



Un gladio per Agrippina


UN GLADIO PER AGRIPPINA
di Salvatore Conte (2006-2018)
I. L'INVITO
II. LA LETTERA
III. IL MATRICIDIO
Le donne hanno meno denti
degli uomini. Ma quelle tra loro che possiedono un doppio canino sul lato destro
della mandibola superiore, sono destinate ad essere le favorite della più
ostinata Fortuna, ed è questo il caso esemplare di Agrippina, la madre di
Nerone. Tuttavia quelle che al contrario possiedono un doppio canino sul lato
sinistro, sono destinate alla somma disgrazia.
Plinio il Vecchio,
Storia Naturale 7.71 (S. Conte)
Queste notizie, che gli
annalisti non tramandarono, io ho trovato nei commentari della figlia di
Agrippina, madre dell’imperatore Nerone, che narrò ai posteri la storia della
sua vita e delle vicende dei suoi.
Cornelio Tacito,
Annali 4.53.2 (B. Ceva)

I
L'INVITO
Il cavallo di Aniceto era alla schiuma quando
varcò i cancelli della Villa imperiale di Anzio. Tra queste mura, con infausto
parto podalico, era venuto alla luce il Principe Nerone.
Agrippina rimase sospesa sulla Porta di Dite per tre giorni. Ma il capello d’oro
non poteva essere troncato. I Fati non erano compiuti.
Ora invece i Fati si compivano e Agrippina li conosceva.
Seguito da una dozzina di uomini, l’Ammiraglio della flotta imperiale del Miseno
tramortì con un rabbioso manrovescio la prima serva che gli si presentò
incontro. L’odio tra lui e Agrippina era esplicito e ricambiato. Aniceto si
compiaceva della missione.
Acerronia Pollia fu presa dal panico. Cominciò a correre verso le stanze di
Agrippina. La madre di Nerone era ancora debole dopo la recente malattia
intestinale che l’aveva colpita.
Il volto pallido si indirizzò verso la Flaminica della Diva Livia, che accorreva
angosciata verso di lei. La mano destra era compressa sullo stomaco, la nausea
non si era placata.
«Devi fuggire! Subito! Aniceto è qui. Con molti uomini…», fu l’allarme di
Acerronia.
«Dove sono gli schiavi? Dov’è Ruber?», domandò con scarsa voce Agrippina.

«Avete chiesto di me, padrona?», un corpulento
schiavo dalla barba rossiccia era apparso nella stanza.
«Fai strada ad Aniceto, Apollonia…», disse Agrippina con temperato sarcasmo.
L’attesa fu minima. Aniceto era alle porte. Entrò furibondo, scansando Acerronia,
e si avvicinò minaccioso alla madre del suo padrone.
Due o tre schiavi la circondarono. Quello che era entrato per primo fronteggiò
Aniceto: «Non si entra armati nelle stanze della padrona».
«Fatti
da parte, fetido schiavo».
Intanto gli uomini di Aniceto si dispiegarono intorno al loro comandante. Altri
schiavi emersero dalla stanza accanto.
«Sei soltanto uno schiavo affrancato eppure provi odio per gli schiavi», gli
rispose quello dalla barba rossa.
«Disdegno chi è schiavo di Agrippina. Io offro il mio servizio a Roma e godo di
una libertà meritata», fu la secca replica dell’Ammiraglio.
Agrippina si fece largo tra i propri schiavi e affrontò Aniceto, rompendo gli
indugi: «Se sei venuto per vedermi, riferisci pure al Principe che la madre si è
riavuta, e ringrazialo per la premura. Se sei qui per compiere un delitto, non
addossare la colpa a mio figlio».
Aniceto era impaziente di divorarne il sangue. La strega era ancora in piedi,
nonostante il veleno.
«Porto una lettera del Principe», ed estrasse un papiro.
Aniceto e Agrippina furono a contatto attraverso quello, ciascuna mano a un
estremo.
L’Augusta sentì il gelo della morte invaderla, più letale del veleno che l’aveva
appena consumata.
Dopo uno sguardo carico d’odio, l’Ammiraglio si voltò e uscì, seguito dai suoi
uomini.
In breve, una nube di polvere si alzò sulla strada del porto.
Il corpulento schiavo dalla barba rossiccia si rivolse alla padrona, moderando
la voce: «Da Romano, chiedo perdono a Voi e agli Dei per tanto disonore. Se la
Fortuna non sarà avversa, chiedo per me la Flotta del Miseno affinché i Mani
gloriosi di vostro nonno possano liberarsi da tanta infamia».
Ma Agrippina lo seguiva a stento. Lei stava già scrivendo sui rotoli della
propria mente; si riscosse e rispose: «La chiederai al Principe, se vivrai
abbastanza a lungo da vederne un altro. Intanto ti affranco, così sarai pari ad
Aniceto. Ora preparati a partire, perché la tua schiavitù è finita. Porterai il
mio saluto al tuo Maestro».
Il liberto dalla barba rossiccia rimase interdetto. Avrebbe commesso ogni tipo
di resistenza, ma dubitava di potere ottenere qualcosa.
Sapeva che resistere sarebbe stato vano.
Agrippina aveva parlato.

II
LA LETTERA
Nobile Senatore di Roma,
per il compleanno di Minerva
il nostro Principe invita la
madre all’Averno.
E io ho bensì letto
che facile è la discesa
ma impossibile la risalita.
Dunque fosti savio
allorché procurasti lettere al
mio riposo.
Tra breve le onde dell’amena Baia
mi culleranno ospitali per una
notte ancora.
Non lasciare il Senato.
Sappi tollerare il giusto e
l’ingiusto.
Che i Fati si compiano.
l’ultima prole di Germanico
Quel
giorno Trasea Peto poteva leggere e rispondere con tutto agio. Il Senato di Roma
non si riuniva più alle idi di marzo da quando Giulio Cesare venne ucciso con
ventitré pugnalate tra le mura dello stesso Senato.
Il Senatore avvolse le parole appena
giunte da Anzio. Quindi congedò senza consegne il messaggero di Agrippina
rimasto in attesa.
Era una prima risposta. La madre di
Nerone era circondata da servi infedeli.
Agrippina aveva osato troppo.
Diventare Cesare, e diventarlo senza spargere sangue, senza sbaragliare Utica?
Quanti dei suoi nemici vivevano?
Tutti.
Quante bocche calunniose erano
rimaste aperte?
Tutte.
E con quelle forme arrotondate,
poteva questo Cesare essere credibile ai Romani?
Trasea Peto e Giulia Agrippina si
erano mal tollerati in altri momenti.
Lui era l’erede morale di Catone l’Uticense,
lei la nipote di Giulio Cesare, il dittatore che sbaragliò Utica e con questa
l’ultimo arrocco della Repubblica.
Ora li accomunava la solitudine.
I due sembravano gareggiare nella
sventura.
Tuttavia, negli ultimi tempi,
l’Augusta appariva in netto vantaggio sul Senatore e ormai prima all’approdo
nelle acque stigie.
Una linea sottile, come tutti
sapevano, separava l’Averno dalla villa di Nerone.
Giunse per Trasea il momento di
ricorrere al consiglio infallibile di Bacco. Il Senatore riempì la coppa, e
quando fu abbastanza ebbro per farlo, colse la decisione.
Quindi scrisse la risposta e si recò
a Ostia, ove c’era la possibilità di incontrare un messaggero ritenuto
all’altezza di una missione molto particolare.
I Fati furono concordi ai disegni, e
benché le banchine di Claudio brulicassero di commerci, Trasea riconobbe l’uomo
e giunse presto al punto: «Una volta mi dicesti che eri pronto ad agire per
l’onore di Roma. È ancora così?».
I due si appartarono per quasi
un’ora, poi il Senatore consegnò all’uomo un rotolo recante il proprio sigillo.
Venerata Augusta,
le onde di Anzio non vi cullano
forse abbastanza?
È sconsigliabile viaggiare
nell’incertezza della stagione.
Se comunque partirete,
evitate almeno i cibi troppo
speziati.
E godete delle ampie compagnie,
alla luce esuberante delle
fiaccole,
contando su voi stessa sola,
che non è dir poco.
Anche il Senato è solo.
E io solo in Senato.
Eppure avete letto il seguito di
quelle lettere?
Solo un animo ardente, gradito
agli Dei,
può revocare il passo dall’Averno.
Occorre essere saldi e giova non
indugiare.
Il vostro avo glorioso compì
l’impresa.
Che sia ora una Donna a capo
dell’impresa?
Non lasciate Roma.
Non tollerate l’ingiusto.
Che i Fati non siano sacrileghi.
Trasea Peto
Gli occhi profondi di Agrippina
indugiarono sul papiro. Se ne distolsero non prima che venisse annunciata la
visita di Manlio Pollione, il giovane allievo di Pomponio Secondo, il Vate
Trionfatore, uomo di raffinato ingegno e di nobile tempra, tanto glorioso per lo
stilo quanto per la spada. Sotto le insegne di Claudio e Agrippina, vittorioso
sugli indomabili Catti, e a Roma preferito su tutti da Calliope.
«Non ho tempo, mandatelo via», fu la
secca disposizione di Agrippina, che subito dopo tornò a scorrere il messaggio
di Trasea Peto.
Ma quelle parole si erano fatte
distanti, opache. Inutile procedere così.
Convinse sé stessa a non negarsi
agli ultimi amici, quindi corse dietro all’ancella, attese a distanza che questa
comunicasse il suo rifiuto a Manlio Pollione, e poi lo raggiunse prima che
rimontasse a cavallo. L’animale sembrava inquieto.
«Benvenuto, Manlio. Non ho molto
tempo»; Agrippina stava concedendo l’iniziativa al giovane Pollione; al suono
della sua voce, il cavallo si acquietò immediatamente.
Poi, guardandolo più da vicino, non
perse l’occasione di schernirlo: «Non è presto per versare lacrime? Non ti
chiedo che breve tempo…
Oppure hai della polvere
nell’occhio?».
Al colmo dell’imbarazzo e della
sorpresa, Manlio Pollione fece ogni sforzo per ricomporsi e per ricordare la
formula che aveva rimuginato durante la lunga cavalcata da Roma: «Non è polvere,
Nobilissima Augusta, ma il sentimento di molti Romani. Ho saputo della vostra
partenza, e perdonate l’impudenza, forse credo vi occorra un segretario.
Affinché siano stilate tutte le cose notevoli, a materia delle vostre memorie, e
per giusta cura della posterità».
Lanciata l’ardita proposta, il
giovane si risolse a guardare negli occhi la donna che era davanti a lui. Lo
sguardo di lei offuscato, eppure carico di vita. Le forme bellissime,
insostenibili, specie per lui.
«Questo viaggio non è una cosa
notevole e io non così vecchia e inutile da indurmi a scrivere memorie, Pollione.
Non facciamo ridere i servi, nascosti nelle siepi. Parla con franchezza».
«Molti Romani sono in ansia per voi,
Augusta. Non vedo intorno a voi la scorta che dicevate avreste riottenuto.
Perché illudete quel popolo che un giorno vi acclamò?».
«Ho perduto anche il tuo rispetto,
Pollione?».
«Giammai. Perdonate la mia lingua».
«Per questo viaggio non ho bisogno
di scorta, e se ti stai proponendo tu, non mi fiderei di un ragazzo capace di
avere compassione per una gallina.
E non capisco come tu possa
riflettere la tua ansia in quella di molti Romani. Il popolo si inchina ai
vincitori. Non ha nostalgia per chi cade. Preferisce la frusta di tre superbi
padroni piuttosto che l’asta protettiva di una Giulia».
«La lealtà, Augusta Agrippina,
Massimo Onore di Roma, non è ovunque malcerta», insistette Pollione.
«Rovescia il discorso, allora.
Parlare con me è molto pericoloso. Eppure ora te ne andrai da solo. Ciò
significherebbe che io non sia leale verso i miei amici, che sia indifferente al
loro destino, che ami farli condannare?».
«Ma io non sono l’Augusta», si
ostinò a dire il giovane.
«Se non fossi carica del peso dei
miei anni, amerei giocare con te, tra i campi e la poesia.
È detto da Agrippina. Ti basti».
Il tono della figlia di Germanico
non ammetteva altre repliche. Fu il congedo.
Inquieto, l’allievo di Pomponio
parlò senza pensare: «Non offrire il petto, guardati da Arrunte. Roma ti ama.
Resta viva per tutti noi».
Allontanò il cavallo dall'Augusta,
poi montò in sella e ripartì verso Roma.


«Ti costava così tanto parlarmi
semplicemente del tuo... amore, Pollione?», il sussurro di Agrippina.

III
IL MATRICIDIO

«Augusta Signora, dove dobbiamo remare?».
Agrippina non rispose. Il labirinto in cui era stata racchiusa non presentava
vie d’uscita. Le occorreva la forza d’Arianna, ma lei l’aveva perduta.
«Al Lucrino, per la via più larga, in silenzio».
Dopo una breve pausa, aggiunse: «Andrete via subito, senza raccontare a nessuno
del fatto. Non gloriatevi d’una falsa Fortuna. Perché se con nulla posso
compensarvi, che almeno la vostra lealtà non sia causa della vostra sciagura».
Dette queste parole, si voltò, senza attendere alcuna reazione, e assaporò
l’aria fredda della notte come fosse un soffice vapore di papavero.
I tre pescatori di Puteoli passarono rapidamente dall’euforia all’angoscia.
Anche se molto lontani dalle oscure trame del potere, le parole di Agrippina
erano risuonate chiare ai loro orecchi.
A questo punto si era giunti?
Era possibile che la figlia del sangue di Agrippa, ovvero di colui che era stato
il più potente Ammiraglio del mondo, fosse ridotta a nascondersi sulla loro
misera barchetta di pescatori?
I tre si attennero alle consegne fino a riva, allorché infransero il silenzio:
«Le nostre case sono sicure, Augusta Signora. Sono modeste, ma per l’intero
vostre».
Agrippina non indugiò più dell’attimo necessario a chiedere i loro nomi. La
devozione di quei pescatori le giungeva incomprensibile. Così quel brulicare di
barchette e fiaccole. Quell’invocare il suo nome da parte di tanta gente tanto
ignara.
Ora, ancora, avrebbe voluto intorno a sé il fragore delle aquile: “AUGUSTA!
AUGUSTA! AGRIPPINA AUGUSTA! ONORE DI ROMA!”; come sul Campidoglio, quando
reggeva lo Stato. Ma dov’erano ora quelle aquile?

Rivolse un ultimo sguardo inviperito ai tre uomini e già il suo passo muoveva
solerte lungo la sponda nord del Lago Lucrino, che non molto dopo si connetteva
tramite un canale artificiale al Lago Averno.

I tre pescatori la videro
scomparire nel buio della notte. Era loro chiaro il perché di tanta
ingratitudine.
Si guardarono negli occhi, ma non ebbero la forza di seguirla e si
allontanarono.
Fradicia, stremata, e dolorante alla spalla, reduce dall'artificioso naufragio,
dal crollo della cabina e dalla caccia in mare, la figlia di Germanico raggiunse a
piedi la villa fatta costruire dal nonno Agrippa, il Generale che consegnò
l’Impero ad Ottaviano Augusto, l’ideatore della base navale di Capo Miseno, dove
- al modo fenicio - le navi non si rassegnano mai all’onda contraria. Se
un’uscita diviene ardua, ne residua sempre almeno un’altra. Un concetto molto
caro all’Ammiraglio d’Augusto.
Le colonne di marmo del porticato le si presentarono davanti, possenti e
minacciose, giganti che si protendevano verso l’esterno, quasi a scoraggiare
l’intrusione di sconosciuti e vagabondi. Ora però anche lei si sentiva
un’estranea, come se la villa all’improvviso le rivelasse il senso compiuto
delle segrete macchinazioni.
Si diresse subito verso
il suo cubiculum. Qui giunta, si stracciò le vesti. Con molta premura,
un’ancella l’avvolse in un telo di lino, l’asciugò e la tenne avvolta finché il
corpo, scosso da brividi di freddo e di paura, non si rilassò. Mantenendo il
silenzio, l’aiutò a indossare la veste: la tunica scura come l’ombra
era adatta alla notte.
Nell’incredulità della servitù, che si era raccolta nel peristilio, pronta a
intervenire qualora l’Augusta avesse chiamato, e come se nulla di rilevante
fosse accaduto, Agrippina prese a disporre. Per prima cosa inviò il più infedele
dei servi ad annunciare la sua salvezza al Principe. Era impaziente di salutarlo
da sé medesima, ma gli raccomandava altresì di non indursi per nessuna ragione a
visitarla, perché le occorreva molto riposo; né le avrebbe inviato sussidi o
guardie, perché la villa era fornita di tutto.
Nessuno doveva avvicinarsi alla villa in una situazione come quella.
Questa prima decisione la tranquillizzò: sapeva ancora disegnare un piano e
aveva la forza per portarlo a termine. Non tutto era perduto. Il profumo dei
mandorli entrava dolce ed intenso nella stanza: tutto era stravolto quell’anno,
anche la fioritura dei mandorli era in ritardo. Un marzo freddo, che non faceva
presagire nulla di buono.
Si
era tagliata i ponti alle spalle e l’aveva voluto lei. A Seneca e Burro aveva
raccomandato di evitare nuove mortificanti commedie come quella tenuta davanti
ai liberti del figlio, allorché un pantomimo di nome Paride aveva chiesto
l’esecuzione di lei, Augusta dell’Impero. Non avrebbero più mosso obiezioni al
figlio, e a Burro aveva chiesto di essere lui a compiere il lavoro. Un colpo
solo, profondo, al ventre, per punirla simbolicamente di un parto tanto
infausto.
Era tuttavia più probabile che per farle
torto, l'avrebbero uccisa con un affondo nello stomaco, proprio per non
offenderne il ventre, unica parte meritevole di tutela.
Nerone intanto era avanti con i tempi, perché già gli era pervenuta notizia del
successo dal labbro diretto di Aniceto, preoccupato dell’ira del Principe e
troppo fiducioso nell’opera di Nettuno. La madre era morta, colpita alla testa
dal crollo del tetto, finita dal ferro e sommersa dai flutti con tutta la nave.
Ma dopo la rettifica illustrata dal messo inviato da Agrippina, Nerone esplose
d’una furia feroce, accusando tutti intorno a sé del più vile tradimento.
Nessuno aveva il coraggio di punire la madre per i suoi crimini. Sebbene egli
omettesse le buone intenzioni di Aniceto.
Il nodo era da sciogliere o da tagliare. O crollava Cesare, oppure i suoi
ministri. Soltanto il sangue d’una vittima sacrificale avrebbe appagato la
ragion di Stato.
Seneca guardò Burro. La situazione precipitava. Il Prefetto del Pretorio già per
una volta almeno aveva salvato la vita di Agrippina. Già per una volta almeno
era stato accusato di complicità con la cospiratrice. Non poteva più opporsi,
anzi gli era stato vietato di opporsi. E doveva egli stesso offrirsi al crimine.
Ma disse che era pericoloso istigare i Pretoriani contro gli stessi membri della
Casa imperiale, e che - se l’avesse fatto lui, da solo - sarebbe stato un
pessimo esempio per loro.
«Ma se tu hai compreso la necessità della sua morte, ora mi dirai chi è
l’esecutore più adatto», lo incalzò Nerone.
Fu allora stabilito che Aniceto, per vivere ancora, dovesse terminare quel che
aveva mal cominciato. Con ogni mezzo.
L’inviato di Agrippina li avrebbe guidati alla villa, poi sarebbe stato messo a
morte, perché era il sicario che l’Augusta aveva designato a uccidere il
Principe. A costei era prescritto il suicidio. Tutto era stato stabilito e
approvato. Nerone trattenne accanto a sé Burro e Seneca, e attese con loro il
ritorno del sicario.
Il successore di Agrippa alla flotta del Miseno radunò una trentina di uomini,
cresciuti al seno delle tigri ircane.
Al galoppo dispersero la folla che dal lido accorreva lieta alla villa di
Agrippina. Vi erano numerosi Pretoriani lungo la via. Aniceto doveva far presto.
In netto vantaggio sulla folla, Manlio Pollione, spinto a osare o per devozione
o per follia, era già sopraggiunto ai cancelli e aveva chiesto urgente udienza
all’Augusta. Per risposta era pervenuto un breve messaggio, affidato a un servo
di fiducia.
Vattene.
Conserva la vita. Te lo impongo.
Ci rivedremo a Roma o all’Averno.
I cancelli rimasero chiusi.
E così li trovarono gli uomini di Aniceto. Nell’ombra, si disposero a ogni
ingresso, per chiudere ogni via di fuga.
Poi la forza superba dei cavalli sradicò ogni barriera, e il sicario di Nerone,
seguito da una dozzina dei suoi, si addentrò rapido nella villa, disperdendo i
servi atterriti.
Agrippina ascoltava insonne i rumori della notte, neri presagi di sventura.
Coltivava un’ultima illusione, non nel cuore, non nella mente, ma là ove fu
concepito Nerone. La sua anima passava di ansia in ansia. Stava perdendo il
controllo. Gli indizi del male estremo andavano di pari ansia moltiplicandosi,
soffocando in lei ogni speranza.
Aveva chiesto che nessuno venisse, ma in molti e in fretta giungevano.
Sul tavolo di fronte a lei, aveva sparso - disperata e sfrenata - oro e
gioielli, forse incerta sul da farsi.
E anche intorno al secondo braccio si era
curata di indossare un’armilla d’oro dalla sinuosa forma di vipera.
Il lume era debole, quasi sopraffatto dalle ombre che si allungavano ovunque
intorno all’infelice madre del Principe.
Nella semioscurità vide avanzare verso di lei i sicari. Imprecò contro il
figlio, cercò di arrestare i colpi, si dimenò furiosamente, ma fu trafitta per
molte volte, fino a stramazzare sul letto.
Agonizzante, cercava di opporsi alla morte.
Fu trafitta da un colpo di grazia nello
stomaco.
Subito dopo, una pira affrettata, senza preghiere. Troppe ferite per un
suicidio.
Il rogo nella notte scura portò l’annuncio a Nerone.
All’alba del nuovo giorno avrebbe finalmente ricevuto l’Impero.

Le immagini erano nitide. Stava per accadere.
Quell’ultima illusione era caduta. Il figlio l’avrebbe uccisa infinite volte,
fino a quando lei non fosse morta.
Ora doveva agire, se lo voleva.
Se era giusto morire, doveva deciderlo lei, non altri per lei. E se non si amava più, doveva chiedersi se più nessuno fosse
in ansia per la sua vita.
Separò la mano dalla lettera del figlio.
Distolse lo sguardo vanamente perduto nella semioscurità della stanza.
Si scosse.
Gonfiò il petto d'aria e la tunica del petto.
Aveva pochissimo tempo. I passi tracotanti dei sicari la incalzavano.
Li vedeva e li sentiva, lei, la Sacerdotessa del Divo Claudio, l’Alta
Sacerdotessa di Roma.
Lei, Agrippina.
A loro ancora invisibile.
Rinunciò a bloccare le porte e scivolò leggera nell’ombra. Entrò nella stanza
attigua, si introdusse nei cavi del gruppo marmoreo di Marte e Venere, aprì la
botola e si calò nel sottosuolo. La ferita alla spalla riprese a sanguinare.
Il buio era opprimente e lei non aveva torce. Ma l’andatura era prescritta dal
passaggio. E non giovava correre.
Aniceto irruppe nelle stanze di Agrippina, attorniato da due dei suoi. Una
figura femminile armeggiava presso i gioielli abbandonati da Agrippina.
L’Ammiraglio del Miseno estrasse il gladio e puntò verso la donna.
L’ancella inorridì: «Aspetta! Io appartengo all’Imperatore!
Lei è scesa nel dedalo di Marte. È di qua, venite…».
La serva fedele a Nerone rivelò ad Aniceto l’accesso al passaggio segreto.
«Dove conduce?», domandò frenetico l’uomo.
«Al Lucrino, o all’Averno. Ma so che è pericoloso».
Sempre più furibondo, Aniceto rimase per qualche attimo a pensare.
Poi, con gesto fulmineo, abbracciò la donna e le immerse il gladio nel ventre.
Un urlò disperato coprì il frastuono della villa.
«Per...ché…», supplicò stremata l’ancella, piegandosi a terra, colpita a
morte.
«Sei odiosa all’Imperatore. E a me. Devi perciò morire», sentenziò Aniceto.
Poi si rivolse al primo dei suoi complici: «Obarito, un’ancella fedele a tale
madre è riuscita a fuggire. E sa troppe cose. Valle dietro e falla tacere per
sempre. Ma stai attento, è velenosa come le vipere di Medusa.
Obarito, hai capito ciò che ho detto?
Se va male a me, il peggio sarà per voi».
Quindi incalzò l’altro con un cenno imperioso.
Erculeio non esitò a infliggere alla misera donna, che cercava di trattenere il
sangue all’addome, uno spietato colpo di grazia alla schiena.
«Erculeio… ora che hai ben terminato ciò che io ho cominciato, avvolgi queste
belle forme in un pietoso e riservato sudario. Occulta le ferite e il volto
reo.
Che nessuno veda! Questa è la tua impresa.
E affretta il rogo, ma senza preghiere. La madre dell’Imperatore è morta di
mano propria, per colpe terribili, e scende all’Averno senza onori.
Mi hai compreso bene?».
Subito dopo Aniceto arraffò l’oro di Agrippina e raccolse i suoi uomini.
«Con me! Scateniamo gli Inferi!».
Più di venti cavalieri presero a setacciare le sponde più vicine di
Lucrino e Averno, attendendo al varco
l’ancella di Agrippina.

Il minaccioso arrivo dello squadrone di Aniceto alimentò le speranze di Manlio
Pollione, occultato nella macchia, che dopo l’immediato sconforto, aveva
cominciato a riflettere sul messaggio ricevuto da Agrippina: “Ci rivedremo a
Roma o all’Averno”.
Frattanto una luce infernale era comparsa alle spalle della figlia di Germanico.
Si trattava della torcia di Obarito, il quale avanzava rapido lungo il budello
sotterraneo, nonostante la mole inadatta all’impresa.
«Ascoltami, vipera infernale! Mi senti? Tu non puoi fuggire!
Vengo a darti la morte! Accompagna nel Tartaro la tua padrona!».
Le urla incalzanti del centurione di marina rimbombarono nel corridoio sotterraneo con
potenza pari a quella di cento uomini.
Il respiro di Agrippina si fece frenetico. Aveva paura.
Le ripugnava cadere in quelle vili mani. Desiderò intensamente di vivere.
Ma la morte l'anticipava e la seguiva, e tanto più l’uscita si avvicinava,
tanto più difficile diveniva raggiungerla.
Non molto dopo, una luce pallida e cangiante comparve davanti alla nipote di
Agrippa.
Agrippina rese prudente il passo, per poi affrettarlo di nuovo.
Finalmente giunse all’uscita del dedalo. Ma non era un'uscita per tutti. L’acqua
infida dell’Averno la rendeva un’entrata senza seguito e un’uscita senza
ritorno. Il corridoio sotterraneo sbucava nelle viscere del lago e l’acqua ne
allagava l’ultimo tratto.
Più a tentoni che con gli occhi, Agrippina cercò di individuare un anfratto del
cunicolo ove sapeva di poter trovare un oggetto molto prezioso. Ben presto la
sua mano strinse un breve tronchetto di canna atto a respirare senza emergere
dall’acqua.
Ma nel frattempo la torcia di Obarito si faceva sempre più chiara.
La figlia di Germanico si accovacciò a terra, rimanendo in attesa.
Poco dopo, d’unisono con un tonfo sordo, la luce della torcia si abbassò di
colpo. Si abbassò di un paio di metri. Per poi divampare assai più intensa di
prima, come fosse una lingua di fuoco del Flegetonte.
Fu allora che una lacrima di rabbia scivolò sul volto dell’Augusta.
Era la casa di suo nonno. E quella via non giovava né agli intrusi né ai falsi
ospiti.
Obarito era sprofondato all’Averno per la via più breve.
Agrippina si immerse fino alla testa nell’acqua del mefitico lago, poi raccolse
quanta più aria le era possibile e da qui cercò rapidamente di guadagnare la
costa interna e infine la superficie.
Anche i tristi mali dell’esilio di Ponza, allorché fu costretta a procacciarsi
con le proprie mani molluschi e ostriche, le divenivano ora preziosi.
Una piccola canna affiorò silenziosa sulla superficie dell'acqua. La nipote di Agrippa
resistette a stento alla tentazione di un respiro liberatorio, rimanendo
sommersa fino a quando non si allontanò a sufficienza dalle sponde del lago.
Era eccitata dalla possibilità di vivere ancora. I brividi che la percorrevano
le chiedevano di resistere.
Poi due occhi profondi scrutarono i Fati.
Molti cavalli battevano la riva. La caccia era serrata.
Chi altri l’avrebbe tradita in quella
interminabile notte?

A un tratto un bagliore si alzò dalla sua villa.
Era un rogo. Il suo rogo. Le parole del sicario erano state illuminanti. Un’Augusta
non poteva avere nessuna padrona. E la situazione le giustificava. Qualcuno era
stato immolato al suo posto. Qualcuno che forse era avido d’oro e gioielli.
Dunque lei era già morta, eppure tanto viva da sentire freddo e un dolore
lancinante alla spalla.
Non aveva altra scelta che rischiare l’approdo.
Intanto, alla vista del rogo, Aniceto si staccò dai suoi.
Presto Nerone avrebbe chiesto notizie, e lui lo avrebbe accontentato.
Ora il sicario si compiaceva dell’usata astuzia di Agrippina. Lui l’aveva resa
un fantasma. Lui l’aveva fatta scendere all’Averno. Ora stava a lei recitare
bene la sua parte. Volente o nolente, non poteva più opporsi né a Nettuno né al
suo Ammiraglio.
Ma prima di andare Aniceto esortò i suoi a vincere la caccia, fino all’alba se
necessario, e tuttavia non oltre, aggiungendo la promessa di un ricco premio.
Tornò alla villa e si compiacque di sapere che Obarito era rimasto ucciso. Tenne
Erculeio vicino a sé e istruì il più modesto dei suoi a riferire al Principe
ciò che era successo: “Missione eseguita. Senza testimoni”. Non doveva dire
molto e non poteva dire di più. I suoi compagni erano rientrati nei ranghi
perché occorreva la massima disciplina. C’erano molti pretoriani in giro.
In questo frattempo, quelli del commando che avevano individuato la trappola
entro cui giaceva il cadavere trafitto e carbonizzato di Obarito, erano giunti
allo sbocco allagato del passaggio segreto, ma rimanevano incerti sul da farsi,
consci dell’insidia mortale. I cacciatori da una parte fiutavano la preda e
dall’altra ne saggiavano il veleno. Decisi ormai a rinunciare, urlarono verso la
superficie, attraverso i condotti dell’aria, per richiamare i compagni e farli
concentrare nella zona ove l’ancella di Agrippina, se non annegata, doveva
essere riemersa.
Forse perché è la follia ad aiutare gli audaci, ad ogni modo Manlio Pollione
aveva scelto il punto di osservazione più adatto.
Quando vide l’inconfondibile figura di Agrippina muoversi con prudenza nella
macchia lacustre a breve distanza da lui, stentò a credere di respirare ancora.
Quando se ne convinse, cercò di attirare la sua attenzione. Ma allorché la donna
lo riconobbe, lo apostrofò così: «Sei qui per darmi l’ultima pugnalata?».
La stanchezza, i tradimenti, l’ansia della terribile fuga, l’avevano indotta in
errore.
Ma il giovane non ne venne ferito; semplicemente non colse i termini della
domanda. Il suo sguardo gioioso, indirizzato con apprensione verso la ferita di
lei, disintegrò il dubbio di Agrippina, la quale cambiò immediatamente registro:
«Che cosa fai qui? Tu non puoi aiutarmi e io non posso aiutare te».
Pollione rimase inerte a guardarla.
Lei lo trascinò con sé verso le sponde mefitiche dell’Averno. Era un rischio
mortale, l’ennesimo, ma anche l’unica possibilità di eludere la caccia degli
inseguitori.
L’alterigia di Agrippina aveva mantenuto alla distanza il giovane allievo di
Pomponio Secondo, ma ora quell’acerbo poeta era proprio colui che si mostrava
intimo fino alla morte.
Quella superba dimostrazione di fede, le metteva i
calzari di Mercurio ai piedi.
Intanto gli uomini di Aniceto, allettati dalla promessa ricompensa, continuavano
a setacciare l’area in tutte le direzioni.
A due di questi parve di avvistare delle ombre tra i miasmi mefitici dell’Averno.
Prima di lanciare l’allarme ai compagni, mossero rapidi a verificare la
consistenza di quelle ombre. Quando ebbero conferma di aver scovato la preda,
subentrò in loro la certezza di poter conseguire la ricompensa da sé stessi e
per sé stessi.
Si mantennero a cinquanta passi, pronti a calare e a colpire.

Ma Agrippina aveva occhi per vedere anche nella semioscurità. Si addentrò ancor
più nei vapori mefitici, nulla mancandole d’una Sibilla.
Infine l'Augusta si gettò a terra, trascinando con sé Pollione, vomitando
l’infame cena del figlio, ansimando per un soffio d’aria superna.
Dietro di loro, quei cinquanta passi, erano divenuti gli ultimi per i due di
Aniceto.
Sono invisibili all’occhio le spade dell’Averno, non giova ostentare fierezza e
camminare a testa alta (o quasi).
È il cacciatore che insegue, ma è la preda che sceglie il percorso.
La caccia era finita.
«Questi veleni sono migliori di molti uomini, Pollione», disse la figlia di
Germanico.
Ma il giovane era senza parole mentre la guardava risalire dall’Averno.
Si allontanarono di più, addentrandosi nel Bosco di Diana.
L’Augusta riprese la parola: «Nelle trenta legioni di Roma, non si è trovato il
tuo coraggio. Agrippina non dimenticherà.
Questa
è per te: l'hai guadagnata sul campo.
Altri valorosi e intimi devoti la possiedono».
«Non sono qui da solo, ma a nome di molti giovani romani.
Comprendete ora di non avere un solo figlio?».
Agrippina gli strinse l'armilla d'oro al
braccio.
«Forse. Ma se dovessi rinascere, vorrei che fosse sulle rive del Reno».
«Voi infatti nasceste dalle acque del Dio Germanico e insieme a voi nacque la
città che porterà il vostro nome per sempre.
Ma ora che Domizio ha tradito Roma, perché non riconquistate voi stessa al
Campidoglio le insegne di Giunone?».
«Sarà il Senato di Roma a definire l’atto di mio figlio e dubito che quel
consesso di inetti gli rinfacci la mia morte. Men che mai invocheranno il nome di
Agrippina. Non oggi almeno. Non adesso.
Spero invece che il voto sia unanime, che nessuno dei miei si mostri stupido per
non mostrarsi ingrato. Che siano i miei pari agli altri. Ingrati come tutti gli
altri».
Pollione era sgomento di fronte alla feroce amarezza dell’Augusta.
«Ma ora taci... e vieni a me, giovane Senatore.
Col tempo maturerai uno stile più asciutto,
più latino. Forse rinascerai anche tu.
E racconterai ai posteri ciò per cui abbiamo
lottato. Tacitamente.
Ora il rito dev'essere concluso. Da oggi
siamo stretti come l'armilla al tuo braccio.
Del domani non v'è certezza, Pollione... e ciò è
tanto più vero per noi due…».
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Il racconto è un tributo alla sua bellezza,
carisma, personalità.
Gli aspetti negativi sono introdotti per mere
esigenze di ordine drammatico, narrativo, teleologico.
Il ruolo della protagonista va assimilato a
quello dell'attrice rispetto a un film.
La devozione alla persona in questione, da
parte dell'autore empirico, è implicita e assoluta.


