plebaglia di Cith.
La
Sceriffa di Cith, l'esperta Anafra,
stava ricostruendo le ultime ore di Chana.
Avida, provocante e scaltra, arrotondava la misera paga dandosi da fare a suo modo.
Con istinto puramente femminile, realizzò subito che Chana era stata sventrata
perché implicata in qualche affare illecito e potenzialmente redditizio.
Ed era nato un piacevole diversivo. Ma niente di più».
«In pieno giorno? È sempre pomeriggio a Zothique, Sceriffa…!».
«Sulla Culla perderai il tuo spirito…
Nel frattempo, la costernazione dilagava
tra la gente radunata sotto la casa
dell’alchimista. Sulla fronte erano stati tracciati due segni di questa forma: 0 1. Erano rossi, era il sangue di Chana.
«Ora aspettiamo», disse Galeor.
Fuori dal gabinetto
dell'alchimista serpeggiavano apprensione e malcontento. Occorre tempo...
Lo Zero e l'Uno devono elaborare la soluzione».
Anafra stava torturando Spun, il compagno della sventrata.
«Brava…», disse un'ombra all’altra. «Qua comando io!», la Sceriffa di Cith si avventò contro Bochra col pugnale alzato, scattando come una vipera.
La Regina di Bastoni scartò sul fianco, estrasse lesta il suo
- lungo e affilato - e restituì la gentilezza. Finirono avvinghiate l’una all’altra, rotolando insieme a terra.
Le assi marcescenti del pavimento scricchiolavano sinistramente sotto il
peso delle due massicce figure, torturate senza tregua dall'acerrima lotta.
Una delle due spiccò un
involontario tuffo nel Lete. Il pugnale, affondato nel fianco fino al manico, stava bevendo il suo sangue.
Ciò voleva dire che la lama era tutta dentro la pancia della
Sceriffa; ed era una bella lama, come la pancia, del resto. SWISH
Bochra tirò fuori la lama, e
vari pezzetti di budella...
La Regina di Bastoni, che se
la cavava bene anche
con le Spade, fissò per un attimo la Sceriffa: era patetica, ma tosta;
molto tosta.
O non aveva capito, o voleva illudersi. LA FINE DI ANAFRA
Combatteva da ore con un’emorragia fatale, sostenuta dal
fisico e dalla disperazione. «Il pugnale è andato in profondità, Anafra», l'alchimista gliel'aveva spiegato dieci volte. «Non ha avuto riguardi, doveva essere arrabbiata». «Acqua... acqua... subito...», aveva paura; e la bocca secca, come tutti i moribondi.
Non voleva proprio capire cosa significasse un
lungo coltello nelle sue budella, strappato via senza tanti riguardi. Anafra era una potenza assoluta che rimaneva uccisa.
Non era facile per lei farsene una ragione, accettare la fine, dopo
aver
finalmente assaporato la ricchezza.
Non c’erano
motivi di rancore, perché durante una lotta corpo a corpo tutto era ammesso; anzi era nata una società, sia pure destinata a non durare.
Durante un controllo notturno,
un criminale l’aveva sopraffatta e pugnalata a morte. Acqua... acqua... ti prego...». Anafra cercava disperatamente di muovere qualche passo verso la salvezza, ma erano di più quelli che faceva all’indietro, verso la Porta Fatale che conduce alla Casa di Thasaidon. La Sceriffa di Cith tentava ancora di apparecchiarsi la salvezza, ma stava per scomparire dalla scena, tra molti rimpianti. Per salvarla sarebbe servito un capolavoro.
«Le cose... non vanno... come... pensavo io... gnhh... gnhh... il coltello... ha bevuto... troppo... gnhh...», a bocca spalancata, sconcertata, consapevole di tutto, ormai. Bochra, che l'assisteva senza trattenere la propria eccitazione, cercò di distrarla. Le passò una mano dentro la camicia d'ordinanza, sbottonata fino allo stomaco, palpeggiandole il seno da mignotta. Tuttavia Anafra era troppo tesa per riuscire a spassarsela. «Bochra... cosa ne pensi... gnhh... della negromanzia...». «Capisco cosa intendi: in tanti ci provano; si accontentano di una vita dimessa, piuttosto che scomparire del tutto». «Io... non ne ho... per molto... gnhh... gnhh...», Anafra aveva preso coscienza della propria sorte; sapeva di essere ormai diretta verso la Casa di Thasaidon. «Mi devo organizzare... Hai combinato... un bel guaio... gnhh... Devo rimediare... in qualche modo...
Ma intanto... gioca ancora... gioca... gnhh...», malgrado le budella sottosopra, cercava
un modo per distrarsi. La Regina di Bastoni si consultò con Galeor, che convocò in segreto un esperto negromante, per esaudire l'ultimo desiderio della Sceriffa. Le spiegò che l'avrebbe strangolata dolcemente con una sciarpa di seta e che lei non doveva opporre resistenza. Anafra assentì distrattamente, non era più lucida, l'emorragia l'aveva sfiancata. L'operazione ebbe inizio. Il grande momento era arrivato. Anafra pagava con la vita la sua scellerata ambizione. Era finita. La Sceriffa, però, reagì con veemenza quando si sentì stringere il collo. Bochra sospese tutto. Il negromante si stufò di aspettare e se ne andò stizzito. «Non ho... il coraggio... gnhh... di farla finita...», mormorò, quasi scusandosi.
La folla in strada era inferocita, perché le notizie scarseggiavano. Vedendolo uscire, si arrabbiò ancora di più: che ci faceva lì? Fu circondato e minacciato. Spiegò loro che non aveva fatto niente, che la Sceriffa ci aveva ripensato, che preferiva aspettare la fine. I popolani volevano vederla a tutti i costi, sapevano ormai che Anafra stava per spirare. Bochra ne fece entrare qualcuno, purché stessero zitti e non si avvicinassero troppo. Gli occhi della Sceriffa vagavano spaventati sul soffitto della camera. La bocca semiaperta, in un'espressione stanca e sconcertata. Un rivolo di sangue le colava da labbro. C'era una palpabile apprensione tra i presenti. La situazione non era migliore di quella che avevano immaginato. Anafra piaceva sempre da morire. Ma ormai era giunta alla stretta finale. La sua avidità l'aveva tradita. Avrebbe potuto dividere il malloppo, ma non si era accontentata; e adesso ne pagava le conseguenze. La tragedia di Anafra sarebbe rimasta nelle memorie di Cith. Allungò la testa all'indietro e allargò sfinita il braccio, che cadde a penzoloni dal bordo del letto. Gli astanti si strinsero - come una sola persona - intorno al suo capezzale, ansiosi di aiutarla in qualche modo. Neanche Bochra riuscì a frenarli. Le rimisero a posto il braccio e le sussurravano parole carine. Anafra, dal canto suo, boccheggiava disperata, ancora incredula di dover morire, nonostante l'ampio consenso e il convinto sostegno che molti le offrivano. Mentre crepava, sembrava assorta in qualche remoto pensiero. Aveva cercato di afferrare la salvezza, ma le era sfuggita; nonostante - in certi momenti - le fosse sembrata vicina, a portata di mano. Poi le gambe si mossero da sole, in un sussulto involontario. Stava perdendo il controllo. Era uno spasmo di morte, forse l'ultimo avvertimento. La paura aumentava e il sudore freddo con questa. I popolani di Cith lanciarono grida a quelli rimasti fuori. Anafra non si teneva più. Anche se a parole continuavano a incoraggiarla, tutti sapevano che era finita. Gli sguardi scartavano tra la ferita nel fianco, quella che l'aveva uccisa, e gli occhi della morente, che si stavano fissando nel vuoto, carichi di paura. Il coltello dell'assassino, entrato molto in profondità, le aveva segato le budella, e neppure una come lei, dura e ambiziosa, riusciva a prendere altro tempo, in quelle condizioni. Ebbe un altro spasmo, anche peggiore. Si contorse sul letto come una biscia. I presenti gridarono allarmati. Anafra stava per essere cancellata sotto i loro occhi e nessuno poteva fare niente. Un attimo dopo rimase con la bocca spalancata e gli occhi fissi sul nulla, infine stroncata dalla fatale pugnalata di Bochra. La Regina di Bastoni provò a stringerle la mano, ma ormai era flaccida, come le vecchie tette. L'incredulità attanagliò i presenti, che si aspettavano altri spasmi. La notizia attraversò come un fulmine il borgo: la Sceriffa Anafra aveva trovato la morte nella fatale pugnalata della notte precedente. Aveva provato fino all'ultimo ad agguantare la salvezza, rifiutando una precoce negromanzia e affrontando una crudele agonia; ma alla fine era uscita di scena, lasciando molte persone incredule intorno a sé, nonostante la morte annunciata da ore. Basiti, si ostinavano a rimanere lì, gli occhi fissi sul cadavere. Tuttavia spasmi e sussulti erano finiti, a parte una torsione della gamba che suscitò un clamore esagerato e un breve entusiasmo; ma la notizia di una disperata reazione della Sceriffa fu presto smentita: gli occhi fissi al soffitto della camera parlavano chiaro; non c'era più niente da fare per lei; doveva essersi trattato di un tardivo assestamento del corpo indotto dal rigor mortis. «È rimasta fottuta», il commento prevalente, che passava di bocca in bocca, non privo di incredulità, come la faccia morta della Sceriffa. C'era disperazione al suo capezzale, in molti cercavano Galeor. Qualcuno notò che i segni sulla fronte di Chana erano spariti. A un'occhiata interrogativa di Bochra, l'alchimista si lasciò sfuggire queste parole: «Non si può chiedere troppo allo Zero e all'Uno. Ma sono io a fare le proposte». Tra i disperati, c'era perfino chi giurava di seguirla nella tomba, per tenere lontano il verme.
La lotta di Anafra era stata disperata fino all'ultimo respiro; tra ambizioni di salvezza e scenari di morte.
Tanti gli sciacalli rimasti ad aspettare l'ultimo spasmo di Anafra, potente mignotta uccisa dall'avidità. E in molti non si arrendevano neppure di fronte all'evidenza: con le lacrime pensavano di annegare il verme. Si sarebbero accontentati di un piccolo spasmo. Ma la bocca spalancata e gli occhi invariabilmente fissi sul nulla non lasciavano speranze: Anafra aveva pagato un prezzo altissimo, forse esagerato; aveva provato a rimanere in gioco, ma la salvezza le era scivolata via; nelle ultime due-tre ore aveva perso il controllo, non c'erano più stati dubbi, tutti avevano capito; solo lei aveva continuato a illudersi. E anche adesso, cadavere, aveva un'espressione incredula sul volto. Lei, uccisa. Assurdo. Eppure non c'era più nulla fare, non le rimaneva che sparecchiare.
Il cadavere, su cui erano apparsi dei segni, sarebbe rimasto sotto osservazione per alcune ore; poi messo all'asta. Difficile che 01000001 01101110 01101110 01100001 andasse al verme. L'AVVENTO DI DAGO La fine di Anafra aveva fatto rumore. L'inedia regnava su tutta la terra di Zothique e le poche notizie sconvolgenti attiravano la morbosa curiosità della plebaglia. Da Yethlyreom, capitale di Cincor, giunse a Cith una masnada di curiosi e avventurieri. La storia dell'incidente notturno non aveva convinto nessuno. Qualcuno aveva voluto eliminare la Sceriffa Anafra, senza lasciarle scampo; ma lei, Anafra - molto stupidamente - non rassegnandosi, lottando per ore, aveva reso tragica e famosa la sua fine. Tra gli avventurieri pervenuti a Cith c'era un certo Dago. Qualcosa di grosso sarebbe venuto fuori. Se lo sentiva. L'IMPERO DI RISHA di Salvatore Conte (2016-2023)
Da lungo
tempo era insorta un'incomprensibile ostilità tra due meschini villaggi di Yoros. Il suo nome era Risha.
Per vivere faceva la donna delle pulizie e frequentava molte case. Sebbene Risha fosse in realtà una vecchia cessa sfondata, si era accorta di
piacere lo stesso ai villici, anche parecchio, e aveva perciò deciso di
sfruttare questo vantaggio.
Adesso, invece, era famosa a Lask per la sua tunica blu con tanti bottoncini, e aveva acquisito una crescente importanza, forte della sua perversa prestanza. Risha tentava in tutti i modi di imporsi, sicura di poter dominare la scena con i suoi modi subdoli e il fascino tenebroso, coltivato tra le vecchie tombe del villaggio.
Donne come lei - nello spento mondo di Zothique - erano rare: pertanto le spettava di diritto il sommo potere. Per avere mano libera, si era appartata in una casa diroccata situata nello spettrale bosco che divideva i due villaggi in lotta, Lask e Melk, e da qui dirigeva un manipolo di giovani lavativi, sognando di diventare sempre più potente.
Con la
sua carne grassa e i lunghi camicioni che attendevano solo di essere sbottonati fino all'ombelico, aveva acquistato i favori di Lask; quasi per riflesso, era
detestata a Melk. E per far questo istigava gli abitanti di Lask contro quelli di Melk, affinché poi - una volta impostasi su entrambi - potesse proclamarsi Imperatrice. La tensione fra i due borghi era stata inasprita da un'ulteriore sciagura: un feroce orso aveva preso ad assalire i viandanti solitari, lungo l'unica, tortuosa pista che collegava tra loro Lask e Melk.
Il tipo di ferite e le tracce lasciate sul terreno erano infatti senza dubbio
riconducibili a un orso, non raro su quelle montagne, ma evidentemente molto
aggressivo. Tuttavia la paura, fino a quel momento, scoraggiò ogni iniziativa. Era dunque Risha, Risha Frenzhek, a uccidere (!), spinta da una bestiale follia e dall'odio verso i villici di Melk. Una potente donnaccia aveva avvelenato i pozzi di quelle squallide contrade. Ora, però, si trovava alla loro mercé, sfinita da calci, bastonate e soprattutto efferati colpi di forcone, affondati impietosamente nel suo grasso ventre (!!), che l'avevano tumefatta, infilzata, sventrata e sbudellata; oltre a ciò, ancora aggrappata con le unghie alla vita, per finirla e umiliarla - senza pietà né ripensamenti per quella che comunque era una donna, maciullata e agonizzante - l'avevano legata per i piedi a un cavallo, con lo scopo di trascinarla come una carogna lungo la squallida pista. L'avrebbero portata fino a Lask, dove sarebbe giunta cadavere. Risha conosceva il suo destino; però non voleva arrendersi; avrebbe lottato; le forme grasse l'avevano in qualche modo protetta e le davano forza; prima di morire voleva trascinare i suoi nemici con sé, offrendoli a Thasaidon. Aveva le budella di fuori, ma il cuore era illeso: la fortuna non l'aveva abbandonata del tutto, non era ancora crepata, poteva cercare di gestirsi. La sua stazza la proteggeva, conservandole una parvenza di vita; era una fortezza che al momento - pur presentando diverse brecce - neppure la morte riusciva a espugnare. La procace bambinaia teneva alta la testa e confidava nella complicità dell'oscurità e delle brusche curve che obbligavano il cavallo a rallentare. Lungo una di queste, presso il ciglio, riuscì ad afferrare un grosso ramo frondoso, caduto da poco. Con tasaidica furbizia, se lo passò sotto la schiena, per proteggere il corpo dall'attrito sul terreno, cercando di salvare il salvabile. Aveva capito che la stavano portando a Lask. Se riusciva ad arrivarci viva, sarebbe spirata fra le braccia dei suoi uomini. L'orgoglio di essere ancora in vita le metteva l'argento vivo addosso. Fu così, infatti, che giunse al villaggio dove era molto popolare. Il villico in groppa al cavallo non ci badò nemmeno, la grossa puttana non aveva alcuna possibilità di salvarsi. L'umiliazione era completa. Tagliò di netto la corda e se ne ritornò indietro. Lo strepitio del cavallo destò dal sonno gli abitanti di Lask. Subito accorsero intorno al corpo martoriato di Risha, con grida di allarme e disperazione. Si accorsero con stupore che respirava ancora e cercava di parlare. «Ven...di...ca...te...mi...», sussurrò a stento, con la bava alla bocca. I villici di Lask non sapevano che lei stessa era stata l'orso furioso che uccideva i viandanti nel bosco. Perciò pensarono subito a un atto premeditato di Melk. D'altra parte, Melk stesso aveva dato per scontato che lei avesse agito per conto di Lask. Alla fine, Risha aveva raggiunto il suo scopo. La rabbia dilagò come un'alluvione di follia. I più accesi, vistola ormai perduta, la caricarono su un carro, mettendola seduta a cassetta. Avrebbe guidato lei stessa, anche cadavere, l'assalto a Melk. Non ci fu nemmeno il tempo di ricomporle le budella. L'unica accortezza fu di vestirla come piaceva a lei e a tutto il villaggio di Lask: da grossa, invincibile puttana, con una camicetta allentata fino allo stomaco, che le ricopriva le budella maciullate fuoriuscite dalla pancia, in modo che il grasso seno la gonfiasse prorompente, rimanendo bene in vista, ricadendo a penzoloni sul ventre spanzato, quasi a tamponare le orrende ferite, ballonzolando morbido a ogni giro di ruota. Era una fine eccellente. Era un segno di potenza che Melk non aveva accettato, ma che ora li avrebbe distrutti. Risha era legata saldamente contro lo schienale del carro, con una corda che le passava obliqua sul petto, pronta a combattere la sua ultima battaglia. La sua vista esaltò gli animi. Era sempre bella e il pallore mortale dell'agonia la rendeva ancora più intensa e struggente.
Come prevedibile, vedendo la loro regina ormai cadavere, i popolani si
scatenarono, infuriando al seguito del carro lanciato sulla pista per Melk.
La sua guardia personale impediva a chiunque di avvicinarsi, prevenendo altri
colpi, nel caso avessero cercato di saldarle il conto; era fragile, un'altra
ferita l'avrebbe uccisa.
Tuttavia, anche sul
letto di morte, benché stravolta dallo sforzo, continuò a
dare ordini.
Voi... siete un
esercito...».
«Uomini di Lask...
io... non voglio crepare... la vostra regina... non accetta di morire...
per me... non... non è ancora finita… io... voglio... salvarmi…
io... ci credo... io... non rimarrò uccisa...», Risha cercava di
infondere coraggio a quelli che ormai - dopo lo storico trionfo - considerava di
diritto suoi sudditi.
«Stavolta... dovrete farcela da soli...». Quando Risha, avvicinandosi alla fine, andò definitivamente in crisi, cadendo con il capo all’indietro, gli occhi vuoti e fissi al cielo, dilagò il panico.
Era pallida come un
cadavere, gli occhi marmorizzati, le labbra viola. Si diffuse la voce incontrollata che Risha fosse spirata.
Ma non era
del tutto vero. Non ancora, almeno.
Era tenuta in fin di vita dalla sua ferrea volontà e dagli occulti rimedi di uno
stregone giunto dalle montagne circostanti. Provò ancora a parlare, a dare nuovi ordini.
«Non sono finita...», si ostinava a dire.
«E se anche crepo... mi mangio il
verme...». Mentre lei moriva, nasceva il suo mito. La spaventosa agonia di Risha teneva tutti col fiato sospeso: sia i suoi seguaci che i suoi nemici. I primi sapevano di non valere nulla senza di lei, i secondi di non poterla sottovalutare. Risha cercava in tutte le maniere di differire la morte. Se avesse trovato il modo di farla franca, ancora bella com'era, avrebbe potuto regnare per molti soli. Ma le orrende ferite erano mortali, lei lo sapeva: avrebbe fatto meglio a prepararsi, piuttosto che cullare stupide illusioni. Con i loro forconi, i villici infuriati l'avevano sbudellata, senza lasciarle scampo. Non c'erano chirurghi, se non a Faraad, e lo stregone delle montagne non poteva fare molto di più. La sua vendetta, però, intanto, l'aveva ottenuta. Il Re di Yoros non dormiva sonni tranquilli, chiedendo di continuo rassicurazioni sulla morte della tasaidica scrofa, della gran vacca di Lask, immaginandola lasciva Imperatrice di lungo corso nei suoi ricorrenti incubi. Oppure dominatrice per mari e per monti, con le grosse tette che gli scoppiavano in faccia. Risha, invece, navigava a vista. I suoi l'alimentavano con cibi semplici, liquidi, assimilabili direttamente dallo stomaco, visto che le budella non c'erano praticamente più, o peggio erano sparse a caso nella sua grossa pancia da bagascia. «Il verme... è buono... è grasso... io... me lo mangio... e poi... io... mi mangio... anche... il Re... di Yoros...». di Salvatore Conte (2024) La fisso dritto negli occhi...
È Anna Frenzhek, un pezzo grosso. A quasi sessant'anni è ancora una bella donna.
Vorrei continuasse a portarseli bene anche alla fine della serata. La sua azienda e la sua pancia si allargano sempre più; adesso pappa pure sulla tratta di giovani esseri umani.
Questa sera sono venuto a trovarla nel suo losco night-club, attaccato ai docks, per proporle un buon affare: la sua vita in cambio di Chloe,
una bambina di dodici anni che devo riportare ai
genitori. Sono nel suo ufficio, sul retro del locale, nei bassifondi del porto. So che in uno dei container in attesa sul molo è nascosta la ragazzina. Deve dirmi quale. Lavoro in proprio, la Compagnia non fa buone azioni. La libanese, vecchia esperta di guerriglia e attentati, è seduta arrogante dietro la sua scrivania, in pratica un semplice tavolo: indossa un camicione di jeans sbottonato fino allo stomaco, ben gonfiato da pancia e tette, e una canotta nera. Non nascondo di essere un suo fan, ma se necessario, questa sera le faccio esplodere le budella. Alla mia sinistra - su uno sgabello - c’è uno dei luogotenenti del boss: Romina Lopez. È una gran sgualdrina, già sformata benché giovane, ma con grosse zinne e occhi infuocati; si tiene una glock con silenziatore tra le cosce, a mo' di fallo dritto, e un cappello da poliziotto in testa; alcolizzata, eroinomane, psicopatica, se non la uccido io stasera, difficile comunque che arrivi a compiere trent'anni. Alla mia destra - appoggiata col culo alla scrivania - c'è l'altra sgualdrina-killer della Frenzhek: Nada Giansanti, italiana doc. È un grosso puttanone, non certo di primo pelo; la magliettina verdognola è talmente attillata che le bombe sembrano sul punto di scoppiare; si tiene una uzi in mostra sulle cosce, con l'aria di avere una gran voglia di usarla contro di me. Gran puttane tutte e due. Anzi tutte e tre. Difficile scegliere chi ammazzare per prima. Sta di fatto che mi ritrovo nel bel mezzo di un gineceo criminale. Ma un'eccezione c'è. Quasi di spalle, a guardia della porta, c’è uno scagnozzo con il revolver infilato nei pantaloni. «Sei ancora una grandissima puttana», cerco di essere diplomatico. «Lo prendo per un complimento».
«Lo era.
Comincia a ridere.
«Mister Jameson è proprio un cazzone…», la
Lopez pure. POW Il primo colpo - con gesto minimo, la mano in tasca - finisce nelle budella del boss, passando sotto il tavolo. Nessuno finora aveva avuto il coraggio di farle esplodere la pancia! La Frenzhen è letteralmente sbigottita. L'ho sfondata. Anna rovescia la testa sulla scrivania: cazzo, ci sono andato giù parecchio duro! Spiace trattare così una signora, ma se l'è voluta.
Nada afferra la uzi e me la spiana contro, pronta a colpire... RAT-RAT-RAT Lo scagnozzo viene sbalzato contro la parete dalla violenza della raffica. È rimasta solo la messicana, ma devo cercare di non ammazzarla, perché di sicuro sa dov'è tenuta la bambina. La Lopez, però, non sembra preoccuparsi troppo della puttana che mi fa da scudo, anzi... sembra intenzionata a regolare qualche vecchio conto. «No!», la Giansanti fa bene a preoccuparsi. STUMPF La bruna infatti fa fuoco, bucando per la seconda volta la pancia di Nada: la ciccia dell'italiana assorbe il colpo e mi lascia illeso. POW Romina, così facendo, mi costringe a spararle. Un colpo all'addome: la ristretta porzione visibile, non ricoperta dalle tettone, grasse e cedenti, che le spiovono sul ventre. Può bastare: avrà tempo di parlare. È tutto finito. La sgualdrina-killer spalanca la bocca e incrocia le braccia sulla pancia: il colpo è arrivato, e anche una bestia matta come lei l'ha sentito. L'ufficio è isolato, i regolamenti di conti frequenti: nessuno verrà a ficcanasare. Avrebbero dovuto prendermi sul serio.
Ora, prima di morire, qualcuna dovrà parlare. Lancio uno sguardo al boss e ho la netta impressione che, adesso, gli anni non se li porti più tanto bene. «Sei impazzito... potevamo metterci d'accordo...», sussurra la messicana. «C'ho provato». «Forse mi hai ucciso...». «Forse farai in tempo ad arrivare in ospedale, se mi dici quello che voglio sapere». «Non voglio... finire dentro...». «Penserò anche a quello, se mi dici...». «Quello... che vuoi sapere...». «Ecco, brava». «Avvicinati...
La bambina... si trova... nel
container... numero...». Sul manico è scolpita una maschera africana. È tanta roba anche per una come lei.
Romina accusa il colpo e strabuzza gli occhi. «Mi dispiace, te la sei voluta». La bruna tiene la bocca spalancata, in cerca d'aria, per assestarsi. «Non te lo toccare, o sarà peggio: lo estrarranno all'ospedale». Annuisce con un breve cenno del capo, il volto tirato, un rivolo di sangue dal labbro. È una bella ragazza, peccato sia una drogata psicopatica. È il momento di provare con Nada. Ma stavolta senza perdere tempo. Anche lei deve conoscere il posto.
Aggrappandosi all'esperienza e al fisico, sta gestendo le due pallottole. Nell'uscire dall'ufficio, rivolgo uno sguardo ad Anna, ma lei non ricambia: sta puntando un angolo della stanza da parecchio tempo, ormai. Un vero peccato.
«Avanti…
portami dalla bambina, adesso», ordino a Nada.
È qui intorno, vero?».
Lei non ti ucciderà di sicuro.
L'italiana riga dritto, ho già in macchina la
ragazzina.
SKREEK...
La tengo sotto mira con il mio revolver. È Romina! E accanto a lei c'è Anna! Stavolta le ammazzo! POW STUMPF CRASH L'anticipo di un niente, il suo colpo parte per la tangente e manda in frantumi il suo stesso parabrezza. Una pallottola nel collo le raffredda i bollenti spiriti. Stavolta la drogata è fottuta sul serio. Ma adesso arrivano i guai seri... i calibri pesanti... RAT-RAT-RAT Anna si è portata appresso l'arma che usava spesso in Libano: il Kalashnikov! Faccio appena in tempo a buttarmi addosso Nada, stasera è un proprio vizio. Ma non ho il coraggio di freddare Anna come ho fatto con Romina. POW Non è un tiro semplice, ma riesco a beccarla alla spalla. Lascio scivolare a terra Nada e mi avvicino alla libanese. «Ferma! Mi dispiacerebbe gelarti». «So capire... quando ho perso... Sei stato carino... con me... cowboy... Mi hai trattato... da signora...», guarda allusivamente il cadavere di Romina e si preme entrambe le mani sulla pancia. «Hai i tuoi privilegi, Anna. Non sprecarli...». «Ascolta... non lasciarmi qui... gnhh... me la faranno pagare... gnhh... era per una persona importante... potente... gnhh...». Un breve attimo di riflessione. «E va bene...». Ha sicuramente ragione. L'ambulanza è arrivata. Era prevista per Nada, ma non ne ha più bisogno. Però non la faccio portare in ospedale. Consegno all'autista un biglietto e cinque centoni. È l'indirizzo di un Black Doctor, ovviamente non un negro. Riporto la piccola ai suoi genitori e me ne ritorno a casa.
«Jameson... portarsi con massima urgenza in sito X9. Tale Anna Frenzhek, confidente di fiducia, risulta scomparsa a seguito di presumibile regolamento di conti. Rintracciarla immediatamente e metterla in sicurezza». Questa poi... E meno male che non le ho aperto un buco in fronte... Ecco perché rideva sguaiata. Ne sapeva più lei di me che io di lei. Però ha finto di essere in pericolo e ha accettato di non farsi portare in ospedale; come se volesse mettermi alla prova... Vuoi vedere che... anch'io stavolta ritorno indietro con qualcosa? di Salvatore Conte (2024) Julia Lopez è una grossa puttana.
Mi sono rivolto a lei perché ha due grosse tette e tanta voglia di fare. Nel giro è detta la Piranha.
«Sei una bella puttana, ma domani parto. È lavoro». A missione conclusa, mentre sto tornando dalla mia Bella per farle una sorpresa, la sorpresa la fanno a me: con un biglietto mi avvisano che avrei ritrovato il corpo di Julia nel bosco dell'albergo.
Una vendetta. O una trappola. O entrambe le cose.
Io lo sapevo… che prima o poi…». Sono solo... una puttana…
Ma non volevo... finire così…», non ha molto da dire mentre crepa, gli enormi
seni affossati sulle ginocchia e praticamente mischiati alle budella.
Guardo l'orologio per capire quanto possa
durare. di Salvatore Conte (2012-2024)
Kelly non vedeva l’ora di fare un bagno caldo.
Kelly Maddox, la potentissima bionda, è sorpresa nella vasca da bagno da uno spietato killer.
Il bagno diventa una doccia fredda.
Ma non basta: il killer punta ancora
grosso.
Ma non c'è tregua per Kelly: il killer non è soddisfatto.
La Maddox si agita come un'anguilla, in una vasca ormai tinta di rosso...
Le pallottole fanno tutte male, ma quella in pancia, nell'utero, è insopportabile...
Kelly comincia a rilassarsi.
Le forze scemano.
Ma anche queste se ne vanno...
Poi la destra… che va alla deriva come la stessa Maddox...
Le sorprese, però, non sono finite: con un colpo di coda, Kelly si
scuote e riporta le mani sull'estrema linea di difesa…!
Il killer, che era rimasto a osservarla, a questo punto si
infuria. Il piombo non gli manca.
La Maddox sta per affogare nel suo stesso sangue, ma il killer non ha udito l'ultimo rantolo, la zinnona bionda è ancora in linea di galleggiamento, si rifiuta di affondare...
Benché per lei sia chiaramente finita, il killer non è
soddisfatto...
Per affondarla!
La povera Kelly Maddox è morta ammazzata nel suo stesso
sangue.
Scossa da un estremo spasmo, la biondona è riemersa dall'acqua!
La ritrova con la nuca appoggiata al bordo, gli occhi vaghi, le braccia abbandonate, e tanta merda che le è uscita dalla bocca e non solo; galleggiano anche due grossi stronzi, Kelly si è cagata sotto dalla paura.
Il killer non sa più cosa fare per sopprimerla e non ha più il coraggio di infierire. L’inferno non la vuole. E lui non ama contraddire il demonio. D'altra parte, la biondona non ha scampo. La troveranno dissanguata nella sua vasca, imbottita di piombo. Ma lui può applicarle il bonus. È un codice interno alla malavita, riservato alle belle donne. Parte una telefonata. Per vedere se il committente è disposto a ripensarci, spiegata la situazione. «Le ho messo dentro sei pallottole. Tre o quattro sono mortali. E le ho messo la testa sott'acqua... Ma tira ancora avanti, è nella vasca, in fin di vita; si è pure cagata sotto. Il nostro codice prevede che...». E poi un'altra, per capire se si fa in tempo a mandare qualcuno. Ma se la lascia sola, sa che verrà ritrovata cadavere. È costretto a rimanere. Kelly non chiede niente. Sa già tutto. Perché è stata uccisa e perché ora si cerca di farla sognare un po'. Sa anche, però, che le rimane poco tempo. «Fate... presto... ho... paura...», mormora disperata. «La tua paura galleggia, Kelly...». Almeno crepa sperando in qualcosa. Se il diavolo, perché no, ci mettesse lo zampino... Di certo Kelly Maddox non rinuncia ai bonus. Si gestisce, con occhi vitrei, in un bagno di sangue e merda. MORTE SUL CONGO di Salvatore Conte (2024)
Nessuno è mai veramente vissuto nel Primo Secolo. Non i romani, non i cristiani. Roma non si è fatta in un giorno, all'inizio non era così importante, ci sono voluti secoli affinché avesse un primo secolo, col senno di poi. Cristo è divenuto importante nel quarto secolo dalla sua invenzione e ha avuto un primo secolo solo nel sesto. Oggi, invece, dopo quello che è successo, siamo davvero nel Primo Secolo.
Nel
Ventunesimo Secolo dall'invenzione di Cristo e nel Ventottesimo dalla nascita
mitica di Roma, il conflitto mediorientale è
degenerato in una rappresaglia nucleare tra le grandi potenze mondiali.
È
in mezzo a tutto questo che naviga un certo Mark Robson.
La bandiera della Repubblica sventola per mera
nostalgia.
L’Africa Nera non è stata coinvolta direttamente dalla rappresaglia nucleare,
ma le nubi radioattive l’hanno raggiunta in un secondo momento. Robson non è stato colpito, ma la sua socia italo-libanese, Anna Frenzhek, ex spia della Falange Cristiana, si è ammalata di brutto; un tumore aggressivo si è allargato per i suoi intestini; una bomba a orologeria sta per esploderle in mezzo alle budella; l'ascite le è finita in bocca.
Invecchiata ma non finita, scavata ma non certo smagrita dal cancro, la libanese prova a rimanere operativa, anche se la
situazione si è fatta critica. La Frenzhek non si rassegna, vuole tentare ancora, salvarsi a tutti i costi, ma non nasconde di avere paura; il tumore può darle il colpo di grazia raggiungendo il pancreas; ed è per questo che - con un ecografo portatile - si controlla due volte a settimana.
Detesta
la prospettiva di finire nelle grinfie di qualche negromante, ultima
spiaggia per tenersi addosso una parvenza di vita.
Ho paura».
Non aveva
la tua energia, Anna. «Oggi tutti convivono con un cancro, Anna. Prima o poi verrà anche a me. Siamo nel Primo Secolo.
Dobbiamo farci forza, non possiamo fuggire da nessuna parte». Ci sta.
La
Congo Star sta rientrando a Kinshasa, dove assumerà un nuovo incarico. «Dicono tutti così», un po' di veleno in coda. «Fatti anche tu un controllo, potrebbe esserti utile...».
Anna è sempre combattiva, anche se adesso è vulnerabile,
e deve stare attenta. Il contatto presenta Kelly Madison, una biondona provocante e molto atletica.
Robson la conosce per sentito dire: è una puttana di lusso che si è riciclata come mercenaria-sexy, sfruttando il fisico.
Deve raggiungere
l’interno.
Nel Primo Secolo non esistono monete
ufficiali. Ma i vecchi dollari sono accettati ovunque.
Oltre che brava, è una bella fica; ciò non guasta mai e aumenta la concorrenza.
Sulla Congo Star si imbarcano in sette, dunque.
I morti potrebbero vegliare tutta la notte, ma
non devono rammentarsene.
Tu stata mai con uomo venuto da Lete?», il linguaggio dei cadaveri è
semplice, come quello parlato da uno straniero; in effetti, nella tomba si parla il
silenzio, il Lete cancella tutto, i morti ricordano poco della loro vecchia
lingua e non hanno più la mente per apprenderla di nuovo. Ma quando Locusta le fa notare che non bisogna essere scortesi con i cadaveri, perché sanno cose più cose di noi... allora torna subito da lui. Wilker ha più volte giurato di non sapere niente. «Scusa se sono stata un po' brusca...», lo riaggancia così.
E gli chiede ciò che la ossessiona.
Voglio solo sapere se sono fottuta,
e quanto manca». Ciò li rende lenti nei movimenti, ma sicuri di sé. Watson si avvicina, le va incontro. Sembra non abbia capito niente.
E invece... le mette le mani sulle zinne... e
vuota il sacco... «Hai qualche dolore, Kelly?», la negromante ha notato che si tocca lo stomaco. «Niente... solo una sensazione», sembra quasi infastidita dalla domanda. «Non farci caso». Ma una brillante maga come Locusta non sottovaluta niente.
La Star incrocia
il Lulonga, affluente di sinistra del Congo, e fa rotta per
risalirlo.
BANG BANG
«Quei maledetti
vogliono fermarci, state giù!», il belga raggiunge Kelly, evidentemente è lui
che doveva incontrare.
I belgi sono tre o quattro, i negri di più. Anna non si sente al sicuro in mezzo a quel casino, Mark sembra preoccuparsi più della biondona che non di lei. La libanese ingrana la retromarcia e cerca di arrivare alla Congo Star per mettersi al riparo.Salta dentro e si sente quasi al sicuro. BANG BANG Ma un negro ha abbordato la Star con una piccola piroga e si è ritrovato faccia a faccia con Anna. E prima di essere centrato in fronte dalla procace libanese, le ha sparato un colpo in pancia!
La
Frenzhek strabuzza gli occhi, incredula, e - sentendosi mancare per lo shock -
barcolla malferma, prima di stramazzare in avanti. La raccoglie e la trasporta sotto coperta.
Da lì a poco lo scontro ha termine. Robson raggiunge Anna.
La libanese annaspa disperata, con la bocca
spalancata.
È ancora sotto shock. Sei uno stronzo... Mark...», Anna è furiosa. «Botor... scrivi...». La Frenzhek tenta il tutto per tutto. Non si fida più di Robson. Volto pallido, lingua sotto il palato, palpebre pesanti, un rivolo di sangue misto ad ascite che le cola dal labbro e la mano che si strofina sul lenzuolo. Anna ha paura. Al suo capezzale c'è tutta la banda, tranne Mark.
L'ex operativo CIA
è a colloquio con la Madison. Sono io la numero uno e due del Grande Fiume», e gliele fa sentire, spingendolo col petto. «Un duro come te potrebbe farmi comodo. Sono io che comando qui: te ne sei accorto?».
In
effetti
Kelly Madison non è una semplice mercenaria-sexy. La tua ora non è ancora arrivata». «Vorrei vedere te... gnhh... al mio posto...». «Se ti agiti è peggio. Hai chiamato il cinese, tra non molto sarà qui. È ricco e ha molte attrezzature, si farà in 4 per te. Hai scelto bene e mi auguro che tu riesca. Non trovo nessuna come te». Sembra una frase buttata lì per farla contenta, ma il tono con cui è stata detta commuove anche la dura Anna». «Mark... io tornerò... gnhh... da te... Botor... scrivi... fai presto... gnhh...». Le notifiche sono attive, si parte.
Si riprende il
Lulonga in direzione Basankusu. Per fortuna di Robson, Anna tiene il piede in due staffe; come lui del resto. Lee Chan è succube della libanese e farà di tutto per esibirle il suo potere e non mancare alla spartizione del Congo. Molte cose sono cambiate nel Primo Secolo, ma donne come Anna dettano ancora legge.Robson, infatti, non resiste. Chiede notizie al cinese… La morte della libanese corre su IChat. Le parti si sono invertite. «Non riesci a dimenticarla, vero?», gli chiede Locusta, non troppo sorpresa. «Tu che pensi? Sta crepando?». «Non è messa bene, Mark, ma il suo vero problema è il cancro. Quello non le lascerà scampo, cerca di capirlo... Hai visto come sputava bava grigia dalla bocca? Si chiama ascite, sale dagli intestini, significa che ha poco da vivere». «Quanto?». «Davvero poco, Mark, non farti illusioni». «Io vado da Lee e me la riprendo. La bombarderò di radio con un nuovo apparecchio portatile che ho visto a Kinshasa. È costoso, ma investirò su di lei». «Il cinese non te la ridarà nemmeno morta, probabile che la farà vedere solo a me, se ci tiene tanto. E poi c'è la Regina del Congo che ha chiesto di te in chat...». Ma Robson ha scelto. E la Congo Star corre a riprendersi la sua Stella. |
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