Il Capo si era stancato di lei. Aveva
fatto la cresta sugli incassi per l'ennesima volta. E l'ultima.
Quando Marc Robson chiamò Layla Dakmak e
le disse che voleva parlarle, la donna si informò. Aveva degli amici nella
stanza dei bottoni, amici che non avevano resistito all'impatto delle sue tette
da puttana.
Marc sarebbe venuto per ucciderla.
Era venuto il momento della resa dei
conti con il suo Capo, e lei sarebbe stata al gioco.
La stanza dei bottoni doveva trasferirsi
da lei e coincidere con la sua stanza da letto: in questo modo sarebbe divenuta
la stanza dei bottoncini...
Sorrise a quel concetto...
Si era fatta una scrofa, il lontano
ricordo della donna perfetta che era stata, ma piaceva ancora. Inoltre era più
esperta e decisa di un tempo.
Non si sarebbe fatta togliere di
mezzo...
Marc fu puntuale.
Layla
lo fece accomodare - l'incontro era a casa sua - e si stappò una lattina di
birra ghiacciata - senza usare bicchieri - passandone un'altra all'ospite.
La Dakmak era quasi irriconoscibile
rispetto a pochi anni prima: sformata come una grossa vacca, aveva il collo che
le scoppiava e ciccia gonfia dappertutto; la stravagante tinta bianca dei
capelli la rendeva ancora più bolsa; le restituiva un po' di prestigio il
camicione lungo a tunica, fitto di bottoncini.
Nonostante tutto, piaceva ancora, e
parecchio.
Lavorava in un
grande dipartimento ed era lì
che spacciava la merce, in società con
una guardia giurata.
Oltre a spacciare, aveva eliminato
diversi rivali, a richiesta del Capo.
La poltrona del soggiorno, sotto la sua
imponente figura, sembrava un trono.
«Di che mi devi parlare?».
«Cose importanti, da parte del Capo».
«Inizia pure…».
«Okay, ma dammi il tempo di ammirare il
panorama…», dopo uno sguardo fortemente allusivo, Marc si accese una sigaretta e
cominciò a camminare verso l’ampia finestra del soggiorno, dando le spalle alla
donna.
La Dakmak, intanto, pensò che non fosse
necessario ascoltare le stronzate che Marc stava per spararle.
Lui era di spalle e lei poteva
saldargli il conto senza inutili sceneggiate.
La sua Beretta calibro 9 era a portata di mano
tra i cuscini della poltrona.
Quando Marc tornò a voltarsi verso la
donna, vide la prolunga della canna puntata contro di lui.
«Che significa, stronza?!».
«Significa che so tutto, idiota».
«Chi è che ti passa le informazioni?
Quel coglione di Johnny?».
«Johnny sarà pure un coglione, ma mi è
fedele. Tu, no. Tu sei ancora fedele al Capo. E il Capo è vecchio, ormai. È
tempo che le donne si facciano avanti…».
«Senti, senti… donne come te, per
esempio?
Che aspetti, allora, fottutissima
stronza? Premi quel grilletto…».
«Hai ragione, Marc. Mi hai stancato…».
La Dakmak protese il braccio in
direzione dell’uomo e fece fuoco senza esitazioni.
STUMPF
Marc, però, rimase in piedi. Niente
sangue, nessuna reazione.
STUMPF
STUMPF
La Dakmak sparò ancora, visibilmente irritata.
Quando la donna cominciò a capire, Marc
aveva già estratto la pistola.
E dopo averla fissata negli occhi, le
piazzò un colpo nella pancia!
STUMPF
Layla sobbalzò all’indietro,
schiacciandosi contro lo schienale della poltrona.
«Aspetta...!».
Per una come lei ci voleva altro.
STUMPF
La seconda pallottola la raggiunse allo stomaco.
L’espressione della Dakmak cambiò
radicalmente: gli occhi schizzarono fuori dalle orbite, la bocca si spalancò a
cercare aria.
Era fatta. Marc l’aveva fottuta.
Tuttavia, l'imponente donnone -
animato da una vena di follia - voleva sfidarlo ancora.
Lo fissò, umettandosi il labbro, facendogli credere di avere
ancora il controllo.
STUMPF
Marc infierì con un altro colpo
allo stomaco.
Stavolta Layla fu colta dal panico.
Un grosso fiotto di sangue le salì in
gola, facendole mancare il respiro; strabuzzò allarmata i grandi occhi marroni, e alla fine, piegandosi in avanti, riuscì a sputarlo fuori.
Marc sorrise divertito.
Poteva bastare, per il momento.
Abbassò la pistola e si avvicinò alla
donna.
«Sei
fatta, Layla...».
«Chi è stato… a fottermi…?»,
farfugliando con la lingua fra i denti.
«Non dubiterai di Johnny, vero? No… lui
è un tuo schiavo. È stato Ric… dovresti scegliere
meglio i tuoi amanti… o almeno controllare che non mettano mano alla tua Beretta… ma
temo che non avrai abbastanza tempo per imparare.
Non hai più controllato l’arma da quando
Ric l’ha caricata con proiettili fasulli… e lo so perché c’è una spia che
vede tutto… anche oggi che volevi fottermi, ti sei limitata a innestare il
silenziatore.
Decisamente troppo poco.
Io, invece, non lascio nulla al caso.
Hai fatto una stronzata, e io ti ho fottuto, Layla».
«Mettiti con me… Marc… insieme… non ci
fermerà nessuno…».
«Non sei stanca di dire stronzate? Ti ho
fatto il servizio, il mio piombo non scherza…».
La Dakmak lo sapeva bene.
«Bastardo… hai mai scopato… una come
me…?».
«Dovresti sapere che sono un
professionista: le donne rallentano i riflessi, e per me i riflessi sono tutto.
Ma soprattutto sei diventata un cesso,
fai schifo».
Per tutta risposta, la Dakmak prese a
palparsi il seno.
Anche se grassa, il suo prestigio e la sua voglia di vivere la rendevano ancora sensuale.
Marc cominciò a pensare che non c’era
fretta di saldarle il conto…
Senza volerlo, però, la donna si
afflosciò contro lo schienale della poltrona. Gli occhi imbambolati roteavano
alla ricerca di qualcosa su cui fermarsi. La bocca era spalancata in modo
inquietante.
«Te l’ho detto che il mio piombo non
scherza, no?
Ehi, Layla… mi senti? Mi è piaciuto come
incassi,
sai?
Proprio una gran troia, anche mentre
crepi…
Ma ora che c’è? Ti va storta? Pensavo lo reggessi meglio il piombo...». Layla avrebbe voluto reagire, ma i buchi la stavano
divorando.
«Ti va di giocare ancora un po'...?».
Marc spostò la Dakmak sul divano: imbambolata, la donna si
afflosciò su un fianco,
cadendo a bocca aperta sulla seduta. L’uomo le fu addosso e cominciò a tastarle
il seno…
Il calcolato Marc stava scoprendo le delizie di Layla.
Lei doveva starci per forza. Era Robson che conduceva il gioco.
Se riusciva a farlo godere, forse l’avrebbe portata
da un dottore…
Marc si andava rapidamente eccitando contro il morbido corpo della Dakmak, la
quale cercava a ogni costo di non mollare, tenendo in vita l’illusione di
trovare una via di scampo, anche in una situazione disperata come quella.
Il killer esplose di piacere, rilassandosi contro il divano per
assaporare appieno il gusto di essere stato l’ultimo a divertirsi con una tale stronza.
«È ora che io vada, Layla.
Addio…».
Senza aggiungere altro, Marc si alzò e lasciò il soggiorno. Poco dopo il portone
si richiuse sonoramente.
La Dakmak era rimasta sola: con tre
pallottole in corpo, ma incredula di essere ancora viva…
Marc Robson, quella schifosa nullità, era andato via. La sua idea aveva funzionato. Ora
doveva pensare a salvarsi…
Si lasciò scivolare sul parquet, sforzandosi di ricordare dove avesse lasciato il cellulare.
Quel maledetto
cellulare…
Doveva trovarlo, doveva chiamare qualcuno.
Sì, era di là. All'ingresso. Era lì che
l'aveva lasciato. Doveva arrivarci. Layla sembrava crederci. Col
sangue alla bocca, la donna protese in avanti il braccio destro
per coprire, strisciando, il terreno che la separava dal cellulare.
Un brutto imprevisto, però, le sbarrò la strada sul più bello.
La pistola di Marc Robson era di nuovo puntata contro di lei...
L'ombra della delusione oscurò il volto di Layla.
Poi, prima
dell'irreparabile, la mano destra si protese disperata in aria, staccandosi
dal pavimento: «No! Aspetta...!».
Marc si godeva la scena con un sorriso sardonico sulla faccia da aguzzino. Non
aveva mai pensato di lasciarle scampo. Non era mai uscito dall'abitazione.
La lasciò
implorare...
«Non voglio morire... Marc... no!».
Un lampo crudele guizzò negli occhi
del sicario… STUMPF
Robson fece fuoco per la quarta volta.
Il corpo della Dakmak sobbalzò ancora. La pallottola la raggiunse al petto,
attraversando il polmone.
La testa della donna ricadde pesante sul parquet.
Marc Robson la guardò soddisfatto: conto saldato e lavoro finito.
«Ti ho fottuto, Layla», sussurrò il killer; quindi si allontanò con tutta calma.
Il suo amico Jim, al
Daily Telegraph, avrebbe titolato così: “Avvenente impiegata di nota
multinazionale, freddata
tra le mura domestiche con quattro colpi di pistola”.
Layla
non lo sentì nemmeno entrare.
Johnny la rivoltò supina.
Lei lo fissò incredula con lo sguardo annebbiato.
Poco dopo si udì l’ossessivo ululare di un’ambulanza.
Le mollò un lungo bacio, che era anche una grossa bolla d'ossigeno, lasciando
sul parquet una mazzetta per lo staff medico. Lui ci teneva tanto a entrare
nella stanza dei bottoncini.
Francia,
1789.
Nella città bretone di Saint-Malo si diffondeva il virus della Rivoluzione.
Una parte della popolazione era da sempre gelosa della propria autonomia,
rivendicata e ottenuta sin dal secolo XIII, con il diritto di nomina dei
magistrati municipali.
Ma l’altra parte, quella delusa e frustrata, era ansiosa di novità, qualunque
genere di novità.
E aveva individuato l’incarnazione più che concreta dei principi rivoluzionari:
Liliane la Grande.
Una procace, lardellosa
cameriera tra i 40 e i 50, dedita ormai più all'alcol
e alla prostituzione che non al proprio lavoro, frequentatrice di canaglie,
e truffatrice ella stessa, avvezza a vivere di espedienti, ma con smanie di grandezza e la
capacità di
esercitare sugli adepti della setta rivoluzionaria un fascino sinistro e
ambiguo, quasi ipnotico; una praticona con le mani in pasta quasi ovunque;
vestiva spesso una tunichetta bianca molto succinta, che metteva in evidenza le
forme grasse e arrotondate: spalle, braccia, zinne, cosce e culo, tutto era in
ordine e in bella mostra; e sopra a tutto si stampavano il sorriso accogliente e
la faccia simpatica e goliardica, lontani dalla sua vera natura di donna infida
e manipolatrice.
Massiccia, imponente, prorompente, spesso ubriaca con i capelli castani arruffati sulla
fronte, ma ferocemente decisa a emergere, si aggirava per le strade di Saint-Malo con
la tunichetta bianca gonfiata dal pesante seno: Liberté, Égalité, Décolleté.
Sottovalutata dall’establishment cittadino, Liliane sfruttava la sua
apparente innocuità organizzando una rete sempre più vasta di aspiranti
rivoluzionari.
Smodatamente ambiziosa, aveva deciso che il primo passo che avrebbe mosso per scalare i gradini
del potere, e arrivare fino a Parigi, sarebbe stato quello di imporsi nella
propria città e di
cambiarle il nome e l’orientamento sessuale. Da Sindaca a Deputata Nazionale,
l’ascesa sarebbe stata rapida.
Dodici dei suoi giurati fedelissimi le appuntarono, in gran segreto, i gradi
di Marescialla in Capo dell’Esercito Popolare Rivoluzionario di Sainte-Liliane,
nuovo nome della città a partire dal 1789, o comunque da quell'anno, qualora
anche il calendario fosse stato rivoluzionato.
Il piano prevedeva l’assalto, in punta di forcone, alla piccola guarnigione
della città. Contando sull’effetto-sorpresa, si sarebbe razziata l’armeria dei
realisti; dopodiché, tutti uniti, si sarebbe marciato fino al Municipio, con
Liliane la Grande in testa.
Ma la resistenza della piccola guarnigione cittadina fu superiore a quanto previsto:
si combatteva corpo a corpo, baionette contro forconi.
Liliane la Grande cercava di non esporsi troppo, ma il marasma era tale da non
consentire margini di sicurezza assoluti.
Il destino era in agguato, spesso si avvantaggia della confusione.
Liliane la Grande cercò di nascondersi in uno stanzino, dove però si era già rifugiato
un soldato della
guarnigione. Era giovane, spaventato.
«Non vo…», ma quello non la fece nemmeno parlare: la paura lo aveva reso folle.
Il soldatino affondò la baionetta nella pancia della rivoluzionaria, proprio
attraverso la coccarda tricolore, quasi fosse stata presa a bersaglio, almeno a
livello inconscio, visto che il ragazzo era inebetito dal panico.
«Uuuhh…!», l’urlo strozzato di Liliane la Grande, gli occhi sbarrati, la paura che la
sferzò come un vento gelido.
Per un attimo i loro occhi si incrociarono: lui l'aveva
riconosciuta, lei vedeva Parigi allontanarsi.
Subito dopo il lealista estrasse la baionetta dal ventre molle della donna e
cercò disperatamente di trovare scampo, ma venne soverchiato dagli uomini di
Liliane la Grande e trucidato sul posto.
«Non è niente… avanti…», si affrettò a dire Liliane la Grande, sapendo di mentire a sé
stessa e agli altri.
La feroce battaglia volse infine all’epilogo: i forconi avevano vinto e si erano
trasformati in baionette.
La massa applaudiva ai lati delle strade, mentre le squadracce rivoluzionarie
marciavano verso il Municipio.
Liliane la Grande era trasportata in barella, aggiungendo alla tragedia di
Francia un elemento scenico di
grande efficacia drammatica. Le mani rattrappite che uncinavano l'aria, la blusa
insanguinata, la coccarda ormai ridotta a un monocolore rosso: sembrava essersi
immolata sull'Altare della Rivoluzione. E in fondo lo era stata.
Il partito degli incerti cominciava a propendere per il nuovo che avanzava.
Quello degli opportunisti prendeva atto che il vento della storia stava
cambiando.
Il Municipio era deserto, i consiglieri in carica assenti, nessuno oppose
resistenza.
Era il trionfo di Liliane la Grande, guastato da una brutta ferita, che però ne
esaltava, oltre i suoi stessi meriti, l’eroismo rivoluzionario.
Incoronata Sindaco della rivoluzionata città di Sainte-Liliane, Liliane la Grande
troneggiava imbambolata, lo sguardo annebbiato, sul seggio più alto del consiglio cittadino,
con ambo le mani pressate sullo stomaco.
Un’immagine autenticamente rivoluzionaria, che incarnava in pieno l'epica
violenza di quei giorni.
Per riuscire a farla stare seduta, l'avevano imbottita di
alcol, il suo amato alcol.
Ma la prima riunione della giunta rivoluzionaria venne presto interrotta dalla
ferale notizia di un imminente contrattacco delle forze lealiste.
Uno squadrone di cavalleria era giunto inaspettato a Saint-Malo.
La folla tornò nelle proprie case.
Gli incerti recuperarono i loro dubbi.
Gli opportunisti aggiornarono le previsioni del tempo.
Il Municipio era sotto assedio.
I realisti cominciarono a penetrare al suo interno.
Liliane la Grande non aveva vie di fuga. Era fragile, non poteva muoversi, non poteva
fuggire, veniva abbandonata dai suoi stessi uomini.
Fu costretta ad attendere il destino al proprio posto, quello di Sindaco.
Benché fosse già agonizzante, fu deciso di fucilarla, per non
correre rischi e rendere la punizione esemplare.
E venne fucilata su quello stesso seggio.
L'altalena del potere le era risultata fatale.
Un attimo prima della fine - con sei carabine puntate contro
- ebbe un sussulto e gridò: «NO!»,
con tutte le forze rimaste, guardando disperata negli occhi i suoi carnefici.
Chissà... forse sperava che quell'urlo potesse disturbare la
concentrazione di qualcuno dei fucilieri.
Fu falciata, infatti, dalle pallottole, ma non da tutte: un paio si persero nel
Municipio, una la raggiunse alla spalla, un'altra le pizzicò il fianco, un po' decentrate rispetto al bersaglio grosso;
un paio d'altre le
distrussero le budella e lo stomaco, entrando attraverso la coccarda tricolore
(usata a mo' di bersaglio); ma il cuore era di sicuro illeso.
Niente "Viva la Rivoluzione": un urlo ben poco eroico, dunque,
ma la realtà è quasi sempre altro rispetto alla retorica delle cose, specie quella di una puttana di questo genere.
Rimase sospesa a schiena dritta per un attimo che sembrò infinito…
Approfittò di quell'attimo per guardare ancora negli occhi i
giovani fucilieri.
Uno sguardo strano. Non di odio. Ma quasi di perdono. E
perfino di ringraziamento.
Poi - dopo un estenuante rantolo - si afflosciò su sé stessa, piegando la testa sul petto.
Il comandante del plotone d’esecuzione si avvicinò e le sollevò il capo, afferrandolo per i
capelli: gli occhi della rivoluzionaria erano schizzati fuori dalle orbite,
impossibile incrociarne lo sguardo.
L’ufficiale lasciò la presa e la testa tornò inerte al suo
posto, piegata sul petto.
Il colpo di grazia non serviva a nulla.
L’annuncio che la popolana rivoluzionaria, detta Liliane la Grande, era stata giustiziata,
fu dato, però, con troppa fretta.
Gli animi erano accesi e l’intempestiva notizia scatenò l’ira dei cittadini, che
insorsero in massa, sobillati dai rivoluzionari superstiti.
Probabilmente ci si aspettava che l'esecuzione di Liliane la
Grande,
colpita a morte in battaglia, venisse sospesa e la rivoluzionaria lasciata
morire della sua ferita.
Il Municipio fu circondato dalla folla e con il solo vantaggio del numero gli
insorti tornarono fulmineamente a occupare la sala del consiglio, abbandonata
dai realisti in ritirata.
L’attenzione fu subito rivolta al massiccio corpo di Liliane la Grande, rimasta di sasso sul
seggio del Sindaco.
«Eccola…!
L’hanno fucilata sul posto…», constatò il primo rivoluzionario che le giunse vicino.
«Però hanno omesso di spararle il colpo di grazia. La testa è asciutta», osservò
il secondo. «Forse hanno commesso un errore, proviamo a chiamare un dottore…».
«Ma… è stata fucilata... è morta...».
«Sei forse un disfattista, compagno cittadino?
Dobbiamo provare… forse non è ancora morta».
Il dottore fu chiamato.
Intanto, però, all’interno del Municipio, veniva allestita la camera ardente: tutti i cittadini di Sainte-Milene avrebbero potuto vedere per
l’ultima volta il loro primo Sindaco.
«Il dottore dovrebbe muoversi, dannazione… ma dov’è finito?».
«Forse ha avuto paura, un medico non sa mai da che parte stare…».
«Eccolo… finalmente…
Dottore… non l’abbiamo ancora toccata…».
Il medico le ficcò due dita in gola, brutalmente.
Dal corpo di Liliane la Grande eruttò un grumo di sangue.
Subito la curiosità dilagò per la sala: era stato uno spasmo involontario, uno
spasmo estremo, o uno spasmo e basta?
L'atmosfera si fece pesante.
Fu la volta dei sali.
La lingua della donna scattò come una molla sotto il palato.
Gli occhi al cielo, alla ricerca di un raggio di luce; le mani
rattrappite a morte, a grattare l'aria come fosse una parete di roccia.
Era viva. Sebbene più morta che viva. Non completamente morta.
L’esame del medico fu pesante: «A parte la ferita d'arma bianca, che le sarebbe
comunque fatale, due pallottole sono mortali: vedete qui che interessano fegato
e stomaco; le altre, invece, non sono immediatamente letali».
Più che una diagnosi, un'autopsia.
«Insomma, hanno sparato storto», concluse
il rivoluzionario; non tutti, ma una buona parte.
«Storto... in che senso?», il medico non aveva capito.
«Egregio dottore, il servilismo militare
ha una sua graduazione, come tutto del resto.
Anche la vista dicono abbia una
sua graduazione; in ogni caso, non tutti ci vedono bene; non tutti sparano bene; non tutti hanno voglia di sparare a
sangue freddo». Poi si rivolse
al compagno: «Sentito? Soltanto due pallottole mortali…».
«E ti sembrano poche?».
«Per una come lei, sì…
Si può ancora fare qualcosa, lo sento».
Ma il medico non era dello stesso avviso: cure compassionevoli e mezzora di vita
al massimo.
«Non c’è più niente da fare, sono spiacente», la sua sentenza finale.
Liliane la Grande, però, tornata a respirare, stava assorbendo lo shock: gli occhi erano
tornati nelle orbite e - nonostante tutto - guardavano eccitati il mondo.
Certamente non pensava di risvegliarsi viva e poteva inoltre
sentirsi soddisfatta di aver impressionato più della metà del plotone di
esecuzione, inducendo diversi fucili a sbagliare la mira.
Insomma, da un punto di vista democratico, aveva vinto. Aveva
ipnotizzato anche gli elettori più estremi, era il Sindaco di tutti.
In fondo non aveva ancora ceduto l’ultimo respiro: quei
giovani, estremi elettori le avevano concesso una piccola possibilità, un
difficile mandato, e lei - per quanto piccola o difficile - l'avrebbe afferrata
oppure portato a termine. A tutti i costi.
Intanto la gente di Sainte-Milene sfilava, con alterni umori, ai piedi della
rivoluzionaria morente, rimasta aggrappata al seggio del Sindaco: chi la
incoraggiava, chi rimaneva intimorito nel vederla in fin di vita; Liliane la
Grande era una maschera di cera su cui aleggiava un'ombra
oscura: si
teneva in vita grazie a una forza quasi sovrumana e forse allo smodato
compiacimento di godere del proprio trionfo, benché effimero.
Sembrava indemoniata, era feroce e faceva quasi paura.
A tratti si sforzava di sorridere, appalesando euforia per essere rimasta in
gioco a sfidare la sorte, dopo una baionetta davvero ben piazzata e un plotone d’esecuzione.
«Mesmer! C’è Mesmer qui a Saint-Ma… qui a Sainte-Milene…!», l’annuncio improvviso,
dall'ingresso della sala.
«Che significa?».
«È appena sbarcato dalle Americhe… una pattuglia popolare lo sta portando qui».
Franz Anton Mesmer, un po’ come tutti, non immaginava che la situazione
precipitasse tanto in fretta.
Per lui, però, cambiava poco: osservava gli eventi mondani da migliaia di
chilometri di
distanza, le illusioni della massa non lo riguardavano. Per lui si trattava soltanto
di una visita urgente.
Il miglior medico al mondo contro la peggior paziente al mondo.
«Ora ho bisogno del massimo silenzio, cittadine e cittadini: schiamazzi
improvvisi possono danneggiare l’inferma».
Si piegò su Liliane la Grande, il pendolo che oscillava, i suoi occhi dietro al pendolo.
«Anima della Rivoluzione... rientra... rimani... riposa...
Tu stai bene qui, Liliane la Grande. Con noi. Con me. Tu non partirai.
Se parti, il freddo ti ucciderà per sempre. Tu stai bene qui,
fa caldo fra di noi, fa caldo qui con me.
Tu stai bene qui, Liliane la Grande. Tu non partirai.
Tu stai bene qui, Liliane la Grande. Tu non partirai.
Tu stai bene qui, Liliane la Grande. Tu non partirai, Anima della Rivoluzione».
Si rivolse infine ai suoi uomini: «Evitate i rumori, non deve
risvegliarsi».
«Ma… ce la farà…?».
«Non ho detto che ce la farà. Ma possiamo guadagnare
un po’ di tempo, intanto.
Rendere la caduta un po’ più lenta e attutire il colpo».
Franz Anton Mesmer si trattenne a Sainte-Milene per altri tre giorni.
A Parigi lo attendevano alcuni appuntamenti importanti, ma - ormai mesmerizzato
- decise di rinviarli e di riprendere il mare per tornare a casa attraverso la via più lunga.
Sebbene non si occupasse di masse, le masse avrebbe potuto occuparsi di lui.
Per la sua caduta c’era ancora tempo.
Tutti volevano sapere che ne era stato di Liliane la Grande.
Il suo corpo, però, non venne più ritrovato.
La Rivoluzione, soffocata dal piombo e dalle baionette, era stata svenduta e
Mesmer aveva comprato sottocosto, al prezzo di un'esperienza ormai senza
speranze.
La Rivoluzione andava ricucita ed esportata, trasferita sul Lago di Costanza.
Ma non era per tutti.
ZOTHIQUE:
L'IMPALATA
di Salvatore Conte (2024)
L’agonia può durare ore, anche giorni, se non vengono compromessi gli organi
vitali. E chi è bravo a impalare, riesce a evitarlo, così da garantire al
pubblico estenuanti e spettacolari agonie, concedendo alla vittima il tempo di
suscitare compassione.
Una come Frexa avrebbe forse ottenuto - dopo un paio di giorni - di essere
deposta; tolta da quella scomoda posizione; ma con grande e meticolosa
attenzione, perché sviscerarne il palo - giunti a quel punto - ne avrebbe
accelerato la morte.
Il primo passo sarebbe stato quello di metterla in posizione orizzontale, con
tutto il palo ancora conficcato dentro.
Quindi bisognava sviscerarlo centimetro dopo centimetro, dandole ogni volta il
tempo di assestarsi, per evitare che le emorragie interne dilagassero e la
uccidessero sul colpo.
Il suo destino era segnato, ma procedere con queste cautele poteva farle
guadagnare qualche ora.
Giunti alla fine, non si butta via niente.
Proprio come adesso, nella camera della vigile attesa di Avandas, dove
Frexa, la cortigiana impalata,
lotta per guadagnare altro tempo, mal rassegnata a cedere.
È stata colpita da una congiura
di palazzo; nel modo peggiore; ma secondo
precisi rituali.
Prima impalata in pubblico, poi deposta a
furor di popolo, sviscerata e assistita, mentre singhiozza e impreca, aspettando
la morte.
Impalata con un'asta appuntita
di legno, da sotto a sopra, con il bastone fatto fuoriuscire dalla spalla destra.
Chi rimane fedele alla vittima, o comunque chi
se ne fa impietosire, ha il diritto di assisterla con acqua e cibo, senza però
toccarla.
Molti i messaggi di solidarietà
lasciati ai suoi piedi:
Non lasciarti andare, Frexa!
Noi crediamo in te!
Tenta fino all'ultimo!
I magistrati controllano che
l'antico rituale sia rispettato.
L'asta è stata infilata con grande maestria, secondo precisi calcoli anatomici.
L'operazione, se eseguita correttamente, consente all'impalato di sopravvivere
per ore, se non addirittura per giorni.
La vittima viene tenuta ferma, immobilizzata,
all'atto dell'impalamento: per il suo stesso bene... se così può dirsi.
Lo shock è comunque enorme e di per sé letale: solo chi è dotato di un'estrema
forza di volontà e di profonda durezza può riuscire a sopportarlo.
Frexa è tra questi pochi.
Vuole giocarsi le sue ultime possibilità, non accetta di morire.
Nessun altra donna a Dooza Thom oserebbe tanto.
Ma
lei è speciale, una potenza, quasi indistruttibile.
Dopo due lunghissimi giorni di agonia, aveva ormai
impietosito mezza Avandas.
I più devoti le passavano da bere porgendole un boccale alle labbra.
Se l'impalato riesce a resistere, e ottiene numerosi atti di devozione, allora
viene sviscerato.
Il palo è stato introdotto con grande perizia:
il
cuore della potente cortigiana è illeso e il
polmone è stato appena sfiorato.
Frexa è ancora in grado di lottare.
Potrebbe lasciarsi andare, ma lei preferisce lottare.
Conosce la possanza e avvenenza del suo corpo, e vuole sfruttarle.
Vuole suscitare compassione e ottenere le
migliori cure.
Secondo gli usi, è stata portata a consumare la sua agonia in un luogo a ciò
preposto.
Ma per vederla cedere, bisogna pagare caro.
L'oro finisce nelle casse della città.
Può reggere ancora diverse ore, cuore e polmoni funzionano, lo spettacolo sarà
lungo e costoso, per chi non potrà farne a meno.
Nessuno tra i congiurati pensa che la cosa possa diventare un fastidio.
Anche se sa lottare, Frexa è fottuta.
La cortigiana impalata non è più un problema.
Vederla morire con tanta difficoltà ha riacceso per lei una forte devozione, ma
il nuovo regime ha preso il potere e non teme resistenze.
Frexa è stata trasportata nella camera della vigile attesa, dove i condannati per impalamento attendono la fine, una volta che gli è stato sviscerato il palo.
Le cronache della città annotano tutti i casi.
La camera è molto grande; in effetti è un teatro con tribune a
semicerchio.
Sulla scena c’è il morituro da impalamento, disteso su un letto.
Al capezzale della famosa cortigiana sono giunti maghi, curatori e
streghe.
Ne sono ammessi sei per volta, tre per ciascun lato del giaciglio.
Gli altri attendono a bordo scena.
Prendono il posto di chi è congedato, secondo un cenno del morituro.
I sei cercano di farle guadagnare un po' di tempo. E di non farsi scartare. Ne
va del loro prestigio.
Le condizioni di Frexa si vanno via-via aggravando.
La fine è pericolosamente vicina.
Nel suo sguardo potente si è fatta strada la paura.
Anche lei deve cedere.
Tutti sono ormai pronti.
Dilaga la notizia per la città. Frexa non riesce più a gestire la situazione.
Arriva altra gente. Si cerca di capire quanto davvero manchi, o se - addirittura
- sia già cadavere.
L'idea comincia a serpeggiare, perché vengono avvistati diversi negromanti.
Il morituro può chiedere di vivere oltre la morte.
E Frexa, si dice, ne abbia tre intorno a lei.
L'ansia di notizie aggiornate e di previsioni attendibili diventa sempre più febbrile da parte dei
tanti che non possono permettersi di accedere alla camera della vigile attesa.
Deve uscire un portavoce dei devoti per comunicare alla folla che l'aristocratica
Frexa è viva ed è impegnata a
lottare.
Al momento dell'aggravamento fatale, verrà sventolato un drappo bianco.
Uno nero, al momento della fine.
Gli altri impalati, intanto, sono tutti morti.
Vengono deposti a terra già cadaveri.
Frexa è l’unica a strisciare ancora per Zothique con un lembo di pelle
addosso.
C’è chi dice che vivrà nella sua stessa tomba, cibandosi dei vermi che
si illuderanno di spolparla.
L’attesa si fa spasmodica, logorante.
Gli spettatori si fanno portare il cibo sulle tribune, perché la situazione
potrebbe precipitare da un momento all'altro.
Si rassegnano ad assentarsi solo per i bisogni indifferibili.
Ma c'è perfino chi non rinuncia per nulla al
mondo.
In mezzo a tutto questo, su Dooza Thom muove un terzo incomodo: l’ambizione di Ustaim,
che mira a riunificare sotto di sé l'intera regione nord-orientale di Zothique.
Approfittando del cambio di regime, i mercenari di Aramoam attaccano sia per
terra che per mare.
Erano pronti a intervenire e lo stanno facendo.
Nonostante l’emergenza, però, l’attenzione della città rimane catalizzata sulla
sorte di Frexa.
La morte assedia la cortigiana, il nemico la
città.
Però quando i mercenari di Ustaim cominciano a penetrare in
città, gridando alla vittoria senza incontrare resistenza, e trovano folla solo
nei pressi della camera della vigile attesa, allora capiscono che l'impalata non
è una donna qualunque, che una così ce l’ha solo Dooza Thom.
ROUTE 666
di Salvatore Conte (2024)
«Forza…
dobbiamo muoverci… mettiti qualcosa...!».
«Ma dove… lo sai che
sto male… non ce la faccio…», si tocca l'addome.
«Andiamo… non fare la
stupida… se rimani qui, ti ritroverai con qualcosa di peggio nella pancia!».
«Peggio di quello che ho?».
«Esattamente».
«Che vuoi dire…».
«Che stanno per venire
qui, perché hanno deciso di saldarci il conto.
Dobbiamo sgommare, e
subito!».
Bravo, Jack: il termine
è indovinato.
«Non
dimenticare la pistola: venderemo cara la pelle».
«Ho capito...
ho capito... la mia, però, non
vale molto...».
«Hai ancora una settimana o due, non
buttarle via».
«Così poco...?».
«Si è allargato tanto, lo sai...».
«Forse, però... se mi bombardo di radio… posso guadagnare tempo…».
«Sì, lo faremo... tenteremo il tutto per
tutto... ma adesso muoviti, Adrienne!».